La copertina d'artista - #ripartItalia 2021 - Smart Marketing

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La copertina d'artista - #ripartItalia 2021 - Smart Marketing
La copertina d’artista - #ripartItalia 2021
Un velocista è sui blocchi di partenza, forse della gara regina delle Olimpiadi, i 100 metri; ma questo
atleta ha qualcosa di più. La sua tuta tecnica è di un azzurro scintillante, striata in più punti da fasce
tricolori che richiamano la bandiera italiana e, a ben vedere, la stessa tuta ha un qualcosa che
richiama un’armatura, una versione nostrana della mitica armatura di Iron Man, quella progettata
ed indossata da Tony Stark.

E forse il riferimento all’uomo d’acciaio, questa la traduzione letterale del nome dell’eroe
marveliano, non è affatto casuale, sono stati uomini e donne d’acciaio quelli che hanno tinto d’oro,
argento e bronzo la lunga estate italiana, fra europei di calcio e campionati di pallavolo maschile e
femminile, passando per le medaglie ed i primati delle Olimpiadi e Paralimpiadi, culminate con la
vittoria dei 100 metri di Marcell Jacobs, primo italiano nella storia, alle Olimpiadi di Tokyo con il
tempo di 9’ e 80”, lo scorso 1°agosto 2021.
La copertina d'artista - #ripartItalia 2021 - Smart Marketing
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da Domenico Velletri.
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Le vittorie ed i successi sportivi del Paese hanno favorito la ritrovata voglia di patriottismo e
desiderio di rivalsa degli Italiani, dopo un 2020 segnato da una pandemia che ha scompaginato i
programmi e le agende dei singoli, così come delle istituzioni e delle nazioni.

Le Olimpiadi di Tokyo, incerte fino all’ultimo, hanno rappresentato i migliori valori dello sport, e
quel desiderio, mai sopito, di vittoria umana che si staglia contro un male globale che sembrava aver
vinto definitivamente. Gli atleti, le vittorie e lo sport più in generale hanno rappresentato il miglior
vaccino per le nostre coscienze infiacchite dalle restrizioni, il miglior farmaco contro quella
strisciante ed ormai endogena depressione che aveva ghermito più o meno tutti noi.

Le sfide, i sacrifici e le vittorie che lo sport regala a chi è disposto a misurarsi prima con se stesso e
poi con gli altri sono la perfetta metafora di questa ripartenza post pandemica, di questa ripartenza
post vacanze, di qualsiasi ripartenza esistenziale, lavorativa, o di relazione.

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e Gente, per le sue ironiche mascherine disegnate, perfette per non perdere la “faccia”.
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Nonostante siano più di 20 anni che scrivo, parlo ed organizzo eventi artistici, mi sorprendo ancora
come un bambino quando vedo la capacità di sintesi di cui sono capaci gli artisti.

Prendete Domenico Velletri (già autore della Copertina d’Artista del novembre 2019), il
graphic designer di questa copertina di settembre: è riuscito a condensare in una singola immagine
molteplici significati, tutti legati dal filo rosso che richiama la voglia di superare i propri limiti tipica
degli esseri umani, quel fuoco che arde in ciascuno di noi e che ci spinge a provarci e riprovarci, ad
allenarci fino allo stremo, finchè non riusciamo a sconfiggere i nostri avversari e soprattutto noi
stessi, perché, alla fine, come disse Friedrich Nietzsche: “Nessun vincitore crede al caso”.

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     La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
    lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                               affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Insomma, l’eroe velocista della copertina di settembre che aspetta il colpo di pistola per scattare dai
blocchi è la rappresentazione plastica, filosofica, ma soprattutto ideale della voglia di ripartenza di
noi Italiani, che nella nostra scintillante armatura con i colori nazionali vogliamo tagliare i traguardi
del nostro successo.

Non dimenticando, però, che il successo individuale è poca cosa se non contempla, favorisce od
almeno ispira il successo collettivo, perché, come ebbe a dire Don Carlo Gnocchi:

  La vittoria è sempre nel pugno di pochi. Provare a preparare questa pattuglia di eroi è il segreto
  di ogni vittoria.

Quindi lasciamoci ispirare dalla bella Copertina d’Artista di Domenico Velletri e, più in generale,
dagli articoli dei nostri contributor che compongono questo 89° numero del nostro magazine dal
titolo #ripartItalia.
La copertina d'artista - #ripartItalia 2021 - Smart Marketing
Domenico Velletri, artista eclettico, spazia dalla pittura alla
  scultura, dalle tecniche digitali all’illustrazione, dall’animazione
  alla realizzazione di cartoon e videoclip.

  Diverse le sue opere presenti in varie città italiane, come la scultura in pietra della Regina Elena
  del Montenegro a Roma o l’opera scultorea di S. Maria Clotilde di Borbone a Napoli. Autore, fra
  l’altro, di numerose opere nel territorio biscegliese, come l’altorilievo bronzeo in onore a
  Giuseppe Di Vittorio in piazza Vittorio Emanuele II, il bassorilievo bronzeo di Aldo Moro, in via
  Aldo Moro e il bassorilievo in terracotta, nel ricordo del centenario della storica apertura, del
  Rettifilo, sempre in via Aldo Moro. Diverse sculture sacre come il Crocifisso ligneo nella chiesa di
  S. M. di Costantinopoli, la scultura lignea della Madonna dell’Immacolata per la chiesa di S.
  Andrea e il dipinto absidale di Santa Caterina da Siena.

  Esordisce al cinema con la realizzazione della parte animata nel film “Cobra non è” (qui trovate
  la nostra recensione), di Mauro Russo, prodotto da Giallo Limone Movie e distribuito da 102
  Distribution, in collaborazione con Rai Cinema. Fra le due ultime collaborazioni il suo lavoro per
  il cantante Fabio Rovazzi con la realizzazione dell’intro in motion comics per il videoclip “La mia
  felicità”.

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#ripartItalia 2021 - L’editoriale Raffaello
Castellano

  Scrivere l’editoriale di settembre, che, come sanno i
  nostri lettori, fin dalla nascita del nostro magazine si
  intitola #ripartItalia, diventa sempre più complesso.

  Di cosa parlare?

  Su quale argomento, fra i tanti possibili, concentrare l’attenzione?

  Per quale focus propendere?

  Capite che, dopo 8 anni ed altrettanti editoriali settembrini, il rischio di ripetersi è
  molto alto, sia perché a scrivere gli articoli è sempre la stessa persona, con le sue
  preferenze ed i suoi pregiudizi, sia perché, diciamocelo, i problemi, non solo digitali, del
  nostro Paese sono quasi sempre i medesimi: instabilità politica, eccessiva burocrazia,
  lavoro, formazione ed istruzione, ecologia ed ambiente, digital divide, alfabetizzazione
  informatica, inverno demografico, ricambio generazionale, etc., etc..

