Speech (l'odio online) - Smart Marketing

Pagina creata da Salvatore Cappelli
 
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Speech (l'odio online) - Smart Marketing
Meta dà il via libera al linguaggio della
guerra sui social: riflessioni sull’hate
speech (l’odio online).
“A causa dell’invasione russa dell’Ucraina, siamo tolleranti verso forme di espressione politica che
normalmente violerebbero le nostre regole sui discorsi violenti” ha esordito così pochi giorni fa
all’Agence France Presse, Andy Stone, capo delle comunicazioni di Meta, legittimando, di fatto,
l’hate speech.

La casa madre dei social network mondiali ha specificato che, la deroga, è limitata al drammatico
periodo, ed è riferibile solo a commenti relativi agli invasori russi, cioè i militari, Putin (Presidente
della Russia), e Lukashenko (Presidente della Bielorussia), e non ai cittadini civili russi. La facoltà di
inneggiare all’odio sarebbe inoltre possibile solo ai residenti in Armenia, Azerbaijan, Estonia,
Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina, perché, viene
specificato, la minaccia non riguarda altri.

Immediata è stata la risposta da parte delle istituzioni russe, “Chiediamo alle autorità di fermare le
attività estremiste di Meta e prendere misure per portare i responsabili di fronte alla giustizia”, si
legge in un tweet dell’ambasciata russa a Washington, “gli utenti di Facebook e Instagram non
hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri della verità e di
mettere le nazioni l’una contro l’altra”.

Il gruppo Meta, di fronte al polverone suscitato, ha successivamente dichiarato, tramite le parole del
presidente degli affari globali Nick Clegg, “[…] non permettiamo le chiamate per assassinare un
capo di stato […] al fine di rimuovere qualsiasi ambiguità sulla nostra posizione, stiamo
ulteriormente restringendo la nostra guida per rendere esplicito che non stiamo consentendo le
chiamate per la morte di un capo di stato sulle nostre piattaforme”.

Cos’è l’hate speech
Con il termine di origine inglese, coniato negli anni ’20, si intendono tutti quei discorsi di odio,
commenti offensivi, contenuti violenti e insulti che circolano sui social network.

Un fenomeno assai diffuso, riconosciuto come uno dei mali della società contemporanea, il discorso
dell’odio, infatti, “mina il valore democratico della discussione e dei processi partecipativi,
legittimando, contemporaneamente, modelli comportamentali fondati sulla cultura della
discriminazione” (S. Bentivegna, R. Rega, I discorsi d’odio online in una prospettiva comunicativa:
un’agenda per la ricerca, in Mediascapes Journal, 16/2020).

                     Scopri il nuovo numero: “Social War”
  Con le nuove tecnologie le guerre sono diventate globali, prima ancora che mondiali (e per
  fortuna!). Nella sfera informativa, iperconnessa e pervasiva, siamo tutti protagonisti. Siamo tutti
  chiamati in causa.

Un male che da tempo, la società stessa, cerca di curare, con l’obiettivo di mitigare l’effetto dei
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social che, da strumento democratico, ha finito per essere un’arma di discriminazione, facendo leva
sull’anonimato.

Tra i portavoce di questa missione, in Italia, c’è l’on. Liliana Segre, una donna che l’odio lo ha
conosciuto fin troppo bene, che fortemente ha promosso l’istituzione della Commissione
Straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione
all’odio e alla violenza, di cui è Presidentessa, che ha il compito di vigilare sulle forme di odio
verbale nell’ambiente digitale. A dare sostegno al lavoro della Commissione si è adoperata anche
Amnesty International, con le Rete Nazionale per il contrasto ai fenomeni dell’odio, con sede a
Roma.

Analisi di un problema radicato
I primi studi relativi al fenomeno risalgono alla fine degli anni ’90, in cui emerge chiaramente il fatto
che alla comunicazione online non ci siano limiti, si diffonde velocemente su larga scala e risulta
pressoché impossibile difendersi.

I social network hanno modificato il modo di parlare, rendendo illimitata una libertà di espressione
che, probabilmente, in precedenza, non si esprimeva a tali massimi livelli. Si innesca quello che,
nell’ambito delle teorie della comunicazione, viene definita “spirale del silenzio”, secondo la quale,
se ho la percezione che la maggior parte dell’opinione pubblica la pensi come me, sono disposto ad
esprimere la mia intolleranza. Si realizza quello che il filosofo coreano Byung-Chul Han, ha definito
“sciame digitale”, un brusio virtuale che agita la rete, spingendo le persone a condividere
messaggi d’odio. Lo sciame viene aumentato a sua volta dall’”effetto filter bubble”, in quanto gli
algoritmi del web presenteranno sempre più contenuti violenti a chi ne visualizza, innescando così
un circolo vizioso che ci riporta al nostro inizio, cioè ad una spirale del silenzio senza fine.

A propria difesa, chi adotta questo atteggiamento sul web, si appella all’art. 10 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, relativo alla libertà d’opinione, quasi a trovare una giustificazione
all’odio espresso.

Ma c’è veramente una giustificazione all’odio?
È questa la domanda che, di fronte all’affermazione in controtendenza di Meta, ci domandiamo.
Senza entrare nel gioco delle parti, è giusto che il “cattivo” venga offeso, e apostrofato
pesantemente?

Ancora una volta, sono le parole dell’on. Segre a venirci in aiuto e a farci riflettere: “Se si
ammettono le parole dell’odio nel contesto pubblico, se si accoglie l’hate speech nella ritualità del
quotidiano, si legittimano rapporti imbarbariti. Io l’odio l’ho visto. L’ho sofferto. E so dove può
portare”.

Si sta lavorando tanto per sottolineare l’importanza del linguaggio e della forma espositiva. Già negli
anni ’60, il secondo assioma della comunicazione di P. Watzlawick, sottolineava l’importanza
della distinzione tra il contenuto del messaggio e la relazione, cioè la forma con la quale il
contenuto stesso viene esplicitato, a cui prestare particolare attenzione perché spesso fonte di
incomprensioni e litigi.

Se la deroga di Meta fosse vera, sarebbe un po’ come dire che “il fine giustifica i mezzi”
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parafrasando Machiavelli, quasi a significare che, se il motivo è serio puoi farlo, e allora tutti
potrebbero sostenere di avere un motivo importante per offendere qualcuno altro, ci sarà sempre
una situazione delicata che autorizzerebbe tale odio.

E se riflettiamo, credo si possa affermare con certezza che, se la guerra nasce dall’odio, forse non ha
senso rispondere con altro odio.

