RO FAME di LAVO Storie di gastronomie operaie - Consiglio regionale del Piemonte
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
FAME di LAVORO Storie di gastronomie operaie a cura di Gianpaolo Fassino, Davide Porporato Associazione Culturale Associazione Culturale per la diffusione delle cultura scientifica e artistica per la diffusione delle cultura scientifica e artistica
presentazioni 3 Mauro Laus L’accostamento dei termini fame e lavoro, che costi- Presidente del Consiglio regionale del Piemonte tuiscono il titolo della mostra, sottolinea un’originale, ampia e intensa attenzione al rapporto con il cibo, che Il cibo ha sempre avuto, in passato come ancora oggi, riconquista una sua centralità nella vita delle persone, una funzione non solo di nutrimento. Tutti gli aspetti tema quanto mai di attualità ed esemplificativo del pe- che riguardano questo importante componente della riodo di crisi che stiamo vivendo. Le belle immagini, che vita umana hanno assunto nel tempo numerosi signifi- costituiscono la mostra, dei lavoratori colti nel momen- cati religiosi, politici, economici e, soprattutto, sociali. In to della “pausa pranzo”, riportano con forza al tema del virtù di ciò, anche il modo di alimentarsi è stato sempre diritto al cibo e al lavoro, come elemento centrale da legato alla società. Una corretta nutrizione continua ad cui è necessario partire: rimuovere “lo scandalo della Gruppo di ricerca Grafiche mostra essere esclusivo retaggio di gruppi sociali più abbienti, fame” che ancora oggi affligge un’ampia porzione della Alba Zanini - Associazione Culturale Kòres; Elena Schisa mentre la maggior parte della popolazione mondiale popolazione del pianeta. Promuovere una prospettiva Piercarlo Grimaldi, Gianpaolo Fassino, Michele F. Progetto di allestimento Interactive Sound mangia più per sfamarsi che per nutrirsi. che restituisca dignità a tutta l’umanità, in equilibrio con Fontefrancesco, Luca Ghiardo, Luca Percivalle, Dario Presidente Leone - Laboratorio Granai della Memoria, Università Impaginazione e stampa catalogo Nel nostro paese, dopo la seconda Guerra Mondia- i limiti del pianeta e nel rispetto del diritto alla vita del- Mauro Laus degli Studi di Scienze Gastronomiche; Gallo Arti grafiche - Vercelli le, molte famiglie dovettero lasciare le campagne per le generazioni che seguiranno, è l’impegno cui siamo Con il contributo di chiamati. Vice Presidenti Davide Porporato - Università degli Studi del Piemon- Fondazione CRT andare a lavorare nelle città industriali come operai, Nino Boeti, Daniela Ruffino te Orientale. Ringraziamenti abbandonando perciò le innumerevoli tradizioni e abi- La complessità delle cause ci sollecita ad affrontare Consiglieri segretari Fotografie Alessandro Benvenuto, Gabriele Molinari, Archivio e Centro Storico Fiat; Archivio fotografico Per le attività di ricerca: Associazione Docbi, Centro Studi tudini della vita contadina. Le lunghe soste dedicate al la tematica del diritto al cibo in una prospettiva più am- Biellesi; CISL Torino; Fondazione Vera Nocentini; Fonda- Angela Motta Istituto Gramsci Torino; Fondazione Sella Onlus, Biel- zione Sella onlus Biella; SPI CGIL Orbassano; Giuseppe pasto nel tempo del lavoro nei campi, ritmato dalle sta- pia, attraverso i diversi elementi che la legano ai temi Direzione Comunicazione Istituzionale la; Marcello Marengo; Mauro Raffini; Mauro Vallinotto. Baffert; Cesare Cosentino; Marcella Filippa; Enzo Garrone. Per le interviste: Adolfo Audenino, Annamaria Avonto, gioni, scompaiono per adattarsi ai ritmi frenetici dell’in- dell’occupazione, della buona finanza e della costruzio- Direttore - Domenico Tomatis Testi Giuseppe Caristia, Mario Cerrato, Angela Frustagli, Mario dustria: i pasti in fabbrica vengono consumati in fretta, a ne di un mondo di pace. Settore Informazione, Relazioni Esterne e Piercarlo Grimaldi, Gianpaolo Fassino, Michele F. Gheddo, Roberto Greco, Salvatore Lodato, Bruno Pesce, Cerimoniale Nicola Pondrano, Clelia Valfrè, Gianfranco Zabaldano, Elio volte freddi o in condizioni di fortuna, nell’unica sosta di Fontefrancesco, Luca Ghiardo - Università degli Studi Dirigente - Mario Ancilli; Patrizia Bottardi, di Scienze Gastronomiche. Zanoni. mezz’ora, “la pausa pranzo”. Per gli oggetti in mostra: Mauro Schellino, Osteria del Peso Marina Buso, Federica Calosso Davide Porporato, Matteo Varia - Università degli Stu- - Belvedere Langhe (CN). Questo è il tema di questa interessantissima mostra, di del Piemonte Orientale Per il contributo all’allestimento: Ri-ciclistica Settimese Mostra a cura dell’Università degli Studi di Scienze Foto di copertina: Operai nella mensa aziendale Fiat; tratta dal “Fame di lavoro. Storie di gastronomie operaie”, ideata Interviste Gastronomiche e dell’Associazione Culturale Kòres Davide Porporato, Luca Ghiardo, Luca Percivalle documentario di Cinefiat: “Quel primo giorno in fabbrica”, e realizzata dall’Università di Scienze Gastronomiche di 1972, Archivio e Centro Storico Fiat. Coordinamento La pubblicazione delle fotografie è stata autorizzata dagli or- Pollenzo insieme all’Associazione Culturale Kòres, che Anna Ghiberti – Associazione Culturale Kòres ganismi competenti. vuole approfondire ulteriormente il tema del cibo e del lavoro, con testimonianze raccolte tra quelli che hanno Associazione Culturale Catalogo (a cura di) per la diffusione delle cultura scientifica e artistica © Consiglio regionale del Piemonte, Torino, 2016 Torino, Palazzo Lascaris, 26 maggio - 22 luglio 2016 Gianpaolo Fassino, Davide Porporato ISBN 978-88-96074-81-7 vissuto la realtà della fabbrica.