Certo la cronaca ci aiuta (o forse no), soprattutto qui in Italia, dove spesso, in tema di innovazione, si
fa un passo in avanti e due-tre indietro o nella migliore delle ipotesi due di lato come i gamberi,
come già ci aveva avvertito il grande e compianto Umberto Eco in un suo saggio di qualche anno fa.

Probabilmente è di questo tipo la notizia, salutata con un generale ed entusiastico consenso (chissà
perchè poi), che ha visto protagonista il Ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta,
che ha parlato della “fine dello smart working” per tutti i 3,2 milioni di dipendenti delle 30
mila amministrazioni pubbliche a partire dal 15 ottobre, buttando, come spesso si fa in Italia,
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l’acqua sporca con tutto il bambino.

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     La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
    lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                               affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Ancora più significativo e drammatico della marcia indietro sul lavoro agile, è il fenomeno delle
morti bianche (eufemismo quanto mai fuorviante), che ha visto negli ultimi due giorni, 28 e 29
settembre, 11 vittime! Un vero bollettino di guerra, per un problema iscrivibile a diversi fattori,
ma che vede nella mancanza di controlli e nella scarsa, se non assente, cultura aziendale quelli
principali. Un bilancio da incubo: 3 morti ogni giorno sul lavoro, per un totale di 677 vittime nei
primi sette mesi dell’anno, secondo gli ultimi dati sulle denunce presentate all’Inail. Forse anche
questo dato è uno di quelli da cui dover ripartire per rendere davvero il nostro Paese moderno ed
evoluto.

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Poi ci sarebbero le solite “beghe” politiche fomentate dalle imminenti elezioni amministrative, con
tutto il loro variopinto corollario di “urgenti questioni da affrontare subito” ed il sorprendente
(ma per chi poi?) risultato del Referendum per la liberalizzazione della Cannabis, che ha
raggiunto (mentre scrivo questo editoriale 30 settembre) le 650.000 firme con tutto il mese di
ottobre ancora valido per aderire. Un risultato ancora più importante in un paese dove il
“consumatore” è profondamente colpevolizzato da un sistema legislativo e giudiziario che lo
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equipara ai criminali.

Insomma di cose da cui ripartire ce ne sarebbero, ma noi di Smart Marketing non saremmo noi se
non prendessimo ispirazione dal meglio che accade nella nostra Italia. Su tutto il resto si staglia
l’Italia sportiva, che da giugno non smette di sorprenderci con le vittorie ed i primati mondiali che
gli atleti normodotati e paralimpici hanno portato a casa. Dagli Europei di calcio, ai Campionati
europei di pallavolo maschile e femminile, passando per le medaglie ed i primati delle Olimpiadi e
Paralimpiadi, con la vittoria dei 100 metri di Marcell Jacobs (primo italiano nella storia, alle
Olimpiadi di Tokyo con il tempo di 9” e 80 centesimi lo scorso 1°agosto 2021), a rappresentare la
ciliegina sulla torta. Un primato, quello dei 100 metri, che ha ispirato anche l’arista di questo
numero, Domenico Velletri, che ha realizzato la bellissima copertina di questo “#ripartItalia
2021”.
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da Domenico Velletri.
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Una vittoria, quest’ultima, ma anche dello sport in generale, che deve essere sprone per tutti noi
affinché, come i valori dello sport ci insegnano, dobbiamo perennemente superare i nostri limiti e
alzare le asticelle dei primati raggiunti, perché solo superando le prove “difficili” capiamo di che
pasta siamo fatti e miglioriamo noi stessi, come ebbe a dire il poeta Rainer Maria Rilke:

  Sappiamo poco, ma che il difficile è il nostro compito è una certezza che non ci deve abbandonare
                                                   mai.

Quindi non mi resta che augurarvi buona lettura e tante “prove difficili” e tanto coraggio
nell’affrontarle, sicuri che dopo sarete atleti migliori, professionisti più preparati ed uomini più
consapevoli, maturi ed evoluti: una versione 3.0 di voi stessi, cosa volere di più?

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Riduzione del Digital Divide: una sfida per
creare un nuovo concetto di qualità della
vita
L’impennata di digitalizzazione che la pandemia da Covid-19 ha portato con sé, ha riacceso le
riflessioni sul Digital Divide, una problematica presente già da tempo, ma che in questo difficile
periodo si è evidenziato come un divario sociale importante e decisivo nel determinare la qualità di
vita dei cittadini.

Con il termine di divario digitale si indica le disuguaglianze nell’accesso e nell’uso delle ICT
(information e communication technologies), distinguendo coloro che hanno la possibilità di
utilizzare facilmente le tecnologie e di avere accesso ad Internet, e coloro che, per motivi economici,
sociali e tecnici, incontrano delle difficoltà.

Già nel 1996, il tema fu trattato dall’allora ex vice-presidente degli USA, Al Gore, che utilizzò il
termine proprio per indicare il gap esistente tra gli “information have” e “havenots”, nell’ambito del
programma K-12 Education. La Rete diventa elemento fondamentale, come sottolineato dall’art.19
della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che la definisce come “una forza
nell’accelerazione del progresso verso lo sviluppo nelle sue varie forme” e chiede agli Stati di
“promuovere e facilitare l’accesso a Internet”, come sottolineato anche dal Rapporto ONU 2012 sulla
Promozione e protezione del diritto di opinione ed espressione,

La difficoltà, o addirittura, l’impossibilità di accesso e utilizzo della Rete diventa quindi un gap che
influisce sulle condizioni di vita dei popoli e che crea differenze evidenti. Il gap digitale può infatti
essere “globale” se si riferisce alla differenza fra i Paesi più e meno sviluppati; “sociale” per quanto
concerne le diseguaglianze all’interno di un Paese, e “democratico” se riguarda la potenzialità di
partecipazione alla vita politica e sociale sulla base di un uso consapevole delle tecnologie digitali.

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Secondo la Commissione Europea si può parlare di un Digital Divide di primo livello, nel caso di
mancata copertura della banda larga fissa ad almeno 2 Megabit, mentre si definisce di secondo
livello se vi è mancata copertura della banda ultralarga. Ma per il prossimo futuro si ipotizza la
possibilità di un gap di terzo livello relativamente alle zone non coperte dalla fibra ottica.

Il fatto di vivere in quella che viene chiamata “società dell’informazione” ci porta ad evidenziare
l’importanza, ma potremmo addirittura dire, la necessità, di accedere all’uso delle tecnologie
digitali, e, seppure questo concetto potrebbe sembrare banale, così non è. Il lavoro si svolge sempre
più online, così come la formazione, e la necessità di un livellamento digitale si avverte forte e
prepotente.

