Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
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Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico L’infografica di Lori Lewis e Chadd Callahan di Cumulus Media è sempre molto rappresentativa e interessante. Ci mostra cosa accade in 60 secondi nel mondo digitale e ci da il termometro di quanto sia complicato e complesso emergere in questo mare magnum informativo. Non ci pensiamo, o forse non ci facciamo più caso perché ormai assuefatti, ma il numero di interazioni, comunicazioni e informazioni a cui siamo sottoposti è davvero impressionante. Solo per citare qualche numero ■ 4,3 milioni di video visualizzati su YouTube ■ 187 milioni di email inviate ■ 3,7 milioni di ricerche su Google ■ 823 dollari spesi online ■ 38 milioni di messaggi scambiati su WhatsApp Se questo è ciò che accade in 60 secondi, immaginate cosa può voler dire per il nostro cervello cercare di riuscire a districarsi in questa marea di dati e di informazioni. È praticamente impossibile. L ’ i n f o g r a f i c
a di Lori Lewis e Chadd Callahan di Cumulus Media su cosa accade in 60 secondi nel mondo digitale (2017 e 2018). Fonte: www.allaccess.com La nostra soglia di attenzione per ovvie ragioni è molto calata e dobbiamo far sempre di più lo sforzo di selezionare le informazioni. Leggiamo il giornale, mentre scorriamo il newsfeed sul nostro smartphone, rispondiamo alle email, acquistiamo un prodotto online, ecc. ecc., e tutto in brevissimo tempo. Che trattasi di informazioni di natura commerciale, personali o di altro genere, non fa alcuna differenza. Sono tante, sono troppe, per poterle discernere tutte. Ma, allora, se come credo siamo tutti d’accordo nell’affermare che cogliere l’attenzione delle persone è una operazione estremamente difficile, come possiamo fare noi piccoli uomini al servizio del marketing e della comunicazione ad aggirare questo problema e farlo diventare (si spera) un punto di forza? Come possiamo far entrare le nostre comunicazioni nelle strette maglie di una attenzione sempre più labile? La risposta che do a questi interrogativi è una ed una sola. E prende il nome di: Brand! Che ci troviamo a comunicare per conto di un’azienda o che ci troviamo a comunicare per noi stessi, quello che appare inevitabile è l’importanza di lavorare sulla riconoscibilità del brand (aziendale o personale) per cercare di ritagliarsi uno spazio nell’attenzione del nostro pubblico che, come possiamo vedere dai numeri presenti nell’infografica di Lori Lewis e Chadd Callahan, è messa a dura prova dalla mole di informazione alla quale è sottoposto e alla quale, inoltre, contribuisce a formare. La riconoscibilità ed il posizionamento del brand fa, e sempre più farà, tutta la differenza del mondo. In futuro (anche prossimo) se vorremo prenotare una vacanza non controlleremo 10, 100, 1000 siti diversi, ma uno ed uno solo (o al massimo due :)). Se vorremo essere aggiornati sulle ultime notizie, non andremo sulle homepage di chissà quanti siti di informazione. E se vorremo acquistare un prodotto o servizio online non andremo in uno shop qualsiasi, ma in quello in cui siamo certi della qualità dell’esperienza d’acquisto che andremo a vivere. Potrei continuare all’infinito con questi esempi, ma di fondo avrebbero tutti lo stesso comun denominatore: la forza e la riconoscibilità del Brand! È questa infatti la principale leva che ci spinge a scegliere A al posto di B, o addirittura a scegliere A senza neanche domandarci cosa offre B. Perché ricordiamoci che il nostro tempo e la nostra attenzione sono limitati, e il tempo risparmiato a non considerare B lo impiegheremo indubbiamente a fare qualcos’altro. E più andremo avanti e più questo trend aumenterà. Di questo ne sono certo. Ecco cosa troverete in questo numero: ■ L’ identità visiva di due brand storici: Ibm VS Apple.
■ Nuovi Business e il ruolo della brand reputation: regole d’oro che valgono il successo! ■ Heineken, il brand che ti conquista con il sorriso. ■ Dalla Brand Loyalty, alla fedeltà, a uno stile: storia dell’evoluzione del Brand ■ Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico ■ Come creare il brand personale e promuoverlo sui social media ■ Perchè un brand è un asset strategico? …e ci saranno anche altri aggiornamenti! Buona lettura…e fateci sapere cosa ne pensate! Ivan Zorico Questione di Branding – L’editoriale di Raffaello Castellano Il termine brand deriverebbe dall’Antico Norreno ‘brandr’, che significa bruciare. E rimanda quindi all’antica pratica di segnare il bestiame con un marchio a fuoco per riconoscerne la proprietà. L’American Marketing Association (AMA) definisce il brand come “il nome, il termine, il simbolo, il disegno o una combinazione di questi elementi, che distingue un produttore da ogni altro. Il brand rappresenta l’identità, unica e irripetibile, di un’azienda sul mercato.” Quindi fin dalle origini, ma anche nell’uso corrente del termine, brand significa prima di ogni cosa “distinguere”. Distinguere noi da loro, il nostro prodotto dagli altri, il nostro servizio dal resto dei servizi, le nostre mucche da quelle del vicino. La pratica del distinguere è fondamentale nel mondo del marketing, ancora di più negli ultimi 15 anni, da quando gran parte del commercio si sta spostando dall’off-line all’on-line: essere “immediatamente” riconoscibili, “subito” identificabili e “rapidamente” rintracciabili può fare la
differenza fra un’azienda di successo ed un’azienda fallita. In questo mese in cui ricorre il compleanno della Coca Cola, che fin dalla nascita ha attribuito grande importanza al Brand, che ne ha fatto uno dei simboli più famosi e riconosciuti a livello mondiale, noi di Smart Marketing vogliamo approfondire l’importanza che oggi riveste il brand nel mondo del commercio, del marketing e delle nostre stesse esistenze. Infatti, sempre negli ultimi 15 anni a questa parte, il brand, il logo, la marca stanno diventando sempre più invasivi nelle nostre esistenze, travalicando gli scopi iniziali per i quali sono stati creati, diventando non solo identificativi per le aziende in sé ma, ahimè, anche per le persone stesse che di fatto smettono di “lavorare” sulla propria identità, per identificarsi totalmente con i brand che hanno scelto come abito da indossare, scarpe da calzare, smartphone, tablet e computer da usare, auto da guidare. Il brand è diventato la nostra seconda pelle, il nostro credo religioso, la nostra mamma, il nostro papà; un brand è probabilmente l’ultima cosa che vediamo andando a letto e la prima che vediamo al nostro risveglio. L’avvertimento che, allora, dovrebbe tenerci svegli è lo stesso che Tyler Durden (Brad Pitt), del film Fight Club, pone al protagonista (Edward Norton): “le cose che possiedi, alla fine ti possiedono.” Buona lettura. Raffaello Castellano L' identità visiva di due brand storici: Ibm VS Apple.
