Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)

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Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
Tutto quello che non vi
dicono sulle cure domiciliari
precoci per il Covid-19 (e
perché lo fanno)
written by Mario Menichella | 14 Settembre 2021
In questo articolo scoprirete qualcosa di – per certi versi –
rivoluzionario, oserei dire quasi “eversivo” in un mondo in
cui l’agenda sanitaria sembra essere dettata più dalle Big
Pharma attratte dai lauti guadagni legati ai vaccini che non
dai medici che hanno davvero a cuore la vita dei pazienti:
vedremo, infatti, che il Covid-19 è una malattia curabile! Sì,
lo so, vi chiederete perché nessuno ve lo abbia mai detto, e
lo capirete leggendo. E non solo vi sono le terapie
domiciliari con la loro elevata efficacia (dell’ordine
dell’80-85% nell’evitare le ospedalizzazioni), ma anche la
prevenzione quotidiana con certi integratori naturali del
tutto innocui, che dai primi studi disponibili in letteratura
risultano essere quasi altrettanto efficaci nell’evitare i
ricoveri di chi si contagia (ciò non stupisce perché si è
ormai capito che il Covid nelle primissime fasi si sconfigge
ben più facilmente, senza dover usare dei “bazooka”
farmacologici). Ma è proprio quando si passa a un’analisi
quantitativa, confrontando diversi scenari, che si comprende
l’enorme potenziale di questi due nuovi tipi di approcci,
peraltro non più costosi dei vaccini (per i quali si parla di
175 dollari a dose entro pochi anni). Si scopre così che: (1)
l’implementazione ufficiale di un “serio” protocollo di cure
domiciliari equivarrebbe ad aumentare di ben 25 punti la
copertura di una campagna vaccinale del 60% degli over 50,
portandola quindi “virtualmente” all’85%; (2) la combinazione
di un protocollo di cura domiciliare “vero” (non “aspetta e
spera”…) con un mix di integratori naturali avrebbe invece, in
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termini di ospedalizzazioni evitate, un impatto pari a una
vaccinazione dell’86% degli Italiani (o degli over 50, visto
che la vaccinazione dei giovani non sposta i risultati). Se
invece si usassero i due nuovi approcci in aggiunta ai vaccini
(e non al loro posto), i morti totali sarebbero poco più di
quelli annui di una normale influenza. Infine, non si capisce
perché per i vaccini anti-Covid (che hanno numerosi effetti
collaterali gravi) si sia derogato alle normali procedure per
usarli, mentre per i migliori farmaci delle terapie
domiciliari (che non li hanno!) no.

La gente crede che non esistano cure per il Covid, ma non è
vero

Su questo argomento è molto chiaro il prof. Peter McCullough,
medico, docente universitario ed editor di due importanti
riviste di medicina, nonché uno dei ricercatori più pubblicati
nel suo campo, che riguarda il cuore ed i reni. Probabilmente,
a molti di voi il suo nome non dice nulla, ma è l’autore del
protocollo di cura del Covid-19, pubblicato in una rivista
peer-reviewed [1], adottato anche in Italia – abbattendo con
esso drasticamente il tasso di ospedalizzazione – dal Comitato
per le Cure Domiciliari Covid-19 (reso noto da alcuni talk
show su Rete 4), e di cui ho parlato diversi mesi fa in un mio
precedente articolo [2]. Egli, infatti, aveva dei pazienti con
patologie del cuore o dei polmoni che, infettatisi con il
SARS-CoV-2, necessitavano di cure immediate, e pertanto si
rifiutava di lasciare i pazienti senza cure, ovvero di
lasciare che una malattia che durava due settimane a casa (se
opportunamente curata) avanzasse al punto da rendere
necessaria l’ospedalizzazione dei pazienti quando però, ormai,
era troppo tardi per poterli salvare.

Ciò era a lui chiaro fin dall’aprile dello scorso anno, per
cui il dr. McCullough usò nella cura dei pazienti con il Covid
i migliori farmaci disponibili all’epoca, che venivano
prescritti in modo appropriato off label (cioè al di fuori
degli usi autorizzati dalla medicina convenzionale, ma come
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
egli sottolinea il “label” è una pubblicità, non un documento
scientifico) per curare questa nuova malattia. Egli ha messo
su un gruppo di medici operanti sul campo, un nutrito nucleo
dei quali operanti in Lombardia (dove la pandemia era
inizialmente più diffusa), negli Stati Uniti, in India, etc.
Ed i risultati delle loro scoperte sono stati pubblicati ad
agosto 2020 nell’ottavo numero dell’American Journal of
Medicine, ed il titolo di quell’articolo era “Pathophysiologic
basis and rationale for early ambulatory treatment of
Covid-19” [1]. Una premessa dell’articolo era che “vi sono due
esiti negativi del Covid-19: l’ospedalizzazione e la morte”.
La seconda era che “se non facciamo nulla prima
dell’ospedalizzazione, non possiamo fermare la malattia”.

Come il dr. McCullough spiega in un’audizione pubblica di
fronte al Senato del Texas tenutasi nel marzo di quest’anno,
“la cosa interessante è che all’epoca c’erano già 50.000
articoli scientifici nella letteratura peer-reviewed sul
Covid, ma neanche uno diceva ai medici di medicina generale
come curarlo! Quando lo scoprii, rimasi profondamente colpito
e quando il nostro articolo – che reca la firma anche di
decine di altri medici – fu pubblicato su una delle migliori
riviste di medicina divenne un faro, nonché l’articolo di
medicina all’epoca più citato nel mondo. Grazie a mia figlia,
realizzai poi un video su YouTube che mostrava 4 slide del
protocollo, ed esso divenne immediatamente virale. Ma nel giro
di una settimana YouTube disse che esso violava le regole
della community. Eppure forniva informazioni molto importanti
per aiutare i pazienti nel mezzo di questa crisi, tratte da un
articolo pubblicato su una rivista peer-reviewed!”.

Più interessante ancora è quel che dice McCullough subito dopo
[3]: “Io sono diventato il testimone principale per il Senato
degli Stati Uniti nell’audizione del 19 novembre 2020, e la
ragione per cui ho accettato è che c’era un ‘blocco’ quasi
totale su qualsiasi informazione riguardante le cure ai
pazienti. Ciò che è successo in seguito in America è che siamo
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entrati in un ciclo di nessuna informazione sulle cure, per
cui i pazienti hanno pensato che il Covid fosse incurabile;
per cui andavano in giro per avere una diagnosi attraverso un
tampone. Ma io sono un sopravvissuto al Covid, mia moglie
pure, ed anche mio padre che sta in un casa di riposo. Ti
facevano un tampone, scoprivano che sei positivo e ti
mandavano a casa. Chiedevi: c’è qualche cura? No, e non
c’erano linee guida, protocolli di cura. Questo è lo standard
di cura negli Stati Uniti. Quindi non mi meraviglio che nel
nostro Paese abbiamo avuto così tanti morti! Il cittadino
americano medio crede che non esistano cure, poiché tutto il
focus è sui vaccini”.

