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Il film Parasite mette in scena la globalizzazione al suo zenit ed è per questo che dovremmo vederlo Siamo nella ricca e moderna Corea del Sud, anche se dalle immagini non si direbbe, sembra la più desolata delle periferie orientali, trafficata, sporca, tentacolare e affaccendata. Attraverso una piccola finestra a livello del suolo, entriamo in un angusto e raffazzonato appartamento, ma meglio sarebbe dire tugurio, ed è qui che conosciamo la famiglia Kim, composta dal padre Ki-taek, la madre Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jeong. Li vediamo poveri, quasi indigenti, alla continua ricerca di piccoli lavoretti temporanei per sbarcare il lunario, o di una connessione internet gratuita a cui connettersi, od ancora ad approfittare della disinfestazione stradale per bonificare “gratuitamente” la loro abitazione. Insomma, i Kim sono una famiglia al margine, ottimi rappresentanti di quei nuovi poveri, quella moltitudine di individui che cresce in tutto il mondo civilizzato e che la globalizzazione ha lasciato indietro, se non proprio dimenticato. La vita della famiglia Kim scorre, o meglio si trascina, senza che si intraveda una possibilità di riscatto sociale e/o economico. Nonostante la miseria, li vediamo molto uniti, ancora portatori sani di quella tipica “dignità” orientale e dotati di una vena di furbizia che li aiuta a sopravvivere. Ma adesso cambiamo scenario. Attraverso una enorme finestra in vetro, entriamo in un’altra casa, quella della ricchissima famiglia Park, una lussuosissima villa in un quartiere residenziale della città. Anche qui la famiglia è composta da quattro individui: Park Dong-ik, il ricco capofamiglia che dirige
una grande azienda informatica, l’ingenua ed annoiata moglie Choi Yeon-kyo, la timida, ma non troppo, figlia adolescente Park Da-hye ed il piccolo e problematico figlio Park Da-song. La separazione, anzi la frattura, esistente fra le due famiglie è marcata da tutti gli elementi presenti, perfino l’architettura crea divisone di classe: la casa dei poveri Kim è sotto il livello del suolo, quella dei Park è sopra una collina; gli spazi della casa dei Kim sono angusti e luridi, quelli della casa Park ampi, luminosi, lussuosi, sembrano usciti da una rivista di arredamento. I Kim vivono a ridosso di un malfamato marciapiede e sono avvolti dal cemento, i Park conducono un’esistenza dorata, protetti da un grande muro di cinta e immersi in un grandioso giardino. Perfino il cibo è differente, notiamo anche in questo una marcata differenza di classe. Insomma, i Kim ed I Park sono letteralmente e fisicamente agli antipodi, tutto potremmo pensare tranne che queste famiglie possano avere qualcosa in comune (tranne il fatto di vivere nella stessa città), o possano mai venire in qualche maniera in contatto. Eppure il contatto ci sarà ed è da questo scontro di civiltà che prende avvio il plot del film “Parasite” di Bong Joon-ho, già vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2019 e trionfatore, un po’ a sorpresa, all’ultima Notte degli Oscar del 2020 dove, a fronte di 6 candidature, il film si è aggiudicato 4 premi fra i più prestigiosi: Miglior Film, Miglior Film Internazionale (l’ex premio Miglior Film Straniero), Miglior Regista e Migliore Sceneggiatura
Originale. L’incontro fra queste due famiglie avviene per mezzo di una strana raccomandazione grazie alla quale Kim Ki-woo entrerà nella casa dei Park per insegnare inglese alla ricca figlia adolescente, Da- hye, assunto dall’apprensiva madre Choi Yeon-kyo, che si farà abbindolare da un titolo di studio fasullo e da millantate credenziali. Fin da subito Kim Ki-woo intuisce l’estrema malleabilità della signora Choi Yeon-kyo e già dal loro primo incontro la convince ad assumere la sorella Kim Ki-jeong come insegnate d’arte del figlio Park Da-song, ritenuto dalla madre depositario di un talento artistico grezzo e da affinare. Piano, piano i due fratelli Kim riusciranno con sotterfugi, intrighi e complotti a far licenziare l’autista e la governante dei signori Park per far assumere negli stessi ruoli i propri genitori. Insomma, l’osmosi fra queste due famiglie tanto diverse pare completa ed alla fine tutti sembrano contenti, se non fosse che il destino un giorno bussa alla porta, o meglio al videocitofono della residenza dei Park. Infatti una sera nella quale, partiti i Park per un campeggio, i Kim si sono riuniti a fare baldoria nella villa dei propri datori di lavoro, ricevono la visita inaspettata della vecchia governante, la signora Moon-gwang che chiede di poter recuperare una cosa importante dallo scantinato della villa. https://youtu.be/iPOugEDF8tk Fermiamoci qui con il racconto della trama per non togliervi il gusto di recuperare questo straordinario film, che è tornato in molte sale italiane dal 6 febbraio scorso prima dell’assegnazione degli Oscar ed è, dopo il trionfo, ancora in programmazione su molti schermi, e proviamo a capire come mai questo film outsider abbia sbaragliato una concorrenza così agguerrita come quella di quest’anno dei Premi Oscar. Sicuramente l’Academy Award ha voluto lanciare un messaggio alla politica del presidente Trump, ma questo non basta a spiegare come film eccezionali come “1917”, “The Irishman” e “C’era una volta… a Hollywood”, con 10 candidature ciascuno, e un film notevole come “Joker”, con addirittura 11 nomination, siano rimasti pressoché a bocca asciutta di Oscar “pesanti” in favore di questo film sudcoreano. Credo che il successo stia nella forza della storia raccontata che è un ibrido fra thriller, commedia, drammatico, con una spolverata di horror, ma non un horror qualunque, bensì un orrore quotidiano, persistente, pestilenziale, un orrore che sentiamo latente in ognuna delle scene del film, un orrore esaltato dalla splendida ed estremamente fluida fotografia di Hong Kyung-po, che ci mostra una realtà alla quale sembra sempre mancare qualcosa o che nel migliore dei casi sia carica di nefasti presagi. Il film Parasite ci mostra uno scontro di civiltà nel quale i ricchi non sono malvagi profittatori, ma ingenui e sempliciotti, gente buona tutto sommato, mentre i poveri non sono virtuosi e stoici, ma meschini e profittatori, un po’ cinici e pronti a tutto pur di manipolare il prossimo.