In una società dove il termine “brand” non identifica più solo un marchio, ma arriva a definire anche ciò che ci rende unici e differenti da tutti gli altri (vedi personal branding), siamo sommersi da milioni di marche, simboli, loghi, nomi. Per approfondire: ■ Scopri il nostro numero dedicato al branding E’ bene capire che dietro ogni brand, anche quelli a prima vista più semplici ed elementari, c’è sempre un’identità, con il suo bagaglio di valori da voler rappresentare e comunicare attraverso messaggi. Il semiologo francese Jean-Marie Floch spiegò i meccanismi della comunicazione di questi valori, attraverso il metodo del quadrato semiotico. I valori ed i principi che definiscono un brand non sono altro che la sua identità e quest’ultima, per essere percepita e compresa, necessita di essere innanzitutto “visiva”. Lo st ud ios o Fl oc h ne l 19 97 pa rlò de l concetto di identità visiva: identità “come riconoscimento sicuro di attributi (di forma, di contenuto) caratterizzanti” e visiva perché l’insieme di segni che rappresenta riguarda principalmente la percezione visiva. Questo concetto d’identità, rientrando nella semiotica visiva, coinvolge tanto il livello plastico, quanto quello figurativo.L’identità visiva può essere definita sia come “differenza”, quando assicura il riconoscimento dell’azienda esprimendo la sua particolarità, che come “permanenza”, quando rappresenta la persistenza dei valori industriali, sociali ed economici dell’azienda. Tra i vari studi di Floch effettuati per spiegare questo concetto vi è quello in cui pone l’attenzione sui loghi di due importanti società informatiche, Ibm e Apple, analizzati in quanto enunciati visivi, con l’obiettivo di comprendere il rapporto tra i loro significanti e i loro significati e il ruolo che ricoprono nella cultura e nei valori che l’azienda vuole trasmettere.Floch inizia la sua analisi dal livello plastico: la versione del logo Ibm del 1956 (Fig. 1) è opera del grafico Paul Rand, che ha raffigurato le iniziali della società, la “International Business Machines”, con un’originale tipografia egiziana, e dal 1962 le tre lettere sono state divise in strisce orizzontali (Fig. 2), successivamente di colore blu acceso.
F i g . 1 L o g o I b m del 1956 F i g . 2 L o g o I b m del 1962 Il logo della società californiana Apple (Fig. 3), creato da Rob Janov nel 1977, invece, rappresenta una mela addentata, con i colori dell’arcobaleno (per questo il suo costo era elevato) e sostituisce il primo logo (pittogramma) (Fig. 4), creato da Ron Wayne nel 1976, che rappresentava il matematico e fisico inglese, Isaac Newton, seduto sotto un albero da cui pende una mela (citazione della storia secondo cui lo scienziato ebbe l’intuizione sulla legge di gravità osservando la caduta di una mela). Il nuovo logo (mitogramma) è molto più semplice del primo e gode di maggior efficacia visiva.
F i g . 4 P r i m o l o g o A p p l e d e l 1 9 7 6 I loghi presentano le seguenti “invarianti plastiche”: ■ nel logo Ibm le tre lettere sono allineate, formano una sorta di trittico, anche se non sono visivamente distaccate. La mela del logo Apple, invece, è un’immagine unica; la foglia non è un’entità autonoma ma si inserisce nel contorno generale della mela; ■ il logo Ibm è monocromatico, al contrario, il logo Apple riprende i colori dell’arcobaleno, non nella giusta sequenza, e i colori caldi, i più numerosi, sono centrali e si trovano proprio nel punto
visivamente più forte, quello del morso; ■ per quanto riguarda la forma, mentre nel logo Ibm le lettere hanno grande spessore, linee dritte e angoli retti, il logo Apple, al contrario, è dominato dalla linea curva e anche nel punto del morso, in cui sono presenti rotture nel contorno generale della mela, comunque non si può parlare di presenza di angoli retti. L’obiettivo di Floch è capire il ruolo dei loghi all’interno delle culture delle due società informatiche che rappresentano, e ciò è possibile solo quando, in seguito all’analisi dei loro messaggi, si avrà una corrispondenza tra le invarianti plastiche dei loghi e l’immagine che la società desidera trasmettere di sé. Stando ai documenti che Ibm ha pubblicato riguardo al suo logo, esso rappresenta la tecnologia avanzata della società, la sua notevole competenza e l’alta qualità dei servizi che offre al cliente, invece, secondo i documenti Apple, il logo con la mela arcobaleno simboleggia l’alternativa ad Ibm, la libertà, la creatività, la convivialità. Pur presentando caratteristiche plastiche differenti, le aziende si basano entrambe su due programmi narrativi uguali: nel primo “Ibm e Apple sono entrambi i soggetti di discontinuità nella storia dell’informatica”, facendo riferimento alle novità che le due aziende hanno portato nel mondo dell’informatica (Ibm mediante la competenza, Apple attraverso la creatività); il secondo programma narrativo si basa sulla relazione commerciale col cliente e riguarda la comunicazione all’utente dell’oggetto di valore di cui la società si fa portatrice, che sia esso la qualità dei servizi, la competenza (per Ibm), o l’innovazione, la convivialità (per Apple). Floch, successivamente, analizza i due loghi sul piano figurativo: ■ nel logo Apple la mela morsicata e l’arcobaleno richiamano a due importanti momenti della Bibbia: il primo ricorda la storia di Adamo ed Eva che furono cacciati dal paradiso per aver mangiato i frutti dell’Albero della Conoscenza (mela = sapere) e aver disobbedito a Dio (disobbedienza = sete
di novità); il secondo evoca la storia di Noè e del Diluvio Universale, al termine del quale Dio inviò un arcobaleno per stipulare la sua alleanza con gli esseri umni; ■ la mela simboleggia anche New York (detta la “Grande Mela”), dove è nata nel 1911 l’azienda Ibm e il fatto che sia morsicata allude al fatto che la Apple abbia attaccato gli schemi tradizionali rappresentati dalla società newyorkese Ibm; ■ la componente cromatica del logo Apple è in opposizione con il sistema delle bande monocromatiche del logo Ibm, perché la varietà di colori utilizzati simboleggia la libertà di scelta tra i possibili competitor informatici, invece, le bande orizzontali monocromatiche del logo Ibm danno l’idea di una scelta obbligata; ■ le strisce orizzontali, inoltre, rappesentano, nella cultura americana, il posto destinato alle firme nei documenti legali, dunque, richiama il tema del rispetto dell’impegno preso e il carattere tipografico Egiziano appartiene al mondo commerciale e della pubblicità ed è stato creato per fornire ad un testo, il massimo impatto visivo possibile. Dall’analisi del livello figurativo Floch deduce che, la società Apple privilegia i valori utopici e mira ad identificarsi con il suo destinatario, Ibm, invece, esalta i valori pratici del suo prodotto e mantiene sempre una certa distanza con il potenziale cliente. La società Apple, inoltre, vuol simboleggiare la disobbedienza alle regole, l’America degli anni Sessanta dell’anticonformismo e della vita spirituale non sottomessa al denaro, contro l’America del business rappresentata dall’Ibm. Fl oc h co ncl ud e aff er m an do ch e “u n lo go no n esi ste in se stesso”, i suoi significanti non si possono interpretare indipendentemente dai suoi significati e dai valori che portano al loro interno, perché un logo non è solo ciò che rappresenta, ma soprattutto, ciò che decide di non rappresentare.