E non è finita. Il coraggioso medico americano fornisce
ulteriori dettagli: “Un nostro secondo articolo è stato
pubblicato in un numero dedicato di Reviews in Cardiovascular
Medicine [4], ed ha ben 57 autori. In esso mostriamo come
abbiamo utilizzato dei farmaci per influenzare la replicazione
virale. Noi possiamo usare anti-infettivi intracellulari.
Abbiamo usato corticosteroidi e farmaci anti-infiammatori. Il
miglior anti-infiammatorio contro il Covid è il cortisone,
come mostrato nello studio controllato randomizzato della più
alta qualità, con sistema ‘a doppio cieco’ e placebo, svolto
su oltre 4.000 pazienti. Vi è stata una riduzione del 50%
della mortalità. Ma la gente non lo sa. Non vi è stata nessuna
parola su questi risultati: un blocco completo delle
informazioni. Come può accadere? E la parte più letale
dell’infezione di questo virus è la trombosi, perciò ho sempre
trattato i miei pazienti con qualcosa per agire sulla
replicazione virale, con qualcosa per trattare l’infiammazione
e con qualcosa per trattare le trombosi. Io per la mia
specialità seguo pazienti già molto fragili e gravi, ma per il
Covid ne ho persi solo due”.
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
Fig.1 –
Oggi sappiamo che il mix dei farmaci per curare il Covid-19
deve comprendere tre tipi di farmaci (come illustrato nel
testo): antivirali, antinfiammatori e anticoagulanti, con i
primi utili soprattutto nelle prime fasi e gli ultimi
soprattutto in quelle più avanzate. Come risulterà più chiaro
nel seguito di questo articolo, gli antinfiammatori sono i più
importanti al fine di evitare le ospedalizzazioni con cure
domiciliari precoci, ma alcuni blandi antivirali e
antinfiammatori naturali (ovvero “integratori”) hanno il
vantaggio di poter essere usati in prevenzione con un
elevatissimo profilo di sicurezza e senza necessità di ricetta
medica.

La “sordina” sulle cure e le nuove strategie non basate su un
razionale scientifico

Infine, McCullough nel suo intervento si sofferma sul silenzio
assordante sull’argomento: “Avete mai sentito una sola singola
trasmissione sui canali televisivi nazionali dirvi che farmaci
dovete prendere dopo che vi è stata diagnosticata un’infezione
da Covid-19? Se la risposta è ‘no’, non mi meraviglio: è un
completo e totale fallimento a tutti i livelli. Cominciamo
dalla Casa Bianca: noi non abbiamo avuto un gruppo di medici a
cui sia stato assegnato il compito di rivolgere tutti i propri
sforzi per fermare queste ospedalizzazioni per Covid. Noi non
abbiamo neppure dottori che curino pazienti in un gruppo ed
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
ogni settimana forniscano alle autorità sanitarie un
aggiornamento. Perché non abbiamo tutto ciò a livello di Stato
(un po’ l’equivalente delle nostre regioni, ndr)? Perché
abbiamo zero di tutto ciò? Noi abbiamo messo completamente i
paraocchi sul discorso cure, le abbiamo del tutto cancellate
dall’agenda. Per fortuna, negli Stati Uniti vi sono alcuni
medici che qui in Texas hanno creato dei centri di cura e che
forniscono informazioni alle persone. Ma le uniche linee guida
statali riguardano le ospedalizzazioni”.

Purtroppo, per molti mesi quelli realizzati da McCullough et
al. sono stati gli unici due articoli nella letteratura peer-
reviewed a dire ai medici di base come curare il Covid-19
sulla base delle informazioni scientifiche. E negli Stati
Uniti l’unica guida alle cure domiciliari, l’unica
informazione disponibile per i pazienti su come curare il
Covid-19 a casa, era quella dell’Associazione americana del
medici e dei chirurghi (AAPS), che è ancora possibile per
qualsiasi cittadino scaricare liberamente dal link [5] in
bibliografia (online è scaricabile anche un utile “Vademecum
antiCovid” realizzato dall’Istituto Mario Negri” [39]). Per
tale ragione, McCullough ha proposto di fare una legge per la
quale non vi sia una pubblicazione di risultati senza che vi
sia parallelamente una guida alle cure domiciliari e una linea
dedicata per chi vuole unirsi a una ricerca su un argomento
così importante. Come dice giustamente ai senatori che lo
ascoltano, “noi non vogliamo più che vi sia una singola
persona che torna a casa dopo un tampone positivo subendo due
settimane    di   disperazione     prima    di   soccombere
all’ospedalizzazione e alla morte”.

McCullough sottolinea, infine, come “non c’è un solo dottore
la cui faccia è in TV, non uno, che abbia mai trattato un
paziente affetto da Covid (tranne poche eccezioni, si può dire
lo stesso dei vari medici che sono stati ospiti fissi nei talk
show italiani, ndr). Non vi è un singolo medico nella task
force della Casa Bianca che abbia mai curato un paziente.
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
Perché non è stato creato un gruppo di medici che abbiano
curato pazienti affetti da Covid-19? Perché non facciamo
qualcosa insieme scambiando le nostre idee ed esperienze sul
campo? Perché non ci chiediamo come possiamo porre fine alla
pandemia? Non è incredibile? Pensate alla completa e totale
cecità cui assistiamo. Quando, a maggio dello scorso anno, si
è visto che il virus poteva essere sensibile ai vaccini, tutti
gli sforzi sulle cure sono crollati. I National Institutes of
Health avevano un programma multi-farmaco, ma è stato fermato
dopo aver coinvolto 20 pazienti dicendo che ‘non potevano
trovare pazienti’, una scusa che più ingenua e incredibile non
potrebbe essere” [3].