Insomma, Parasite ci mostra cosa sia diventata la società civile di oggi: da una parte abbiamo i benestanti, radical chic, buonisti ed abbastanza ingenui e dall’altra una classe media impoverita dalla globalizzazione che è diventata perfida e pronta a tutto pur di migliorare la propria condizione sociale. I Park, a loro modo, sono i parassiti della società intera nella quale, come sappiamo, pochi individui detengono la ricchezza dei due terzi della popolazione più povera e ci mostrano quanto sarebbe necessaria una redistribuzione del reddito alle classi più bisognose. Dall’altra parte abbiamo i Kim che diventano veri e propri parassiti della ricca famiglia con cui vengono in contatto, e, al pari di un morbo o di un virus, diventano infestanti e tossici fino alla morte dell’organismo ospite che li ha accolti. Il regista Bong Joon-ho ci mostra in maniera potente, scintillante e senza filtri a cosa la nostra società intrisa di disuguaglianze sociali, economiche e culturali può portare, anzi ci ha già portato. La stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di questo film si muovono senza ideali, senza piani, senza moralità, non sono più neanche individui nei quali riconoscerci o specchiarci, sono diventati una moltitudine, una folla indistinta, una massa a cui tutto è concesso e nella quale non vi sono colpe, né punizioni, neanche per i crimini più efferati. Una massa informe nella quale non vogliamo riconoscerci, ma della quale siamo già adepti, seguaci e credenti.
I l r e g i s t a B o n g J o o n - h o t i o n f a t ore alla Notte degli Oscar 2020. Insomma, Parasite ci mostra non tanto la banalità del male, quanto la sua ineluttabilità, sembra che il regista Bong Joon-ho, abbia fatto sua la riflessione del sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman quando, parlando del sentimento della paura ai tempi della globalizzazione, scrisse: “La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che il male si può nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non ha segni particolari né usa carta d’identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile.” Quello che ci mostra Parasite allora è la globalizzazione al suo zenit, quando l’unica legge che ha valore è la legge della giungla, nella quale, se non si è un predatore, non si ha grande scelta, si può essere preda o appunto diventare un parassita. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter I 100 anni di Federico Fellini, il Re dei sognatori Nato a Rimini da una famiglia piccolo borghese il 20 gennaio del 1920 e morto a Roma il 31 ottobre del 1993, Federico Fellini è il regista italiano (insieme a Sergio Leone) più celebre, amato, citato e studiato all’estero. Il suo cinema, visionario e onirico, con una maniera unica di raccontare storie attingendo alla propria biografia, lo rende difficilmente collocabile in un genere ben definito; ha fatto film sempre
diversi e non si è mai ripetuto, consegnando alla storia del cinema capolavori immortali. Scorrendo la lista dei sui film lo si capisce bene: 8½, La dolce vita, I Vitelloni, Le notti di Cabiria, La strada, Amarcord, Il Casanova, etc., sono tutti capolavori, tutti pietre miliari del cinema mondiale, tutti imprescindibili visioni del nostro immaginario collettivo. Niente male per un regista a cui non piaceva la definizione di “Artista” e che anzi si definiva: “un artigiano che non ha niente da dire ma sa come dirlo”. Aveva abbandonato gli studi universitari per recarsi nella capitale per fare il giornalista, finì a lavorare in un giornale satirico, il Marc’Aurelio, come vignettista ed entrò nel mondo del cinema dalla porta di servizio, come illustratore e gagman (scrive, tra l’altro, alcune gag per Macario), per
poi diventare dapprima soggettista e sceneggiatore ed infine regista. “La sua opera – come ci ricorda Giordano Lupi nel suo Federico Fellini (Mediane,2009) – è un mosaico composito che commuove, diverte, modifica il mondo, rende nostalgici, sognatori e fa spiccare voli pindarici di fantasia”. Il suo sguardo sul mondo è attento, infatti tutti i suoi film risentono della sua biografia, ma la sua maniera di girare film è unica. Le sue sontuose scenografie, ad esempio, erano esagerate, magniloquenti, al limite del kitsch, ma il regista aveva sempre il timore che fossero troppo autentiche, troppo vere, lui voleva che si capisse che fossero finte, artificiali, che fossero appunto delle scenografie. Lo si capisce bene nel docufilm “Intervista” del 1987, che svela diversi retroscena sulla maniera di pensare e girare il cinema propri del Maestro. I suoi primi film, da “Luci del varietà” del 1950 fino a “La strada” del 1954, risentono della lezione neorealista (Fellini era stato fra gli sceneggiatori di Roma città aperta e Paisà, entrambi di Roberto Rossellini), ma da “La dolce vita” (1960) in poi il suo stile unico e riconoscibile diventerà il suo marchio di fabbrica, imponendo la sua cifra stilistica a livello mondiale. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Nessuno come lui ha saputo mettere in scena il mondo della fantasia, della creatività e soprattutto del sogno. Fellini era un vero appassionato del mondo onirico ed aveva letto, e ne era stato ispirato, il grande psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung. Insieme a Vittorio De Sica, sarà l’unico regista italiano che vincerà 4 volte l’Oscar per il Miglior Film Straniero per “La strada” nel 1957, “Le notti di Cabiria” nel 1958, “8½” nel 1964 ed
infine “Amarcord” nel 1975. Anche se, per essere precisi, De Sica aveva vinto i primi due Oscar – quello per Sciuscià (1948) e quello per “Ladri di biciclette” (1950) – nella categoria “Oscar Speciale”, perché quello per “il Miglior Film Straniero” ancora non esisteva. Infatti sarà proprio un film di Fellini, il già citato “La strada”, ad aggiudicarsi per l’Italia il primo Oscar in una categoria competitiva. Ma oltre ai 4 Oscar per il Miglior Film Straniero, Fellini riceverà nel 1993 l’Oscar alla Carriera, insieme ad altri prestigiosi premi come il Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985 e la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1960 e ad un’infinità di David di Donatello e Nastri d’Argento. Insomma, siamo di fronte ad un gigante della cinematografia mondiale, inventore di uno stile, lo “stile alla Fellini”, o meglio ancora dell’aggettivo “felliniano”. I suoi film hanno ispirato generazioni di registi, fra cui Woody Allen, Matteo Garrone, Michel Gondry e tanti altri. Nessuno come lui ha saputo indagare con il suo sguardo ambienti e personaggi surreali, onirici e