I loghi delle due importanti società statunitensi, e di conseguenza, le loro rispettive identità visive hanno subito ulteriori cambiamenti nel corso del tempo, così come è cambiato il ruolo delle due aziende all’interno del mercato dell’informatica. Ibm, ha una storia che parte da più lontano, nel 1911, e attraversando anche momenti di crisi, riesce ancora oggi a difendere il proprio posto nel mercato e la Apple è diventata leader mondiale nel suo settore, arrivando a rappresentare, soprattutto dopo la morte del suo fondatore Steve Jobs, un vero e proprio status sociale. Nuovi Business e il ruolo della brand reputation: regole d’oro che valgono il successo! Piccole idee che diventano un grande Business è questo il trend del momento che spopola nelle grandi capitali del mondo, diverse le start up che con idee originali danno vita a nuove servizi ed opportunità di ricavo. Business del tutto nuovi o semplicemente rivisti, corretti, vestiti di innovazione. Soluzioni per nicchie di mercato personalizzate o servizi per tutti, purché utili. Nuove opportunità allo scopo non necessariamente di vendere prodotti, ma soprattutto di erogare servizi, fanno capolino cominciando a far parlare di sé. E’ il caso di Earl Maternity Wear, una soluzione fashion per vestire con capi firmati le mamme famose in dolce attesa oppure collezioni per l’ufficio di mamme in carriera. Jet-set dove le migliori tintorie e lavasecco di Londra con una semplice telefonata vengono a casa, ritirano il guardaroba e lo riportano come se fosse appena acquistato e confezionato mettendolo direttamente in valigia così da partire senza problemi. Stessa cosa fanno al ritorno; riparando se necessario eventuali buchi, zip o bottoni. Luggage Free che ti garantisce ritiro e consegna a domicilio del bagaglio ingombrante in tempo per il proprio arrivo a destinazione. Di gran moda a New York il matchmaker, l’agenzia matrimoniale 2.0, un vero e proprio organizzatore di appuntamenti, una professionalità con doti di psicologia e pubbliche relazioni che trova il giusto mix per l’incontro perfetto. Come queste soluzioni ce ne sono diverse e in ogni dove, tutte realtà che sono diventate vere e proprie aziende con un unico comun denominatore: hanno avuto la capacità di individuare un mercato in crescita e rispondere a un bisogno insoddisfatto; la vera chiave del successo. Non è, poi, questa la stessa essenza che ha reso di successo i grandi Brand? D’altronde Apple è stato inventato in un garage pensando a fare la differenza. La verità è davanti agli occhi, se il cliente lo richiede vuol dire che c’è un mercato, motivo per cui una possibilità di far sì che un bisogno del singolo possa diventare quello di una comunità e su di lui realizzare il proprio Business.
Ma è a questo punto che entra in gioco il grande ruolo dell’immagine, della costruzione del sé, della realizzazione di una brand reputation di effetto che faccia memorizzare il proprio brand a discapito della concorrenza. Identificata la necessità, nata l’idea e realizzata in maniera innovativa si comincia a farsi spazio tra i big, l’importante è essere caratterizzati da un qualcosa che permette di differenziarsi. La lungimiranza può portare a risultati inaspettati ed ovviamente quel pizzico di fortuna, non guasta mai! Heineken, il brand che ti conquista con il sorriso. Non so voi, ma io trovo che i brand globali siano rassicuranti. L’idea di poter trovare un prodotto ovunque e con le stesse caratteristiche in diversi paesi nel mondo è per me una certezza piacevolissima e un grande sollievo. Un brand tra tutti ad esempio? Heineken, presente in 192 paesi. Sede centrale: Olanda, paese riconosciuto per la sua cultura di produzione della birra. Ovunque tu vada non puoi non riconoscere quella bottiglia dal colore verde intenso, la stella rossa, la “e” che ride. Non ci avete mai fatto caso? La “e” di Heineken è leggermente inclinata e per questo sembra che stia sorridendo. Conquista subito con il suo sorriso, ispira buon umore. Anche se la guardate distrattamente da lontano sarete certi che è una bottiglia di Heineken, la riconoscete senza alcun dubbio. Come ha fatto questo brand a diventare quello che è oggi lo possiamo capire solo analizzando la sua evoluzione e l’immaginario positivo di marca che è stato capace di costruire. La birra, dicono in azienda, è fatta ancora con lo stesso procedimento delle origini , del 1873, perché chiaramente una ricetta così perfetta non si cambia. I valori storici di Heineken sono la sua vera forza: ■ Respect, ■ Enjoyment ■ Passion for Quality Ovvero rispetto, divertimento e passione per la qualità. Rispetto nei confronti delle persone, della società e dell’ambiente; infatti Heineken porta avanti politiche di consumo di alcol responsabile e programmi specifici contro lo spreco di acqua e il controllo dell’energia.
Il suo successo internazionale, poi, è costruito intorno alla fondamentale qualità del prodotto (si dice che il suo fondatore, Gerard Adrian Heineken, fosse solito dire “considero una cattiva bottiglia di Heineken un insulto personale!”), ma anche alle tante iniziative di comunicazione, legate per lo più al concetto di divertimento. Il gruppo Heineken, infatti, ha da sempre sottolineato la fondamentale connessione tra il suo prodotto e il divertimento, al punto da arrivare a dire che “l’esperienza sociale è inseparabile dal prodotto”. Da qui la sponsorizzazione di eventi musicali, sportivi e di altro tipo, proprio perché questi rappresentano ottimi modi per riunire la gente e creare divertimento. Le perfette “situazioni Heineken” diremmo. …E sono stati così bravi ad associare le situazioni di svago, divertimento e musica al brand Heineken…che ormai ci crediamo anche noi! Il brand Heineken si è perfezionato nel tempo, la sua personalità di marca ha preso forma negli anni, è stata in grado di adattarsi ai numerosi cambiamenti sociali, ha saputo reagire all’evolversi della società e ha trovato ambiti specifici in cui esprimersi per entrare in sintonia con il suo target. Heineken ha creato diversi segmenti di prodotti, si è avvicinato ai suoi consumatori progettando anche eventi esclusivi sul territorio, come l’Heineken Jammin Festival organizzato per quasi 15 anni o creando un bellissimo museo aziendale ad Amsterdam, l’Heineken Experience, in cui invita a vivere il mondo Heineken in ottica totalmente immersiva ed esperienziale, facendo persino provare l’esperienza di sentirsi una bottiglia di birra in prima persona (provare per credere!).