Ti è piaciuto? Hai qualche riflessione da condividere? Fammelo sapere nei
commenti. Rispondo sempre.
Rimaniamo in contatto: www.linkedin.com/in/ivanzorico

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Quando il marketing parla d’amore!
“Love is in the air, everywhere I look around”, canta John Paul Young (eh sì, lo so che hai letto
canticchiando!), l’amore è ovunque e di questo si è accorto anche il settore del marketing.

Anche se, apparentemente, potrebbe non sembrare, l’amore e il marketing rappresentano un
binomio vincente, d’altronde “al tocco dell’amore, tutti diventano poeti” sosteneva Platone, e così,
anche le campagne pubblicitarie addolciscono la comunicazione in vista del giorno più romantico
dell’anno.

Non a caso il 14 febbraio si celebra quella che ormai è considerata una delle maggiori feste
commerciali, per questo snobbata da molti, ma non da chi fa marketing. Chi lavora nel settore, o ne
è appassionato, non può fare a meno di notare la creatività che i brand sviluppano proprio in questa
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occasione, e di quanto questa sia andata modificandosi nel tempo.

Così come in qualsiasi storia d’amore che si rispetti, l’azienda deve corteggiare, suscitare emozioni e
far innamorare il cliente, cercando di mantenere duratura la relazione di fedeltà.

Se vuoi vendere emoziona
L’emozione è proprio la leva del marketing emozionale, filone di studi recenti, che, appunto,
stimola l’emotività del cliente per stabilire una connessione con esso, influenzandone le decisioni di
acquisto. Si tratta di una comunicazione che punta a stimolare sentimenti già provati, che rivivono
nella nostra memoria, suscitando la conseguente empatia, che a sua volta consente di generare
quella fedeltà che si rispecchia negli acquisti. Il consumatore non è più considerato, dunque, un
oggetto con comportamenti razionali bensì un soggetto con processi cognitivi emotivi.

               Scopri il nuovo numero: “Marketing in love”
   La festa degli innamorati è da sempre capace di catalizzare l’attenzione delle persone; attenzione
   che i brand cavalcano (a volte) sapientemente sfruttando le peculiarità del marketing dell’amore.
      Attraverso il nostro particolare punto di vista approfondiremo il marketing dei sentimenti e
     dell’amore. E chissà quanto, in questo particolare momento storico, ne avvertiamo il bisogno!

Il marketing emozionale, affermatosi negli anni ’90, in realtà, prende spunto dai precedenti studi di
marketing esperenziale, coniato dallo studioso B. H. Schmitt, professore presso la Columbia
University, che descrive il consumo come “un’esperienza memorabile che il cliente deve
sperimentare, tale da superare le sue aspettative”.

La potenzialità del marketing emozionale, che si esprime al massimo sui social attraverso le
emoticons, è in grado di mettere in secondo piano il prezzo, privilegiando il sentimento, che diventa
l’elemento principale che spinge all’acquisto.

Cosa è accaduto nel San Valentino appena trascorso?
La festa degli innamorati è un momento importante per gli affari di un brand, si potrebbe dire che
anche l’amore è un affare di soldi! Rappresenta infatti un momento per mostrare eventuali novità da
lanciare sul mercato o per rinfrescare la memoria su articoli già presenti, indipendentemente dalla
parola “amore”.

Cosa vuol dire?
Dando un’occhiata alle campagne pubblicitarie relative al San Valentino appena trascorso, si può
notare che per amore non si intende solo quello nato dalla freccia scoccata da Cupido, relativo al
rapporto di coppia, ma ha avuto un significato più ampio, spesso legato al rispetto per sé stessi e al
benessere della collettività.

Vediamo qualche esempio:

Durex punta sull’inclusività
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La festa
degli
innamorati
è anche un
momento
per
lanciare
messaggi
importanti,
come ha
fatto     la
nota casa
produttrice
di
preservativi
, legando,
per
l’occasione,
la propria
immagine
al cantante
Antonio
Aiello, per
lanciare un
annuncio di
inclusività,
“l’amore
non ha genere”, e sottolineare l’importanza della prevenzione dalle malattie sessualmente
trasmissibili. Il video, lanciato su TikTok, evidenzia la volontà dell’azienda nella promozione di una
sessualità consapevole tra la Generazione Z.

Cortilia e l’amore per l’ambiente
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Geniale l’hashtag del brand Cortilia,
e-commerce              alimentare,
#bastaRelazioniTossiche, richiamando
l’espressione tipicamente usata per
indicare alcune tipologie di rapporti di
coppia. Il consiglio della campagna è
di abbandonare le cattive abitudini in
fatto di spesa, come l’acquisto di
packaging di plastica per frutta e
verdura, o di prodotti di cui non si
conosce l’origine certificata, che
potrebbero risultare tossiche per
l’ambiente e le persone, per entrare in
una nuova relazione, quella con i
prodotti sostenibili del brand, di cui
innamorarsi, come recita il
comunicato stampa.

Anlaids, amati tu

“Amati
tu che
gli altri
hanno
da fare”
è      lo
slogan
della
pubblicit
à per il
San
Valentin
o 2022
di
Anlaids,
“Abbiam
o bisogno di raccontare una storia diversa, in cui amarsi significa anche fare il test dell’HIV, sia
quando si è in coppia sia quando si è single. Una storia in cui amarsi diventa sinonimo di conoscenza
del proprio stato con l’aiuto di un gesto molto semplice”, recita il comunicato stampa di Anlaids
Onlus.

C’è anche chi, invece, ha cercato di sdrammatizzare il concetto del romanticismo
attraverso l’ironia, giocando con le parole, oltre che con il significato della festa.
McDonalds e la cinica ironia
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“
Aspet
ta a
scaric
are il
tuo
partn
er,
scaric
a
prima
l’app
McDo
nald’s
“, è
l’invit
o
della
camp
agna digitale dell’azienda, ideata da Leo Burnett, e curata da OMD. Stai pensando di lasciare il
partner? Fallo, ma dopo aver scaricato l’app che permette di usufruire degli sconti di coppia previsti
per la festa degli innamorati. Un messaggio “irriverente” come l’ha definito l’agenzia stessa che lo
ha ideato, «in ogni coppia si litiga fino a far pensare: “ora lo scarico”. McDonald’s invita a non
farlo subito, ma aspettare che sia passato San Valentino scoprendo tutte le offerte in app». Il
messaggio viene poi addolcito in chiusura dello spot, con l’hashtag insieme tutto ha più gusto,
invitando quindi a superare i litigi e le incomprensioni d’amore per passare la festa in armonia
mangiando i prodotti del brand.