magici, come il Circo, i saltimbanchi, i diversi, i matti, i sognatori. Un maestro che quest’anno verrà celebrato dalla sua natia Rimini e da Roma, sua città d’adozione, con una serie di iniziative, mostre, proiezioni e rassegne. Ma anche la televisione farà la sua parte, non a caso il nuovo canale del gruppo Mediaset “Cine 34” inizierà le sue trasmissioni proprio il 20 Gennaio 2020, per i 100 anni dalla nascita del Maestro riminese, con una programmazione ad hoc denominata “Fellini 100”, una non-stop dalle 06.00 di mattina alle 03.30 di notte, con la proiezione di ben 8 film restaurati, che culminerà con la messa in onda in prima serata, alle 21.00, di “Amarcord” e in seconda serata, alle 23.00, de “La dolce vita”. Cosa altro dire di questo regista e di questo importante anniversario? Solo un’ultima cosa: questa ricorrenza potrebbe essere l’occasione giusta per gli appassionati di rivedere qualcuno dei grandi film di Fellini e per chi non lo conosce (ma ci sarà davvero qualcuno che non sappia chi sia Federico Fellini?) per imparare ad amarlo attraverso i suoi film, le mostre, le iniziative e la programmazione televisiva, perché forse non lo sappiamo, o forse lo abbiamo scordato, o forse lo abbiamo solo sognato, ma tutti noi siamo un po’ sognatori, un po’ folli, un po’ saltimbanchi, in altre parole, siamo tutti un po’ “felliniani”. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome
Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Cresce l’attesa per gli Oscar 2020 con l’annuncio delle nomination. Joker continua a comandare. Annunciate il 13 gennaio le nomination per gli Oscar 2020, che si terranno il prossimo 10 febbraio. Continua a dominare il film “Joker” con il formidabile Joaquin Phoenix, subito dopo Tarantino, Mendes e Scorsese. Ecco le nomination: MIGLIOR FILM Le Mans ’66 – La Grande Sfida The Irishman Jojo Rabbit Joker Piccole Donne Storia di un matrimonio 1917 C’era una volta a…Hollywood Parasite
J o k e r 1 1 c a n d i d a t ure MIGLIOR REGIA Martin Scorsese (The Irishman) Todd Phillips (Joker) Sam Mendes (1917) Quentin Tarantino (C’era una volta a…Hollywood) Bong Joon-ho (Parasite) MIGLIORE ATTRICE PROTAGONISTA Cinthia Erivo (Harriet) Scarlett Johansson (Storia di un matrimonio) Saoirse Ronan (Piccole Donne) Charlize Theron (Bombshell) Renée Zellweger (Judy) MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA Antonio Banderas (Dolor Y Gloria) Leonardo DiCaprio (C’era una volta a…Hollywood) Adam Driver (Storia di un Matrimonio)
Joaquin Phoenix (Joker) Jonathan Pryce (I Due Papi) T h e I r i s h m a n 1 0 c a ndidature MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA Kathy Bates (Richard Jewell) Laura Dern (Storia di un Matrimonio) Scarlett Johansson (Jojo Rabbit) Florence Pugh (Piccole Donne) Margot Robbie (Bombshell) MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA Tom Hanks (Un amico straordinario) Anthony Hopkins (I due papi) Al Pacino (The Irishman) Joe Pesci (The Irishman) Brad Pitt (C’era una volta a…Hollywood) MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE Corpus Christi (Polonia) Honeyland (Macedonia)
I Miserabili (Francia) Dolor y Gloria (Spagna) Parasite (Corea del Sud) C ’ e r a u n a v o l t a … a H ollywood 10 candidature MIGLIORE COLONNA SONORA Joker Piccole Donne Storia di un Matrimonio 1917 Star Wars: L’Ascesa di Skywalker MIGLIORE CANZONE ORIGINALE Toy Story 4 Rocketman Breakthrough Frozen 2 Harriet
MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ANIMATO Dcera (Daughter) Hair Love Kitbull Memorable Sister 1 9 1 7 – 1 0 c a n d i d a t u re MIGLIOR CORTOMETRAGGIO LIVE ACTION Brotherhood Nefta Football Club The Neighbors’ Window Saria A Sister MIGLIOR SONORO Le Mans ’66 – La Grande Sfida Joker 1917
C’era una volta a…Hollywood Star Wars: L’ascesa di Skywalker MIGLIOR MONTAGGIO SONORO Ad Astra Le Mans ’66 – La Grande Sfida Joker 1917 C’era una volta a…Hollywood P a r a s i t e 6 c a n d i d a ture MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE Dragon Trainer: il mondo nascosto Dov’è il mio corpo? Klaus Missing Link Toy Story 4 MIGLIORE FOTOGRAFIA The Irishman Joker
The Lighthouse 1917 C’era una volta a…Hollywood MIGLIORI EFFETTI VISIVI Avengers: Endgame The Irishman Il Re Leone 1917 Star Wars: L’ascesa di Skywalker J o J o R a b b i t 6 c a n d i dature MIGLIORI SCENOGRAFIE The Irishman Jojo Rabbit 1917 C’era una volta a…Hollywood Parasite
MIGLIOR MONTAGGIO Le Mans ’66 – La Grande Sfida The Irishman Jojo Rabbit Joker Parasite MIGLIOR LUNGOMETRAGGIO DOCUMENTARIO American Factory The Cave The Edge of Democracy For Sama Honeyland MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO In the Absence Learning to Skateboard in a Warzone (If You’re a Girl)
Life overtakes me St. Louis Superman Walk Run Cha-cha MIGLIORI COSTUMI The Irishman Jojo Rabbit Joker Piccole Donne C’era una volta a…Hollywood MIGLIOR TRUCCO E ACCONCIATURE Bombshell Joker Judy Maleficent: Signora del Male 1917 MIGLIORE SCENEGGIATURA ORIGINALE Cena con Delitto – Knives Out Storia di un Matrimonio 1917 C’era una volta a…Hollywood Parasite MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE The Irishman Jojo Rabbit Joker Piccole Donne
I Due Papi E voi avete visto questi film? Qual è il vostro favorito? Siete d’accordo con le nomination? Nastri d’argento 2017: i verdetti Nell’incantevole cornice del teatro greco di Taormina, si è tenuta sabato 1 luglio, la 71esima edizione dei Nastri d’argento, il premio cinematografico più antico del mondo, secondo solamente agli Oscar negli Usa. L o g o N A S T R I d ’ A R G ENTO I Nastri d’argento, come sempre assegnati dai giornalisti cinematografici, hanno visto la presenza di numerose star nazionali ed internazionali, nonché di un’attenzione mediatica sempre crescente. La copertina d’onore è tutta per Gianni Amelio, che con La tenerezza, ha sbancato ai Nastri, aggiudicandosi non solo il premio come miglior film, ma anche quello alla regia, fotografia, attore protagonista (Renato Carpentieri).