Il programma, dopo che ci si è resi conto che si potevano
avere dei vaccini, è diventato “limitiamo la circolazione del
virus e aspettiamo i vaccini, poi quando avremo vaccinato
tutti gli sforzi si concentreranno ancora sulle vaccinazioni,
magari con le terze dosi, quarte dosi e via dicendo”, per la
gioia dei produttori dei vaccini e in particolare di Pfizer,
che è stato per varie ragioni quello più “gettonato”. Si è poi
iniziata a montare la fantasiosa narrativa dell’immunità di
gregge da raggiungere, quando qualsiasi esperto di vaccini sa
(o dovrebbe sapere) che tale concetto si applica solo ai
vaccini “sterilizzanti” (ovvero a quelli che bloccano
l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la
replicazione), non ai vaccini anti-Covid attuali, che sono
“leaky” (cioè in molti casi lasciano trasmettere l’infezione a
terzi, naturalmente se il vaccinato si infetta) [6]. Con tutti
i vaccini anti-Covid attuali l’immunità di gregge è una
chimera, come ho mostrato con due tipi di calcoli
completamente diversi fra loro in un precedente articolo [7],
ed i miei risultati quantitativi sono stati confermati – con
onestà intellettuale – anche dal prof. Crisanti [9].
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
Fig.2 –
In questa figura tratta da un mio precedente articolo [7] ho
schematizzato, in modo quantitativo, i “contributi mancanti”
all’immunità di gregge sulla base delle informazioni
ricavabili dalla letteratura scientifica già disponibile un
paio di mesi fa, e sotto l’ipotesi: (a) di una campagna
vaccinale che vaccini l’80% della popolazione italiana
(l’obiettivo che il generale Figliuolo si era proposto di
raggiungere entro fine settembre); (b) di una percentuale di
persone immunizzate naturalmente pari al 20%. Da semplici
conti, risulta contribuire all’immunità di gregge solo il 56%
della popolazione, mentre il 44% non vi contribuisce. Questi
dati si riferiscono alla variante Inglese; con quella Indiana
(cioè la Delta) la situazione è, molto verosimilmente, ancora
peggiore. (fonte: elaborazione dell’Autore).

Quindi, le persone che si immunizzano naturalmente hanno
un’immunità completa e durevole, per cui – paradossalmente –
possono contribuire all’immunità di gregge più dei vaccinati,
che in almeno il 50-65% dei casi [21] – ma probabilmente in
circa l’85%, come suggeriscono i dati islandesi, israeliani e
USA di luglio [30, 100, 101] – contribuiscono alla
Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)
trasmissione virale. Si noti che, come spiega McCullough, “non
si può ‘battere’ l’immunità naturale (che è generale, non
proteina “spike” specifica come quella indotta dai vaccini,
ndr), non si può pensare di vaccinare chi è già immunizzato
naturalmente pensando di ottenere un’immunità migliore. Non vi
è alcun razionale scientifico, clinico o di sicurezza per
vaccinare contro il Covid un malato guarito, come pure non
esiste un razionale per testare con un tampone un malato
guarito dal Covid. Ciò dimostra che non ci si sta chiedendo
quale sia il razionale dietro le cose che facciamo. Non vi è
un razionale scientifico neppure per vaccinare le persone al
di sotto di 50 anni che, fondamentalmente, non corrono rischi
per la propria salute e, se asintomatiche, difficilmente
trasmettono l’infezione, come dimostrato da una ricerca cinese
svolta su 11 milioni di persone e pubblicata sul British
Medical Journal“.

La situazione italiana e l’abbattimento delle ospedalizzazioni
con il “protocollo Remuzzi”

La situazione illustrata da McCullough ricorda molto quella
italiana. In effetti, anche in Italia vi è stata una sorta di
“buco nero” riguardo il discorso delle cure domiciliari, di
cui solo pochi coraggiosi e ammirevoli giornalisti (e
trasmissioni televisive) hanno parlato per un certo periodo.
Non possiamo biasimare i medici di medicina generale, che sono
stati totalmente abbandonati a se stessi, ma non è affatto
accettabile che in Italia nessuna istituzione sanitaria
statale o regionale abbia mai creato un solo singolo gruppo
collaborativo con lo scopo di ridurre le ospedalizzazioni
utilizzando le informazioni mediche disponibili nella
letteratura peer-reviewed, cioè privilegiando un approccio
mirato di medicina territoriale e non “armi di distruzione di
massa” per l’economia come i lockdown, le regioni “a colori”
ed altre amenità del genere, salvo poi puntare tutte le carte
su dei vaccini di cui però presto vedremo gli inquietanti
effetti avversi finora sottaciuti. Nel frattempo, forse per
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favorire i vaccini, le cure sono scomparse dai radar. Silenzio
assoluto!

Ma questo non significa che non siano stati messi a punto, nel
frattempo, nuovi possibili protocolli di cura. Si noti però
che, come osserva il dr. McCullough, “nessun singolo farmaco
funziona da solo contro il Covid-19. E, in effetti, uno degli
errori sbrigativi che sono stati fatti (purtroppo anche dalle
nostre Autorità sanitarie e dai medici “da salotto
televisivo”, ndr) è stato quello di limitarsi all’analisi
dell’efficacia o meno dei singoli principi attivi impiegati,
come ad esempio è avvenuto con l’idrossiclorochina (che è
risultata essere molto efficace contro il SARS-CoV-2 in vitro
[105] e quando è stata somministrata ai contagiati Covid nelle
primissime fasi di malattia insieme a un antibiotico, il cui
ruolo – all’apparenza oscuro – sembra essere spiegato da un
recente e assai interessante studio italiano [97], ndr). Un
altro errore è stato quello di fare studi su un piccolo numero
di pazienti – ad esempio 200 – e guardare se la mortalità si
riduceva o meno. Noi non facciamo così con il cancro, non
facciamo così con l’Aids e nemmeno con l’epatite C. Quello che
cerchiamo sono segnali di benefici e sicurezza accettabile,
dopodiché li combiniamo. Non possiamo aspettarci che un
singolo farmaco riduca la mortalità per Covid, ma più farmaci
in combinazione possono farlo: possono sconfiggere
un’infezione virale altrimenti potenzialmente letale!”.

Il protocollo di McCullough si basa, in effetti, su
un’escalation del trattamento in base ai sintomi (v. figura).
Fra i vari farmaci usati, si noti l’uso immediato di
idrossiclorochina (in pratica, Plaquenil, 200 mg per dose) più
azitromicina (un antibiotico, 250 mg per dose), una terapia
che usata in fase precoce ha dato luogo – secondo esperti
dell’Istituto di Malattie Infettive di Marsiglia, che hanno
pubblicato i risultati di uno studio fatto su migliaia di
pazienti [95] – a una letalità per Covid (il “tasso di
letalità” è la proporzione di decessi fra i casi confermati di
malattia) trascurabile: appena lo 0,06%, pari a circa un
trentesimo della letalità reale in Italia (dove non si sono
adottate “vere” cure, ma solo “vigile attesa”), che era del 2%
circa [111]: un risultato notevole, confermato da un altro
studio del medesimo gruppo [106], in cui l’abbattimento della
letalità è risultato pari all’82%! Questo studio è di tipo
retrospettivo, ma il grandissimo numero di pazienti coinvolti
rendono simili risultati degni di interesse [107]. Tuttavia,
fra aprile e giugno 2020, le Autorità sanitarie italiane hanno
bloccato le terapie che in altri Paesi vari medici stavano
praticando con successo, ma ciò è stato fatto valutando
l’azione dei farmaci su pazienti ospedalizzati (quindi già in
fase avanzata di malattia), non su pazienti trattati
precocemente con le cure domiciliari, come si può capire molto
bene dal documento ufficiale dell’AIFA che trovate in
bibliografia [96].