Cosa stiamo facendo per colmare il gap?

Da tempo i capi di Stato si interrogano sulla soluzione al divario perché questo comporterebbe una
vita migliore per i cittadini a livello mondiale. L’ambizione della riduzione del gap si è resa ancora
più necessaria dopo la diffusione del virus Covid, che ha mostrato, prepotentemente, anche a Paesi
più arretrati dal punto di vista tecnologico, l’importanza imprescindibile che le tecnologie hanno
nella vita contemporanea.

Riflettendo sulla situazione italiana, notiamo che il nostro Paese, fino a pochi mesi fa, risultava poco
incline al lavoro in remoto, ma un’emergenza di tale portata ci ha imposto di aprire gli occhi e non
voltare la testa. Secondo i dati del Rapporto Bes Istat del 2021, nel Mezzogiorno il 63,4% di individui
ha accesso alle tecnologie, rispetto al 72,3% del Nord e del Centro. Con l’intento di colmare questa
differenza italiana è stato istituito il Ministero per l’innovazione e la digitalizzazione, la cui strategia
trae ispirazione dagli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, per promuovere
l’innovazione e la digitalizzazione dei servizi pubblici, l’adozione di nuove tecnologie, mettendo al
centro dell’attenzione la comunità e i territori, per creare un rapporto trasparente tra cittadini e
Pubblica Amministrazione.

Nell’ultimo rapporto 2020 della Commissione Europea, che ha elaborato l’indice DESI (digital
economy and society index), per valutare il livello di digitalizzazione dei paesi comunitari attraverso
quattro ambiti (connettività, capitale umano, uso dei servizi Internet e integrazione delle tecnologie
digitali e servizi pubblici), si evince che l’Italia si posiziona al venticinquesimo posto su ventotto
paesi membri in termini di Digital Economy, dando evidenzia proprio dell’ampia disparità tra Nord e
Sud.

Le recenti riflessioni circa la situazione poco rosea del Belpaese, hanno spinto verso la ricerca di
soluzioni utili, una su tutte la Repubblica Digitale, iniziativa del Ministero per l’innovazione e la
transizione economica, sorta con l’obiettivo di combattere il divario e favorire l’educazione sulle
tecnologie. Il progetto si avvale della Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali, composta da
soggetti pubblici e privati per realizzare una cittadinanza attiva, inclusiva, democratica, e
contribuire alla formazione scolastica e per i lavoratori. L’Agenda 2025 prevede di operare al fine di
potenziare i diritti di cittadinanza, partecipazione consapevole e riallineamento delle competenze
digitali richieste nel mondo del lavoro contemporaneo, e investimenti sulla formazione di cittadini,
imprese e amministrazioni locali. L’iniziativa prevede che, attraverso il Servizio Civile Digitale, mille
volontari, definiti “facilitatori digitali”, abbiano il compito di agevolare la collaborazione tra cittadini
e Pubblica Amministrazione, integrandosi con l’obiettivo di investire sui giovani e la formazione.

La riduzione del gap digitale rappresenta, oltre che un modo per migliorare i servizi pubblici, una
possibilità per incrementare la partecipazione dei cittadini, relativamente all’ambito lavorativo e
privato, rendendo la società democratica, partecipativa e inclusiva.

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Finalmente si torna al cinema! 5 nuovi
film che ci aspettano nelle sale
Si torna finalmente nelle sale cinematografiche e noi non potremmo esserne più felici. Uno dei motori
di questa ripartenza potrà essere proprio l’industria del cinema e a cavalcare l’onda di questa,
speriamo duratura, ripresa, ci sono tante nuove produzioni, italiane ed internazionali.

Ho scelto 5 novità che spaziano dalla fantascienza al drammatico, dalle
sceneggiature originali alle trasposizioni dai romanzi.
1. DUNE

Film del regista Denis Villeneuve, remake del film del 1984 di David Lynch, trasposizioni
cinematografiche del romanzo omonimo fantascientifico dello scrittore Frank Herbert del 1965. Uscito
in Italia il 16 settembre scorso, è uno dei film più attesi dagli amanti del genere, che inevitabilmente
lo paragoneranno alla versione degli anni ottanta. “Dune” è ambientato in un futuro controllato da un
impero interstellare, diviso in feudi ed ognuno di questi feudi è governato da una casa nobiliare. Il film
di fantascienza dell’anno può contare su un cast “stellare”, composto da Timothée
Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Zendaya e Jason Momoa;

2. TRE PIANI

Il regista Nanni Moretti prende un meraviglioso romanzo, ambientato in Israele, e lo trasporta in Italia.
Al suo fianco Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Alba Rohrwacher, Elena Lietti,
con cui al Festival di Cannes ha guadagnato undici minuti di applausi. Il romanzo omonimo, dello
scrittore israeliano Eshkol Nevo, indaga tra le pieghe dell’animo umano senza giudizio e con tanta
verità, anche quella più inaccettabile. Non sappiamo quanto il regista italiano abbia preso in prestito
dall’opera letteraria, né come abbia affrontato questa operazione, essendo per lui la prima volta,
sappiamo però che perdersi l’occasione di conoscere questa storia, anzi, queste tre storie, sarebbe un
grande spreco;

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3. IL BUCO

Il 23 settembre è uscito al cinema il film “Il buco”, del regista Michelangelo Frammartino, che dopo
il suo “Le quattro volte”, torna sul grande schermo con lo stile che lo contraddistingue. Premiato al
Festival di Venezia, il film racconta di alcuni membri del Gruppo Speleologico Piemontese che
nell’estate del ’61 decidono di andare ad esplorare l’Abisso di Bifurto, una grotta di origine carsica,
un buco lungo 683 metri nel Parco del Pollino. La critica parla di immagini e suoni che ci fanno
immergere totalmente nell’esperienza di questo viaggio al centro della terra, tra buio e profondo,
respiri e silenzi;

4. IL MATERIALE EMOTIVO

Sergio Castellitto torna al cinema il 7 ottobre con il film “Il materiale emotivo”, tratto dal soggetto del
regista Ettore Scola “Un drago a forma di nuvola” e dalla sceneggiatura che aveva scritto con la figlia
Silvia e Furio Scarpelli. L’opera poi è diventata una sceneggiatura della scrittrice Margaret Mazzantini
e Sergio Castellitto, che è anche l’attore protagonista, insieme a Matilda De Angelis e Bérénice Bejo.
E’ la storia di Vincenzo, un uomo schivo, sempre chiuso nella sua libreria di Parigi, e di sua figlia
affetta da mutismo selettivo, ma la vita di Vincenzo cambierà quando arriverà l’attrice Yolande con il
suo animo trascinante;

5) FREAKS OUT

Il nuovo attesissimo film del regista romano Gabriele Mainetti, che dopo il clamoroso successo del suo
primo lungometraggio “Lo chiamavano Jeeg Robot” del 2015, torna con un’opera storica e
avventurosa. Un circo di freak di cui seguiamo le vicende, nella Roma del 1943, sconvolta dalla
seconda guerra mondiale. Per questa opera corale, in uscita il 28 ottobre, l’attesa è davvero molto
alta, infatti, si prospetta come uno dei film più visti di questa stagione, con un cast che promette
altrettanto bene: Pietro Castellitto, Giorgio Tirabassi, Claudio Santamaria e molti altri.