Non solo fiori e cioccolatini, alcune aziende, infatti, hanno ben pensato di
adeguare i consueti prodotti alla festa, proponendoli come alternative ai classici
regali. Oggetti fuori dagli schemi che, con una buona comunicazione, vengono
adeguati ad una ricorrenza particolare.
Nintendo propone un regalo di coppia
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L
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p
o
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z
z
a
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d
all’agenzia di comunicazione Together, che da due anni si occupa delle campagne e della gestione
dei canali social dell’azienda Nintendo, suggerisce di ovviare alle difficoltà della ricerca del regalo
perfetto, proponendone uno di coppia, ossia la console Nintendo Switch, per giocare insieme, a
sottolineare che il miglior regalo che si possa fare è dedicare del tempo di qualità all’altro, (…e
soddisfare anche sé stesso!).

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Vesti alla moda con il second-hand: oggi lo
shopping passa dalle app dell'usato, con
un occhio all’ambiente.
Sostenibile è la caratteristica che più si richiede ad un prodotto nel mercato
contemporaneo, anche nel settore della moda, accusato di essere uno dei più inquinanti nelle
economie industrializzate.

La moda è infatti guidata da una logica “usa e getta”, che troppo frequentemente influisce
negativamente sull’inquinamento globale e sullo sfruttamento dei lavoratori. Preoccupati di seguire
il fast fashion, (che propone più collezioni anche nello stesso mese, spesso low cost), i consumatori si
buttano in acquisti compulsivi, dettati da ritmi veloci, gettando via troppo velocemente vestiti ancora
in buono stato.

Diciamolo con sincerità, forse siamo tutti un po’ Carry Bradshaw (nota protagonista della
celeberrima serie Sex and the City), quando pronuncia “adoro il mio denaro esattamente lì dove
posso vederlo…appeso nel mio guardaroba”.

I social media, proponendo innumerevoli tendenze, influiscono non poco su questa filosofia,
enfatizzando, tra l’altro, il concetto espresso dal sociologo tedesco Georg Simmel nel 1910, nel libro
“La Moda”, “[…] il vero fascino, stimolante e piccante della moda, sta nel contrasto fra la sua
diffusione ampia e omnicomprensiva, e la sua rapida, fondamentale caducità […] appaga il bisogno
di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi”.

Il ruolo del consumatore a favore della sostenibilità
Se è vero che il consumatore dell’attuale mercato è voglioso di essere “alla moda”, e propenso
all’acquisto veloce, allo stesso tempo, è anche consapevole della necessità di acquistare con
consapevolezza.

Pur volendo fare shopping, appunto, come Carry Bradshaw, non possiamo negare di essere consci
delle difficoltà che il nostro pianeta sta vivendo. È difficile non chiedersi: perché un capo costa così
poco? Che materiale è? Chi lo ha cucito?

I clienti sono più attenti al rapporto prezzo-qualità, richiedono garanzie sulla qualità del
prodotto e dei materiali utilizzati, e un comportamento responsabile dell’azienda, tracciabile
lungo l’intera filiera di produzione e distribuzione, riguardo alle emissioni inquinanti. Ma non solo,
ecosostenibilità vuol dire anche rispettare la società, producendo nel rispetto umano, senza
sfruttamento della forza lavoro e stabilendo eque remunerazioni.

Dall’economia lineare all’economia circolare
L’attenzione del consumatore rappresenta un elemento di svolta importante, che può guidare il
passaggio all’auspicabile economia circolare.
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Cosa vuol dire?
Esattamente fino ad ora il settore moda ha lavorato in un’ottica economica di tipo lineare: compro-
uso-getto. E se invece passassimo ad un’ottica compro-uso-rivendo? Rivendere i vestiti
(ovviamente in buono stato), o darli indietro alle aziende, potrebbe permettere di ricavare tessuti
rigenerati, riducendo gli sprechi, e contribuendo ad un orientamento ecosostenibile.

               Scopri il nuovo numero: “Il futuro è aperto”
  Il futuro prende vita dalle nostre azioni. E l’azione è sempre risolutrice. Andiamo incontro al
  futuro, senza timori. Il futuro è aperto!

Secondo lo studio della Circular Economy Action Plan della Comunità Europea, il settore tessile è il
quarto per uso di materie prime e acqua; il quinto per emissioni di gas effetto serra. L’Agenzia
Europea dell’Ambiente, specifica che è il settore responsabile del 10% delle emissioni mondiali di
carbonio.

Le app e la rivoluzione second-hand
Ultimamente il mercatino dell’usato sembra essersi spostato online grazie al boom delle app, uno dei
tanti effetti consequenziali alla pandemia, visto che con il tanto tempo passato in casa, molti ne
hanno approfittato per dare una ripulita all’armadio.

Senza aprire un proprio e-commerce, ma appoggiandosi semplicemente a delle app, si possono
vendere i propri capi di abbigliamento e accessori, contribuendo, in tal modo, allo sviluppo
dell’economia circolare. Se qualcuno è infatti interessato ad un nostro pezzo di vestiario può
contattarci direttamente tramite l’app per contrattare il prezzo. In questo modo il capo ha la
possibilità di vivere una seconda vita.

Secondo un’indagine di Zalando, oltre il 60% degli intervistati ritiene importante che i capi abbiano
una seconda occasione. Global Data conferma questa tendenza positiva prevedendo che il mercato
second hand passerà da 28 miliardi di fatturato del 2019 a circa 64 miliardi nel 2024.

Importante risulta essere la presenza di abbigliamento e accessori vintage, i brand di lusso occupano
infatti gran parte delle vendite sulle app. Secondo True Luxury Global Consumer Insights di
Altagamma-Bcg, i consumatori di lusso stanno partecipando attivamente alla compravendita di
seconda mano, registrando circa il 62% delle vendite derivanti dalle app.

Un’indagine realizzata da Thredup (piattaforma di seconda mano), ha rilevato che, negli USA, 33
milioni di persone ha acquistato per la prima volta abbigliamento usato nel 2020, e di questi, il 76%
dichiara di pensare di aumentarne la quota nei prossimi 5 anni.

Siete curiosi di sapere quali sono le app più utilizzate?
Vinted: creata in Lituania nel 2008 da Milda Mitkute e Justas Janauskas, oggi conta più di 37 milioni
di iscritti, classificandosi come la prima piattaforma europea nella moda di seconda mano. L’idea fu
di Justas per aiutare Milda a disfarsi di alcuni abiti durante un trasloco. L’app, che non è
responsabile del pagamento che avviene tra i contraenti, non prevede costi di commissione per il
venditore, la cui spedizione è a carico del compratore.

Depop: fondata da Simon Beckerman a Londra, e rilevata nel 2021 da Etsy. Una delle app più
pubblicizzate del periodo, al momento conta più di 26 milioni di utenti in 147 paesi, vi si possono
caricare foto dei vestiti, per vendere o scambiare. Ha un’interfaccia simile ad Instagram e permette
l’utilizzo di filtri per rendere le foto più interessanti.