A influire sulla decisione dell’AIFA era stato probabilmente
anche un articolo apparso alcuni giorni prima su Lancet [103],
che sosteneva un “aumento di rischi per reazioni avverse” su
chi assume clorochina o idrossiclorochina “a fronte di
benefici scarsi o assenti”. Peccato, però, che poco tempo dopo
lo studio sia stato ritirato dalla rivista stessa perché la
ricerca in questione, contestata da oltre 120 scienziati, era
basata su dati in pratica “inventati” e presentava forti
lacune dal punto di vista metodologico [104]. Ciò talvolta
succede, quando un farmaco è “scomodo” per la sua grande
efficacia (purché somministrato subito!) e perché poco
costoso. Si noti inoltre che l’idrossiclorochina, alle dosi
della cura anti-Covid, viene usata da 40 anni per la
profilassi anti-malarica di 7 giorni. Vero è che prendere
insieme questi due farmaci che allungano il cosiddetto
“intervallo QT” può indurre aritmie e aumentare il rischio di
mortalità cardiovascolare [96], ma le Autorità sanitarie
italiane non sembrano essersi accorte che i numeri assoluti di
morti per aritmie erano in realtà piccolissimi – e dunque
trascurabili – se confrontati con le morti per Covid evitate
(che possiamo stimare in circa 214 morti evitate ogni 10.000
persone contagiate [95]), donde un rapporto rischio /
beneficio assolutamente favorevole per i pazienti così curati,
specie se over 50.

                                                       Fig.3 –
Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata
in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI
= indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD
= malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz =
malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 =
ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno (fonte: McCoullogh et al.
[1]). Tali informazioni sono fornite al solo scopo di
completezza divulgativa, non per un uso “fai da te” (vedi
l’avvertenza in fondo al presente articolo).

Come spiega il dr. McCullough, “due grossi e importanti studi
effettuati qui negli Stati Uniti – uno nel Texas e uno a New
York – mostrano che, quando i pazienti over 50 con
comorbidità, una volta ammalatisi di Covid-19, vengono curati
presto con un approccio multi-farmaco – cioè di 4-6 farmaci in
sequenza – vi è una riduzione dell’85% delle ospedalizzazioni
e delle morti. Noi abbiamo avuto oltre 500.000 morti negli
Stati Uniti; ne avremmo potuto evitare fino all’85% (senza
alcun vaccino, ndr) se la risposta pandemica fosse stata
focalizzata sul problema del paziente malato di fronte a noi.
Invece essa è stata focalizzata su tutte le possibili altre
questioni al di fuori di questa, a cominciare dalle mascherine
per finire con i vaccini. Abbiamo perso il focus sulla
questione più fondamentale di tutte”. In effetti, se i vaccini
attuali verranno un giorno aggirati da un “ceppo mutante di
fuga” – cosa possibilissima, come ci insegna la storia dei
vaccini “leaky” [6] – ci ritroveremo punto e daccapo, cosa che
invece non succederebbe con un protocollo di cura!

In Italia, un protocollo di cura domiciliare del Covid molto
interessante per prevenire l’ospedalizzazione – che, se
raggiunge tassi elevati sovraccaricando il sistema sanitario,
costringe a “bloccare” il Paese con i lockdown – è stato messo
a punto dall’Istituto “Mario Negri” [33] diretto dal prof.
Giuseppe Remuzzi, considerato un’autorità di livello
internazionale nel campo della farmacologia. L’efficacia del
protocollo in questione è stata valutata attraverso uno studio
osservazionale retrospettivo elaborato dal prof. Fredy Suter
(oggi primario emerito dell’Ospedale “Papa Giovanni XXIII” di
Bergamo) e da Remuzzi, e pubblicato a giugno di quest’anno su
una rivista peer-reviewed che fa capo a Lancet [32]. Il
protocollo in questione, che offre vantaggi sia al sistema
sanitario nazionale sia ai pazienti, è rivolto ai Medici di
Medicina Generale e costituisce una proposta di trattamento
domiciliare precoce del Covid-19 che dovrebbe iniziare
immediatamente alla comparsa dei primi sintomi (tosse, febbre,
stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito,
diarrea) – che compaiono nei 4-7 giorni successivi
all’infezione, quando la carica virale aumenta – senza
aspettare i risultati dell’eventuale tampone naso-faringeo.

In Italia, in precedenza, non erano mai stati compiuti studi
clinici randomizzati in pazienti con Covid-19 curati a casa,
condotti per confrontare l’efficacia di diversi regimi di
trattamento. Lo studio retrospettivo “a coorti abbinate”
coordinato dal “Mario Negri” è stato effettuato come segue
[33]: “90 pazienti con Covid-19 lieve sono stati trattati a
casa dai loro medici di famiglia, tra ottobre 2020 e gennaio
2021, secondo l’algoritmo proposto. I risultati ottenuti da
questi pazienti sono stati confrontati con i risultati di 1779
pazienti che presentavano le stesse caratteristiche (età,
sesso e comorbidità), ma che avevano ricevuto altri regimi
terapeutici. Le analisi di questo studio sono state effettuate
con il metodo ‘intention to treat’, cioè un’analisi statistica
che, nella valutazione di un esperimento, si basa sugli
intenti iniziali di trattamento e non sui trattamenti
effettivamente somministrati”. Il risultato è stato che si è
osservato un notevolissimo abbattimento della necessità di
ricovero in ospedale, che “si è tradotto in una riduzione di
oltre il 90% del numero complessivo di giorni di ricovero e
dei relativi costi di trattamento”.

Per chi fosse interessato ai dettagli del protocollo in
questione, essi sono illustrati in un secondo articolo
pubblicato da Suter e Remuzzi [34]. Come è spiegato in maniera
divulgativa nel sito web del “Mario Negri” [33], “se la febbre
non è l’unico sintomo presente, i farmaci antinfiammatori non
steroidei (FANS), così come anche l’acido acetilsalicilico
(Aspirina), sono da preferirsi al paracetamolo (Tachipirina)”,
in quanto quest’ultimo può invece peggiorare i danni. Esempi
di FANS che inibiscono in maniera selettiva l’enzima che
produce   i  mediatori   dell’infiammazione   (chiamato
ciclossigenasi-2 o COX-2) e che vengono consigliati nel
protocollo sono il celecoxib (Celebrex) e la nimesulide
(Aulin), anche se quest’ultima è meno selettiva rispetto al
primo. “In questo modo”, spiegano Remuzzi e Suter, “si può
prevenire la reazione infiammatoria che, se viene presa in
tempo, è curabile a domicilio dal medico di famiglia. In base
all’evoluzione del quadro clinico, il medico di famiglia
deciderà poi la durata del trattamento. E quando gli
antinfiammatori non bastano a controllare la malattia, si
passa ad altri farmaci, ma non prima di aver fatto alcuni
esami del sangue (elencati nel loro secondo articolo, ndr) con
un prelievo a domicilio”.