Vasta scelta in questo autunno cinematografico, non importa cosa sceglieremo ma torniamo al
cinema, che le poltrone rosse, il buio in sala e il profumo dei popcorn ci attendono.

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Genio, geni e altro
Nell’articolo precedente, “I miti della genialità: geni si nasce o si diventa?”, ho evidenziato
l’importanza dell’esistenza di una serie di “ingredienti” alla base sia del genio che del talento.
Elementi seppur diversi, ma fortemente correlati. Nell’immaginario comune, vengono considerati dei
doni, e quando parliamo di doni non facciamo certamente riferimento agli dei, ma alla genetica. Gli
elementi di cui si parlava sono sia di tipo personale (quali la personalità, la motivazione, ma anche la
passione, che, per definizione, non sono di certo innati, vista la componente relazionale,
psicologica e sociale di cui si compongono) che di tipo oggettivo, legati quindi al contesto nel quale
si vive o a fattori casuali e non soggetti a controllo, quali le occasioni e le opportunità.

Nonostante si sia evidenziato, attraverso l’approfondimento delle storie personali dei geni e/o delle
persone di talento, che tali sono diventati non certo grazie a doti innate, persiste nei più una sorta di
rifiuto emotivo ad ammettere ciò e questo per motivazioni facilmente desumibili. L’idealizzazione di
un proprio beniamino, o meglio di un mito (come può essere un genio della matematica o della
musica o, addirittura, un grande campione di calcio), si accompagna spesso all’idea che le sue
“fenomenali” capacità provengano da doti innate. Sfatare questo mito è di grande impatto emotivo: è
come se venisse eliminato quell’alone di inconoscibile che a noi risulta straordinario. Un alone che
contribuisce al suo mistero e, soprattutto, al suo fascino. Sarebbe come ammettere che, se il
cosiddetto genio è diventato tale grazie ad una serie di vicissitudini e opportunità, chiunque avrebbe
potuto farlo, e ciò fa venir meno ai nostri occhi la sua unicità. Se viene a perdersi questa unicità,
viene meno anche la sua bellezza. Pensare che quella determinata persona sia o sia stata unica è la
cosa più semplice che il nostro cervello possa elaborare. L’idea di un genio come uomo comune che
ha dovuto sudare e lavorare sembra inaccettabile, quasi sull’orlo di una vera e propria dissonanza
cognitiva. Ma come stanno le cose davvero sotto l’aspetto genetico? Cosa davvero ci dicono i dati,
almeno fino ad oggi, sulla correlazione tra talento, genio e geni?
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N da Pexels.

Simone Raho, biologo e specializzato in genetica medica, evidenzia che “la questione della
relazione tra genialità, talento e genetica ha in realtà radici più ampie che risalgono al dibattito che
cerca di mettere in chiaro se ciò che siamo sia il frutto dei nostri geni o piuttosto delle nostre
esperienze. Quanto i nostri geni determinino quello che siamo è quindi una domanda, che seppur
posta talvolta in termini diversi, è molto antica.

Ciò che possiamo mettere sin da subito in chiaro è che i nostri geni non sono in grado di
determinare quello che siamo o quello che diventeremo con un semplice rapporto di causa-
effetto. È ovvio che in un settore vasto e complesso come questo non tutto è stato ancora messo in
luce, ma appare senz’altro evidente che più si va avanti con le ricerche, più le cose si complicano, e
in genetica, come in altri campi del sapere d’altronde, questo vuol dire che è molto difficile dare
risposte semplici per dei fenomeni che per loro natura risultano articolati e multiformi: in pratica,
seppur ciò sia di certo affascinante, in genere non esistono geni per ogni cosa desideri la nostra
mente. Termini come intelligenza, genialità (ma anche altri attributi), anche se chiari e diretti in
certi ambiti, in genetica assumono dei contorni più labili e sfumati. Questo non ha impedito di
andare, finora invano, alla ricerca dei geni della criminalità, della pazzia, dell’intelligenza, o di altro
ancora.

Mettiamo allora sin da subito dei paletti: i geni che possediamo hanno un po’ a che fare con quello
che siamo e che diventeremo, ma questo non vuol dire che essi siano in grado di determinare in tutto
e per tutto quello che facciamo. Nei caratteri complessi, come l’intelligenza o la genialità, contano in
modo determinante molti altri fattori, come quello sociale, economico, o più in generale il fattore
ambientale. Eppure, regolarmente in rete o sui giornali, appaiono notizie, perlopiù
sensazionalistiche, legate alla scoperta del gene dell’intelligenza o del gene legato indissolubilmente
alla genialità. In parte ciò può essere ricondotto al fatto che non esiste una definizione univoca di
questi termini. Sicuramente ciascun individuo possiede capacità cognitive diverse da quelle di un
altro; sarebbe quindi anche logico pensare che tali capacità dipendano almeno in minima parte da
differenze genetiche, ma l’importante è che sia chiaro che ciò che ha una base genetica nei caratteri
complessi come quelli cognitivi, non ne conferisce assolutamente un segno di ineluttabilità, o se
vogliamo usare dei termini stilisticamente più aulici, di un destino già scritto e predeterminato”.

Questo implica anche un altro ragionamento legato al concetto di intelligenza come processo innato
e/o forgiato dall’esperienza. Già nell’articolo precedente ho evidenziato quanto sia inutile cercare
una correlazione tra genio e Quoziente Intellettivo, poiché abbiamo visto quanto davvero poco
c’entri l’intelligenza nel perseguimento di un successo, anche di natura intellettuale e culturale. Ben
altri sono i fattori alla base del genio e del talento. Quindi, seppur affermando che lo stesso
Quoziente Intellettivo possa avere delle implicazioni genetiche, di certo c’entra poco nel merito del
genio e/o del talento. Lo stesso valore del QI varia addirittura in base al contesto in cui viene
effettuato. Molte ricerche hanno evidenziato che il QI e il modo di testarlo è deliberatamente
connesso alla cultura, e ciò che si misura con i test, oggi a disposizione, non è una rilevazione di una
capacità innata.
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A tal proposito lo stesso Raho ci ricorda che, “dal punto di vista genetico sono stati eseguiti degli
studi con l’obiettivo di andare a trovare delle relazioni strette tra QI e geni. Quando si vogliono
andare a cercare delle variazioni geniche nei caratteri complessi, una delle tecniche più utilizzate è
la GWAS (Genome-Wide Association Study), cioè studio di associazione lungo tutto il genoma: senza
voler entrare in dettagli troppo specialistici, con questa tecnica si cercano delle associazioni tra
specifiche varianti genetiche e determinate malattie o caratteri complessi. La GWAS comporta
l’analisi dei genomi di tantissime persone diverse e la ricerca di marcatori predittivi della condizione
che si sta studiando.