presentazioni 5 Carlo Petrini Alba Zanini Presidente dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche Presidente Associazione Culturale Kòres La fame di lavoro da sempre perseguita l’uomo. Una La mostra “Fame di Lavoro. Storie di gastronomie fame che, nel caso della nostra mostra, si placa portan- operaie” vuole raccontare una storia inedita e poco co- do in fabbrica il cibo che la donna ha sapientemente nosciuta, quella del cibo in fabbrica. È una mostra un preparato e stivato in un contenitore metallico, il bara- po’ controcorrente, perché oggi parlare di cibo significa chin, emblema, tratto distintivo di un mondo operaio parlare di chef stellati, di prodotti di eccellenza, di ri- che, nelle attese utopiche della mia generazione, do- storanti famosi, quasi che il cibo fosse un bene di lusso, veva diventare classe dirigente. Tanta acqua è passata uno status symbol. sotto i ponti e quel proletario senza rivoluzione, oggi, In realtà le modalità di produzione, di distribuzione e indossa nuovi abiti che sanno di fresco e di pulito, ma di preparazione del cibo sono espressione di civiltà, nel che celano piuttosto un sottoproletariato che non pen- senso più ampio del termine: nel cibo è riassunta l’es- sa più all’occupazione garantita come un diritto d’uma- senza di un’intera società, l’economia, i rapporti sociali, nità, ma vive alla giornata la speranza di sopravvivere sul le scelte politiche, la democrazia, le regole di conviven- posto di lavoro per qualche giro di stagione. za civile. È quindi importante soffermarsi per una volta Nuovi contenitori del pranzo al lavoro continuano a su un cibo “povero”, il cibo dell’operaio, testimonianza servire un mondo meno certo di futuro. Un mondo che del lavoro in fabbrica e dell’evoluzione e dei cambia- è anche parte integrante di una più vasta storia della menti di quella “classe operaia” che oggi sembra avere gastronomia italiana. perso voce e identità. La mostra costituisce, dunque, un indispensabile tas- Torino, la “città delle fabbriche”, è stata per tutto il sello per meglio comprendere la creatività gastronomi- Novecento laboratorio e motore di trasformazioni so- ca che ogni giorno viene messa in atto per cercare nel ciali ed economiche e luogo di formazione di una co- cibo che ci nutre ragioni anche per ri-affrontare, a muso scienza collettiva che lungo tutto il secolo ha determi- duro, una società che non vuole più bene a chi lavora: nato i rapporti e gli equilibri tra lavoratori e industria. È a scampolo di un famelico sistema finanziario che domina Torino, infatti, che già a fine Ottocento nasce l’industria gli orizzonti del pianeta e che non ha più l’esigenza di manifatturiera, che vede negli anni successivi un rapido portarsi in fabbrica il nostro cibo quotidiano. sviluppo soprattutto nei campi della metallurgia, della meccanica, della chimica, legati alle fabbriche di auto- mobili, aerei, moto e biciclette, fino ad arrivare, negli anni Sessanta del secolo scorso, ad una trasformazione
saggi 6 7 radicale del tessuto economico e sociale della città, in seguito alla grande immigrazione dal Sud Italia. Gli operai del Sud hanno portato con sé nostalgie e tradizioni, anche culinarie: nel barachin erano contenuti i ricordi e il gusto rassicurante del cibo di casa, che aiu- tava a sopportare la fatica, l’estraniamento e a dare spe- ranza nel futuro. Tutto questo è rappresentato con im- mediatezza nei visi che compaiono nelle foto, uomini e Piercarlo Grimaldi campagna e città, di un nuovo mondo costituito da me- donne colti nella “pausa pranzo” davanti ai contenitori talmezzadri, che dialogano creativamente e danno vita Il cibo operaio: un progetto gastronomico ad un cognitivo sapere che fonda il suo modo di affron- metallici e alle bottiglie di vino, visi di persone semplici, segnati dalla fatica dopo ore di lavoro, mentre mangia- Scopo della mostra “Fame di lavoro. Storie di gastro- tare i cambiamenti e il confronto, anche di classe, con no quello che si sono portati da casa, visi di persone che nomie operaie” è di riportare alla luce le forme e le pra- la parodia. Questa interessante e particolare narrativa lottano e credono in una vita migliore. tiche di un sapere gastronomico che attiene ad un tor- forma espressiva, che ritroviamo nella pratica solidale Dal barachin si passa successivamente al cibo prepa- nante importante della recente storia del mondo operaio e collettiva del vivere la vita di fabbrica, è riconoscibile rato dalla mensa aziendale, luogo che rappresenta non e della vita di fabbrica. Nell’appena passato Novecento, anche nel progetto gastronomico che la donna di casa solo una conquista per una maggiore dignità e como- segnato dal trascorrere dalle campagne alla fabbrica, interpreta per l’uomo che fatica in fabbrica. dità nel consumare il pasto, ma anche uno spazio pre- Barachin a due scomparti in acciaio. Il recipiente più piccolo, posto una vera e propria diaspora contadina ha determinato Nella gavetta trovano posto il crudo e il cotto, il sala- nella parte superiore del barachin, di solito conteneva la secon- zioso di condivisione e di socializzazione. È “alla mensa da portata. La parte più capiente del barachin, di norma immersa profondi mutamenti anche nelle culture del cibo. to e il dolce, il fresco e il conservato, il caldo e il freddo, per gli stranieri di una fabbrica molto lontana” che Pri- nell’acqua degli scaldavivande, era destinata a custodire il primo I tempi e gli spazi che definivano il mangiare quoti- in un elaborato ed ordinato gioco sistemico e armonico mo Levi incontra Faussone, protagonista de La chiave piatto: la minestra o la pastasciutta. La gavetta era spesso contras- diano, costitutivi di riproduttivi ritmi di vita lenti e affet- di sapori, alla ricerca di una pratica nutritiva e di salute a stella ed è alla mensa di una fabbrica che Faussone segnata da medagliette, fili colorati, incisioni e altri segni che po- tivi, condivisi nell’ambito della famiglia estesa, vengono inconsapevolmente buona, pulita e giusta, una già avver- incontra una ragazza con cui inizia una storia “[...] e ho tessero renderla riconoscibile in mezzo a selve di altri manufatti del tita coscienza del cibo allora ancora da venire. drasticamente abbandonati per un ossimorico, solitario tutto simili. tastato la panca alla mia destra, e c’era la sua mano, e pasto collettivo, consumato sul posto di lavoro, in un non Un rapsodico progetto parodico complessivo ben io l’ho toccata con la mia, e la sua non se n’è andata e interrotto dialogo con la macchina, oggetto-soggetto, compreso in questa formularità espressiva generata al si lasciava carezzare come un gatto” (Levi, 1978, p. 43). cogente al costituirsi di un’attesa nuova classe dirigente. tempo delle gavette: il tempo del cibo consumato in fab- Le immagini e le interviste della mostra, che sono Per un lungo tempo il cibo che serve a riprodurre la brica veniva popolarmente definito la passà di cuciar. Gli state raccolte e inserite nei “Granai della Memoria”, forza-lavoro si porta da casa. La gavetta, la