Inoltre il brand è stato partner della Uefa Champions League dal 1994 e si è avvicinato al mondo della F1 scegliendo degli ambassador, ex piloti, per la creazione di alcuni contenuti. Ha persino lanciato un bellissimo progetto dal nome “Open your world”, contro gli stereotipi e a favore dell’apertura e il superamento delle barriere tra le persone. Possiamo dirlo: non è una marca funzionale, non aspira soltanto a soddisfare un bisogno, ma crea una relazione con i suoi consumatori. Quando ho iniziato a osservare il brand Heineken mi ha colpito una frase su una brochure istituzionale “Heineken è più di una birra di qualità, una fabbrica con rispetto per la gente, la società e l’ambiente. Heineken è godersi la vita”. Dunque ci si sofferma e si pensa: Heineken è la birra per la gente felice…e chi non vuole esserlo? Ecco perché ci si identifica, ecco perché Heineken non può che essere la tua birra, o una delle prime che ti vengono in mente quando senti la parola birra. Nel marketing si dice “top of mind”. L’idea che Heineken vuole creare è quella di un brand che si rivolge a un pubblico emancipato, che ama la musica, lo sport, la vita, rispetta l’ambiente, crede nell’amicizia, infatti molti dei suoi spot presentano la birra associata con occasioni di socialità: con gli amici, in compagnia, in momenti piacevoli. Heineken è stato da sempre un brand capace di avvicinarsi al suo consumatore, con coerenza ed estrema flessibilità, affermando, grazie alla comunicazione e alle attività concrete, la propria appartenenza a un mondo giovane e al passo con i tempi. Un brand relazionale, che ha reso tangibile il suo valore di marca. La storia di Heineken inizia ad Amsterdam nel 1846, quando Gerard Adrian Heineken, a soli 22 anni, acquista una grande fabbrica di birra nel centro della città. Da quel giorno Heineken smette di essere un semplice cognome e diventa un brand. Un brand di successo mondiale con un portafoglio ampio e diversificato e una strategia di marketing forte ed efficace. Il risultato? Niente male: ogni giorno vengono consumate più di 1 milione di bottiglie di Heineken in oltre 170 paesi, senza contare le lattine e la birra alla spina di questa marca. Come diceva un vecchio claim….”Heineken, sounds good”! Dalla Brand Loyalty, alla fedeltà, a uno stile: storia dell'evoluzione del Brand Uno spaccato della società spesso passa attraverso la moda, come rappresentazione ultima degli stili
di un’epoca. Per analizzare il cambio nella concezione del brand possiamo prendere spunto da come la marca è stata vista e indossata dal consumatore medio. Anni ’80. Per lungo tempo le grandi case hanno investito tempo e risorse in sfilate, atelier di lusso, strumenti di differenziazione e dettagli o marchi in bella vista per essere riconoscibili. Questa è stata la prassi fino almeno agli Anni ’80. Gli sforzi del brand servivano per accaparrarsi la fiducia del cliente puntando all’affidabilità del prodotto e alla distribuzione nelle catene, prima nelle big city e poi nei centri minori. Artigianalità, tessuti ricercati, esclusività, prestigio sono solo alcuni degli aspetti su cui puntare per diventare un brand di spicco. La griffe è idolatrata, è lo status simbol che distingue chi può, da chi non può. Anni ’90. Gli sforzi per rimanere sulla cresta dell’onda però non sempre sono bastati. In particolare negli Anni ’90 si è passati alla tendenza più legata alla strada che ha invaso anche i più prestigiosi atelier di moda. Così non solo anche i marchi più chic hanno dovuto adattarsi a sfilare in strada oltre che sulle passerelle ma la fedeltà al brand è venuta meno per incontrare la molteplicità delle marche. Il consumatore non sceglie più di vestirsi da capo a piedi con un solo marchio, ma definisce vari accessori che ritiene utili a completare uno stile, rigorosamente street. La competizione tra le aziende inizia a diventare più marcata da un lato, perché più difficile da gestire con prodotti simili; dall’altro c’è voglia di cooperazione, sopratutto con testimonial nell’ambito della musica e dello spettacolo. La costruzione di una marca passa attraverso la concezione di bisogni e sensazioni che i singoli individui tendono a integrare nel gruppo. Nasce la voglia di identificarsi in categorie di persone e quindi anche il prodotto di tendenza si fa più simile. Dopo tanti anni per cercare di costruire brand in grado di identificare l’azienda e il prodotto, di differenziarsi dai concorrenti e di offrire un valore distintivo per il cliente, ci si avvia verso un’epoca di omologazione. Anni ’00 a oggi. Con il nuovo millennio e ancor più negli anni a seguire si indentifica un nuovo concetto di moda che si allontana ulteriormente da quello di brand per identificare quello di stile. Lo stile è un mix di prodotti, concentrati e aggregati insieme che generano sensazioni evocative legate a chi la persona vorrebbe essere. Attraverso lo stile il soggetto tende ad identificarsi in altro o diventare ciò che vuole. Il brand può solo essere un mezzo per raggiungere il proprio stile ma non è più un punto di arrivo. Il brand classico cerca di modificarsi per avvicinarsi ai gusti del consumatore. Ma il cliente moderno che insegue il proprio stile e non il brand, sfrutta la marca in modo funzionale per costruire l’immagine di sè che preferisce. Sono pochi i marchi che riescono a diventare trend setter e,
sempre più spesso, lo sono solo in funzione dei testimonial che hanno scelto. Spetta al cliente o ai fashion blogger mixare prodotti e accessori per ricreare uno stile che non sempre risulta vicino alle passerelle. Spesso questo avviene scegliendo prodotti di fascia alta con altri low cost per ottenere un risultato unico. La voglia di unicità del singolo, ma con un chiaro richiamo all’omologazione di un’etichetta porta a definire delle linee guida abbastanza marcate per ogni tipologia di stile che però faticano ad essere rispettate dalle aziende. Infatti restrizioni troppo rigide rischierebbero di limitare in modo eccessivo il mercato, non offrendo margini di profittabilità. In molte imprese oggi si è deciso di ampliare il più possibile la gamma dell’offerta, con misuscole variazioni sul tema, per cercare di accaparrarsi ogni singolo soggetto che vuole sentirsi unico. Sono invece le piccole realtà, di estrema nicchia, che hanno scelto di declinare i prodotti in una sola direzione con un pubblico destinatario estremamente limitato. I Big quindi non hanno dubbi, tanti prodotti, un po’ per tutti, facili da mescolare, per incontrare gli stili di tutti. E il brand storico e costruito perde alcune caratteristiche per diventare un poliedrico arlecchino. Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico Scoprii Anna Maria Ferrero per strada, in via Aurora a Roma, mentre camminava al fianco di una signora. Cercavo la ragazzina per il film e vidi questo scricciolo che aveva una tale intensità negli