Wallapop: nata in Spagna nel 2013, arrivata in Italia nel 2021, ha spopolato tra gli utenti in pochi
mesi, arrivando a circa 18 milioni di iscritti. “L’obiettivo è puntare alla sostenibilità, all’economia
circolare” sottolinea Giuseppe Montana, Head of Internationalization dell’azienda, su un recente
articolo del Corriere della Sera.

Shpock: app di origine tedesca lanciata nel 2012, con un’impostazione grafica, anche in questo
caso, simile a quella di Instagram, ha attirato più di 10 milioni di iscritti, risultando tra le più
scaricate anche in Italia.

Zalando second-hand: nata recentemente, nel settembre 2020, in due anni è passata da 20.000
articoli a 200.000. lo scambio non avviene in denaro ma in crediti, spendibili all’interno del sito.

Greenchic by Armadioverde: ideato nel 2015 da David Erba ed Eleonora Dellera. Si occupa di
tutto l’iter logistico della compravendita al posto dei clienti, effettuando il ritiro presso la propria
abitazione e consegnandolo all’acquirente.

Vestiarie Collective: app francese fondata nel 2009, utilizzata da oltre 5 milioni di utenti nel
mondo, specializzata nella compravendita di brand famosi di cui certifica l’originalità.

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YOLO Economy, la nuova filosofia
lavorativa dei millennials
Dopo l’iniziale incertezza sull’obbligo di lavorare da casa, causa forza maggiore, i lavoratori hanno
iniziato a farci la bocca, ci si è resi conto che, forse, oltre il classico percorso di vita lavorativa, che
in qualche modo la società ci impone, c’è qualcos’altro.

Il termine di Yolo Economy si è fatto largo con forza negli ultimi mesi, letteralmente you only live
once (si vive una sola volta), come filosofia teorizzata da Kevin Roose, in un articolo del marzo 2021
sul New York Times, ma il termine yolo fu coniato già nel 2011 dal rapper canadese Drake.

Ma cosa vuol dire esattamente?
Attualmente, al grido di YOLO, un gran numero di lavoratori, per lo più tra i colletti bianchi
millennials, sta abbandonando il proprio lavoro, ritenuto scomodo, nella convinzione tipo “la
pandemia ha cambiato le mie priorità e non voglio più vivere così”.

Voglia di evasione e leggerezza, ma forse, ancor di più, voglia di cambiamento, di non essere
imprigionato in quegli schemi che la società ci mostra come giusti, tramandati di generazione in
generazione, ma che non fanno sentire “giusti” noi stessi.

In fondo, se un maglione è stretto, lo cambiamo, e perché non dovremmo farlo se è la vita ad andarci
stretta? Pensiero rivoluzionario, che fa inorridire i nostri papà in pensione, ma che la pandemia,
come accade spesso nei momenti bui della vita, ci ha fatto trovare il coraggio di mettere in atto.

                  Scopri il nuovo numero: “Simply the best”
       Possiamo decidere che il 2021, al pari del 2020, sia completamente da buttar via, oppure
     possiamo scegliere di focalizzarci su altro… sulle nuove consapevolezze raggiunte, sul nuovo
   valore che diamo al tempo ed allo stare insieme. Ossia, su quanto di buono è comunque accaduto
                                     o su cosa abbiamo imparato.

Un fenomeno in crescita
Un sondaggio Microsoft del 2021, rivela che il 40% della forza lavoro globale sta pensando di
lasciare il proprio lavoro.

Una recente ricerca pubblicata da Kevin Roose nel suo articolo, evidenzia che il 46% dei
millennials intervistati considera il lavoro la principale fonte di stress, il 23% dichiara di non
sentirsi più in grado di svolgere il lavoro come faceva precedentemente alla pandemia.

Si può definire un fenomeno trasversale a livello mondiale, che, secondo i dati del Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali, sta interessando anche l’Italia, dove si osserva una crescita pari al
43% delle cessazioni di lavoro nel secondo trimestre 2021, di cui 484 mila volontarie.

Quello che nel nostro Paese è stato impropriamente definito “smart working” ha riorganizzato il
mondo del lavoro, o per meglio dire, la mente del lavoratore. Una teoria in realtà già profetizzata dal
sociologo Domenico De Masi anni fa, (approfondisci qui), che ritiene che “…come gli operai sono
stati imbrigliati nelle catene di montaggio meccanica per svolgere un lavoro ripetitivo e
tendenzialmente inumano, così gli impiegati, i funzionari, i manager, sono stati imbrigliati nella
catena di montaggio burocratica per svolgere un lavoro seriale”, (Smart Working – La rivoluzione del
lavoro intelligente, Marsilio, 2020).

Perché la necessità di ri-pensare il lavoro?
La pandemia ha fatto esplodere la bomba di un malessere latente, covato nel tempo, dovuto
alla necessità di un cambiamento, che faticava a mostrarsi ma che si è reso necessario
improvvisamente a causa del Covid.

Tra le cause del malessere, innanzitutto, la voglia di svolgere lavori diversi da quelli classici,
svolti nei luoghi tradizionali. Il desiderio di viaggiare, non solo nei 15 giorni di ferie estive, ha avuto
un ruolo fondamentale, portando alla nascita di lavoratori che si sono inventati “nomadi digitali”
(approfondisci qui).

La necessità di orari flessibili, non si vive per lavorare, ma si lavora per sostentamento, la
vera vita è quella lontana dal luogo di lavoro. Il tempo libero acquisisce importanza nel
personale paniere della vita, come sostenevano i greci, è il tempo utile per imparare e scoprire.
Aristotele lo definiva “il fondamento della cultura, la tensione dell’individuo verso la libertà dalle
preoccupazioni quotidiane del lavoro e quindi come una condizione dell’anima che attraverso la
contemplazione ricerca la verità e la vera felicità”.

  Secondo i dati Instagram Trend Report 2022, il 68% di nativi digitali afferma che il lavoro è
  qualcosa che bisogna fare, ma non è la cosa più importante nella vita, e il 77% preferirebbe avere
  un lavoro significativo anziché redditizio.

Pensieri questi, che dovrebbero però far riflettere sulle conseguenze, come invita a fare un articolo
pubblicato sul Sole 24 Ore. L’espressione Yolo Economy risuona come un mantra, che
potrebbe, potenzialmente, distruggere più aziende del Covid. Si teme infatti un gap di ricambio
generazionale nelle aziende, considerando che i millennials si professano adepti della nuova filosofia
e la Generazione Z è ancora troppo giovane per varcare la soglia dei cancelli del mondo del lavoro.