gamella, il operai, mangiando, creavano un orizzonte sonoro dode- vogliono essere un ricordo di un periodo non distan- barachin, che lo stesso operaio, oppure il padre, aveva cafonico, risultato dello scontro ritmato, metallo contro te da noi come intervallo temporale, ma molto diverso utilizzato per nutrirsi nelle due drammatiche guerre che metallo, gavetta-cucchiaio. Questo ritmo rappresenta- per coinvolgimento sociale e passione politica; voglio- hanno segnato il secolo breve, viene riciclato per nutri- va il trapasso del mezzogiorno, una sonorità che, come no anche suscitare una riflessione sull’oggi, sul tema re il tempo della fabbrica. Il barachin diventa, dunque, quella delle non dimenticate campane di campagna, de- dell’immigrazione dal Sud del mondo e della mesco- l’elemento identificativo dell’aristocrazia operaia, nella finiva il tempo del pasto e in qualche modo di un cibo lanza etnica di abitudini e saperi, un tema più che mai misura in cui questa figura rururbana riesce a introdurre che veniva consumato integralmente, sino a decretarne di attualità, che suscita aspettative e paure, che deve e a rifunzionalizzare, nella fabbrica, i saperi creativi propri un metaforico trapasso. essere affrontato con serietà e umanità, per trovare del- dell’oralità contadina, appresi di generazione in genera- Un trapasso che veniva accompagnato dal barbera, le risposte condivise. zione attraverso il gesto e la parola. identitario vino operaio che, a quei tempi, era maschio e La cultura operaia è, dunque, il frutto dell’incontro tra forte come lo era l’operaio che sudava la giornata e che,
saggi 8 9 oggi, si declina al femminile per riconoscergli gastrono- provvedere ad un degno funerale che, peraltro, non si mici toni nobili per flebili lavori e far dimenticare il di lui nega a nessuno, magari al suono della passà di cuciar trascorso proletario. che scusava da trapasso. Trascorre il tempo e la fabbrica fordista, che espropria sempre di più l’operaio delle sue evolutive, cognitive co- noscenze popolari, parcellizza anche il cibo, introducen- do una mensa sindacale priva di ogni gastronomica con- Barachin e porta uova in alluminio. Sul coperchio della gavetta, notazione affettiva e segnica. La produzione e la scelta vicino all’anellino, ci sono segni di colla, probabilmente servita a Davide Porporato per cui lavoravo perché noi ci ritenevamo operai specia- del cibo diventano una decisione estranea all’operaio, la fissare un cordino al quale attaccare un segnale utile a distinguerlo lizzati, una élite, e non ci ritenevamo assolutamente dei dagli altri contenitori. Etnografia del barachin barachin” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016a). divisione dei processi produttivi trascorre dal lavoro alla mensa ed espropria le saggezze culinarie della donna di Il barachin è un contenitore pratico e resistente, una Quando si giungeva in fabbrica, si mettevano i ba- casa. gavetta di metallo, utilizzato soprattutto per portarsi il rachin uno accanto all’altro in vasche con pochi centi- Forme e pratiche di storiche e sotterranee resistenze cibo in fabbrica e mangiare. I primi erano d’alluminio ma metri d’acqua. Prima della pausa per il pasto venivano verso una mensa tanto attesa sono il seguito, non ancora capitava che per l’usura si bucassero e così l’acqua dello riscaldati a bagnomaria, grazie a una resistenza elettrica risolto oggi, di un progetto di alimentazione autonomo scaldavivande penetrava all’interno, nella pasta o nella che portava l’acqua in temperatura. Se mancavano gli e soggettivo preferito a “quell’aria stantia della mensa minestra. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento scaldavivande, gli operai utilizzavano creativamente le aziendale” avvertita da Faussone, l’operaio montatore di si diffonde il barachin realizzato in acciaio inossidabile: fonti di calore presenti in officina: termosifoni, piastre Primo Levi che, con La chiave a stella (1978), dà vita ad è resistente agli urti e non arrugginisce. Lo si porta al elettriche, potenti lampade, forni, saldatrici a cannello, una creatività e originalità produttiva, il cibo di casa che, lavoro, in una borsa di finta pelle scura, accompagnato fuochi improvvisati diventavano altrettanti focolari per trasportato in altri più moderni quanto incerti contenito- da un pezzo di pane, talvolta un frutto, un fiaschetto di scaldare il cibo (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h). ri, cambia forma, ma la sostanza rimane, dimentico però vino e con le posate avvolte in un tovagliolo. A volte, tutta la fabbrica era calda come un forno e non della memoria della classe. I modelli più diffusi si compongono di due vaschette c’era il problema di scaldare la gavetta. Clelia Valfrè Una gastronomia, dunque, che ancora oggi segna il a pianta ovale o rettangolare con gli angoli smussati: ricorda: “Mia sorella è andata a lavorare in fabbrica a mezzogiorno di nuove attività, di una nuova fame di la- una, alta una dozzina di centimetri per la minestra o la quattordici anni a Orbassano in una tessitura. Durante voro, di nuove, precarie gavette che, più di un tempo, pasta; una, più bassa (circa cinque centimetri) per le pie- l’estate nello stabilimento vi erano trentacinque gradi devono essere riempite di cibo e di lavoro. tanze, fatte in modo da stare l’una nell’altra. Un sistema con un alto tasso d’umidità così ha sempre mangiato Così ci dicono, alla fine della fine, le autobiografie di a sgancio rapido o a vite assicura una buona chiusura. solo riso e latte, perché con il caldo che faceva almeno operai che con la gavetta hanno convissuto una Il barachin era così diffuso nelle fabbriche da divenire quella minestra poteva mangiarla fresca” (Ghiardo, Per- vita, raccolte per dare coeren- sinonimo di operaio: “è un barachin”, “fa il barachin”, civalle, Porporato, 2016c). za scientifica alla mostra e “lavora da barachin”, “è un barachin di Agnelli” sono Al suono della campanella che annunciava l’inizio disvelare un mondo che espressioni linguistiche che definiscono l’operaio e che della pausa, gli operai più fortunati correvano a lavarsi troppo presto abbia- ritroviamo ricorrenti nelle interviste realizzate soprattut- le mani, recuperavano la borsa e il cibo riscaldato, che mo voluto dimenticare. to tra coloro che hanno lavorato negli stabilimenti Fiat. mangiavano seduti a tavola, in appositi locali. Altri con- Abbiamo lasciato che Ad alcuni questa analogia non piaceva, era considerata sumavano il pasto sul posto di lavoro, accanto alla li- la classe operaia andas- offensiva. Come ricorda Adolfo Audenino operaio e sin- nea, in mezzo alle macchine: una condizione che segna se in paradiso (Grimaldi dacalista alla Beloit Italia di Pinerolo: “Il termine barachin il vissuto nel triangolo industriale (Bigatti, Zanisi, 2015). P., Grimaldi R., 1982) senza non veniva usato per definire il lavoratore dell’azienda Elio Zanoni riferisce che, nei primi anni Sessanta, nella