Quando si sono andate a cercare delle correlazioni fra QI e geni con la tecnica GWAS in effetti se ne
sono trovate diverse: per esempio in due studi del 2017 e del 2018(*), effettuati su circa 78 mila il
primo e su più di 9 mila soggetti il secondo, sono stati individuati una cinquantina di geni che
potrebbero influenzare il QI. Il più rilevante pare sia ADAM12, che codifica per una proteina adesa
alla membrana cellulare, la quale svolge un ruolo nello sviluppo di diversi tessuti, compreso quello
nervoso. La cosa rilevante è che però i due studi forniscono risultati contraddittori, nel senso che i
geni trovati nel primo sono diversi da quelli del secondo. E, altra cosa importante, il contributo di
questi geni appare abbastanza modesto.

 Nel secondo di questi studi, ad esempio, i geni scoperti consentono di spiegare solo l’1,6% delle
differenze in QI nella popolazione. Come ha fatto anche notare il genetista G. Barbujani nel suo libro
divulgativo “Sillabario di Genetica per principianti”, ciò vuol dire che ne resta da spiegare il 98,4%,
e che soprattutto basterebbe soltanto un minimo sforzo educativo per riuscire
eventualmente a compensare quell’1,6% di diversità nel QI per mettere in pari i “meno
dotati” con gli altri.

Pertanto che l’intelligenza sia solo una questione di geni è lungi dall’essere stato dimostrato, e gli
studi che ci hanno provato, ad oggi, sono stati in grado di chiarire che le diversità genetiche tra gli
individui spiegano solo una minima percentuale delle differenze nel QI”.

                    Scopri il nuovo numero: “#ripartItalia”
     La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
    lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                               affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Nell’articolo precedente ho citato il lavoro di Silvano Fuso, autore del testo “Strafalcioni da Nobel”,
nel quale passa in rassegna una serie di errori grossolani e o addirittura l’adesione a teorie
strampalate di una mole di premi Nobel. Questo divario tra lo straordinario lavoro di uno scienziato
che lo ha indotto a ricevere il riconoscimento più importante del mondo e suoi evidenti e significativi
errori di valutazione in altri campi, ci dà un quadro significativo del fatto che il premio rappresenti il
riconoscimento di quell’unico e specifico lavoro svolto, e non certo il riconoscimento della
straordinarietà generale di chi lo ha ricevuto. Questo implica anche il fatto che, se si è esperti in un
determinato campo e si porta avanti un lavoro, anche con una certa logica (ma diciamo pure
intelligenza), si può però mancare totalmente di logica e razionalità nell’affrontare altre situazioni. A
tal proposito lo stesso Fuso sottolinea che “un premio Nobel, per geniale che possa essere stato il
contributo da lui fornito in un determinato settore del sapere, resta comunque un essere umano.
Come tale, oltre all’indubbia razionalità dimostrata, si porta dietro il suo fardello di emotività,
pregiudizi, manie, idiosincrasie, paure, ecc. che ognuno di noi inevitabilmente possiede. La
razionalità è infatti solo un aspetto della nostra mente e, sicuramente, non è quello dominante.
L’essere umano è in gran parte irrazionale e pure i premi Nobel talvolta lo sono.

Le loro convinzioni metafisiche li possono portare a convincersi di cose mai dimostrate. È il caso ad
esempio del francese Alexis Carrel, Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1912, che credeva ai
miracoli di Lourdes, nonostante la mancanza di dimostrazioni. Oppure possono essere determinanti
le convinzioni ideologiche. Ad esempio, Philipp von Lenard e Johannes Stark, entrambi Nobel per la
fisica rispettivamente nel 1905 e nel 1919, furono accesi sostenitori del nazismo e questo li portò a
esaltare un’inesistente Deutsche Physik e a condannare, senza alcuna ragione razionale, alcune
straordinarie scoperte, come la relatività di Einstein e la meccanica quantistica di Heisenberg,
perché considerate scienza giudea (mentre Einstein era effettivamente ebreo, Heisenberg non lo
era, ma veniva considerato “ebreo bianco”). Charles Richet, Nobel per la medicina nel 1913, Pierre
Curie, Nobel per la fisica nel 1903, e in parte la stessa Marie Curie, Nobel per la fisica nel 1903 e
per la chimica nel 1911, credettero alle facoltà di sedicenti medium, che in realtà usavano trucchi.
Infine, in certi casi, le facoltà percettive di un Nobel possono essere compromesse dall’assunzione di
sostanze. Kary B. Mullis, Nobel per la chimica nel 1993, era convinto di aver incontrato un procione
luminoso che lo aveva pure salutato. Vista l’abitudine di Mullis di assumere droghe, non è difficile
comprendere l’origine dell’insolita visione”.

Sulla base di questo è facile pensare che, se esistesse davvero un fattore generale di intelligenza,
come si riteneva in passato, chi si occupa e raggiunge obiettivi importanti in un campo, dovrebbe
farlo anche in altri, ma i fatti ci dimostrano il contrario e quale migliore esempio se non quello dei
premi Nobel.