L a t e n e r e z z a d i G i a n n i Amelio trionfa ai Nastri d’Argento Vola però anche Indivisibili di Edoardo De Angelis con ben cinque riconoscimenti per la gran parte tecnici. Prestigioso premio per Ficarra & Picone che con il delizioso L’ora legale si sono aggiudicati il Nastro d’argento come miglior commedia dell’anno. Per gli attori verdetto in parte annunciato: Jasmine Trinca, reduce dal trionfo di Cannes, fa il bis come migliore attrice protagonista per Fortunata di Sergio Castellitto che raccoglie tre Nastri nel palmarès, lo seguono con due ciascuno, Fai bei sogni di Marco Bellocchio, L’ora legale di Ficarra e Picone, che si aggiudica anche il Nastro come miglior produzione, e Sicilian Ghost Story di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia.
J a s m i n e T r i n c a a i N a s t r i d ’ A a r g e n t o
Al grande Renato Carpentieri, tornato sul set con Amelio dopo alcuni anni di assenza, il Nastro come miglior attore protagonista per La tenerezza. Ad Alessandro Borghi invece il Nastro come miglior attore non protagonista (ancora per Fortunata e per l’opera prima di Michele Vannucci, Il più grande sogno). S a b r i n a F e r i l l i a i N a s t ri d’Argento Ex aequo, infine, tra le attrici, per le non protagoniste: Sabrina Ferilli (Omicidio all’italiana, di Maccio Capatonda) e Carla Signoris per Lasciati andare di Francesco Amato. A Monica Bellucci va il Nastro d’ Argento europeo per On the Milky Road-Sulla via lattea di Emir Kusturica. Nella categoria dei Premi speciali, assegnati per particolari interpretazioni degne di nota, va menzionato quello assegnato ai due protagonisti di Monte di Amir Naderi, Claudia Potenza e Andrea Sartoretti. Infine Premio ‘Nino Manfredì per la commedia’ a Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak. “Vacanze romane” - Il Film
Film a dir poco epocale, “Vacanze romane”, diretto da William Wyler, è la tappa fondamentale nel percorso che aveva attirato verso Roma, destinazione Cinecittà, divi e professionisti di Hollywood. Era l’epoca in cui Roma veniva soprannominata per la prima volta la “Hollywood sul Tevere” e il centro del cinema mondiale, almeno fino alla fine degli anni ’60. Nel frattempo verrà “La Dolce Vita” e allora il percorso iniziato da “Vacanze romane”, raggiungerà il suo apice, con Via Veneto che simboleggia il primato artistico e culturale di Roma sul mondo, e con il benessere economico della splendida Italia degli anni ’60. D’altronde le due “dive” per eccellenza della Dolce Vita, nascono da questi due film, ovvero Audrey Hepburn e Anita Ekberg. Due icone che, con le loro differenze, incarnano e sintetizzano l’intera parabola del periodo d’oro di Cinecittà, dall’Italia della ricostruzione a quella del boom economico e della mondanità, della vita notturna e della café-society. In entrambi i film lo scenario è Roma, con le sue bellezze artistiche, la poesia dei suoi paesaggi, con la sua voglia di vivere, con il suo charme, con le sue serate fashion di Via Veneto. E’ fuori discussione che l’accoppiata Audrey Hepburn-Gregory Peck sullo sfondo di una Roma piena di colori e di vivacità lasci davvero il segno nell’immaginario comune. L’immagine rimasta nella memoria collettiva è infatti, quella di Gregory Peck e Audrey Hepburn sulla scalinata di Trinità dei Monti: quando le Arti si fondono creando un cortocircuito artistico di incredibile livello estetico. E che dire poi di Audrey Hepburn, che con questo film vince l’Oscar, diventando la star-grissino del cinema mondiale. Audrey incarna un nuovo tipo di bellezza, quella acqua e sapone, naturale, dallo stile elegante e dalla classe sopraffina, che si contrappone a quella da maggiorata fisica, che aveva lanciato Gina Lollobrigida e Sophia Loren tra le stelle del cinema.