10 11 vetreria industriale di Settimo Torinese in cui lavorava I barachin, esteriormente, son tutti uguali. Sono gli ti: “mangiare insieme e aprire la propria gavetta diven- te. Per i giovani, figli del nuovo millennio, fino a qualche esisteva un locale per la consumazione dei pasti ma non operai a personalizzarli per riconoscerli. Alcuni incido- tava un momento, marginale ma non meno importante anno fa, questo oggetto era conosciuto solo attraverso era curato “non era appetibile per consumare il cibo” no sull’acciaio del coperchio il nome e il cognome o di altri, di affermazione della propria identità e, al tem- le storie di nonni e genitori. Oggi è diventato di nuovo cosicché i dipendenti preferivano trascorrere il tempo solo le iniziali, altri personalizzano il manico, rivesten- po stesso, di scambio: era uno dei rari momenti in cui si parte dell’orizzonte quotidiano anche grazie al cinema. della mensa in altri luoghi; nella bella stagione si sede- dolo con un filo metallico colorato o contrassegnando- usciva dalla stretta uniformità dettata dall’organizzazio- La gavetta, infatti, è la protagonista inanimata nell’ap- vano sui cassoni di legno depositati fuori dallo stabili- lo con una piccola medaglietta. La gavetta per molti ne della fabbrica e si mescolavano, insieme agli odori prezzato film Lunchbox diretto da Ritesh Batra (2013). mento (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016d). Questa operai è un oggetto che si carica di simbolici elementi caldi, le diverse culture, e non soltanto quelle alimen- La narrazione filmica ambientata nella caotica Mumbai condizione era molto diffusa tra gli operai delle boite, affettivi. Mario Gheddo, come gran parte degli inter- tari” (2003, pp. 122-123). Durante i pasti gli operai cu- ci dice che, oggi come ieri, il barachin non è solo un piccole aziende artigianali, ma la si riscontra anche nelle vistati, ha conservato il proprio barachin in acciaio, ma riosano nei barachin degli altri; dal cibo e dai profumi efficace strumento gastronomico, ma anche centro di narrazioni di coloro che, pur lavorando in grandi stabi- ora sul coperchio c’è il nome del nipote scritto con un imparano a riconoscere l’origine regionale e la fortuna relazioni capaci di far conoscere le persone, superare limenti industriali, erano impossibilitati a raggiungere, pennarello indelebile. L’ha dato in prestito per esser gastronomica. Il confronto poteva dare origine a invidie, distanze e distinzioni. Se nel film il fraintendimento nel- nel poco tempo a disposizione, le mense troppo distan- usato durante gli anni della scuola, e ora lo conserva ma spesso poteva essere anche motivo di consolazione. la consegna di un lunchbox avvia un fitto dialogo tra ti dal posto di lavoro. A tal proposito le parole di Angela tra i suoi oggetti della memoria. Anche Mario Cerato Si faceva conoscenza e si era accolti apprezzando il bac- una casalinga appassionata di cucina e un impiegato Frustagli sono utili a comprendere la situazione che si lo conserva gelosamente e ne parla così: “Il mio barac- calà alla vicentina, la soppressata calabra, gli spaghetti prossimo alla pensione, nella fabbrica lo scambio di era venuta a creare alla Fiat di Rivalta: “Nei primi anni chino è sempre stato solo quello. Gli ufficiali in pensio- alla marinara napoletani o il minestrone piemontese. barachin, più volte ricordato nell’indagine, e la condi- Settanta c’era gente che mangiava sulla linea perché ne hanno le spade appese al muro. Io ho il mio barac- La minestra di verdura con pasta e riso era il piatto dei visione del cibo hanno fatto degli operai, compagni. la mensa era troppo lontana. Così dopo il suono della chino, l’arma delle mie battaglie” (Ghiardo, Percivalle, piemontesi, i veneti preferivano la polenta e i meridio- campanella ci si lavava le mani, si recuperava il barachin, Porporato, 2016g). Emblematico è il caso di Cornelio nali pasta. Le vivande davano così il nome alle persone: si mangiava e ci si rilassava un po’” (Ghiardo, Percivalle, Porporato che, raggiunta l’età della pensione, affida il “«polentone», «maccheroni» erano gli appellativi con Porporato, 2016b). proprio barachin, compagno di una vita, a chi in quel cui erano riconosciuti, con tono ora scherzoso ora irri- Il tempo della pausa pranzo, normalmente di trenta momento più ne aveva bisogno: la sorella suora mis- dente, i veneti e i meridionali, ed erano usati per se- minuti, obbligava alla velocità: “Mezz’ora per mangiare. sionaria in Ghana. All’interno vi pone un breve messag- gnalare una differenza di origine che, a volte, diveniva Per troppi anni abbiamo mangiato in fretta. Abbiamo gio, scritto a mano su un cartoncino, che recita: “Na- pretesto per affermare superiorità e inferiorità sociali e perso per sempre il gusto di stare a tavola e assaporare zarena cara, di questo pentolino me ne sono servito regionali” (Margotti, 2003, p. 123). veramente il cibo”, così ricorda Clelia Valfrè (Ghiardo, io tanti anni andando al lavoro alla Fiat. Sarei lieto che Alcuni ricordano con nostalgia i barachin preparati Percivalle, Porporato, 2016c). Nella foga e nella confu- ora servisse a te nei tuoi innumerevoli spostamenti per dalla madre, l’unica a conoscere l’arte del dosare sa- sione, poteva succedere di prendere il cibo altrui, talvol- svariati lavori nella tua Missione”. L’oggetto giunge in pientemente l’umido e l’asciutto: due categorie che ta non si trovava più il proprio barachin o lo si trovava Africa alla metà degli anni Settanta ma, molto proba- occorre saper dominare per preparare un buon cibo, vuoto. Mario Cerato, assunto alla Fiat di Mirafiori nel bilmente non utilizzato, ritorna in Italia, alla morte della che sarà consumato dopo molte ore senza l’aggiunta 1962, ricorda che tutti i giorni nel refettorio si sentiva sorella, accompagnato dallo stesso messaggio. di condimenti. Non mancano, nelle storie raccolte, le pronunciare la domanda “Chi ha preso il mio baracchi- Nel barachin il cibo è quello della famiglia, sono le lamentele indirizzate a madri e mogli, accusate di riem- no? Eravamo in migliaia e tra confusione e rumore qual- madri e le mogli a prepararlo con ciò che è avanzato pire il contenitore sempre con la stessa minestra. In ogni cuno non ritrova più il proprio cibo” (Ghiardo, Percival- del pranzo o della cena. Si portano in fabbrica le ga- caso riempire il barachin per la donna era un rito quanto le, Porporato, 2016g). Poteva capitare, ricorda Salvatore stronomie del proprio paese e la pausa diventa così per l’uomo aprirlo e mangiare. Lodato operaio alla Fiat di Rivalta, che il contenitore il momento della scoperta dei sapori e dei saperi del- Oggi il barachin è tornato, seppur con nomi diversi, a sparisse “non solo per errore ma per una questione di l’‘altro’ che, soprattutto nella condivisione del pasto, viaggiare tra la casa e il posto di lavoro. Il suo ri-apparire Messaggio scritto da Cornelio Porporato che accompagna il fame” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k). s’impara a conoscere. Come sottolinea Marta Margot- è anche l’esito della crisi economica che segna il presen- barachin donato alla sorella missionaria in Ghana.