occhi. Fece un provino meraviglioso, era nata attrice. (Claudio Gora, regista) Era il 1949, quando appena quindicenne, ma già bellissima, la giovane Anna Maria Ferrero, venne notata dal regista Claudio Gora e scritturata per una parte nel film Il cielo rosso. Fu l’inizio di una sfolgorante, ma breve carriera artistica, che si districò nell’arco di un quindicennio o poco più, per scelta personale infatti, dopo aver sposato l’attore francese Jean Sorel, Anna Maria Ferrero decise di abbandonare il mondo dello spettacolo. Soltanto brevi altre apparizioni pubbliche, dopo il mediometraggio Cocaina di domenica parentesi del film ad episodi Controsesso, simpatico film interpretato al fianco di Nino Manfredi, la Ferrero decide per il ritiro dalle scene, sulla falsariga di ciò che aveva fatto qualche anno prima, un’altra diva dell’epoca, ovvero Marisa Allasio. Utilizzata in parti più “impegnate” della Allasio, Anna Maria Ferrero si contraddistinse per una bellezza elegante, fuori dal comune e per una classe di interprete raffinata e fuori dagli schemi. I l f a s c i n o e l e g a n t e d i Anna Maria Ferrero, “stella” del cinema italiano del boom economico. Bella come poche, elegante come poche, affascinò tutti i più grandi cineasti dell’epoca. Fidanzata per molto tempo con Vittorio Gassman, sposò nel 1962 l’attore francese Jean Sorel e nel 1965 si ritirò dalle scene. Fu “musa” ispiratrice per i più grandi cineasti dell’epoca, da Monicelli a Lizzani, e fu anche abbastanza utilizzata sulle copertine delle maggiori riviste mondane dell’epoca. Si chiamava Anna Maria Guerra, ma utilizzò il cognome d’arte “Ferrero”, in omaggio al suo padrino, il musicista statunitense Willy Ferrero, diventando Anna Maria Ferrero, anche per il fatto che egli stesso sarà l’unico a incoraggiarla ad intraprendere la carriera d’attrice, al contrario dei suoi genitori, specie suo padre, che si dimostreranno in un primo momento contrari alla scelta della figlia. Nel 1952 è
impegnata nella lavorazione del suo primo film da protagonista, Le due verità di Antonio Leonviola. Nonostante la giovane età, Anna Maria offre un’ottima interpretazione, e finalmente la critica incomincia ad accorgersi di lei, così come registi e produttori. L’anno successivo si rivelerà il più prolifico della sua carriera, interpreta addirittura otto film, tra cui spicca la sua commovente e realistica interpretazione nel film Le infedeli di Mario Monicelli; o ancora Siamo tutti inquilini, al fianco di attori del calibro di Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Nel settembre del 1953 partecipa alla 14ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nella rassegna viene proiettato il film Napoletani a Milano dove Anna Maria recita accanto ad Eduardo de Filippo e, grazie alla sua sempre ottima interpretazione, l’attrice sarà ammirata come una delle più interessanti giovani promesse del cinema italiano dell’epoca.
U n ’ i m m a g i n e a c o l o r i d i A n n a M a r i a F e r r e r o , d a t a 1958, all’apice del suo successo. Anche il 1954 si rivelerà un grande anno per Anna Maria, darà sfoggio della sua bravura nel film Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, ancora una volta nella parte di una servetta, e
soprattutto in Totò e Carolina, dove con la sua passionale recitazione, riesce a stare sullo stesso piano recitativo di Totò stesso. Tuttavia i ruoli che le vengono proposti sono tutti un po’ simili, ricalcano tutti il personaggio della ragazza debole ed ingenua, insicura nelle sue scelte, lasciata a se stessa. A n n a M a r i a F e r r e r o i n c o p p i a c o n T o t ò, nel discusso “Totò e Carolina”(1953). Le cronache mondane dell’epoca si interessarono di Anna Maria Ferrero anche per una lunga e spesso burrascosa relazione con Vittorio Gassman, durata dal 1954 al 1960, e interrotta, per il rifiuto di Gassman a sposarsi. Inoltre lo stesso Vittorio, spesso la rimproverava del fatto di doversi dedicare più assiduamente alla carriera cinematografica che a quella teatrale. Proprio nel 1960, l’anno della loro separazione ufficiale, la carriera di Anna Maria Ferrero ottiene un’improvvisa impennata. Accantonato per il momento il teatro, e senza le imposizioni di Gassman, l’attrice accetta di partecipare alle numerose pellicole che le vengono proposte dai produttori. Fra quelli interpretati in questo periodo, va ricordato, quella dell’intraprendente camerierina innamorata di Walter Chiari,
imbranato professore in Le sorprese dell’amore(1959); e soprattutto quello della tenace ebrea Giulia ne L’oro di Roma(1961), il capolavoro di Carlo Lizzani, ambientato nella Roma occupata dalle truppe nazi-fasciste nell’ottobre del 1943. A detta della stessa attrice, sarà la sua migliore interpretazione di sempre. L a l o c a n d i n a o r i g i n a l e d el film “L’oro di Roma”(1961), di Carlo Lizzani, da molti ritenuta l’interpretazione della vita di Anna Maria Ferrero, in un ruolo drammatico di grande intensità emotiva. Il 1960 segnerà per Anna Maria un incontro che cambierà non poco la sua vita. In aprile ad una festa a casa dell’attore Pierre Brice incontra l’attore francese Jean Sorel, all’epoca pressoché sconosciuto. I due si fidanzeranno e di lì a poco si sposeranno. L’anno successivo Anna Maria protagonista del film L’oro di Roma suggerirà al regista che proprio al suo nuovo compagno venga affidato un ruolo nel film. Anna Maria preferisce recitare insieme all’attore francese, evitando così quelle distanze fatali che avevano contribuito a far fallire la sua precedente relazione con Vittorio Gassman. Non sarà la prima volta che l’attrice aiuterà la carriera del marito con le sue conoscenze. I due si sposeranno nel 1962, continuando, almeno per un paio di anni, la loro carriera artistica parallelamente, non disdegnano qualche apparizione insieme, come in Un marito in condominio. Nel 1964, dopo Controsesso, recitato al fianco di Nino Manfredi, Anna Maria decide improvvisamente di lasciare tutto. L’attrice romana non spiegherà mai il vero motivo di tale rinuncia, forse perché in 15 anni di carriera cinematografica e 10 di quella teatrale, le occasioni per dimostrare appieno tutto il suo talento sono state molto poche, o forse perché spinta dal desiderio di dedicarsi alla famiglia.