                                                       Fig.4 –
Diagramma di flusso delle fasi di monitoraggio raccomandate ai
medici di famiglia per seguire i pazienti non ospedalizzati
nelle prime fasi di infezione, secondo il protocollo di cura
domiciliare del Covid-19 testato sul campo da Remuzzi, Suter
et al. Si noti come sia assolutamente necessario che i medici
di famiglia seguano i pazienti giorno dopo giorno. (fonte:
Suter et al. [34])
Il proliferare dei possibili protocolli di cura basati su
farmaci low-cost

Se i risultati dello studio di Suter e Remuzzi verranno
confermati da un secondo studio “controllato” (il primo è
“imperfetto” perché retrospettivo), potrebbe essere davvero
una svolta nella cura della malattia. Tuttavia è assai
interessante che, il 1° luglio 2021, un lavoro di ricercatori
inglesi e australiani apparso su Lancet [35] ha già confermato
i loro risultati con un approccio precoce basato su un
preparato anti-asma (contenente una piccola quantità di
cortisone, che è un potente antinfiammatorio) da somministrare
per inalazione nelle primissime fasi della malattia. Nello
studio inglese, “un campione di 73 pazienti trattati con
budesonide – in pratica ad es. con Aircort spray, un farmaco
che contiene una piccola quantità di cortisone, somministrato
per via nasale (una via piuttosto trascurata nella cura del
Covid ma molto importante [98]) – nei primi giorni
dall’insorgenza di lievi sintomi da Covid-19 è stato messo a
confronto con un altro gruppo di 73 pazienti con
caratteristiche simili ma trattato con una terapia
tradizionale. I risultati hanno dimostrato che nel primo
campione con il trattamento cortisonico i ricoveri ospedalieri
sono stati 2 contro gli 11 del secondo gruppo (per cui
l’abbattimento delle ospedalizzazioni è stato all’incirca
dell’81%). Analogamente, nello studio di Suter e Remuzzi, sui
90 pazienti Covid-19 trattati a casa con le terapie
raccomandate, solo 2 hanno avuto necessità di ricovero in
ospedale, contro i 13 ricoverati tra i 90 pazienti del gruppo
di controllo che hanno seguito altre terapie (per cui
l’abbattimento delle ospedalizzazioni è stato dell’85%, ndr)”
[37].

Nel caso del budesonide somministrato attraverso lo spray
nasale, inoltre, si è trattato di uno studio controllato
randomizzato, pubblicato peraltro su una delle riviste mediche
più prestigiose. Quindi, questa volta da parte delle Autorità
sanitarie italiane (AIFA, Ministero della Salute, CTS) proprio
non vi sono plausibili “scuse” per ignorarlo. Inoltre, con
questo farmaco somministrato due volte al giorno direttamente
nel naso con una serie di semplicissimi “puff” dello spray
nelle due narici le ospedalizzazioni sono state abbattute
dell’80% [36]. Insomma, abbattere le ospedalizzazioni di un
tasso praticamente paragonabile a quello ottenibile con una
campagna vaccinale di massa sembra essere diventato facile
quasi “quanto bere un bicchier d’acqua” (per prendere i 200 mg
giornalieri di celecoxib, pari a due pasticche di Celebrex al
dì, che comunque va associato a un gastroprotettore, in
pratica un “inibitore della pompa protonica” [34]) oppure
inalare uno spray. Ma attenzione al fai da te. “È molto
importante – sottolinea Suter – che i suggerimenti che
derivano da questi studi non siano interpretati come un ‘fai
da te’. È il medico di famiglia che deve prendere queste
decisioni, giudicando di volta in volta quale sia il farmaco
più adatto in rapporto ai sintomi e alle condizioni cliniche
del suo paziente”.
Fig.5 –
Gli effetti avversi gastrointestinali, nei pazienti trattati
con celecoxib a dosi di 400 mg/giorno, sono significativamente
più bassi rispetto a quelli trattati con un FANS non selettivo
più l’omeprazolo come gastroprotezione. Il grafico mostra la
curva cumulativa degli eventi clinici significativi a carico
dell’intero tratto gastro-intestinale. La curva viola del
celecoxib si mantiene bassissima per circa due mesi di
assunzione del farmaco, mostrando quindi un buon profilo di
sicurezza per quanto riguarda gli effetti gastrointestinali.
Questo farmaco può tuttavia aumentare il rischio di infarto o
ictus e, come tutti i FANS, presenta una certa tossicità
renale di cui occorre tenere conto. (fonte: [109])

L’Istituto Mario Negri è coinvolto anche in un progetto che
vede l’utilizzo di un farmaco molto noto nella cura del
Covid-19, con valenza antivirale: l’Ivermectina, già nel 2020
considerata come la possibile arma vincente contro il Covid,
riducendo la carica virale del SARS-CoV-2 del 99,8% in sole 24
ore e la mortalità in media del 62% secondo una meta-analisi
di 15 paper scientifici [108], e del 75% secondo un’altra
recente rassegna [41]. Come spiega Remuzzi [38, 36],
“l’Ivermectina è un farmaco utilizzato sia per il trattamento
ad ampio spettro di infestazioni di parassiti sia per il
trattamento di specifici disturbi della pelle, come la
rosacea. I risultati definitivi del nostro studio (fatto da
Zeno Bisoffi e colleghi dell’Ospedale di Verona, ndr) saranno
disponibili a breve, e speriamo possano avere un impatto
importante nel trattamento del Covid. Le evidenze emerse da
vari studi di laboratorio, osservazionali, clinici (anche
controllati a doppio cieco, ad es. [40], ndr) e da metanalisi
hanno mostrato che l’Ivermectina è in grado di bloccare la
replicazione del SARS-CoV-2, ma utilizzandola a concentrazioni
molto elevate rispetto a quelle raggiunte con le dosi
attualmente autorizzate (per altri usi, ndr), causando quindi
una certa tossicità”. Come già l’idrossiclorochina usata ai
primi sintomi nel protocollo di McCollough, quindi, essa non
si presta a un uso fai da te. Per questo, le varie agenzie
regolatorie (FDA, EMA ed AIFA) si sono affrettate a dare
parere contrario al suo uso.