saggi 13 Luca Ghiardo che nelle grandi aziende. Presso la Eternit di Casale Monferrato la natura venefica delle lavorazioni e delle Cibo e lavoro operaio: una storia precaria materie prime si sovrappone all’assenza di locali men- Le città del triangolo industriale, negli anni del mi- sa, di ambienti protetti dalle fibre d’amianto e da com- racolo economico, subiscono una crescita demografica portamenti pericolosi come mangiare con gli stessi abi- senza precedenti. In Piemonte il fermento produttivo è ti utilizzati durante i turni di lavoro (Rossi, 2012). Nicola concentrato sia nelle piccole attività artigiane, le boite, Pondrano, in forza presso l’azienda casalese dal 1974, sia nelle grandi fabbriche e richiama masse di lavora- testimonia in modo esemplare tali carenze ricordando tori dalle campagne e dalle regioni italiane economi- un vecchio operaio, seduto su un sacco d’asbesto, che, camente depresse. Le piccole fabbriche sono ospitate sbocconcellando il pane del suo pranzo, gli disse: “Che in spazi talvolta sottodimensionati e sono quasi sempre cosa sei venuto a fare qui? Sei venuto a morire?” (Ghiar- sprovviste di locali di servizio, come le mense. Alle gran- do, Percivalle, 2016c) consapevole della tragedia che si di aziende aspirano soprattutto i nuovi operai, dove la sarebbe consumata da lì a qualche anno a causa della forza sindacale riesce a spuntare condizioni lavorative ripetuta e massiccia esposizione all’amianto. più favorevoli. Le regole aziendali talvolta vietano il consumo di Nelle piccole fabbriche gli operai mangiano in piedi alimenti negli orari di lavoro. Clelia Valfrè racconta: o seduti su materiali di risulta, accanto al macchinario o “Non si poteva parlare e non si poteva mangiare, ci nelle immediate vicinanze dell’azienda, tra la polvere e chiudevano dentro con una grata e non ci facevano gli odori della produzione. Mario Gheddo, classe 1931, uscire fino a mezzogiorno” (Ghiardo, Percivalle, Porpo- racconta che nella boita di Santhià, dove aveva iniziato rato, 2016c). Si escogitano allora strategie per ovviare a lavorare ancora giovanissimo, “si andava avanti a pa- alle necessità alimentari di chi si sveglia prima dell’alba nini” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h) per l’assen- per raggiungere, con lunghi e faticosi spostamenti, il za di un locale e di strumenti per scaldare le vivande. posto di lavoro. “A 14 anni, appena entrato in fabbri- Molti, per sfuggire agli odori e allo sporco della fabbri- ca, facevo il garzone. Ogni mattina raccoglievo dagli ca, preferiscono uscire e sopportare i rigori del freddo: operai gli ordini per i panini, mortadella o gorgonzola, “Eravamo abituati a mangiare dove capitava, la gente facevo finta di andare in bagno e poi via come il vento preferiva andare fuori a mangiare sui cassoni” dice Elio fino alla bottega più vicina”. Rientrato in fabbrica Bru- Zanoni (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016d). no Pesce, autore del racconto, distribuiva i panini agli L’inadeguatezza delle condizioni igienico sanitarie, Pausa sulla linea di montaggio Fiat legate al consumo dei pasti, è talvolta drammatica an- operai, che mangiavano con molta circospezione, arri- Mirafiori, maggio 1972, foto Mauro vando anche a nascondersi con il cibo sotto al banco Vallinotto.
14 15 di lavoro. “A volte ci si metteva anche più tempo per- e piccoli allevamenti di animali da cortile1. Gli orti, si- per essere riscaldati. Formaggi, salumi, olive e altri pre- ché venivi interrotto, allora mangiavi metà panino o un mili a tanti microcosmi, riproduzioni dei mondi agricoli parati che oggi definiremmo con l’espressione anglo- terzo per volta, c’erano mattinate più fortunate, altre in che avevano dovuto abbandonare, sono la fonte pri- fona “Street food” alimentavano piccoli meccanismi di cui eri costretto a fermarti più volte”. Il vicino di banco maria dei pasti consumati ogni giorno dai “nuovi ope- scambio e di condivisione tra colleghi. Gianfranco Za- rai” piemontesi. “Un tempo, una bella fetta di operai, baldano ricorda un collega, operaio siciliano, che ogni di Bruno ogni lunedì, reduce del ballo e dei festeggia- almeno di quelli che pranzavano con me, si portavano giorno portava un pacchetto di olive di differente qua- menti della domenica sera, affrontava una levataccia se- il pezzo di pollo del proprio cortile, l’insalata coltivata lità. “Io, abituato alla mia cultura alimentare piemonte- guita da un faticoso viaggio. Giunto sul posto di lavoro, nel proprio orto o in quello del vicino o del parente. se, ho scoperto un mondo di sapori nuovi” (Ghiardo, all’ora della colazione, “si metteva sotto al bancone a Il cibo a chilometro zero non era un predicato, era la Percivalle, Porporato, 2016e). Così fu per molti altri che, mangiare e si addormentava. Era quasi sistematico, tan- normalità. Tutti avevano il loro orto”. E anche quando attraverso piccoli meccanismi di dono e controdono to sonno aveva. Allora io dovevo insistere con i calci per l’omologazione dei gusti, portata dalle mense e dalla basati sul cibo, stavano creando i presupposti dell’in- svegliarlo!” (Ghiardo, Percivalle, 2016b). Mangiare fuori produzione industriale degli alimenti, lasciò al margine serimento dei nuovi arrivati nella comunità piemontese, dall’orario della mensa era considerato una perdita di gran parte di questo variegato mondo, vi era chi non un’integrazione che contribuì ad arricchire il paniere ali- Bottiglie in vetro per il vino. La cussa, zucca in piemontese, era uno tempo, un abuso a danno della produttività aziendale, si fidava, chi riteneva che gli unici piatti degni d’esse- mentare dei mercati e delle tavole torinesi. dei contenitori più arcaici e tradizionali per trasportare e custodire “un giorno – testimonia Mario Gheddo, operaio Fiat – re consumati fossero quelli amorevolmente cucinati È in questo plurale quadro di esperienze che al fresco, sino all’ora del pasto, il vino. dalle mani delle mogli con ingredienti dell’orto e del il consumo del pasto assume forme e modi che mentre lavoravo, un motorista vicino a me ogni tanto cortile: “non posso mangiare un coniglio allevato da valorizzano la creatività e l’arte di sapersi arrangiare. apriva il cassetto del suo banco e mangiava un morso di uno sconosciuto. Io i miei conigli so cosa mangiano, Utilizzando mezzi di fortuna, come assi e cavalletti, si panino. Arriva il suo caposquadra, spinge l’operaio da gli vado a tagliare l’erba fresca ogni giorno!” (Ghiardo, realizzano tavole improvvisate. Questi materiali, sottratti una parte e, aperto il cassetto, butta il panino in terra Percivalle, Porporato, 2016h) racconta Mario Gheddo a e strappati all’uso cui la produzione li ha destinati, dicendo ‘qui non si mangia. Si lavora!’” (Ghiardo, Perci- proposito di un suo compagno di lavoro. vengono nascosti per evitare che, come sostiene Nicola valle, Porporato, 2016h). Se sulle tavole dei refettori e delle mense i barachin Pondrano, “la tua tavola che ti eri conquistato [...] Il paniere alimentare dei piemontesi, dopo la Secon- la facevano da padroni non altrettanto accadeva sulla improvvisamente sparisca” (Ghiardo, Percivalle, 2016c). da Guerra Mondiale, costringe gli operai a una dieta linea, a chi consumava i pasti vicino alla postazione di Il bricolage tipico della cascina e della cucina contadi- povera di calorie e ripetitiva (Margotti, 2003). La politica lavoro. In questi contesti gli operai mangiavano, oltre na assume inedite forme e pratiche nella fabbrica del- ai panini, spesso imbottiti con salumi fatti in casa o la modernità, grazie alla perizia di quella che, di autarchia alimentare, sostenuta e promossa dal fasci- accompagnati da verdure, a seconda delle possibilità per un definito periodo storico, verrà indicata smo, non aveva riempito le pance vuote del popolo ita- come la nuova classe operaia. economiche e dei gusti, anche alimenti facili da ma- liano e spesso si era ridotta a mera propaganda (Zama- neggiare che non necessitassero di una fonte di calore gni, 1990; Preti, 2003). Solo a partire dagli anni Sessanta, i frutti della rivoluzione verde, innescata dalle teorie di 1 Nel 1917 nell’area comunale torinese gli orti occupavano 800.000 mq Norman Borlaug e sostenuta dal progresso tecnologi- (Anonimo, 1942), nel 1930 i mq arrivarono a 1.200.000, nell’immedia- to dopoguerra vengono occupati abusivamente oltre 2.500.000 metri co, riuscirono a invertire in modo radicale questa ten- quadri di terreno di proprietà comunale o demaniale, attorno ai quar- denza (Shiva, 1993). A Torino e nei distretti industriali tieri popolari periferici delle Vallette e della Falchera, lungo i fiumi, lun- del Piemonte le forti radici contadine di gran parte dei go le ferrovie e in seguito lungo la tangenziale (informazioni tratte dalla Il barachin o la pietanziera, le posate, e un fazzo- mostra Torino: agricoltura in città. Cent’anni di orti urbani in mostra. letto sul quale appoggiare il pane e una bottiglia lavoratori, giunti dalle zone rurali della regione, dal Sud Torino, Mausoleo della Bela Rosin, 23 marzo – 15 aprile 2016 cfr. http:// di vino erano fino agli anni Settanta gli elementi Italia e dal Veneto mantennero una fittissima rete di orti agricolturaincitta.to.it/images/pdf/agricolturaincitta.pdf). dominanti sulla tavola operaia in fabbrica.