“Lascia il lavoro se non ti rende felice”
A supporto della teoria del “si vive una volta sola”, sono arrivate, nel momento più opportuno,
anche le parole del Principe Harry, emigrato negli Stati Uniti proprio alla ricerca di un cambiamento
radicale di vita. Intervistato da Fast Company Magazine, a proposito della Great Resignation
(l’ondata di dimissione negli Stati Uniti), ha dichiarato: “Molte persone, in tutto il mondo, sono state
bloccate in lavori che non hanno portato loro gioia, e ora mettono al primo posto la loro salute
mentale e la loro felicità. Questa è una cosa da celebrare”, e ancora, “questi problemi si stavano già
affacciando da qualche anno. Adesso ci troviamo di fronte a una presa di coscienza generale sul
ruolo della salute mentale. Ecco perché bisogna continuare a tenere viva la discussione su questo
argomento”.

Parole che hanno portato con sé strascichi di polemiche, che lo accusano di parlare con troppa
facilità dalla sua bolla dorata. Chiaramente mollare tutto è una decisione che conduce a
percorrere una strada irta di rischi e imprevisti, e non tutti, pur condividendone l’ideale,
possono trovarsi nella possibilità di percorrerla con serenità.

Vorrei però condividere con voi, in conclusione, una frase dell’attrice Monica Vitti, che ripeto a me
stessa, ormai da un po’ di tempo, soprattutto nei momenti difficili, “Dicono che il mondo è di chi si
alza presto. Non è vero, il mondo è di chi è felice di alzarsi”.

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A Natale dillo con un post: le campagne
natalizie sui social media
Il social media marketing è ormai una ben radicata forma di marketing digitale, i social sono il
“luogo” (si, intendo proprio il luogo, perché spesso rappresentano il posto virtuale in cui ci
rifuggiamo dalla quotidianità), dove i più giovani passano gran parte del tempo libero, ed è lo
strumento tattico da sfruttare, da parte delle imprese, per interagire con i consumatori.

E quale momento più opportuno del Natale per creare una campagna
social?
Il Natale è il periodo propizio per avvicinare nuovi clienti e migliorare la relazione con quelli fedeli, è
il momento in cui attendiamo con ansia le belle pubblicità, fino a qualche anno fa solo in tv, ora
anche sui canali social, come Facebook, Instagram, Twitter e via dicendo. Le campagne sui social
permettono lo scambio di idee, feedback, foto ed informazioni con i consumatori e tra di loro,
rendendoli partecipi di un meccanismo nel quale non sono più passivi, come nel caso della pubblicità
tradizionale.

Dopo il difficile Natale dello scorso anno, caratterizzato dalla pandemia e dai festeggiamenti
sommessi in solitaria, quest’anno, probabilmente, avvertiamo ancora di più il bisogno di sottolineare
le emozioni, di vedere quegli spot natalizi che commuovono e che mostrano, spesso attraverso lo
storytelling, la bellezza della famiglia, degli affetti, e della magia, perché in fondo, a Natale,
torniamo tutti un po’ bambini e speranzosi di vivere un momento speciale.

              Scopri il nuovo numero: “Il Natale che verrà”
   Che Natale sarà? Senza fare giri di parole, sarà un Natale “nuovo”. Nuovo perché, dopo due anni
    di pandemia, siamo noi ad essere persone nuove. Persone con nuovi bisogni, nuovi desideri e
                                            nuovi pensieri.

Come realizzare un “social christmas” per distinguersi
1. Muoversi in tempo: la classica frase “ma come, hai già addobbato l’albero?”, che spesso viene
   rivolta a coloro che non riescono ad attendere la tradizionale data dell’8 dicembre per dare il via
   agli addobbi, nel caso delle campagne natalizie non vale. È bene iniziare a pensare al messaggio
   con largo anticipo, già dall’estate, per avere il tempo di elaborare idee creative e alternative,
   considerando che i clienti iniziano a pensare agli acquisti per le feste già dal mese di ottobre

2. Mostrare sé stessi: è il momento ideale per avvicinarsi ai clienti, “mettendoci la faccia”,
   realizzando post personali, ad esempio, pubblicando foto e video di auguri da parte dei dipendenti

3. Parola d’ordine “consigliare”: nascondere un po’ il lato aziendale per favorire quello
   amichevole, fornendo consigli ai clienti, un po’ come farebbe un amico, consigliando regali,
   ricette e idee di festeggiamenti, il tutto rimandando ai link dei prodotti aziendali

4. Seconda parola d’ordine “interattività”: il periodo è favorevole alla creazione di campagne
   interattive con give-away, contest, gift-card, e calendari dell’avvento online. Si possono inoltre
   coinvolgere i clienti chiedendo di inviare video personali di auguri o estrarne qualcuno di loro
   come ambassador del marchio. Attenzione, però, che la partecipazione dell’utente sia facile,
   veloce e divertente

5. Vendere il brand non solo il prodotto: non limitatevi a pubblicizzare un singolo prodotto, ma
   più in generale, il brand e l’azienda stessa, cogliendo l’opportunità per mostrare chi si è e cosa si
   fa. Sfruttate l’opportunità del mood natalizio, anche solo per lanciare un messaggio di auguri,
   senza necessariamente tentare di vendere in modo esplicito un prodotto. Affiancarsi alla figura di
   un influencer potrebbe risultare ulteriormente strategico

6. Creare un messaggio emotivo: ogni comunicazione natalizia deve necessariamente essere
   legata alle emozioni, il sentimento per eccellenza del periodo è quello legato all’unità della
   famiglia, che seppur tanto utilizzato nel tempo, non è mai banale, e mai come durante questa
pandemia ne abbiamo capito l’importanza, memori dello scorso natale in cui siamo stati
  impossibilitati ad unirci in grandi tavolate

7. Responsabilità sociale: proprio perché il Natale è il momento dell’anno in cui più si sottolineano
   i buoni sentimenti, è l’occasione giusta per approfittarne per sottolineare un eventuale
   comportamento sostenibile tenuto dall’azienda, ad esempio, informando sulle donazioni relative
   alle percentuali di incassi, raccolte di giocattoli e cibo, aiuti ai bisognosi, invitando così i
   consumatori ad unirsi alle azioni

8. Osserva i concorrenti: buttare un occhio attento sulle campagne dei concorrenti potrebbe
   essere un ottimo spunto, nel marketing, infatti, osservare gli altri non è mai sbagliato, a patto che
   non si tratti di copiare

9. Crea strategie ad hoc per qualsiasi canale: inviare un’email rappresenta una buona idea per
   realizzare un contatto personalizzato con il consumatore, da inviare già dal mese di novembre, ma
   creare messaggi adattati ad ogni singolo social è fondamentale, tenendo presente, ad esempio,
   che su Instagram i followers desiderano trovare ispirazione, su Facebook vogliono poter
   esprimere la propria opinione

10. Utilizza format natalizi: musica, grafiche, immagini, foto profilo e copertina, tutto deve essere
    “classicamente” natalizio, rispecchiando proprio quello che l’iconologia pubblica si aspetta, ma
    non per questo noioso

Alcuni esempi di campagne social natalizie
HOTEL TONIGHT
A Natale, si sa, molti ritornano a casa, ma nel 2016, in controtendenza con lo spirito della famiglia
unita intorno all’albero, una catena di hotel low cost ha avuto l’idea di lanciare una campagna dal
nome “Visist don’t stay”, nella quale invitava agli utenti a raccontare su Facebook e Twitter, le
proprie traumatiche esperienze relative alla convivenza con i familiari, alla ricerca di un buon motivo
per prenotare una camera.