Come già approfondito nell’articolo precedente, al pubblico arriva spesso il risultato finale di
un’invenzione e/o una scoperta e il più delle volte attraverso un resoconto storico di tale scoperta
piuttosto lineare. Ossia si parte da un punto e si arriva in modo “pulito” al risultato e questo
contribuisce a mantenere il mito della straordinarietà dell’evento. Ma la realtà storica delle cose non
sempre è così lineare. Come evidenzia Marco Ciardi, docente di storia della scienza all’Università di
Firenze nel suo saggio “Gli scienziati, le autobiografie e la storia della scienza”, quando il resoconto
di una scoperta scientifica lo si evince soprattutto attraverso una autobiografia dello scienziato
stesso, il racconto delle vicende che precedono la scoperta scientifica è fortemente influenzato dalla
scoperta stessa, con una sorta di interferenza retroattiva che da la suggestione che tutto il
percorso effettuato dal ricercatore sia stato coerente e mirato verso il raggiungimento di un
obiettivo già prefissato. Se, invece, si effettua l’indagine attraverso il metodo storico, si osserva che
le cose vanno diversamente rispetto ad un resoconto autobiografico. Il percorso può apparire
tutt’altro che lineare, portando addirittura ad obiettivi non necessariamente cercati. Le scelte che
precedono la scoperta, il più delle volte, hanno poco a che fare con l’obiettivo finale, ma vengono
riadattate sulla base di questo. Numerose e diverse sono invece le scoperte fatte in modo del tutto
casuale, attraverso la ricerca di qualcosa di differente da ciò che è emerso. Questo è un aspetto di
notevole importanza, a mio avviso, raramente preso in considerazione quando si parla di geni e di
grandi scoperte e ciò perché si tende a voler consolidare il mito del genio talentuoso.
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Una delle obiezioni più ingenue riguardo alla questione del talento non innato fa spesso riferimento
alle capacità dei cosiddetti bambini prodigio o, meglio definiti, plus-dotati. Dall’articolo precedente
appare ben chiaro, vedendo gli esempi riportati sul giovane Mozart e, soprattutto, l’emblematico
esperimento di Polgar, come gli stessi piccoli dotati non si sottraggano all’influenza di ambiente ed
educazione precocissima, ma è opportuno sottolineare che anche le capacità straordinarie dei più
piccoli si esprimono sempre secondo ciò che lo sviluppo cognitivo e motorio può consentire loro. Lo
psichiatra e antropologo Philippe Brenot, autore del saggio “Geni da legare”, evidenzia che le
prestazioni più precoci sono proprio quelle musicali, poiché orecchio e aree sensoriali maturano per
prime e quindi ritmo e melodia non hanno bisogno dello sviluppo del linguaggio. Seppur
apparentemente strano sembra, invece, cosa naturale incontrare piccoli assi della musica. Dopo si
sviluppano le capacità di calcolo, ma sempre prima del linguaggio. Le arti plastiche, invece,
necessitano di coordinazione motoria e controllo visivo, acquisizione della lettura tridimensionale e
della prospettiva, tutte nozioni complesse che hanno bisogno di addestramento. Infatti raramente si
diventa bravi pittori prima dei dieci anni. La poesia e letteratura hanno bisogno dello sviluppo del
linguaggio e una certa conoscenza delle cose: è davvero difficile che prima di 15 anni si possa
diventare letterati. Qui ci sono inoltre forti implicazioni legate soprattutto all’istruzione. Possono
esserci dei casi eccezionali, ma non si sottraggono mai alle normali leggi dello sviluppo fisiologico,
seppur considerando che addestramenti precoci possano, in qualche modo, forzarlo. Ma parliamo
sempre di interventi provenienti dall’esterno e non di spinte interiori di chissà quale natura.

Ancora una volta i fatti sono in contrasto con ciò che ci piace credere e ci fanno venire a patti con
l’idea che i nostri beniamini, letterati, scienziati o sportivi che siano, sono diventati tali non perché
l’universo ha voluto così o la natura abbia fornito loro delle potenzialità innate, ma solo perché
hanno avuto la tenacia, la perseveranza, le opportunità e quel pizzico di “fortuna” che a noi è stata
negata.

  Letture consigliate:

  Barbujani G. (2019) “Sillabario di genetica per principianti”. Bompiani

  Ciardi M. (2007) “Gli scienziati le autobiografie e la storia della scienza”, in Rivista di storia delle
  idee. Il Mulino.

  (*): I due studi su geni e QI sono:

  Sniekers S. et al. (2017), “Genome-wide association meta-analysis of 78,308 individuals identifies
  new loci and genes influencing human intelligence”, in Nature Genetics, 49: 1107-1112;

  Zabaneh D. et al. (2018), “A genome-wide association study for extremely high intelligence”, in
  Molecular Psychiatry, 23: 1226-1232.
Silvano Fuso, dottore di ricerca in scienze
chimiche e docente, si occupa di didattica e
divulgazione. Il 27 gennaio 2013 è stato intitolato
a suo nome l’asteroide 2006 TF7 in orbita tra
Marte e Giove. Ha pubblicato diversi libri, tra cui:
Le ragioni della scienza (2017), Strafalcioni da
Nobel (2018), Quando la scienza dà spettacolo
(con A. Rusconi, 2020), A tu per tu con un genio
(2020), Il segreto delle cose (2021).

Simone Raho, Biologo specializzato in Genetica
Medica e un Master in Genetica Forense, ha
lavorato nelle aree della biologia molecolare e
della genetica nell’ambito della medicina di
laboratorio, è attualmente dirigente ASL.

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AAA giovani bamboccioni cercasi!
Se il futuro è in mano ai giovani penso che un’analisi sulle possibilità di ripartenza dell’Italia dopo
la prova del fuoco del Covid sia analizzare come il nostro Stato si è comportato e si sta
comportando nei confronti di questa fetta della società.

Andiamo per ordine.
Fascia 0-5 anni
Per i piccolissimi la vita sembra ancora lunga e rosea, ma gli ostacoli non si sono fatti mancare in
quest’anno. Intanto la difficoltà di molti neogenitori di conciliare lo smart working con i figli. Chi
aveva la facoltà o l’obbligo, in base ai casi, di lavorare da casa, non poteva usufruire dei congedi
per la gestione dei figli. Certo è che un bambino di 1-2 anni fatica ad essere autonomo durante le
8 ore di lavoro di papà e mamma, ma la situazione non migliora negli anni immediatamente
successivi. Questo recente settembre si è assistito al cambio di regole in corsa con il Green Pass
per l’ambientamento dei figli. La norma è stata discussa venerdì 10 settembre, pubblicata in
Gazzetta Ufficiale sabato 11 per entrare in vigore lunedì 13, primo giorno di scuola. Per questa
fascia di età, la questione è abbastanza delicata, soprattutto pensando ai lunghi ambientamenti
del nido e talvolta dell’infanzia che richiedono alcune settimane. Tra corredini, cambi scarpe,
vestiti brandizzati con il nome dei figli, ci mancava anche questa incombenza che, forse, poteva
essere organizzata con un paio di settimane di anticipo. Altro argomento riguarda l’autonomia e lo
sviluppo della personalità dei bimbi che hanno fratelli o sorelle in fasce di età simili e che da
sempre sono stati “divisi” in classi diverse per consentire una crescita del soggetto senza
l’influenza di altri membri della famiglia, ma da ormai 2 anni questo storico principio è stato
abbandonato in vista dell’unione dei congiunti fino ai cugini per isolare i contagi.