saggi 16 17 Gianpaolo Fassino ecco perché il vecchio lo chiama il suo latte; ecco per- ché con un buon bicchiere di vino sullo stomaco, l’ope- Il consumo del vino nel mondo operaio raio può far a meno anche di qualche libbra di pane” Il vino nel mondo operaio era parte integrante e in- (Livi, 1868, pp. 17-18). L’antropologo Paolo Mantegaz- sostituibile della dieta alimentare: così come nel mondo za, nei medesimi anni, affermava che “Il vino è il più contadino, anche in fabbrica era infatti pratica abituale sano compagno del lavoro muscolare e dei voli della e diffusa l’accompagnare il consumo dei pasti con vini fantasia, e in ogni tempo fu il migliore amico dell’ope- robusti, che svolgevano non solo una funzione disse- raio e del poeta” (Mantegazza, 1872, p. 24). Circa un tante, ma anche e soprattutto nutritiva. Il vino assolveva trentennio più tardi, nell’ottobre 1897, il giornale “La all’interno della società italiana dell’Otto e Novecento Jereiatria”, diffuso fra i sacerdoti italiani, riconosceva al a una pluralità di funzioni: “era considerato – ha spie- vino la funzione di “un triste ma fatal sostituto del pane gato lo storico Paolo Sorcinelli – un rimedio per alcune insufficiente e degli altri digiuni ancor più dolorosi del- malattie e un ausilio nelle convalescenze, serviva per le classi povere” (Sorcinelli, 1998, p. 459). mangiare di meno e lavorare di più” fino a costituire un L’eccesso del consumo di alcol fra i lavoratori delle prezioso completamento energetico (Sorcinelli, 1998, bòite torinesi è documentato dalla diffusa pratica del pp. 458-460; 1999, pp. 149-153). lunediare, dello “sciopero del lunedì”, del fé ër lünes Nella storia del movimento operaio italiano, e tori- (fare il lunedì), cioè di astenersi dal lavoro il primo gior- nese in particolare, le forme e le pratiche di consumo no della settimana, per potersi riposare e riprendere del vino, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocen- dalle frequenti ubriacature domenicali (Grimaldi, 1993, to, lo descrivono come elemento di nutrizione e socia- pp. 62-64; Gera, 1998, pp. 123-125; Jona et al., 2008, lità (Levi, 1991, pp. 36-37). Il vino era presentato, dagli pp. 181-186). La frequentazione delle osterie nei giorni studiosi dell’epoca, come un alimento che dava ener- festivi, con il conseguente dilagare dell’alcolismo, era gia all’operaio ma allo stesso tempo, soprattutto se un problema sociale ampiamente diffuso tanto nelle consumato in eccesso, lo poteva distrarre dal proprio aree rurali quanto nelle città (Beck, 1997; cfr. Fassino, compito di lavoratore. Si tratta di un dibattito che ha 2015, p. 27). Per contrastare questo fenomeno in Pie- accompagnato per oltre un secolo la storia del mondo monte, fra Otto e Novecento, sorsero, per iniziativa operaio: “Nel vino – scriveva nel 1868 lo psichiatra to- del mondo cattolico, associazioni per “la santificazione scano Carlo Livi – non c’è da bere solamente, ma anche delle feste” e il “riposo festivo” (Lanzavecchia, 1985), da mangiare; vale a dire contiene anche delle sostanze nutrienti […]. Ecco perché il buon vino nutre e sostenta; mentre la nascita di numerosissime società di mutuo Servizio cucine dello Stabilimento Lingotto di Torino, preparazione minestre, 1943, Archivio e Centro Storico Fiat. soccorso contribuì a diffondere “nei ceti operai modelli
18 19 di comportamento ispirati alla morigeratezza, al rispar- si possono vuotare scavando dentro, poi si fanno es- rinesi. “Agli inizi degli anni Settanta – conferma con il il vino servì infatti agli operai torinesi anche per su- mio, all’importanza dell’istruzione e della competenza siccare e conservano il vino buono e fresco” (Ghiardo, proprio racconto Giuseppe Caristia, anch’egli operaio perare la durezza – non solo fisica, ma a tratti anche professionale come via del riscatto sociale, individua- Percivalle, Porporato, 2016h). Il consumo di vino non alla Fiat di Rivalta – il vino era vietato dentro all’azienda. esistenziale – del lavoro in fabbrica: le e di classe” (Jona et al., 2008, p. 186; cfr. Zanlungo, fu costante, ma subì un’evoluzione decrescente, se- Però la gente il vino se lo portava, in particolar modo 1997, pp. 154-158). guendo il variare dei gusti e degli stili di consumo più gli anziani, a volte in una piccola botte, quella che noi Trista la vita, sempre gumè, A partire da questo complesso quadro storico le te- generali che coinvolsero via via la società italiana nel in dialetto siciliano chiamiamo il carrateddu (caratello)” travaiè sempre e mai gnun piè. stimonianze raccolte nell’ambito della ricerca Fame di corso degli anni1. A partire già dal 1955 all’interno del- (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016f). Il divieto di con- Ma son l’è niente, s’a iè d’afè lavoro confermano come il consumo del vino in fabbri- la Fiat ebbe inizio la distribuzione di “bevande analco- sumare vino nelle fabbriche era soprattutto legato ai piand quaich sborgne tut fa passè2. ca durante la pausa per il pasto sia rimasto, per gran liche refrigeranti” (Margotti, 2003, pp. 125, 135), una rischi che un eccessivo consumo di alcol poteva com- parte del Novecento, parte costitutiva e irrinunciabile pratica presto diffusasi anche in molte altre aziende. portare in termini di sicurezza, soprattutto per quelle Complessivamente il vino, tanto dentro come fuori della pratica gastronomica dei lavoratori. Mentre il cibo “Sui tavoli della mensa – racconta Mario Cerato, ope- maestranze che erano impegnate in mansioni pericolo- la fabbrica, costituiva non solo un prezioso corrobo- del barachin, monoporzione, non si prestava facilmente raio Fiat – c’erano delle file di bottiglioni che era uno se che richiedevano particolare cautela e prontezza di rante e una fonte d’ebbrezza, ma rappresentava anche ad essere scambiato e condiviso con i colleghi, il vino spettacolo! Trent’anni dopo, non c’era più una botti- riflessi (Margotti, 2003, pp. 124, 133), come ad esempio un profondo tratto identitario che accompagnò il tra- poteva più agevolmente essere assaggiato e scambia- glia di vino, solo bottiglie d’acqua: guardando i tavoli il lavoro alle presse: “Il vino – testimonia Roberto Gre- passo dal mondo contadino – in cui la gran parte dei to con gli altri operai: “In mensa – narra Salvatore Lo- ricordavo quei periodi quando c’era una ‘giungla’ di co, dapprima operaio alla Fiat di Rivalta, poi alla Riber lavoratori dell’industria del boom economico erano dato, operaio alla Fiat di Rivalta, originario della Sicilia bottiglioni. Molti quando uscivano dalla mensa ave- di Beinasco – non mancava quasi mai. Il problema è nati e cresciuti – a quello urbano e industriale, facendo – capitava che ognuno portasse