Come conclude Remuzzi [38], “probabilmente l’uso di medicinali
a base di cortisone per inalazione rappresenta un trattamento
efficace per i primi sintomi di Covid -19. Questo tipo di
terapia alleggerirebbe la pressione sui sistemi sanitari di
tutto il mondo. Inalare budesonide è semplice, sicuro, ben
studiato, economico (l’Aircort spray nasale costa una ventina
di euro, ndr) e il trattamento è ampiamente disponibile. Anche
il desametasone (ad es. il Bentelan) è un farmaco ampiamente
disponibile e a basso costo, capace di ridurre la mortalità
delle forme gravi di COVID-19″. Pure l’Aspirina e il Celebrex
costano meno di una decina di euro ciascuno; mentre una cura a
base di Ivermectina (che all’estero si trova a circa 3 dollari
a flacone di gocce da 5 ml) costerebbe all’incirca 1 euro al
giorno [41], per cui è usata con apparente successo in India
[43], nonostante l’OMS abbia cercato di “mettersi di traverso”
[42, 44], per usare un eufemismo. Si confrontino questi costi
con quelli degli anticorpi monoclonali (dell’ordine delle
centinaia di euro o più), con quelli della degenza ospedaliera
(427 €, 582 € e 1.278 €, rispettivamente, in reparto
ordinario, subintensivo e intensivo [32]), e con i guadagni
dai vaccini (che vengono somministrati quasi a tutti, non solo
ai pochi malati sintomatici!), e si capirà quali pressioni vi
possano essere per mettere la “sordina” alle terapie
domiciliari, per far “sparire” certi farmaci o cure low-cost
dal mercato, etc.

Ecco infine, nella figura qui sotto uno schema riassuntivo di
quanto illustrato che avevo realizzato per far capire meglio
le cose ad alcune persone non vaccinate, ma che potrebbe in
realtà essere utile – specie nel prossimo autunno-inverno – a
tutti, compresi i vaccinati più anziani o più fragili. I
farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) sono
probabilmente quelli più indicati nelle prime fasi della
malattia. Questo perché, come spiega ancora Remuzzi [38],
“dopo i 4-7 giorni successivi all’infezione – durante i quali
compaiono i primi sintomi – può seguire un periodo di
infiammazione eccessiva, che rappresenta la base su cui si può
instaurare la polmonite. Iniziare a curarsi trattando il
Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione
respiratoria assumendo un farmaco antinfiammatorio, al posto
di un antipiretico, fa sì che l’organismo limiti l’entità
della risposta infiammatoria innescata per combattere
l’attacco virale. Perciò il cortisone, per i suoi effetti
antinfiammatori, può essere utile nelle fasi precoci della
malattia quando i sintomi COVID-19 persistono nonostante il
trattamento per diversi giorni con farmaci antinfiammatori
tradizionali”.
Tab.1 – Schema riassuntivo dei principali tipi di cure
domiciliari sperimentate con successo contro il Covid-19 e le
relative riduzioni delle ospedalizzazioni o della mortalità.
Si noti come: (a) vi siano ormai numerose cure che offrono
riduzioni assai elevate (> 80%) se praticate immediatamente
ai primi sintomi senza aspettare il tampone PCR; e, inoltre,
(b) come quelle più recenti (con FANS e/o cortisonici)
garantiscano un profilo di rischio per tossicità ben più basso
rispetto a quelle in passato “propagandate” da media e no-vax.

L’importanza della tempestività nelle cure e della prevenzione

Curare i pazienti affetti da Covid-19 con il massimo tempismo
e direttamente a casa. È questa la strategia messa in campo
dai medici dei vari comitati per le cure domiciliari per
contrastare il virus e che hanno permesso loro di curare molte
persone. Come spiega in un’intervista [12] il dr. Andrea
Stramezzi, uno dei medici di base che cura i pazienti Covid a
casa prima che abbiano bisogno dell’ospedalizzazione, “le
terapie precoci funzionano. Il tempismo è fondamentale. Si
deve intervenire subito con l’antinfiammatorio. Da evitare la
tachipirina, che non è un antinfiammatorio e abbassa i livelli
di glutatione, fondamentali per proteggersi dal Covid. Va bene
qualsiasi antinfiammatorio. L’aspirina va benissimo essendo
anche un antiaggregante piastrinico. L’Ibuprofene te lo danno
solo con la ricetta. L’aspirina anche senza ricetta. Va presa
immediatamente, al primo sintomo. Appena si ha la febbre a 38,
per esempio, oppure uno strano mal di gola, un accenno di
tosse, qualsiasi avvisaglia. Questo è un primo step, perché il
tessuto infiammato permette più facilmente l’ingresso del
virus, come tutti gli agenti batterici. L’importante è
avvertire subito il medico curante, che prescrive poi una
terapia adatta al paziente che già conosce”.

L’estrema importanza della tempestività nelle cure è stata di
recente dimostrata da un’eccellente meta-analisi [119] di 9
differenti studi indipendenti fra loro (fra cui uno italiano),
che fa vedere come le cure precoci nelle case di cura per
anziani – dove evidentemente ci sono alcuni dei soggetti più
anziani, più fragili e persone con una o più comorbidità –
producano un abbattimento di oltre il 60% della mortalità. Le
cure usate con successo sono terapie multifarmaco che
includono idrossiclorochina, due o più antinfettivi,
corticosteroidi, antitrombotici e nutraceutici. Gli autori
sottolineano come gli ospiti delle case di riposo siano un
gruppo ad altissimo rischio e, nonostante ciò, le cure precoci
risultano essere assai efficaci. Viceversa, qualora questi
soggetti non vengano curati subito (cioè appena si manifestano
i primi sintomi), si aggravano in misura tale che non riescono
a beneficiare delle successive cure ospedaliere, perché i
polmoni vengono meno e si producono micro-trombi nei polmoni e
nei reni. E insistono sul fatto che le cure precoci dovrebbero
essere prese in seria e urgente considerazione dalle Autorità
sanitarie e dai decisori politici. Non farlo rappresenta un
azzardo morale e di fatto equivale a rifiutarsi di salvare
vite.

Perciò,   come   sottolinea   Remuzzi,   “occorre   intervenire
all’inizio della fase sintomatica, iniziando a curarsi a casa
e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra
infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile
l’esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il
recupero e a ridurre l’ospedalizzazione”. Insomma, è proprio
la fase del Covid-19 in cui appaiono i primi sintomi ad essere
quella più efficace per trattare la malattia, prima che la
risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto
assolutamente eccessiva. Del resto, il vantaggio di curare
precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così
la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da
oltre un secolo [78]. Ma ancor meglio dell’intervenire subito
con i farmaci non appena si manifestano i sintomi del Covid è,
molto verosimilmente, effettuare una prevenzione con
l’assunzione quotidiana di opportuni integratori naturali (che
possono essere presi da tutti in totale sicurezza) con
proprietà antivirali, immunomodulanti e antinfiammatorie, i
quali non prevengono affatto l’infezione, ma possono aiutare
ad accelerare il recupero ed a ridurre non poco il rischio di
ospedalizzazione e di effetti gravi del Covid [79]. Il motivo
di ciò è illustrato più avanti, dalla Fig. 6.