A n n a M a r i a F e r r e r o , i n s ieme a Nino Manfredi e Carlo Ponti sul set del film “Cocaina di domenica” episodio del lungometraggio “Controsesso”(1964). La sua vita proseguirà lontano dai set cinematografici, da tempo trasferitasi a vivere nella periferia di Parigi, tornando raramente in Italia. Non riuscirà a diventare madre, e questo fatto si ripercuoterà negativamente sul suo matrimonio con l’attore francese. Nel decennio successivo le notizie sulla sua vita saranno pochissime, l’attrice concederà solo alcune interviste ai vari quotidiani dell’epoca, mentre le sue apparizioni pubbliche saranno praticamente nulle. Tuttavia Anna Maria dichiarerà di essersi pentita non poco di aver abbandonato la carriera d’attrice, e già dopo pochi anni dal suo ritiro avrebbe volentieri accettato una parte in un film. Un suo ritorno sui set cinematografici era previsto per il 1985, in un piccolo ruolo nel film Maccheroni di Ettore Scola, ma alla fine l’attrice romana ci ripensò e quello fu il suo ultimo contatto con il mondo del cinema. L’ultima apparizione in pubblico di Anna Maria Ferrero avviene nell’aprile del 2008, quando fa parte della giuria del Busto Arsizio Film Festival, accanto al marito Jean Sorel. In quell’occasione è stata proiettata la versione restaurata del film L’oro di Roma.
A n n a M a r i a F e r r e r o e il marito Jean Sorel, in una foto dei primi anni ’60. Di lei comunque, rimangono soprattutto le immagini degli oltre 40 film interpretati, rimane l’immagine di una donna forte, bella, bellissima; rimane l’immagine di una grande e giovane attrice. Anna Maria Ferrero fu la diversa bellezza che piace, non tutta curve tipo Sophia Loren, Marisa Allasio, piuttosto come una “nostrana” Audrey Hepburn in miniatura: elegante, raffinata, minuta, ma bella, dotata di un sorriso ipnotizzante. Nonostante spesso in questo Paese, così superficiale, si rischi di cadere nel dimenticatoio facilmente, Anna Maria Ferrero conserva comunque il suo spazio indelebile nella storia del cinema italiano. Film che sono rimasti nei cuori della gente, forse perché rimangono legate all’epoca più bella della storia italiana: quella del boom economico, quella di Cinecittà soprannominata la “Hollywood sul Tevere”. Tempi d’oro, malinconici, inarrivabili, di cui la Ferrero era una delle stelle indiscusse. Come creare il brand personale e promuoverlo sui social media Perché alcuni brand personali piacciono più degli altri? Come comunicano con voi per creare una relazioni costante nel tempo, infondere fiducia e spingervi a comprare prodotti e servizi? Quali personalità vi attraggono? Tutto dipende dalle caratteristiche della persona a cui si comunica ed è per questo che nella costruzione del brand personale è importante pensare al target di riferimento. Approfondiamo la creazione del brand personale e la sua promozione grazie ai social media in questo articolo.
Il brand personale implica innanzitutto che il prodotto da promuovere e da vendere siete voi, con il vostro pacchetto di competenze, esperienze e personalità sia nella realizzazione di un’attività in proprio sia nella ricerca di lavoro. Ecco quindi perché una gestione efficace del vostro brand personale è oggi fondamentale e insieme alle vostre competenze di marketing vi permetterà di trasformare la vostra passione in un lavoro oppure ottenere il posto di lavoro tanto ambito. Perché sicuramente un brand personale si comunica anche con il CV e il colloquio di lavoro. 4 consigli per diventare un brand Ecco alcuni consigli per creare un brand personale efficace. 1. Identificare il target di riferimento Ogni brand personale e aziendale deve comprendere il target di riferimento per effettuare azioni di marketing che permettano di raggiungere le persone interessate ai prodotti e servizi. Ecco quindi che per dar vita al vostro brand personale dovrete fare una ricerca di mercato e sui principali competitor analizzando siti web e canali social. 2. Definire la vostra USP Per avere successo dovete sapervi distinguere dai competitor con un’apposita USP (unique selling pro position): perché siete la risorsa migliore per quel posto di lavoro, cosa vi rende unici agli occhi di un potenziale cliente? Potrebbe sicuramente essere l’esperienza personale ma anche la vostra personalità o altro ancora: scoprire tutti questi elementi vi aiuterà a costruire il vostro brand personale. 3. Identificare le vostre keyword personali Ogni cosa venga scritta e pubblicata online non può più escludere la ricerca delle keyword, che come per un prodotto e servizio sono fondamentali anche per la costruzione di un brand personale. Analizzate i termini di ricerca più diffusi nel vostro settore o quelli legati al ruolo per cui vi state candidando e utilizzateli correttamente nella definizione della vostra immagine online. Una volta costruito il vostro brand personale ecco come rendere l’attività di personal branding più produttiva grazie ai social media. Fare personal branding con i social media Oggi l’attività di marketing online è quella che occupa la maggior parte delle ore della giornata ed è quindi indispensabile rendere anche il personal branding più produttivo, magari proprio grazie ai social media, individuando una serie di azioni online mirate ed efficienti. Oggi si contano oltre 300 social network che il professionista ha a disposizione per fare personal branding anche se i più influenti restano Facebook, Linkedin, YouTube e Instagram. Diventa quindi essenziale sfruttare nel migliore dei modi il tempo trascorso online, in quanto lo scopo del lavoro – come diceva Aristotele –
è guadagnarsi del tempo libero. Ecco quindi i nostri consigli. ■ Non stare sempre connessi Le maggiori energie e le migliori idee vengono quando si è staccati da Intenet, magari nella pausa caffè, leggendo un libro o facendo una passeggiata. ■ Create una tabella di marcia Stabilite degli orari in cui pubblicherete i contenuti sui social media dedicando del tempo alla promozione del brand anche offline. In questo modo abituerete i follower e raggiungerete un pubblico più ampio. ■ Mantenete i contatti giusti Avere un personal brand significa accrescere il numero di contatti ed importante sapere mantenere conversazioni interessanti per far crescere il vostro business. ■ Considerate gli orari di maggiore attività dei vostri contatti Nel creare la tabella di marcia considerate non solo i vostri tempi ma anche quelli in cui i vostri contatti sono più attivi per dar vita a una conversazione veramente proficua. Certo oggi siamo tutti connessi 24 ore su 24 ma saper organizzare al meglio il tempo trascorso online permetterà di sviluppare il proprio personal brand grazie alle potenzialità del web, senza trascurare il tempo libero da dedicare alle passioni, alla famiglia e agli amici.