il proprio tipo di vino, che alcuni bevevano anche se c’era scritto che non si quotidianamente entrare, fra le linee di montaggio, i vano problemi a fare le scale perché andavano fuori dal Merlot del Veneto al Cannonau della Sardegna o poteva bere, specialmente quando si lavorava sotto le colori e gli aromi dei territori vitivinicoli italiani e, insie- misura, e continuavano a bere in officina: difficilmente al Cirò della Calabria; io stesso cercavo di inserirmi presse, ed era pericoloso. Purtroppo sono successi an- me con essi, la magia nutritiva e simbolica che il vino c’era reparto in cui non vi fosse qualche bottiglione al socialmente gustando il cibo e i vini piemontesi: c’era che dei guai sotto le presse, proprio per quel motivo, significava. fresco” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016g). questo scambio, erano esperienze gastronomiche plu- Il passaggio dal consumo del vino a quello dell’ac- ne approfittavano…, se il quartino non gli bastava… gli ralistiche” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k). “Mi qua e delle bevande analcoliche nelle fabbriche fu anziani avevano il pintone di vino, che poi si divideva ricordo – racconta Elio Zanoni, operaio in una vetreria un fenomeno che, seppur graduale, fu consistente e un po’ per ciascuno, anche al pomeriggio ne approfit- a Settimo Torinese – che c’era un abruzzese che veni- venne ampiamente percepito dagli stessi lavoratori: tavano, era irrinunciabile, non si doveva fare, però si fa- va sempre con dei bottiglioni di Verdicchio” (Ghiardo, “Il vino – racconta ancora Mario Gheddo – era molto ceva, non si pensava ai rischi che si correvano” (Ghiar- Percivalle, Porporato, 2016d). Gli operai, insieme alle consumato, se penso agli anni Cinquanta e Sessan- do, Percivalle, Porporato, 2016i). tradizioni gastronomiche delle proprie regioni d’origi- ta, dopo sempre meno, perché hanno incominciato a Il vino della quotidianità, bevanda caratterizzante ne, portavano quindi con sé nella fabbrica i vini del pro- vendere nei locali delle mense la Coca Cola, la Fanta, il pasto operaio, si presenta quindi, a fianco del bara- prio territorio di nascita, ed essi diventavano elemento caffè e quant’altro” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, chin, come elemento di coesione e integrazione fra i di condivisione e di conoscenza reciproca. 2016h). Si tratta di una trasformazione degli stili di vita lavoratori, mentre i contenitori multiformi in cui il vino Non solo i vini, ma anche i contenitori, denunciava- raggiungeva la fabbrica (caratelli, pintoni, zucche, bot- e di consumo non priva di contraddizioni, che nume- no le appartenenze regionali e le differenti pratiche di tigliette di varia foggia, ecc.) testimoniano la creatività rosi testimoni hanno vissuto direttamente all’interno conservazione e consumo del vino. “Una bella percen- con cui i contadini italiani, inurbati e fattisi operai, sep- della propria esperienza lavorativa nelle fabbriche to- tuale di operai – ricorda Mario Gheddo, operaio Fiat, pero organizzare il proprio pasto feriale. Il vino quo- 2 Gribaudi Rossi, 1978, p. 197; Jona et al., 2008, p. 188 (“Triste è la riferendosi agli anni Sessanta e Settanta – si portava il 1 Il consumo annuo pro capite di vino in Italia fu di 97,4 litri nel 1951- tidiano contribuì a rendere meno pesante il faticoso vita, sempre a sgobbare, / lavorare sempre senza prendere mai nessun vino in fabbrica con quella che in piemontese si chiama 1955, saliti a 113 nel 1965-1969, quantità via via scesa a 111 litri nel lavoro dell’operaio. Come narrato dal canto Progress [soldo]. / Ma questo non è nulla, se c’è da fare / prendendo qualche la cossa, la zucca: ci sono delle zucche particolari che 1971-1973, 90,6 nel 1981-1983 e 60,5 nel 1992 (Zamagni, 1998, p. 189). industrial: Turin ch’a bougia di Antonio Dughera (1907) ubriacatura tutto passa”).
saggi 20 21 Matteo Varia Le mogli e le madri compaiono nelle narrazioni raccolte come donne capaci di preparare un cibo Riempire il barachin buono da pensare e da mangiare anche il giorno L’operaio, se non lavora, non mangia. Argomento dopo (Harris, 1990). Deve essere cotto e condito al che ora si vuole rovesciare, come si fa con la pento- punto giusto, confezionato in modo che abbia biso- la, per scolare la pasta quando è cotta. L’operaio per gno soltanto di calore per tornare appetitoso. Si trat- lavorare deve mangiare. È un uomo, per definizione ta, quindi, di aggiungere prima ciò che la seconda soggetto a una legge di natura dura quanto la fame. ‘selvatica cottura’ in fabbrica inevitabilmente toglie. Il Nella ricerca si è voluto prestare ascolto ai racconti saper fare delle donne, gli aggiustamenti creativi del- di vita di operai e operaie raccolti nei “Granai del- le pratiche alimentari, sono, dunque, conoscenze che la Memoria” per mostrare come il cibo che l’operaio preservano la qualità del cibo e il suo valore affettivo conserva e consuma nel barachin possa essere con- (Grimaldi, 2012). siderato il prodotto di una cucina insieme domestica Dopo il passaggio dei barachin nelle vivandiere, e ‘selvaggia’. alcuni cibi, come la carne asciutta o le zuppe dense, Il cibo nel barachin viaggia, è nutrimento, memo- diventano immangiabili. Le madri e mogli degli ope- ria di un tempo altro da quello della fabbrica, di un rai riescono ad adattare molti cibi della tradizione: altro ritmo, quello delle campagne, delle cucine del- le minestre le tirano più brodose, le paste vengono le donne, che, compresso nei ritmi quantitativi della fatte navigare nei sughi, carni e pesci sono immer- produzione industriale, è ancora presente e tangibile. si in condimenti ricchi e saporiti. Le donne del Nord Il tempo e lo spazio del viaggio e del lavoro espon- preparano soprattutto minestre di verdura, mentre gono la gavetta al caldo e al freddo. La necessità del quelle del Sud si orientano maggiormente sulla pa- trasporto aggiunge alla preparazione dei cibi un ele- sta asciutta, al sugo di pomodoro. È “l’avanzata del mento aleatorio che è commisurato alla distanza dal- Mediterraneo” che, come sappiamo, ha contribuito le mura domestiche. Nel passaggio dall’interno all’e- al farsi della gastronomia italiana (Capatti, Montanari, sterno, dal domestico al ‘selvatico’, si confida, per la 2006). “Il contenuto del baracchino esprimeva anche conservazione della bontà del pasto, nell’esperienza l’esistenza di legami familiari in una città che spesso di chi l’ha preparato e nella buona sorte. L’operaio non era quella di origine: la maggior cura nella pre- che può godere di un buon pasto è fortunato; una parazione dei pasti portati sul lavoro era sovente il condizione che ha come premessa la sapiente arte gastronomica di una donna. segno della presenza di madri, sorelle o mogli che Operai nella mensa aziendale Fiat; tratto dal documentario di Cinefiat: “Quel primo giorno in fabbrica”, 1972, Archivio e Centro Storico Fiat. si preoccupavano delle pietanze e dedicavano par-