Dell’uso della vitamina D nella prevenzione del Covid ho
ampiamente parlato in un mio precedente articolo [71],
peraltro revisionato da uno dei maggiori esperti italiani
dell’argomento: il prof. Giancarlo Isaia. Sulla base di sempre
più numerose evidenze epidemiologiche riportate nella
letteratura medico-scientifica, appare ogni giorno più chiaro
come il raggiungimento – tramite esposizione al sole o
semplice integrazione quotidiana – di adeguati livelli di
vitamina D3 (4.000 UI/die [72]) sia necessario non solo per
prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre
l’aspettativa di vita negli anziani e creare “comorbidità” che
aggravano il Covid-19, ma anche per determinare direttamente
una maggiore resistenza al Covid-19 e, di conseguenza, un
netto calo della mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva
[75, 77]. Ciò non stupisce, anche alla luce del ruolo
protettivo della vitamina D in numerose altre patologie
virali. L’Italia, fra l’altro, è – come ben noto ai medici di
base – uno dei Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con
maggiore carenza di vitamina D nella popolazione [73].
Pertanto, il compenso a scopo preventivo della carenza di
vitamina D, può essere prezioso (non è un caso che
l’Inghilterra abbia distribuito a inizio anno la vitamina D
agli anziani) nel ridurre di circa 2/3 l’incidenza di
infezioni respiratorie acute e degli aggravamenti del Covid
nei soggetti carenti (
Fig.6 –
La   “guerra”   di   un   organismo   contro   il   COVID-19 è,
inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del
SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste
particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D,
lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e
immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di
prevenzione della progressione della malattia verso stadi più
gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle
particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

Un altro integratore che ho poi scoperto essere usato in
primis da numerosi medici e farmacisti in funzione di
prevenzione contro il Covid è la lattoferrina. Si tratta di
una glicoproteina che si trova classicamente nel latte dei
mammiferi, essendo un nutriente protettivo. Ha importanti
proprietà immunologiche: è sia antibatterico che antivirale
[123], ed anche un antinfiammatorio e anti-cancro [126]. Vi
sono prove che possa legarsi ad almeno alcuni dei recettori
utilizzati dai coronavirus e quindi bloccarne l’ingresso [68],
perciò può essere un ottimo integratore da assumere come
contributo alla prevenzione contro l’infezione e
l’infiammazione [122]. Inoltre in vitro blocca la
replicazione del SARS-CoV-2 [69, 124, 125]. Come osservava ad
aprile il dr. Enrico Naldi, medico di Medicina Generale, “ad
oggi ho più di 200 persone in profilassi con essa e nessuna di
queste si è ammalata” [128]. Alcuni studi italiani ne hanno
dimostrato anche il valore terapeutico se la si assume quando
si ha il Covid-19, probabilmente perché potenzia il sistema
immunitario innato e contrasta l’eccessiva risposta la
“tempesta citochinica” [70, 127]: sotto forma di Mosiac in
capsule, a dosaggi di circa 1 g al giorno (5 capsule) è
risultata efficace in tutti gli oltre 150 pazienti Covid
trattati fra Roma e Firenze, a cui ha evitato
l’ospedalizzazione mostrando una diminuzione dei fenomeni
infiammatori e tempi di negativizzazione dei tamponi PCR più
brevi [84], senza dare effetti avversi.

Il tè è la bevanda più consumata al mondo e l’idea di
sfruttare le sue molecole polifenoliche antivirali è per molti
entusiasmante. L’epigallocatechina gallato (EGCG) e le
teaflavine (TF) sono catechine polifenoliche che si trovano in
abbondanza nel tè, soprattutto – rispettivamente – nel tè
verde e nel tè nero, con una vasta gamma di benefici per la
salute. Sono infatti potenti agenti antiossidanti,
antinfiammatori e antivirali. La loro attività antivirale è
state segnalata contro varie infezioni virali e un’analisi
approfondita ha rivelato che entrambe sono molecole antivirali
ad ampio spettro, senza siti di interazione definiti [66].
Agiscono in diverse fasi del ciclo virale. Alcuni studi hanno
anche suggerito che hanno attività profilattica, ed un gruppo
di ricercatori italiani [67] le ha testate su 10 pazienti
positivi al tampone, sintomatici per SARS-CoV-2, trattandoli
per 15 giorni a domicilio con due sedute di inalazione più tre
capsule al giorno (catechine totali: 840 mg; EGCG totale: 595
mg). Tutti i pazienti si sono ripresi completamente e non
hanno avuto sintomi in una mediana di 9 giorni, e sono usciti
dalla quarantena perché privi di sintomi. Questi interessanti
risultati possono aprire nuove prospettive nella prevenzione
con integratori (a riguardo mi permetto di consigliare
l’estratto di tè verde della Long Life); e già si studiano
farmaci anti-Covid che sfruttano le molecole del tè verde, le
quali funzionano contro tutte le varianti del SARS-CoV-2 e in
modo dose-dipendente [120].

L’arsenale degli integratori che possiamo prendere a scopo
preventivo comprende anche:

     La vitamina C. Può potenzialmente proteggere dalle
     infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute
     immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di
     varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di
     proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che
     l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la
     gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori
     (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a
     infezioni virali), compreso il comune raffreddore, il
     quale può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus
     con cui la nostra specie convive da tempo [80]. La dose
     di vitamina C raccomandata dagli studi varia da 1 a 3 g
     / giorno.
     Lo zinco. È un metallo essenziale coinvolto in una
     varietà di processi biologici grazie alla sua funzione
     di cofattore, molecola di segnalazione e elemento
     strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha
     funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è
     considerato il potenziale trattamento di supporto contro
     l’infezione da Covid-19 a causa dei suoi effetti
     antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti,
     tanto da essere impiegato anche in terapia in alcuni
     trial clinici attualmente in corso contro il Covid-19
     [130]. L’effetto antivirale è ottenuto riducendo
     l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui
     l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare
     nella cellula [81]. La dose raccomandata da vari studi
     varia da 20 a 92 mg / settimana.
     La curcumina. La possiamo assumere aggiungendo ogni
     giorno un cucchiaino di curcuma al cibo (associata
     sempre o ad olio o altri grassi od a pepe nero, che la
     rendono biodisponibile), ha un ampio spettro di azioni
biologiche,    comprese    attività    antibatteriche,
     antivirali,     antimicotiche,      antiossidanti      e
     antinfiammatorie [82], oltre ad avere un potente azione
     anti-cancro. Inoltre inibisce la produzione di citochine
     pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto
     antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus
     dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma
     umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV),
     etc. [83]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un
     altro integratore interessante nella lotta alla
     patogenesi del Covid-19.
     La quercetina. Si tratta di un flavonoide le cui
     proprietà antivirali sono note da vari studi [121]. Tre
     trial clinici hanno mostrato che l’integrazione di
     quercetina riduce incidenza e durata delle infezioni del
     tratto respiratorio [129]. Essa inibisce due bersagli
     del SARS-CoV-2 ed ha la capacità teorica, ma
     significativa, di interferire con la replicazione di
     questo virus, al punto da risultare fra i primi 5-6
     composti candidati per la realizzazione di nuovi
     antivirali contro il SARS-CoV-2 [122]. Vi sono evidenze
     che l’uso della quercetina insieme alla vitamina C
     eserciti un’azione antivirale sinergica che aumenta
     l’efficacia della quercetina, per cui sono indicati
     nella profilassi in popolazioni ad alto rischio e nel
     co-trattamento di pazienti con Covid-19 [81, 121]. Anche
     le azioni antinfiammatoria e di inibitore della trombina
     possedute dalla quercetina potrebbero risultare utili a
     riguardo.