Leggi anche: ■ Il cinema italiano e le vacanze: la moda del film turistico-balneare anni ‘50 e ‘60 ■ L’Italia in mostra: quando la Roma cinematografica era il centro del mondo ■ Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo ■ La Grande Abbuffata – Il Film Quella di “Vacanze romane” è una fiaba di Cenerentola alla rovescia in una commedia leggerissima, soave e candida, dove i sentimenti rimangono inespressi. Ricordato anche come il film che rese famosa in tutto il mondo la Vespa, “Vacanze romane” venne girato quasi tutto in esterni, nel cuore di una Roma caotica, alle cui riprese assistevano ogni giorno migliaia di romani incuriositi dal fascino di questo kolossal americano in “salsa” italiana. E poi, e poi c’è Gregory Peck, che ha un talento interpretativo e un fascino magnetico capace di bucare lo schermo. Cosa sarebbe stato questo capolavoro senza Gregory Peck e Audrey Hepburn? Forse non sarebbe stato solo un discreto e piacevole lavoro e nulla più. E cosa sarebbe stata di Roma soprannominata la “Hollywood sul Tevere”, se non ci fosse stato questo film ad aprire le danze? Per tutto ciò che ha significato anche in previsione futura, “Vacanze romane”, rimane, uno dei film più influenti della cinematografia italiana, senza esserlo ufficialmente. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Eppure la freschezza della sceneggiatura è opera anche dei “nostri” Suso Cecchi D’Amico ed Ennio Flaiano. L’umorismo di molte situazioni è tipicamente loro, si sente infatti la loro mano e la capacità tutta italiana di cesellare momenti e scene di grande pregnanza sociologica, sullo sfondo di una Roma da cartolina, ma vera nel suo realismo storico. Un capolavoro che rimane, che ha la grazia e la delicatezza di un’opera di Renoir…e che non stanca mai. Il cinema italiano e le vacanze: la moda del film turistico-balneare anni ‘50 e ‘60
Alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia e gli italiani erano alle prese con la ricostruzione, dopo gli scempi che il conflitto mondiale aveva lasciato. Terminato il Neorealismo, fin da subito il pubblico aveva bisogno di ridere, o perlomeno di sorridere con il cinema, perciò le maggiori vedette italiane di lunga durata, i grossi nomi del box office, sarebbero stati attori comici o al più brillanti. Insomma, il cinema italiano della rinascita, alle prese con formidabili ostacoli, quali l’assenza di strutture e di capitali, conquistò una sua identità anche, e forse soprattutto, grazie all’aver giocato fin da subito la carta dell’umorismo, immerso in un pregnante realismo. Ed è proprio questo realismo, tutto italiano, che fa del nostro cinema lo specchio della nostra società, dei nostri vizi, delle nostre virtù, del nostro modo di essere. Così, ad una fine degli anni ’40, in cui al cinema non si parla assolutamente di vacanze; fa da contraltare un inizio degli anni ’50 in cui timidamente gli italiani iniziano a pensare alle vacanze, a concedersi qualche giorno di relax. Certo sono i primi scampoli di benessere economico, quasi in embrione oserei direi, per cui Aldo Fabrizi, Ave Ninchi e Peppino De Filippo, nella scalcinata banda della “Famiglia Passaguai”(1951), non possono concedersi più di una giornata di mare nella vicina Ostia. Oppure Totò cameriere, scambiato per un importante dandy del medio-oriente si reca a Capri, nel film “L’imperatore di Capri”(1950), solo grazie ai soldi dell’amico ricco. O ancora in “Ragazze da marito”(1952), Eduardo De Filippo impiegato ministeriale, falsifica dei documenti, per poter permettere a moglie (Titina De Filippo) e figlie di trascorrere una settimana a Capri. Leggi anche: ■ L’Italia in mostra: quando la Roma cinematografica era il centro del mondo ■ “Vacanze romane” – Il Film
T o t ò e Y v o n ne Sanson ne L’imperatore di Capri (1950). Cinque anni dopo, cambia tutto. L’Italia vive un boom economico inarrestabile, il Pil è in vertiginoso aumento, arriva la televisione, nel 1956 Roma si aggiudica per il 1960 l’organizzazione dei XVII Giochi Olimpici, la Dolce Vita romana sta raggiungendo i massimi storici…e il rinnovato benessere fa si che i luoghi turistici, balneari per eccellenza vengano presi d’assalto. Perché? Perché ora l’italiano può spendere, perché può godersi i frutti del suo lavoro. Può andare in vacanza senza più sotterfugi, o senza più dover andare per forza ad Ostia, nella spiaggia più popolare e a basso costo. Capri, Ischia, Taormina, Amalfi, la Riviera ligure, la Costa Azzurra, Venezia aspettano gli italiani, e aspettano anche il cinema. Nel decennio compreso tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 l’Italia visse una stagione di crescita economica e di cambiamenti sociali veloci e intensi, e divenne una delle maggiori potenze industriali. Lo sviluppo economico superò addirittura quello demografico (pure evidente) e ciò ebbe come conseguenza un miglioramento diffuso del tenore di vita (i primi apparecchi televisivi, la storica 500). Molti dei film girati in quegli anni testimoniano sia questi cambiamenti, sia le tante contraddizioni ad essi collegate. Il cinema dunque è la maniera migliore per rivivere una fetta importante della storia del nostro paese, meglio di qualsiasi trattato sociologico. Inserita nel contesto del genere dei film a episodi intrecciati, ha così inizio a partire dal 1956 la voga del film turistico-balneare, branca della commedia all’italiana. Il primo film ascrivibile a tale genere, e che testimonia dell’evoluzione economica del nostro paese è “Tempo di villeggiatura”(1956), commedia ad episodi intrecciati ambientata in un piccolo paesino dell’appennino tosco-emiliano. Amori estivi e piccole storielle divertenti fanno da cornice ad un cast di grande livello: Vittorio De Sica, Marisa Merlini, Nino Manfredi. Gli italiani si possono quindi,per mettere di villeggiare in montagna e anche al mare e così nascono “Vacanze a Ischia”, “Avventura
a Capri”, “Tipi da spiaggia”, “Racconti d’estate” e altre pellicole del genere “vacanziero all’italiana”. Quella del film turistico-balneare diventa una vera e propria moda che nel giro di pochi anni arriva a produrre una moltitudine di pellicole del genere. Si trattava di ambientare il film a episodi intrecciati, nelle più importanti località turistiche italiane, e spesso località balneari, con il luogo di consueto già pre-annunciato dal titolo. Un piccolo escamotage di produttori e sceneggiatori destinato a fare epoca, e come ovvia conseguenza il film veniva girato in piena estate, facendo aumentare ancora di più il mito dell’Italia della “Dolce Vita”. Leggi anche: ■ Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo ■ La Grande Abbuffata – Il Film ■ Le Vacanze Intelligenti – Il Film Solo negli anni ’50 si contano: “Souvenir d’Italie”(1957) di Pietrangeli, che ne apre il genere, sulle avventure di tre giovani escursioniste straniere (June Laverick, Inge Schoener, Isabelle Corey; tra gli uomini Alberto Sordi, Gabriele Ferzetti e Antonio Cifariello, quest’ultimo presenza fissa di quasi tutti i film del genere); “Vacanze a Ischia”(1957) di Mario Camerini, tra i migliori del genere e finanziato dal commendator Angelo Rizzoli anche per fare un pò di propaganda ai suoi investimenti sull’isola di Ischia. Il film ebbe un grande successo di pubblico, anche grazie alla presenza di stelle del cinema, come Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Nadia Gray, Paolo Stoppa e i giovani Maurizio Arena, Antonio Cifariello e Enio Girolami. La voga del film balneare venne subito confermata l’anno seguente da “Avventura a Capri”, in qualche modo simile al precedente film ambientato sulla vicina isola, e interpretato ancora una volta dal fior fiore del cinema italiano, troviamo qui Leopoldo Trieste, Alessandra Panaro, Maurizio Arena e a tener le redini di tutto anche il grande Nino Taranto nei panni del barone Vannutelli, (ancora una volta convincente nel dipingere l’Italiano medio di mezz’età, umano e comprensivo). Ottimi ancora una volta gli incassi. Dello stesso 1958 è anche “Carmela è una bambola” una delle migliori commedie dell’epoca, non è propriamente un film a episodi, ma l’ambientazione nella splendida Amalfi, lo inserisce di diritto nel filone turistico. E’ una divertente commedia turistico-balneare in cui la coppia composta da Nino Manfredi e Marisa Allasio diverte romanticamente nell’incanto della costiera amalfitana. Nello stesso anno vi è anche il film “Racconti d’estate” scritto da Amidei, Flaiano, Sonego, Sordi e Anton e diretto da Franciolini, ormai specialista del genere (come lo sarà negli anni ’60 Marino Girolami), con Ferzetti industriale che potrebbe far fare carriera al marito della Koscina, con Dorian Gray cortigiana indipendente e sfortunata, e soprattutto con la splendida abiezione di Sordi accompagnatore-mantenuto di una cantante grassissima. Molto riuscito anche l’episodio con Mastroianni, questurino incaricato di accompagnare alla frontiera una bella prigioniera francese (Michèlè Morgan).