saggi 22 23 te del loro tempo a questa incombenza” (Margotti, a prepararsi i cibi da sole, tuttavia era raro che pre- 2003). parassero cibi ricchi o grassi, la cucina che l’operaia Il cibo che riempie le gavette è di solito ciò che pensava per sé era molto diversa da quella che le avanza del pasto casalingo. Le donne cucinano por- casalinghe offrivano al marito. Alcune operaie erano zioni più abbondanti e mettono da parte la razione anche mogli e madri di numerosi figli e preparare destinata alla fabbrica. In alcuni casi questa proget- per sé il barachin era l’ultimo pensiero dopo aver tualità ha come esito un menù settimanale più o provveduto agli altri (Ghiardo, Percivalle, Porporato, meno vario. Mario Cerato racconta che quando era 2016b). Michele Filippo Fontefrancesco do in relazione dialettica queste diverse risorse. un giovane operaio il cibo consumato in fabbrica lo Gli operai pendolari che quotidianamente viag- Le fonti orali sono state raccolte seguendo la me- La metodologia della ricerca todologia dei “Granai della Memoria” (Grimaldi, Por- preparava la madre: “qualsiasi cosa preparasse lo giano dai paesi alla città portano in fabbrica cibi mangiavo”. Altri, meno fortunati - come un suo com- confezionati con materie prime di prossimità: il pollo Oggi il cibo entra nei luoghi e nei momenti del porato, 2012). È stata pertanto condotta una ricerca pagno di lavoro - si lamentavano delle mogli: “Capi- allevato nel proprio cortile, oppure le verdure raccol- lavoro legandosi a scatole di plastica, imballaggi co- etnografica mirata a raccogliere le storie di vita di tava che aprisse il barachin e dicesse, oggi si mangia te nell’orto. Altri, come accadeva ai giovani emigrati, lorati, forni a microonde, macchinette automatiche, chi ha vissuto direttamente l’industria piemontese. Il minestrina, lasciava allora cadere il cucchiaio nel ba- spesso non disponevano neppure di una cucina vera self-service: forme e pratiche gastronomiche che racconto autobiografico è un particolare esercizio di rachin che rimaneva conficcato dritto, tanto la zuppa e propria, adatta a preparare uno spezzatino, una descrivono un paesaggio diverso, lontano da quello memoria che porta l’individuo a collocare se stesso era densa per essere stata riscaldata. Diceva: quante pasta o una minestra di verdure. In questa condizio- delle grandi mense e delle gavette di latta che hanno all’interno dello spazio e del tempo collettivo della volte glielo devo dire a mia moglie!” (Ghiardo, Perci- ne, l’unica gastronomia praticabile, che garantisce contraddistinto le realtà manifatturiere del secondo comunità, riproducendo al presente un affresco vivo valle, Porporato, 2016g). Un altro testimone racconta una buona tenuta fino al momento del pranzo, è un Novecento. Il mondo della fabbrica d’allora, all’oc- di ricordi e conoscenze (Bertaux, 1999). Chiedendo che, prima del matrimonio era la madre a preparare uovo sodo con un contorno di verdure lesse. chio del presente, appare attinente ad un altro se- agli intervistati di raccontare le loro esperienze legate la gavetta, mentre da sposato aveva iniziato a occu- Mario Gheddo ricorda che guardare nei barachin colo, ad un altro millennio, per molti versi non solo al cibo in fabbrica, la ricerca ha permesso di approfon- parsene da solo: sceglieva i cibi che gli piacevano di voleva dire scoprire la povertà della gente, si vedeva cronologicamente. dire, con inedito dettaglio, le forme e le pratiche del- più, cibi buoni, cucinati dalla moglie, umidi e sapori- che mentre alcuni pranzavano con la pasta al ragù, La memoria di quel mondo, seppure distante, non la gastronomia operaia dagli anni della ricostruzione ti, ‘buoni da puciare’ (Ghiardo, Percivalle, Porporato, con la carne, con la verdura, con la frutta altri inve- è andata persa. Essa affiora negli oggetti, nelle foto, all’avvento delle grandi mense industriali, oggetto di 2016a). Mario Gheddo racconta: “A casa mia chi cu- ce avevano tanto poco da non potersi dire (Ghiardo, nella voce di chi visse la fabbrica in prima persona. rivendicazione sindacale a partire degli anni Sessan- cina è mia moglie, ma il barachin me lo sono sempre Percivalle, Porporato, 2016h). La ruota della fortuna, Questi frammenti tratteggiano il profilo di una socie- ta, descrivendo gli ingredienti, le ricette, gli alimenti, preparato io così come mi sono sempre preparato lo la bizzarra giostra che incrocia gli alterni destini de- tà in trasformazione mettendo in luce le forme e le la socialità dei lavoratori. Queste autobiografie sono zaino” (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016h). Salva- gli uomini riproduce nelle fabbriche e nei barachin il pratiche del cibo che la distinguevano. La ricerca, che state raccolte e rese liberamente accessibili online in tore Lodato ricorda soprattutto il pasto consumato il secolare contrasto tra fame e abbondanza. è stata alla base della mostra “Fame di Lavoro. Storie un archivio digitale consultabile all’indirizzo internet: lunedì. La madre riempiva il barachin con gli avanzi di gastronomie operaie”, ha voluto raccogliere questi www.granaidellamemoria.it. del pranzo domenicale: agnolotti alla piemontese e frammenti di memoria per narrare al presente le sto- A fianco di queste fonti orali, l’indagine è stata un po’ d’arrosto erano i cibi festivi che marcavano il rie, le caratteristiche della gastronomia operaia così completata attraverso un lavoro di ricerca d’archivio primo giorno di lavoro della settimana e portavano in come s’è sviluppata a partire dal secondo dopoguer- mirato all’analisi del patrimonio fotografico attestan- fabbrica un controritmo gastronomico che dilatava il ra, negli anni del boom economico. te la condizione operaia nel secondo Novecento. In tempo della festa e rendeva la giornata meno dura Per far ciò, è stata condotta un’indagine storica e particolare sono stati esplorati archivi di aziende, sin- (Ghiardo, Percivalle, Porporato, 2016k). antropologica che ha guardato tanto alle esperienze dacati, partiti politici e professionisti che hanno ritrat- Le operaie, racconta Clelia Valfré, potevano appro- ed ai ricordi di testimoni del mondo della fabbrica to e raccontato il mondo interno alla fabbrica, investi- fittare della cucina della madre, ma presto iniziavano quanto alle fonti scritte e di cultura materiale, ponen- gando la socialità e la materialità della gastronomia
Puoi anche leggere