Tab.2 – Quadro riassuntivo dei principali integratori naturali
impiegati contro il Covid-19 secondo la letteratura
scientifica peer-reviewed. Per alcuni di essi abbiamo già dei
primi dati quantitativi sulla loro efficacia nell’evitare
aggravamenti o nei pazienti che li assumevano in precedenza
(nel caso della vitamina D) o in pazienti sintomatici trattati
con essi (nel caso di vitamina D, lattoferrina, estratto di tè
verde). Ciò suggerisce un’efficacia elevata anche per chi li
assume quotidianamente come forma di prevenzione di forme
gravi prima che si manifestino i sintomi (che esordiscono
alcuni giorni dopo l’infezione).

L’importanza del medico di base che visita e cura i pazienti a
domicilio

Dunque le terapie ci sono e in molte parti del pianeta le
stanno applicando con successo. Praticamente, quasi tutti i
malati curati subito guariscono. Fanno eccezione i pochissimi
casi (6 su oltre 60.000, pari a un tasso di letalità (cioè, al
solito, la proporzione di decessi fra i casi confermati di
malattia) di appena lo 0,01% [19], che – come ordine di
grandezza – è circa 30 volte più basso del tasso di letalità
globale per Covid-19 ottenuto nel Regno Unito grazie alla
vaccinazione di massa, che attualmente si aggira intorno allo
0,3%) che arrivano a tali medici troppo tardi, dopo l’ottavo
giorno dai primi sintomi; oppure quelli che hanno già malattie
debilitanti (le famose “comorbidità”), tali che il Covid è
stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il
numero dei medici che applicano con successo queste terapie
domiciliari è crescente, forse perché vedono i risultati. Ad
oggi, però, in Italia queste cure non sono ancora riconosciute
dalle Autorità sanitarie preposte (in pratica, l’AIFA, sebbene
anche il Ministero della Salute e il CTS, se volessero,
potrebbero fare molto per sollecitarne l’adozione), vittime
forse di una incomprensibile “prassi” che sa più di
burocratico che di logico e prudente. Pertanto, o il tuo
medico di famiglia le adotta oppure hai la scelta fra
cambiarlo (oggi ci vogliono pochi minuti), rivolgerti a un
medico che ti curi in regime di libera professione (qualcuno
lo fa perfino gratuitamente) o rischiare di crepare, come
accaduto già per oltre 140.000 nostri connazionali (numero che
include anche i morti per Covid nella prima ondata “in più”
rispetto ai dati ufficiali dell’ISS perché morti a casa e
stimati successivamente dall’Istat).

In effetti, nessun protocollo di cura può salvare la vita dei
malati di Covid-19 se un medico di famiglia è inadeguato
oppure se non è messo nelle condizioni di fare il proprio
mestiere da chi, a livello nazionale e/o locale, dovrebbe: (1)
realizzare le migliori linee guida di cura domiciliare tenendo
conto anche del parere dei medici stessi che operano sul
campo, (2) fornire i dispositivi di protezione individuale,
etc. Come spiega McCullough al Senato del Texas, “ho
controllato l’operato di molti medici di base e, quando i
pazienti li chiamano, rispondono ‘io non curo il Covid’; e
quando ho chiesto loro il perché, mi hanno risposto ‘perché
non esistono cure’. Gli ho chiesto anche se chiamano i loro
pazienti dopo un paio di giorni per sapere come stanno, e mi
hanno risposto di no. Questo non è solo non curare il Covid: è
non aver cura dei pazienti. Questa è una perdita di
compassione. Dunque noi abbiamo una crisi di compassione, nel
nostro paese, nel campo della medicina di base. Se tu non
chiami il tuo paziente dopo due giorni per sapere come sta e
se ha bisogno di ossigeno, questo è un tradimento del
giuramento di Ippocrate, perciò dobbiamo dare una regolata al
sistema medico”. Ecco, questo è quanto è accaduto negli Stati
Uniti d’America.

Anche in Italia i pazienti malati di Covid-19 – specie nella
prima ondata – sono stati in molti casi abbandonati a se
stessi, perché a loro volta i medici di famiglia non avevano
ricevuto dispositivi di protezione individuale idonei e,
d’altra parte, già in epoca pre-Covid non erano obbligati a
visitare a domicilio. In alcuni casi si trattava di medici
anziani che, in tali condizioni, rischiavano la vita, quindi
si può anche capire (dobbiamo anzi ringraziare gli oltre 350
medici italiani morti per Covid!); ma in alcuni altri casi si
trattava di medici più giovani che avevano semplicemente paura
del virus, come rivela in una popolare intervista su YouTube
il dr. Fabio Milani, medico di famiglia [17]: “Un medico che
ha paura di un virus è ‘come un bagnino che ha paura
dell’acqua’, ed allora è meglio che cambi mestiere”. Il
risultato è stato, secondo Milani, che “oltre il 90% dei
pazienti visitati in questi mesi di pandemia dai pochi medici
di base che vanno a casa non sono stati in realtà loro
assistiti, bensì pazienti di loro colleghi che non vanno a
casa a visitarli”. Questa situazione è, evidentemente,
inaccettabile, ma le Autorità sanitarie poco o nulla hanno
fatto per modificare davvero le cose, e tale inerzia è costata
moltissimo in termini di vite umane.

Come rivela Milani, molti medici di base, oltre a non andare a
casa, lasciano i pazienti senza cure con la famosa “vigile
attesa e tachipirina” propinata dalle linee guida statali, per
cui poi questi si aggravano e, se non vengono curati, spesso
finiscono in ospedale. Ma chi li ha curati a casa “in scienza
e coscienza” – come ogni medico dovrebbe fare [18] –
all’esordio dei primi sintomi praticamente non ha avuto morti
od ospedalizzazioni fra i propri assistiti. Alcuni di questi
coraggiosi medici, come racconta lo stesso dottor Milani,
hanno curato a casa “anche persone con 63 di saturazione,
mentre le USCA con 92 ti ricoverano e con 80 ti intubano.
Certo, per fare questo tipo di lavoro i medici di medicina
generale si devono assumere delle responsabilità, ma loro sono
pagati per fare questo. È troppo facile mandare i pazienti
direttamente all’ospedale o dallo specialista, questo non è
fare il medico. È chiaro che poi ti senti 3 o 4 volte al
giorno con il paziente per valutare la progressione della
malattia. Ma ho avuto anche un paziente di 85 anni con 4
bypass e 79 di saturazione e curandolo a casa mi è guarito”
[17].
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