CERES
A proposito di contest e coinvolgimento dei clienti, il noto marchio di birre, ha pensato di chiedere ai
consumatori di inviare la propria foto del classico “ugly-jumper” (letteralmente maglione brutto),
tipicamente indossato a Natale, per provare a vincere una birra.

COCA-COLA
Il brand, famoso per gli emozionanti spot tv natalizi, nel 2018, ha ideato una campagna su Twitter,
nella quale, ogni giorno, facendo gli auguri citava l’opera di vari artisti, collegando così l’arte al
prodotto.

NUTELLA
Il mini-barattolo della crema spalmabile più amata diventa una decorazione di Natale, su consiglio
della stessa azienda.

STARBUCKS
Nel 2017, Starbucks, ha lanciato il contest “Progetto Give Good”, che prevedeva, per aumentare il
coinvolgimento dei clienti, la possibilità di colorare a proprio piacimento le classiche tazze della
caffetteria, per l’occasione completamente bianche, e di pubblicarle sui social con l’hashtag
#GiveGood, per avere all’opportunità di vincere delle gift-card.
PALUANI

L’azienda ha evidenziato con un post Instagram la propria attività di donazioni, evidenziando in tal
modo il personale impegno sociale, accusando, quasi in modo ironico, l’aggressività dei post sui
social da parte dei così detti “leoni da tastiera”.

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Guerrilla Marketing: i migliori esempi di
marketing non convenzionale
Nell’attuale contesto societario, la mente dell’individuo è sottoposta ad una miriade di stimoli
pubblicitari, che in qualche modo, non riuscendo a gestire nella totalità, devono essere in parte
ignorate. La soglia di attenzione del pubblico si abbassa, e, proprio in questo consiste l’obiettivo
principale delle campagne di comunicazione delle imprese, colpire, con le proprie idee comunicative
il pubblico catturandone l’attenzione, arrivare in qualche modo primi nella mente ed essere
ricordati.

Se il termine “Guerrilla Marketing” vi fa pensare ad una guerriglia, a
qualcosa di violento, no, vi state sbagliando!
Il termine fu teorizzato nel 1984 dallo studioso Joy Conrad Levinson, che lo definì come
una strategia low cost: negli anni ’80 il mercato era dominato da grandi brand, che si agevolavano
del boom della pubblicità sulle appena nate televisioni commerciali. I brand minori, alla ricerca di
maggiore visibilità, iniziarono ad affidarsi al nascente marketing non conventional: per colpire
con pochi soldi bisognava trovare delle idee pubblicitarie spiazzanti e anticonformiste, strada che
oggi viene percorsa anche dai brand maggiori.

               Scopri il nuovo numero: “Street marketing”
     In un mondo sempre più connesso e dove le persone sono sempre più assuefatte ai messaggi
    pubblicitari, lo street marketing può esprimere tutto il suo valore e dare ai brand una visibilità
                          inaspettata, anche per mezzo delle piattaforme social.

Gli elementi chiave di questa forma di comunicazione fuori dagli schemi sono la massimizzazione
del rapporto visibilità/spesa, cioè raggiungere il maggior numero possibile di pubblico con un
budget irrisorio, e il fattore sorpresa. Anche le neuroscienze (del cui aiuto sempre più il marketing si
sta avvalendo negli ultimi anni), sono intervenute per spiegare il meccanismo del fattore sorpresa, in
grado di aumentare il coinvolgimento e l’attenzione, facilitando la risposta dell’utente.

Come deve essere una strategia di guerrilla?

“Il marketing è la verità resa affascinante” sosteneva Levinson, “dobbiamo prima di tutto assicurarci
di avere, o di lavorare, a un prodotto o servizio, che ci distinguano in una determinata nicchia e con
un posizionamento ben fatto, e poi, rendendolo affascinante attraverso il guerrilla marketing”. Sia
che si parli di uno senario online, dove si punta necessariamente a creare il così detto “passaparola”,
o offline, in cui è invece fondamentale trovare un luogo pubblico dal traffico intenso, la strategia
dovrà rispettare delle peculiarità:

■   Avere un messaggio coerente rispetto al brand, essere in grado di scioccare senza però tradire la
    linea seguita dall’azienda;
■   Incuriosire, sorprendere ma senza infastidire il pubblico;
■   Avere la capacità di fronteggiare eventuali imprevisti come il meteo, le normative locali, ed
    eventuali problematiche del luogo;
■   Essere mirata ad un target preciso;
■   Essere tempestiva “colpendo” il pubblico quando meno se lo aspetta.

5 migliori esempi di Guerrilla Marketing
Se una pubblicità ti lascia a bocca aperta, ti fa ridere, riflettere, ti torna in mente, e te ne fa parlare
con gli altri, probabilmente è un’azzeccata forma di marketing non convenzionale. Proprio seguendo
questi riferimenti ho selezionato, quelle che, nel tempo, sono state delle azzeccate operazioni di
guerrilla:

1. Lancio promozionale del remake del film “IT”
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i della città di New York, furono legati dei palloncini rossi, pauroso simbolo del primo film del 1990,
accompagnato dalla scritta “IT è più vicino di quanto pensi. Al cinema dal 7 settembre”. Che
dire…una trovata geniale, che ha attirato i fans del film, che immediatamente hanno riconosciuto il
richiamo, ma anche coloro che, pur non avendo visto la precedente pellicola, sono stati incuriositi
dal fatto, portandoli ad informarsi maggiormente.

2. “Chips Crossing”, McDonalds
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più generale guerrilla marketing, creato all’aperto, in strada appunto, generalmente utilizzando
l’arte, graffiti e murales. È il 2010 quando il colosso McDonalds lancia l’idea, immaginate di
attraversare la strada su queste strisce pedonali: potreste dire di non avere subito voglia delle note
patatine del famoso brand?