Il filone vacanziero continua, con successo, nel 1959: “Brevi amori a Palma de Majorca”, “Costa Azzurra”, “Tipi da spiaggia”, “Tempi duri per i vampiri”. Nel primo, diretto da Giorgio Bianchi, Sordi è memorabile nel ritrattino di un inguaribile ottimista che a forze di insistenze, benché vistosamente sciancato in un mondo di giovani allegri ed abbronzati, riesce a portarsi a letto la bellissima Belinda Lee (Sordi racconta che Rizzoli non aveva voluto lo sketch nel film girato a Ischia due anni prima: niente storpi nelle terme miracolose, e allora l’episodio venne inserito in questo film). Sordi continua ad essere il migliore anche in “Costa Azzurra” di Vittorio Sala. Nel cast, come nel primo film, figura anche uno dei massimi specialisti del genere vacanziero, Antonio Cifariello, come sempre bravo e spiritoso. Infine, vanno menzionati altri due film, ovvero “Tipi da spiaggia” e “Tempi duri per i vampiri”.“Tipi da spiaggia” è un ottima commedia turistica che reclamizza, stavolta le bellezze di Taormina, in Sicilia, e interpretata da Ugo Tognazzi, Johhny Dorelli e Lauretta Masiero. In particolare Tognazzi diverte con la sua verve comica e con una serie di esilaranti travestimenti. “Tempi duri per i vampiri” è invece una divertente commedia ambientata nella Liguria di Levante, con la bizzarra coppia formata da Renato Rascel e Christopher Lee, talmente squinternata da funzionare. Agli inizi degli anni ’60 si affaccia al genere dei film a episodi vacanziero, un pezzo da novanta del cinema italiano come Walter Chiari, una delle presenze fisse di questo genere. Il grande Walter amava molto il mare e accettava molti copioni balneari solo perché erano girati in spiaggia, durante le vacanze: “…a un film d’autore bellissimo, girato a Berlino, con un grande regista, io preferivo un filmetto di quelli popolari girato sul lungomare di Ostia in agosto, anche se inutile o poco più, ma premiato da grandi incassi.” W a l t e r C h i a r i e Mina a Fregene negli anni ’60. Sulle spiagge italiane Chiari ha quindi vissuto molto intensamente e costruito parte del suo mito, tra
nuotate, set fotografici, cene con gli amici (che pagava sempre lui) e conquiste femminili. Tutto ciò in piena “Italia della Dolce Vita”. In quegli anni vennero film come “Intrigo a Taormina” (1960) di Giorgio Bianchi, con Walter Chiari, Ugo Tognazzi e Gino Cervi; “Bellezze sulla spiaggia” (1961), con Walter Chiari, Raimondo Vianello, Tino Scotti e Mario Carotenuto; “Ferragosto in bikini”(1961), sempre con Walter Chiari, Raimondo Vianello e Mario Carotenuto; e “Caccia al marito” (1960), ancora con Walter Chiari, Raimondo Vianello e Mario Carotenuto. Il successo arride a tutti questi film, merito dei nomi di richiamo presenti nelle pellicole di certo, ma anche di una sostanziale freschezza del genere ad episodi, che permetteva di evitare eventuali momenti di stanca del film. A tal proposito il regista Dino Risi disse di tale genere: “…gli attori erano contenti perché lavoravano poco e guadagnavano bene, gli sceneggiatori mettevano in circolazione le idee che non erano riusciti a far diventare film autonomo, anche il pubblico era contento, e quindi c’erano produttori che ci marciavano volentieri, e poi la ‘misura breve’ è un genere molto tecnico, che un attore di talento deve saper affrontare con la giusta dose e sapienza interpretativa, un genere che affonda le sue radici nella storia della letteratura e del primo cinema degli anni ’20…e poi se in un film c’erano sketches noiosi, subito dopo ne arrivava uno buono, era un fatto statistico, quindi non si rischiava niente”. Vanno ancora, almeno citati, “Pesci d’oro e bikini d’argento” (1962), con Nino Taranto e Marisa Merlini; “Le tardone” (1964),con Walter Chiari, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Raimondo Vianello; e “Frenesia dell’estate” (1964), che segna il debutto di Vittorio Gassman in tale genere, in voga in quegli anni. Ambientato sulle spiagge di Viareggio, dove Gassman amava rifugiarsi nei momenti di relax, la pellicola si regge tutta sull’interpretazione dello stesso Gassman, che delinea spassosamente il personaggio di un capitano dell’esercito terrorizzato dall’idea di essersi innamorato di Gigi (Michèle Mercier), un travestito da cabaret che si rivela invece una deliziosa fanciulla. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Che questo genere cinematografico anni ’50 e ’60 sia rimasto nella storia è testimoniato anche dal film del 1982, peraltro epocale, ovvero “Sapore di mare”, dove i fratelli Vanzina, nel descrivere le vacanze degli italiani, ambientano il film proprio nella Versilia degli anni ’60. Il film è infarcito di una malinconia autentica, che imperversa per tutto il film, nostalgico e divertente al punto giusto, grazie alle hit anni ’60 e alla caratterizzazione di Jerry Calà, che nel primo piano finale riesce a far raggiungere l’apoteosi malinconica di un’epoca ormai andata. Un’epoca che ha fatto storia, che oggi è nostalgia, che oggi è malinconia, perché non tornerà più. Non tornerà più quella spensieratezza, quella voglia di fare, quell’impeto e quella classe cinematografica che avevano fatto diventare Roma la “Hollywood sul