Un ultimo consiglio: impostare una strategia di branding Il punto di partenza per diventare un brand è impostare una strategia di personal branding, in quanto non si può lavorare senza partire da basi solide nate da un’attenta schematizzazione di competenze, necessità e punti da migliorare. Potresti applicare la classica analisi SWOT al tuo personal branding, magari usando un personal branding canva con cui mettere nero su bianco ogni aspetto del tuo lavoro. Perché la verità è semplice, non si può improvvisare. Ecco perché per evitare di lavorare perdendo tempo ti lasciamo questa risorsa utile: bigname.it/personal-branding- canvas. E tu come fai personal branding? Quali risultati stai ottenendo? Raccontacelo nei commenti! Perchè un brand è un asset strategico? Come suggerivano i vecchi esperti di comunicazione: “non si può stare senza un prodotto, ma non appena lo si possiede occorre averne subito un altro”. Attenzione: anni fa si parlava di prodotti non di brand. Il vecchio mantra era “spendo dunque sono” e non vi era un particolare attaccamento al brand in quanto tale bensì al prodotto. All’epoca la funzione del brand era principalmente, ed a volte unicamente, quella di aumentare le vendite. Oggi, invece, è tutto cambiato. Le aziende investono molte risorse, umane ed economiche, per sviluppare il brand e tutte le sue declinazioni. Si parla di brand building, di re branding, di brand touch point, di brandizzazioni, di brand relevance e di molto molto altro. Con il tempo i manager si sono resi conto che gli asset di marca erano necessari. All’inizio il brand management veniva visto esclusivamente in chiave tattica (aspetti legati alla gestione dell’immagine di marca, alla creazione di campagne promozionali). Da quando, invece, i brand sono stati considerati degli asset, il ruolo del brand management è radicalmente cambiato passando da tattico e reattivo a strategico e pro attivo. Ma partiamo dal principio: chiediamoci, cos’è un brand? In molti, erroneamente, associano alla parola brand ad un nome o ad un logo. Associazione decisamente riduttiva. Il brand, infatti, è la promessa che un’azienda fa ai suoi clienti (attuali e potenziali). Cosa può mai promettere un’azienda? Beh, certamente benefici materiali, ma soprattutto emotivi, sociali.
Partendo da questo presupposto, quindi, appare evidente che le aziende devono lavorare, e verificare, sul posizionamento che il proprio brand ha sul mercato. Nella classifica BrandZ Top 100 Most Valuable Global Brands cioè l’analisi annuale di Wpp e Kantar Millward Brown sui brand a maggior valore, che tiene conto dell’impatto della marca nel portare fatturato, crescita e capitalizzazione di mercato, Il settore merceologico che, ancora una volta, la fa da padrone è la tecnologia. Nella top10, infatti, beh 8 brand appartengono al “mondo tecnologico”. Dietro a Google, a quota 302,1 miliardi di dollari, con un aumento del 23% rispetto allo scorso anno, Apple, con 300,6 miliardi di dollari (+28%) e Amazon, con 207,594 (+49%), troviamo colossi hi-tech del calibro di Microsoft, Tencent, Alibaba e Netflix. A fare la differenza, secondo gli esperti, sono l’implementazione crescente di tecnologie data-driven (come l’intelligenza artificiale), approcci di marketing creative, contenuti personalizzati e brand experience eccezionali. Anche alla luce dell’evoluzione che vi abbiamo descritto appare evidente come “fare branding” sia un attività tanto indispensabile quanto complessa. E’ inevitabile considerare il proprio brand uno degli asset strategici della propria azienda, anzi forse il più importante. Lo Specchietto Retrovisore. Crisi di Sistema, nuove elezioni in vista, referendum implicito sull'Euro e comunicazione virale. Nel non accettare la nomina di Paolo Savona al Ministero dell’Economia, Sergio Mattarella fa riferimento esplicito nel suo discorso a motivazioni che potrebbero allarmare gli investitori e risparmiatori, sia italiani che esteri. In particolare si legge “…non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro.“ Un comunicato che non lascia spazio ad equivoci e forse dovremmo partire proprio dalla chiarezza di questo messaggio per districarci nel vivace dibattito che vede centrale la tenuta dell’Europa e della sua moneta. Un merito che bisogna infatti riconoscere a chi si sgola, twitta e regala perle di saggezza liofilizzate in post sui social network, molto spesso senza il supporto di numeri e base scientifica, risiede nella immediatezza comunicativa. Inutile nascondersi dietro epiteti che provano a ridimensionare il fenomeno ai malumori della pancia dell’elettorato. Prima di tutto perchè si tratta di una pancia non solo italiana, ma di un sentimento diffuso anche in altre nazioni. Inoltre la pancia
si esprime in modo chiaro, efficace, diretto. La sua forma di comunicazione è vincente perchè virale, perchè si autoalimenta, perché trova sempre un’altra pancia vuota che ha la necessita di nutrirsi, di stigmatizzare in un concetto lontano, le proprie paure, i propri insuccessi e carenze, le proprie colpe del passato. E invece chi sostiene che tutto sommato la presenza dell’euro, per quanto non rappresenti l’ottimo paretiano, sia l’elemento indiscusso da cui partire per migliorare l’intera esperienza europea, spesso comunica in maniera meno efficace. Si ritrova a spiegare concetti complessi (eppure gli stessi degli anti europeisti) non riuscendo a cogliere il fine ultimo di una buona comunicazione. Giungere alla testa delle persone, passando anche dalla pancia delle stesse qualora se ne avvedesse l’opportunità. È già iniziata la campagna elettorale. Se l’allargamento dello spread segnala che la soglia di attenzione dei mercati si è già innalzata, dall’altro lato il termometro sociale ci indica che la popolazione italiana potrebbe anche valutare positivamente un eventuale voto di rottura. Un merito che bisogna infatti riconoscere a chi si sgola, twitta e regala perle di saggezza liofilizzate in post sui social network, molto spesso senza il supporto di numeri e base scientifica, risiede nella immediatezza comunicativa. Ricordo uno studio di qualche anno fa pubblicato su Linkiesta.it, che torna inevitabilmente d’attualità e che apprezzo, perchè con rigore scientifico analizza le diverse variabili messe sotto accusa dagli anti euro. Chiaramente i detrattori della tesi pro-euro possono obiettare sulla valenza della metodologia statistica adottata o il controllo sintetico, da parte degli autori (Tommaso Nannicini, Alessandro Saia, Paolo Manasse). Tuttavia proprio attraverso una simulazione rigorosa si tenta di simulare cosa sarebbe successo all’Italia se non avesse adottato la moneta unica. Qui di seguito mi sono permesso di estrapolare qualche punto del loro studio. Anzi potremmo