Fascia 6-11 anni
Dopo un primo anno di DAD, disastrosa per la gestione famigliare e faticosa per i bambini in
termini di attenzione e apprendimento, finalmente si torna in presenza. Ma se i banchi a rotelle
non hanno funzionato e sono stati abbandonati in poche settimane (nota a margine: i banchi a
rotelle prevedevano una seduta con un banchetto sollevabile e posizionato sul lato destro. Tutti i
mancini non avrebbero avuto un piano di appoggio su cui poter scrivere e nessuno ha pensato di
prevedere dei tavolini sul lato sinistro), torna il problema delle mascherine, dell’areazione nelle
classi e dei contagi e del distanziamento. Tutto calcolato, titoleggiano i giornali. Ma le scuole
chiuse quest’anno sono molte di più del settembre dello scorso anno. Istituti chiusi, disagi per i
genitori, molti contagi, con pochissimi ricoveri e forme gravi fortunatamente.

Fascia 12-18 anni
L’adolescenza è per tutti un momento difficile e di cambiamenti, di necessità di staccarsi dalla
famiglia e di essere accettati nel gruppo dei pari. Con i tanti progetti di inclusione sociale come
reagisce lo Stato? Le società sportive gridano l’allarme per l’ingente numero di ragazzi che si
ritirano dall’attività che ora diventa accessibile solo con vaccino o tamponi a giorni alterni.

E in classe? Sarà possibile togliere la mascherina se tutti sono vaccinati. La regola è sensata. Ma
che peso viene messo su un adolescente che, per convinzioni, ragioni di salute, scelta personale o
dei propri genitori, non è vaccinato? Inoltre, dal punto di vista della Privacy, come sarà possibile
mantenere privata una motivazione sanitaria, una convinzione religiosa o alimentare? Negli Stati
Uniti, ad esempio, possono richiedere l’esenzione dalla vaccinazione per il rifiuto alle iniziezioni
nel corpo per finalità religiose, come anche per convinzioni vegane, in quanto i vaccini sono
testati sugli animali. Suppongo che la vita relazionale di quel ragazzo diventerà davvero pesante.
Forse ci troveremo tra qualche anno a dover gestire i danni psicologici sui ragazzi bullizzati
perchè no vax, con buona pace di tutti i promotori dell’inclusione sociale. Inoltre per la
somministrazione del vaccino a un minorenne, secondo una recente sentenza, si può superare
anche l’opposizione dei genitori, o di uno di essi: una potenziale bomba psicologica nella già
precaria vita familiare dei nostri tempi, in cui un adolescente si troverebbe a gestire il già
complesso equilibrio tra i meccanismi di accettazione del proprio gruppo di amici e la relazione
con la propria famiglia.

Fascia 18-25 anni
Gli universitari, giunti ormai alla maturità, credo siano quelli considerati adulti ma trattati da
bambini. L’atteggiamento in tema Covid e vaccinazioni sembra apprezzarli nella versione
bamboccioni rispetto che ad adulti pensanti. Se lo Stato ritiene che il vaccino e il Green Pass
siano dei sistemi efficaci per proteggere le persone non dovrebbe banalizzarli con delle tristi
iniziative di marketing.

Mi riferisco all’Open Night vaccinale, tenutasi il 31 agosto a Cagliari, dove il polo vaccinale si è
tramutato in una festa. Il sito del Comune di Cagliari scrive “gadget colorati per tutti coloro che
andranno alla fiera, una postazione per selfie e un dj set dalle 20 alle 24″. La campagna è stata
pensata per un target dai 12 ai 25 e ripropone gli ingredienti principali di una normale festa. Non
c’è obbligo di prenotazione e l’accesso è libero. Oppure ancora le campagne promozionali da birra
o soldi in cambio di un vaccino.

                  Scopri il nuovo numero: “#ripartItalia”
   La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
  lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                             affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Visti i numeri del referendum sulla liberalizzazione della cannabis forse anche qui arriveremo
come a Washington a promuovere “Joints for Jabs” dove viene regalata della marijuana in cambio
della somministrazione del vaccino.

La banalizzazione sembra voler comprare o barattare un farmaco con qualcosa di divertente,
deresponsabilizzando le iniziative, dimenticandosi dei morti che ci sono stati realmente e, più in
generale della tragedia collettiva che abbiamo vissuto (o stiamo ancora vivendo?).
Il mio dentista, da quando ho raggiunto l’età di 7-8 anni, ha smesso di regalarmi lecca lecca come
premio perchè ero stata coraggiosa a sedermi sulla sua poltrona e aprire la bocca. Qui i medici, lo
Stato, i Comuni trattano degli adulti che contribuiranno a eleggere il prossimo Parlamento
esattamente come faceva il mio dentista, preferendo dei bamboccioni a dei cittadini critici e
responsabili.

In un clima di incertezza, di nuove regole quotidiane, le assurdità permangono. Come l’Università
di Trieste che domandava agli studenti in didattica a distanza il green pass per poter accedere
agli esami (poi rettificato con una circolare del Ministero), oppure l’accesso alle biblioteche che,
in quanto luoghi di cultura, non sono fruibili dagli universitari senza Green Pass.

Fascia over 25
La situazione si spacca tra chi è convinto e chi non lo è ma “devo lavorare” e, dopo tutte le misure
e ristrettezze dello scorso anno, è davvero una triste costrizione, con lo spettro della famigerata
“sostituzione”, nelle piccole aziende, con altro lavoratore. Inoltre ora anche l’obbligo per i privati
di controllare il Green Pass nel momento in cui si richiede l’intervento di un professionista, come
l’elettricista, l’idraulico o la colf. La mia impressione è che verrà favorito molto lavoro nero. Se
non figura come dipendente, non è necessario chiedere il Green Pass, non si rischiano multe, non
si pagano i contributi. 3 piccioni con una fava. E al momento degli eventuali controlli si può
sempre rispondere che è un’amica che mi aiuta in casa.

Chissà se il fine giustifica i mezzi?
Di sicuro, tra vax e no vax molti tornano a evocare l’epoca fascista. I medici respingono i
provvedimenti secondo i quali per comparire in televisione sia necessaria l’approvazione
dell’azienda sanitaria di appartenenza in quanto sembra “un bavaglio da epoca fascista”. I no vax
definiscono il Green Pass una dittatura ed espongono la stella di Davide.

Dicono che per iniziare il dialogo bisogna partire dai punti di incontro e non dalle differenze…

“Bombshell. La voce dello scandalo” ci
racconta il vero scandalo, di natura
sessista e misogina, che colpì FOX News
nel 2016, un anno prima del caso Harvey
Weinstein e del #MeToo. Ed è anche per
questo che andrebbe visto
Comincia come una sorta di documentario promozionale della FOX News il film “Bombshell. La
voce dello scandalo”; infatti a sfondare la quarta parete e parlare direttamente a noi spettatori è
una giornalista che dopo scopriremo essere Megyn Kelly, una delle colonne del grande network
americano.
In un reportage veloce e serrato, scopriamo, accompagnati dalle spiegazioni della nostra guida, il
dietro le quinte di un grande network televisivo, con una serie di “indiscrezioni” che già ci fanno
intuire il clima sessista e maschilista che vige alla FOX. Infatti, nonostante il luogo sia pieno di
donne, tutte per lo più attraenti, capiamo che a comandare e dettare regole sono i maschi.