3. Nike
Una
panchin
a senza
le assi
per
sedere,
con
l’immagi
ne
iconoca
del
brand
america
no, un
chiaro
esempio
per
riflettere
sul
messaggio veicolato generalmente dall’azienda, quello di fare sport, l’essere sportivi non prevede la
possibilità di stare seduti.

4. Folgers Coffee

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aatchi, agenzia di marketing di New York, ha avuto la brillante idea di camuffare i classici tombini
che emettono fumo con adesivi dalla forma di una tazza di caffè, accompagnato dalla scritta “la città
che non dorme mai”, per conto dell’azienda Folgers Coffe. Sicuramente nessuno vi avrà messo sopra
i piedi!
5. Bic

Anche in
questo
caso si
parla di
una
variante
del
guerrilla
marketi
ng,
l’ambien
t
marketi
ng,
l’annunc
io viene
posto in luoghi insoliti rispetto all’utilizzo del prodotto, utilizzato per la prima volta nel 1996. In
questo caso il claim dell’azienda BIC è stato ”I nostri rasoi sono abbastanza affiilati per falciare il tuo
prato”, e l’elemento di riflessione è proprio una parte del prato falciata rispetto al resto.

Parola d’ordine: emozioni
Le campagne di guerrilla sono tante, ma non è detto che ognuna riesca a fare centro e colpire il
consumatore. Per avere successo il focus deve essere sulle emozioni, l’attenzione del distratto utente
deve essere catturato in pochi secondi, e per farlo occorre colpirlo nel profondo, realizzare una
reazione interna.

Il marketing contemporaneo sa che il consumatore di oggi cerca un’esperienza, vuole essere
coinvolto, ed in questo la mossa vincente potrebbe essere regalare un souvenir del momento, offrire
qualcosa di concreto che consenta al pubblico, generalmente passivo di fronte al cartellone
pubblicitario in strada, di “toccare” la pubblicità. Un esempio? Il selfie! Già il fatto di poter fare un
selfie, una foto, una storia da postare rappresenta la materialità e la partecipazione che il pubblico
cerca e che può scatenarne le emozioni tanto da trasformarlo poi in cliente.

Nel 2011, l’azienda Superette della Nuova Zelanda, pubblicizzò il proprio abbigliamento con delle
scritte sulle panchine che si imprimevano, temporaneamente, sulle gambe di chi indossava shots e
gonne. Anche questo in qualche modo è un “ricordo” materiale, sicuramente con effetto wow, ma
forse, poco simpatico!
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Riduzione del Digital Divide: una sfida per
creare un nuovo concetto di qualità della
vita
L’impennata di digitalizzazione che la pandemia da Covid-19 ha portato con sé, ha riacceso le
riflessioni sul Digital Divide, una problematica presente già da tempo, ma che in questo difficile
periodo si è evidenziato come un divario sociale importante e decisivo nel determinare la qualità di
vita dei cittadini.

Con il termine di divario digitale si indica le disuguaglianze nell’accesso e nell’uso delle ICT
(information e communication technologies), distinguendo coloro che hanno la possibilità di
utilizzare facilmente le tecnologie e di avere accesso ad Internet, e coloro che, per motivi economici,
sociali e tecnici, incontrano delle difficoltà.

Già nel 1996, il tema fu trattato dall’allora ex vice-presidente degli USA, Al Gore, che utilizzò il
termine proprio per indicare il gap esistente tra gli “information have” e “havenots”, nell’ambito del
programma K-12 Education. La Rete diventa elemento fondamentale, come sottolineato dall’art.19
della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che la definisce come “una forza
nell’accelerazione del progresso verso lo sviluppo nelle sue varie forme” e chiede agli Stati di
“promuovere e facilitare l’accesso a Internet”, come sottolineato anche dal Rapporto ONU 2012 sulla
Promozione e protezione del diritto di opinione ed espressione,

La difficoltà, o addirittura, l’impossibilità di accesso e utilizzo della Rete diventa quindi un gap che
influisce sulle condizioni di vita dei popoli e che crea differenze evidenti. Il gap digitale può infatti
essere “globale” se si riferisce alla differenza fra i Paesi più e meno sviluppati; “sociale” per quanto
concerne le diseguaglianze all’interno di un Paese, e “democratico” se riguarda la potenzialità di
partecipazione alla vita politica e sociale sulla base di un uso consapevole delle tecnologie digitali.

                    Scopri il nuovo numero: “#ripartItalia”
     La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
    lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                               affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Secondo la Commissione Europea si può parlare di un Digital Divide di primo livello, nel caso di
mancata copertura della banda larga fissa ad almeno 2 Megabit, mentre si definisce di secondo
livello se vi è mancata copertura della banda ultralarga. Ma per il prossimo futuro si ipotizza la
possibilità di un gap di terzo livello relativamente alle zone non coperte dalla fibra ottica.

Il fatto di vivere in quella che viene chiamata “società dell’informazione” ci porta ad evidenziare
l’importanza, ma potremmo addirittura dire, la necessità, di accedere all’uso delle tecnologie
digitali, e, seppure questo concetto potrebbe sembrare banale, così non è. Il lavoro si svolge sempre
più online, così come la formazione, e la necessità di un livellamento digitale si avverte forte e
prepotente.

Cosa stiamo facendo per colmare il gap?

Da tempo i capi di Stato si interrogano sulla soluzione al divario perché questo comporterebbe una
vita migliore per i cittadini a livello mondiale. L’ambizione della riduzione del gap si è resa ancora
più necessaria dopo la diffusione del virus Covid, che ha mostrato, prepotentemente, anche a Paesi
più arretrati dal punto di vista tecnologico, l’importanza imprescindibile che le tecnologie hanno
nella vita contemporanea.

Riflettendo sulla situazione italiana, notiamo che il nostro Paese, fino a pochi mesi fa, risultava poco
incline al lavoro in remoto, ma un’emergenza di tale portata ci ha imposto di aprire gli occhi e non
voltare la testa. Secondo i dati del Rapporto Bes Istat del 2021, nel Mezzogiorno il 63,4% di individui
ha accesso alle tecnologie, rispetto al 72,3% del Nord e del Centro. Con l’intento di colmare questa
differenza italiana è stato istituito il Ministero per l’innovazione e la digitalizzazione, la cui strategia
trae ispirazione dagli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, per promuovere
l’innovazione e la digitalizzazione dei servizi pubblici, l’adozione di nuove tecnologie, mettendo al
centro dell’attenzione la comunità e i territori, per creare un rapporto trasparente tra cittadini e
Pubblica Amministrazione.