Tevere” e il nostro cinema, il più invidiato del mondo. Platoon – Il Film Raffaello Castellano (371) Lo schermo è nero. Leggiamo una citazione tratta dall’Ecclesiaste: “Rallegrati pure, o giovane, nella tua giovinezza…”. Sentiamo una musica, bella e struggente (lo straordinario Adagio di Barber). La dissolvenza ci mostra un aereo da trasporto C130 che atterra su una pista polverosa: il portellone/rampa posteriore si abbassa ed esce un gruppo di soldati, fra cui il protagonista e narratore della storia che stiamo vedendo, il giovane soldato volontario Chris Taylor. Siamo da qualche parte vicino al confine cambogiano, è il 1967 e questa è la guerra del Vietnam raccontata dallo splendido, ma insieme straziante, Platoon, film manifesto del regista Oliver Stone, contro le brutture e la miseria di questa guerra, di qualunque guerra, di tutte le guerre. Nel pensare alla preparazione di questa recensione sul film da consigliare per Natale, ero indeciso, non sapevo quale film appartenente al genere raccontare: italiano, straniero, commedia, comico. A dissipare ogni dubbio e a chiarificare ogni mio intento sono intervenuti i drammatici fatti di Francia, con la querelle di dichiarazioni, condanne, prese di posizione, etc.. Da subito il dibattito politico, italiano, europeo e mondiale, si è polarizzato intorno a due atteggiamenti principali: da una parte gli interventisti, che dichiaravano che solo una soluzione militare potesse risolvere le cose, dall’altra chi, invece, cercava, nonostante tutto, di trovare una via diplomatica o di altro tipo per fronteggiare
il famigerato califfato islamico dell’ISIS. È da allora che, come un pensiero ricorrente, di più, quasi come un tarlo, nella mia testa hanno cominciato ad affollarsi le immagini, le parole, i rumori e la musica di questo straordinario film. Quindi questa recensione, non me ne vogliate, cari lettori di Smart Marketing, non è scritta solo per voi, è scritta innanzitutto per me; sento il bisogno di raccontarvi e consigliarvi questo film, perché avverto un’urgenza, quasi viscerale, di dare sfogo alle emozioni ed alle riflessioni che questo capolavoro mi ha trasmesso fin dalla prima visione. Il film racconta il conflitto del Vietnam attraverso le avventure, disavventure e guerre intestine di un plotone (da qui il titolo); la sceneggiatura è dello stesso Oliver Stone, che aveva attinto alla propria esperienza personale di soldato di stanza in Vietnam dal 1967 al 1968, periodo durante il quale si distinse per il suo valore, tanto da ottenere la Bronze Star Medal. L’approccio che il regista decide di assumere è spettacolare e realistico e, allo stesso tempo, crudo ed umanissimo. La fotografia, straordinaria, di Robert Richardson sottolinea ed accompagna, attraverso un caleidoscopico contrappunto visivo, la colonna sonora di Georges Delerue, che mixa abilmente composizioni classiche, come il già citato “Adagio per archi” di Samuel Barber, con altre d’epoca, come “White Rabbit” dei Jefferson Airplane. Il film, girato sull’isola di Luzon, nelle Filippine, fra i mesi di marzo e maggio del 1986, si focalizza sul dualismo e lo scontro di due mondi etici messi mirabilmente a confronto. Da una parte abbiamo il sergente maggiore Barnes, dispotico, rude e spietato nell’interpretare il suo ruolo di comando ed il suo mestiere di soldato; dall’altra il sergente Elias, più umano, collaborativo e generoso nel rapporto che instaura con i suoi uomini, soprattutto con i novellini. Due facce e due anime dell’America che non riescono a trovare nessun accordo, nessun compromesso, nessuna pace, ma che anzi sono ormai destinate alla propria autodistruzione ed all’annichilimento di ogni valore, primo fra tutti il definitivo crollo dell’idealismo liberale kennediano. A dare volto e sostanza a questi personaggi tragici ed insieme umanissimi un cast di giovani (all’epoca) attori, nuove promesse del cinema a venire. Il protagonista, il soldato semplice Chris Taylor, è un talentuoso Charlie Sheen, che l’anno dopo tornerà a lavorare con Oliver Stone nel bellissimo e profetico Wall Street. Il ruolo del sergente maggiore Barnes, che in principio fu proposto a Kevin Costner, fu poi offerto ad uno straordinario Tom Berenger; è l’eclettico attore
Willem Dafoe, invece, a dare corpo e anima al sergente Elias, attore, quest’ultimo, che di lì a poco si sarebbe distinto interpretando personaggi estremi, come il Gesù dell’Ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese. Intorno a queste tre stelle che, anche grazie a questo film, lanceranno definitivamente le loro carriere, un firmamento di comprimari di prima grandezza, fra cui spiccano il soldato fanatico e sociopatico Bunny, interpretato da un giovanissimo Kevin Dillon, il sergente Rhah, interpretato da Francesco Quinn, il simpatico soldato Big Harold, interpretato da un già straordinario Forest Whitaker, il soldato Gator Lerner, interpretato da un quasi sconosciuto Johnny Depp, la cui performance fu così eccezionale da costringere il regista a tagliare gran parte delle sue scene, per non minacciare il ruolo del protagonista. Platoon vincerà 4 Oscar, fra cui quello di Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Montaggio e Miglior Suono, riportando in auge il genere bellico, che pareva esauritosi dopo il capolavoro Apocalypse Now, ma cosa più importante è che con questo film si delinea e cristallizza definitivamente la cifra stilistica ed il percorso del regista Oliver Stone che, da allora in avanti, indagherà senza buonismo ed anzi con uno spirito critico e radicale il cuore oscuro dell’America. Platoon racconta, in ultima istanza, non la guerra contro il nemico, ma contro i propri demoni interiori: il plotone rappresenta, come ha detto qualcuno, una vera e propria “cultura in vitrio” della pazzia umana. I giovani soldati americani si trovano a fronteggiare un nemico implacabile, in una giungla impenetrabile, cercando in ogni modo di non soccombere fisicamente e mentalmente. Da qui il ricorso alle pratiche più disparate, ivi comprese l’uso di droghe e della crudeltà, prima ancora che contro il nemico, contro gli stessi commilitoni. La lenta, ma inesorabile, discesa agli inferi del giovane soldato Chris Taylor, che vedrà crollare, uno ad uno, i suoi ideali fino ad arrivare, alla fine del film, a divenire egli stesso un carnefice, è un colpo basso sia alla presunta “giusta causa” americana che alle nostre convinzioni in materia di umanità, solidarietà e bontà.