Megyn Kelly, un personaggio reale, è impersonato da una splendida ed intensissima Charlize
Theron, che ci regala un’interpretazione appassionata e piena di sfumature, ma che non
riconosciamo immediatamente a causa del trucco prostetico cui si è sottoposta, per assomigliare
ancora di più alla vera giornalista.

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quasi irriconoscibile per il trucco prostetico, nei panni dela giornalista Megyn Kelly.

È lei la protagonista del film che racconta la vera storia della caduta di uno degli uomini più
potenti della Fox, Roger Ailes, Presidente e CEO di Fox News e Fox Television, che nel 2016 fu
prima accusato di molestie sessuali da diverse dipendenti e poi licenziato con una buonuscita di
40 milioni di dollari.

Un caso, quello raccontato in “Bombshell. La voce dello scandalo”, che anticipa di un anno
quello assai più celebre di Harvey Weinstein e che portò alla nascita di movimenti come Time’s
up e #MeToo.

                  Scopri il nuovo numero: “#ripartItalia”
   La ripartenza è un tema quanto mai attuale. Dopo due anni di pandemia sentiamo il bisogno di
  lasciarci alle spalle questo lungo periodo complesso (tenendo quello che di buono c’è stato) e di
                             affacciarci con ottimismo al tempo che verrà.

Il film, diretto da Jay Roach, vede insieme a Charlize Theron altre due donne ed attrici
straordinarie: da una parte Nicole Kidman, che dà corpo e sostanza alla giornalista Gretchen
Carlson (altro personaggio reale), l’ex Miss America diventata conduttrice televisiva e che sarà la
prima a denunciare Roger Ailes, dall’altra Margot Robbie, che interpreta con grande trasporto e
passione il personaggio di finzione Kayla Pospisil, che racchiude idealmente tutte le altre donne
che si fecero avanti contro Ailes.

Ma in questo bel film c’è posto anche per due grandi performance maschili: la prima è quella
John Lithgow, che interpreta magistralmente un Roger Ailes stanco e appesantito dagli anni e
dai chili di troppo, ma ancora capace di nefandezze indicibili nei confronti delle donne della FOX
(e che a detta di chi scrive avrebbe meritato la nomination all’Oscar per la sua interpretazione); la
seconda è quella di un perfetto Rupert Murdoch, fondatore della FOX Television, impersonato
da un convincente e sempre bravo Malcolm McDowell.

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n Lithgow (a sinistra), che interpreta magistralmente Roger Ailes e che per questa
performance avrebbe meritato la candidatura all’Oscar.

Il film, sceneggiato dal premio oscar Charles Randolph, vede nel ritmo e nel suo essere
iperrealistico i suoi punti di forza: fin dalle prima scene lo spettatore è calato direttamente nella
storia, senza filtri né quel distanziamento fisiologico che gli consentirebbe una qualche via di
fuga. Il tema trattato è coraggioso e regista, sceneggiatore ed attori ce la mettono tutta per
mettere a disagio lo spettatore, soprattutto quello maschile, che, come ben ha evidenziato la
critica Roberta Loriga nella sua recensione per Sentieri Selvaggi, capisce cosa vuol dire essere
donne in ambienti lavorativi misogini e sessisti: “[…] il film mostra cosa significa essere una
donna nello showbusiness americano, e la visione è fatta di sguardi, sussurri, gesti inequivocabili.
Personaggi, piani temporali e angolazioni si fondono in una forte critica sociale, non solo all’uomo
molestatore, ma anche a tutti gli uomini e le donne che giudicano chi li combatte, indagando sugli
aspetti personali e caratteriali della vittima, quasi in cerca di una giustificazione per scusare i
perpetratori e con loro l’intero tessuto sociale che consente loro di agire in tal modo”.
Il titolo inglese del film era già, a questo proposito, un chiaro riferimento a quella cultura
maschilista e conservatrice che permeava e purtroppo ancora permea la FOX News, Bombshell
infatti ha il doppio significato sia di “notizia esplosiva”, sia “dell’epiteto sessista” con cui riferirsi
ad una donna attraente.

Perché dovremmo vedere Bombshell. La voce dello scandalo?
Perché è un film tremendamente attuale, perché la parabola del potere di Roger Ailes (che
sarebbe morto un anno dopo il suo licenziamento) che racconta è la stessa di tanti altri “uomini”
di potere che approfittano della loro posizione per spadroneggiare e vessare i propri dipendenti,
soprattutto femminili, perché il grado di civiltà di una società si misura, soprattutto, da come
tratta i propri membri più indifesi.

Un film, “Bombshell. La voce dello scandalo”, che andrebbe visto e rivisto e magari proiettato
nelle aziende e anche nelle scuole (il film ha il limite a +13 anni) soprattutto in paesi connotati da
una forte tradizione maschilista e misogina come l’Italia, dove, è sempre utile ricordarlo, da inizio
2021 e fino a settembre ci sono stati 83 casi di femminicidio, 83 donne uccise per lo più in
ambiti familiari, dai mariti e/o da ex fidanzati. Un bilancio terribile che interessa tutti, non solo le
forze di polizia e i tribunali, ma riguarda la politica, i cittadini e tutta la società cosiddetta “civile”.

Film come questo sono terribilmente necessari, in un momento storico come l’attuale, perché,
come ha dichiarato Charlize Theron in un’intervista a Deadline:

“Penso che la gente dimentichi che Time’s up e #MeToo non erano ancora nati quando tutto è
successo. Questo aumenta la posta in gioco perché quando Gretchen Carlson è andata da un
avvocato e si è fatta avanti non c’era ancora supporto. Non nacque alcun movimento ed era
completamente sola. È qualcosa per cui nessuna donna vuole essere definita, in particolare una
donna ambiziosa che vuole essere conosciuta per il suo lavoro. Tutte le donne coinvolte hanno
dovuto affrontarlo. È stato incredibilmente coraggioso. Oggi è ancora difficile, ma è bello vedere
che non sei solo”.

Quindi il nostro consiglio è quello di recuperare questo film e di vederlo, tenendo conto dei divieti
di età, con tutta la famiglia, per capire le dinamiche sessiste insite nella società capitalistica, e
magari cercare di disinnescarle, e, perchè no, comprendere il funzionamento di un grande
network televisivo come la FOX sia dal punto di vista tecnico, che da quello politico. Perché alla
fine tutti i luoghi dove si amministra il potere si somigliano e presentano le stesse dinamiche,
fragilità e storture.

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