Nell’ultimo rapporto 2020 della Commissione Europea, che ha elaborato l’indice DESI (digital
economy and society index), per valutare il livello di digitalizzazione dei paesi comunitari attraverso
quattro ambiti (connettività, capitale umano, uso dei servizi Internet e integrazione delle tecnologie
digitali e servizi pubblici), si evince che l’Italia si posiziona al venticinquesimo posto su ventotto
paesi membri in termini di Digital Economy, dando evidenzia proprio dell’ampia disparità tra Nord e
Sud.

Le recenti riflessioni circa la situazione poco rosea del Belpaese, hanno spinto verso la ricerca di
soluzioni utili, una su tutte la Repubblica Digitale, iniziativa del Ministero per l’innovazione e la
transizione economica, sorta con l’obiettivo di combattere il divario e favorire l’educazione sulle
tecnologie. Il progetto si avvale della Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali, composta da
soggetti pubblici e privati per realizzare una cittadinanza attiva, inclusiva, democratica, e
contribuire alla formazione scolastica e per i lavoratori. L’Agenda 2025 prevede di operare al fine di
potenziare i diritti di cittadinanza, partecipazione consapevole e riallineamento delle competenze
digitali richieste nel mondo del lavoro contemporaneo, e investimenti sulla formazione di cittadini,
imprese e amministrazioni locali. L’iniziativa prevede che, attraverso il Servizio Civile Digitale, mille
volontari, definiti “facilitatori digitali”, abbiano il compito di agevolare la collaborazione tra cittadini
e Pubblica Amministrazione, integrandosi con l’obiettivo di investire sui giovani e la formazione.

La riduzione del gap digitale rappresenta, oltre che un modo per migliorare i servizi pubblici, una
possibilità per incrementare la partecipazione dei cittadini, relativamente all’ambito lavorativo e
privato, rendendo la società democratica, partecipativa e inclusiva.

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Smart City: sogno o realtà?
Smart city, ecco un altro termine inglese che tanto sentiamo ripetere negli ultimi anni.

Ma ognuno di noi, saprebbe riconoscere di vivere in una città intelligente?

Con questa definizione si identifica una città innovativa e sostenibile che crea un miglioramento
della qualità della vita del cittadino grazie a sistemi tecnologici interconnessi tra loro. È una città
che gestisce le risorse in modo economicamente sostenibile, energeticamente autosufficiente, e
attenta ai bisogni dei cittadini, grazie allo sfruttamento delle tecnologie digitali. L’Unione Europea la
descrive come il luogo in cui reti e servizi tradizionali vengono resi più efficienti con l’utilizzo di
soluzioni digitali a vantaggio dei cittadini e delle imprese. Ciò si traduce in reti di trasporto urbano,
fornitura idrica e infrastrutture per lo smaltimento dei rifiuti più efficienti, un’amministrazione
cittadina interattiva e reattiva, e spazi pubblici sicuri.

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L’Unione Europea, che prevede uno stanziamento di 12 miliardi di euro a favore delle città ha
individuato le caratteristiche che permettono di descrivere una città intelligente:

■   Smart People: i cittadini vanno coinvolti attraverso una comunicazione idonea a creare un dialogo
    che permetta la partecipazione alle decisioni delle amministrazioni locali, in quanto riconosciuti
    come un prezioso capitale per una pianificazione urbana intelligente. Fondamentale per mettere in
    atto tale processo è la dotazione di un sistema informatico da usare in tempo reale per inviare
    segnalazioni e feedback vari da parte degli utenti
■   Smart Governance: le amministrazioni devono posizionare al centro dell’attenzione le risorse
    umane, le risorse ambientali e le relazioni
■   Smart Economy: è necessario centrare l’obiettivo di una maggiore produttività e occupazione,
    sfruttando le ICT, e potenziare lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione continua
■   Smart Living: garantire il benessere cittadino legato ad aspetti quali la salute, l’educazione, la
    cultura e la sicurezza
■   Smart Building: le ristrutturazioni edilizie e le nuove costruzioni devono rispettare specifici
    standard di efficienza energetica, utilizzare materiali sostenibili e realizzare servizi utili relativi al
    comfort dei residenti, secondo la Direttiva UE 2018/844
■   Smart Mobility: realizzare soluzioni intelligenti circa la mobilità, e-mobility, sharing mobility, ma
    anche smart parking, soluzioni per snellire il traffico e diminuire i costi, ottimizzare il risparmio
    energetico e ridurre l’inquinamento. Oltre a favorire l’utilizzo di mezzi privati a favore di quelli
    elettrici, sviluppare alternative, come, ad esempio, le consegne con droni intelligenti
■   Smart Enviroment: la realizzazione di uno sviluppo sostenibile è uno dei punti caldi del
    programma delle smart city. Si punta allo sfruttamento di energie rinnovabili per ottenere
    l’efficienza energetica e la sostenibilità ambientale, anche migliorando i sistemi di gestione
    intelligenti del ciclo di rifiuti.

Il ruolo da protagonista delle tecnologie
In ogni definizione elaborata circa le smart city, si sottolinea sempre il ruolo l’essenzialità delle
tecnologie digitali interconnesse. Si parla di Internet of things (IoT), reti basate su un’efficienza
della connessione 5G, che permette l’interconnessione tra gli elementi cittadini, quali oggetti,
edifici, e cittadini. Un esempio? L’avvertimento di un eventuale fuga di gas proveniente da un
appartamento al proprietario.

Grazie alle tecnologie ICT è possibile raccogliere e analizzare i Big Data per elaborare previsioni a
sostegno del miglioramento dei servizi pubblici e l’utilizzo dei sensori wireless. Con questi ultimi è
possibile irrigare i parchi nelle ore di minore frequentazione, illuminare le strade secondo l’effettiva
necessità rispetto alla luce naturale e al traffico, monitorare costantemente la concentrazione di
inquinamento, essere avvertiti dai cassonetti quando sono quasi pieni.

Secondo Carlo Ratti, fondatore e responsabile di SENSEable City Lab del MIT di Boston
“l’impiego crescente di sistemi e sensori elettronici sta permettendo un nuovo approccio allo studio
dell’ambiente costruito. Il nostro modo di descrivere e comprendere le città viene radicalmente
trasformato, insieme agli strumenti che usiamo per crearle e all’impatto sulla struttura fisica”.

                 Scopri il nuovo numero: “Orizzonte elettrico”
         Al pari di quella digitale, la rivoluzione elettrica è arrivata quasi sottovoce e sta prendendo
     letteralmente piede molto velocemente. E quando si parla di rivoluzione elettrica, tra le altre cose,
                                         non si può non parlare di mobilità.

Le Smart City in Italia
Secondo i dati della classifica ICity Rank 2000, un rapporto nel quale Forum PA (società di servizi
e consulenza del Gruppo Digital 360) analizza diversi ambiti della vita urbana, ognuno sintetizzato in
Puoi anche leggere