Un film di uomini perduti, cuori di tenebra di una intera nazione, forse di un’intera generazione, non solo americana. Solo in parte, allora, ci consola, ci rincuora e ci dà speranza il monologo finale del protagonista che, sull’elicottero ambulanza, sorvolando il campo di battaglia che ricorda, con una marcata citazione visiva, le rovine, le ruspe e le fosse comuni dei lager nazisti, ci dice: “Ma sia quel che sia, quelli che tra noi l’hanno scampata hanno l’obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo, e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in quest’esistenza.” Dedico queste parole a voi lettori, a me stesso ed a tutti gli uomini di buona volontà. Buona visone e buon Natale a tutti. Il prodotto filmico come bene esperienziale e relazionale Jessica Palese (23) C i n e m a c o m e bene espereziale Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di uscire da una sala cinematografica delusi dal film appena visto. Magari non è il capolavoro che ci si aspettava e si ha la sensazione che la pellicola non meritasse il prezzo del biglietto. I prodotti dell’audiovisivo sono infatti “beni esperienza” il cui valore rispetto al prezzo può essere valutato dal consumatore solo dopo averne usufruito. Mentre per i search goods le caratteristiche possono essere valutate prima di procedere con l’acquisto, la qualità degli experience goods può essere giudicata soltanto dopo. Ecco perché prima di andare al cinema si può scegliere un film in base al cast, al regista oppure in seguito al consiglio di parenti e amici, ma un parere potrà essere espresso solo successivamente alla visione. Il gradimento però, è del tutto soggettivo e determinato da vari fattori, tra cui l’età anagrafica, il livello di istruzione,
l’estrazione sociale, il vissuto personale. Nella fase del consumo del prodotto, emerge infatti la componente affettiva e l’esperienza viene considerata soddisfacente se il film è in grado di sorprendere, emozionare e generare discussioni con gli amici, se le aspettative vengono confermate e superate. Una pellicola, oltre che bene esperienza, è anche un bene relazionale, pensato per essere consumato in compagnia nella sala cinematografica. Stimola la socializzazione e il confronto tra le persone, attraverso la condivisione delle proprie opinioni. È proprio il gradimento del pubblico a decidere le sorti di un film. Un successo annunciato potrebbe rivelarsi un flop, così come una pellicola inizialmente snobbata potrebbe rivelarsi agli occhi degli spettatori uno dei prodotti cinematografici più interessanti della stagione. L’imprevedibilità del gradimento non è determinata soltanto dall’eterogeneità del pubblico che adotta comportamenti di consumo cinematografico differenti. Negli ultimi anni si sta assistendo al passaggio da un consumatore di tipo cinematografico, che vede il cinema come luogo di incontro e di divertimento, ad un consumatore di tipo filmico, che sceglie con ponderazione la cosa vedere perché mosso da un effettivo interesse per la pellicola. L a g r a n de bellezza – Jep Gambardella Prendiamo ad esempio il confronto e lo scontro scaturiti dalla trasmissione de “La grande bellezza” sul piccolo schermo. Il film mostra una babilonia disperata di personaggi potenti ed erranti che tessono trame nei salotti romani: i palazzi antichi, le ville maestose, le terrazze più belle della Capitale. Lo scrittore Jep Gambardella, assiste a questa sfilata di umanità potente e deprimente. A fare da sfondo alla vicenda, una Roma bellissima e decadente come una diva “sul viale del tramonto”. Trasmesso in televisione due giorni dopo la Notte degli Oscar, il film ha suscitato pareri contrastanti, ha scatenato uno straordinario dibattito mediatico che ha spaccato il pubblico italiano. Una parte l’ha elogiato ritrovandovi lo spirito de “La dolce vita”, ossia un quadro dell’Italia del boom che scopriva la dolcezza del consumo. T i c k e t c i n e ma
Altri spettatori l’hanno trovato pretestuoso e inconsistente, indegno della vittoria: ”una caricatura dell’Italia” l’hanno definito alcuni, “lento e senza trama” hanno lamentato altri. Eppure, il regista Paolo Sorrentino, si è aggiudicato l’ambita statuetta dedicata al Miglior Film Straniero. Quindi, neppure un trionfo determinato da una giuria di professionisti, fa di film un capolavoro oggettivo? Come è stato già accennato all’inizio, la visione e le impressioni che ne scaturiscono sono influenzati da alcune variabili che incidono sulla costruzione mentale del gradimento. Esso può essere determinato solo all’uscita da una sala di proiezione o dopo aver visionato il film comodamente a casa. Una dimensione del tutto personale e soggettiva che va al di là di ogni premio, critica o cast stellare. Non è stata ancora individuata una formula che determini il successo di un film nei cuori e nelle menti del pubblico ma, in fondo, nessun biglietto o tempo sono mai sprecati quando vengono stimolati il confronto, il dibattito, il pensiero critico.
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