anche andare oltre e sintetizzarli come se fossero dei tweet. Poche parole che però giungano al maggior numero di persone. E anche qualora il messaggio non ci dovesse piacere a primo impatto, comunque ci lascia il seme della riflessione. ■ Orizzonte temporale: consideriamo anche la data di inizio dei cambi fissi, 1 gennaio 1999. Prendere in esame la data del 1 gennaio 2002 (moneta circolante) potrebbe essere fuorviante. ■ Commercio con l’estero: pollice su, un bel like. “i flussi bilaterali tra l’Italia e i paesi Euro sono aumentati in maniera sostanziale”. ■ Inflazione: non c’è stata alcuna impennata inflativa. Con l’avvio dei cambi fissi abbiamo addirittura una riduzione dell’inflazione in Italia rispetto al suo sintetico”. ■ Spread e rendimenti dei titoli di stato: grazie Banca Centrale Europea. Nell’articolo ovviamente si fa riferimento a dati fino al 2013 e ci si ritrova comunque in una situazione di parità di andamento. Tuttavia grazie al massiccio intervento del quantitative easing sono proprio i paesi della periferia che hanno beneficiato dell’abbassamento dei rendimenti e della convergenza degli spread verso la Germania. Un’altro slogan, potrebbe essere il seguente: lo spread non è il nostro nemico. Se paghiamo poco, tutti ne beneficiano. L’intero sistema Paese se ne giova, coincide con l’interesse degli italiani. ■ Crescita e produttività: nota dolente. Ma è colpa dell’Europa o demerito nostro? Sul tema crescita anche la Germania “perde” qualcosa in termini di PIL nel confronto rispetto al potenziale
contrattuale. …chi sostiene che tutto sommato la presenza dell’euro, per quanto non rappresenti l’ottimo paretiano, sia l’elemento indiscusso da cui partire per migliorare l’intera esperienza europea, spesso comunica in maniera meno efficace. Paradossalmente l’Italia mostra uno scostamento inferiore. Ma è proprio sulla produttività del lavoro dove l’Italia si scosta dal paniere di Paesi presi come unità di controllo sintetico (Regno Unito, Turchia, Danimarca e Israele con pesi differenti). Una plausibile spiegazione potrebbe risiedere nella mancanza di adozione di riforme che marciano nella direzione giusta. Più facile cullarsi e farsi coccolare sotto l’ombrello dell’Europa che rimboccarsi le maniche. Si sono persi anni utili per attuare le giuste riforme e ora si attacca l’Europa. La si indica come la radice dei propri mali. Il debito pubblico, enorme è e resta nostro, non dell’Europa. Chiaramente l’impalcatura europea si può e si deve rafforzare; l’intera macchina burocratica si modificherà nel tempo per migliorarsi. Tuttavia la moneta unica non può che rappresentare la base di partenza, garantendo a tutti i cittadini europei la medesima solidità. Ogni spinta che porti alla deriva dall’Euro va nella direzione opposta, erodendo la solidità del sistema Europa e creando singole soluzioni più deboli, non fosse altro per l’esigenza di dover siglare nuovi accordi commerciali e per imbarcarsi in un’esperienza con una valuta più debole e spinte inflazionistiche. Christian Zorico: LinkedIn Profile Lo Specchietto Retrovisore. Il contratto di governo: ci si misura ancora con lo spread e le promesse. È davvero raro che gli appuntamenti dello “Specchietto Retrovisore” si colorino di politica. O meglio, molte volte è accaduto che avvenimenti geo-politici abbiano influenzato i giorni che precedevano la stesura dell’articolo, tuttavia l’angolo restava più legato alle dinamiche caratterizzanti i movimenti di mercato. Il nuovo contratto che invece i due movimenti populisti in Italia hanno intenzione di implementare mi spinge oltre. Accantoniamo subito le reazioni dei mercati, che hanno nei fatti bocciato quanto partorito dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle. Lo spread torna in area 160 punti base, molte società hanno “pagato” alcune dichiarazioni poco amiche del mercato e mi riferisco al caso Monte Paschi cosi come all’azienda Enel, infine l’intero indice azionario si ritrova a perdere circa il 3% nel corso
dell’intera settimana. Una settimana evidentemente incentrata sulla stesura del contratto di governo e sull’uscita mirabolante di una bozza che ha letteralmente messo in guardia sulla natura dirompente del nascente governo. C’è da dirlo sin da subito, l’ultima versione del contratto appare più malleabile, ricca di principi che toccano sia la pancia del Paese sia evidentemente alcune esigenze del sentire comune. Difficile non essere d’accordo nel momento in cui si mira ad ottenere più equità sociale. In effetti i dolori di pancia nascono riverberandosi sullo spread, indice del gradimento del mercato nel momento, in cui si toccano argomenti cari all’economia. Attenzione però, almeno in questo occorre essere perentori e logicamente onesti: i mercati non puniscono, non attaccano, semplicemente si aggiustano al nuovo set informativo. E di questo parliamo nelle prossime righe. Da un’analisi effettuata dall’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, CPI, diretto da Carlo Cottarelli, si evince che le ragioni per aver mal di pancia sono tante. Oltre 100 miliardi previsti sulla base delle proposte effettuate nel contratto; una stima, quest’ultima, che potrebbe lievitare dal momento che alcuni dettagli applicativi, sia della Flat Tax che del Reddito di Cittadinanza, appaiono ancora non chiarissimi. Ma sono soprattutto le coperture ad essere chiaramente insufficienti. Ed a nulla sono valse le dichiarazioni che chiedono ancora tempo per identificare pienamente le voci di copertura necessarie. Tutt’altro, amplificano il senso di disagio e connotano le eventuali misure che i due partiti si apprestano ad implementare come davvero populiste, sia negli annunci della campagna elettorale, insensati ma almeno legittimi perché volti a conquistare quanti più elettori possibile, sia nel seguito, a vittoria ottenuta. Infatti promettere ancora che saranno in grado di attuare l’intervento sulla flat tax (circa 50 miliardi l’anno), il reddito di cittadinanza (ben altri 17 miliardi, sebbene posticipati almeno tra due anni dopo aver provato a rinforzare, inutilmente con soli 2 miliardi i centri di lavoro) e ancora la sterilizzazione dell’aumento dell’IVA (che solo per l’anno in corso costerà 12.5 miliardi), provoca uno scompenso per le casse dello Stato perché non rimpinguato da nuove entrate. Nell’attesa di magici moltiplicatori, la contropartita passa inevitabilmente dal debito. Effettuare ancora nuovo debito non è propriamente preso a buon viso dai mercati, questi cattivoni che insieme all’Europa vogliono blindare i conti dei Paesi dell’Unione Europea. Scusate la facile ironia, ma purtroppo la situazione è drammatica nell’essenza, perché dietro i nuovi politici, le
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