Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico

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Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
Questione di Branding - L'editoriale di
Ivan Zorico
L’infografica di Lori Lewis e Chadd Callahan di Cumulus
Media è sempre molto rappresentativa e interessante. Ci
mostra cosa accade in 60 secondi nel mondo digitale e
ci da il termometro di quanto sia complicato e complesso
emergere in questo mare magnum informativo.

Non ci pensiamo, o forse non ci facciamo più caso perché ormai assuefatti, ma il numero di
interazioni, comunicazioni e informazioni a cui siamo sottoposti è davvero impressionante.

Solo per citare qualche numero
■   4,3 milioni di video visualizzati su YouTube
■   187 milioni di email inviate
■   3,7 milioni di ricerche su Google
■   823 dollari spesi online
■   38 milioni di messaggi scambiati su WhatsApp

Se questo è ciò che accade in 60 secondi, immaginate cosa può voler dire per il nostro cervello
cercare di riuscire a districarsi in questa marea di dati e di informazioni.
È praticamente impossibile.

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Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
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di Lori Lewis e Chadd Callahan di Cumulus Media su cosa accade in 60 secondi nel mondo
digitale (2017 e 2018). Fonte: www.allaccess.com

La nostra soglia di attenzione per ovvie ragioni è molto calata e dobbiamo far sempre di più lo
sforzo di selezionare le informazioni. Leggiamo il giornale, mentre scorriamo il newsfeed sul
nostro smartphone, rispondiamo alle email, acquistiamo un prodotto online, ecc. ecc., e tutto in
brevissimo tempo. Che trattasi di informazioni di natura commerciale, personali o di altro
genere, non fa alcuna differenza. Sono tante, sono troppe, per poterle discernere tutte.

Ma, allora, se come credo siamo tutti d’accordo nell’affermare che cogliere l’attenzione delle
persone è una operazione estremamente difficile, come possiamo fare noi piccoli uomini al servizio
del marketing e della comunicazione ad aggirare questo problema e farlo diventare (si spera) un
punto di forza?

Come possiamo far entrare le nostre comunicazioni nelle
strette maglie di una attenzione sempre più labile?
La risposta che do a questi interrogativi è una ed una sola. E prende il nome di: Brand!
Che ci troviamo a comunicare per conto di un’azienda o che ci troviamo a comunicare per noi stessi,
quello che appare inevitabile è l’importanza di lavorare sulla riconoscibilità del brand
(aziendale o personale) per cercare di ritagliarsi uno spazio nell’attenzione del nostro
pubblico che, come possiamo vedere dai numeri presenti nell’infografica di Lori Lewis e Chadd
Callahan, è messa a dura prova dalla mole di informazione alla quale è sottoposto e alla quale,
inoltre, contribuisce a formare.

  La riconoscibilità ed il posizionamento del brand fa, e sempre più farà, tutta la differenza del
  mondo.

In futuro (anche prossimo) se vorremo prenotare una vacanza non controlleremo 10, 100, 1000 siti
diversi, ma uno ed uno solo (o al massimo due :)). Se vorremo essere aggiornati sulle ultime notizie,
non andremo sulle homepage di chissà quanti siti di informazione. E se vorremo acquistare un
prodotto o servizio online non andremo in uno shop qualsiasi, ma in quello in cui siamo certi della
qualità dell’esperienza d’acquisto che andremo a vivere.

Potrei continuare all’infinito con questi esempi, ma di fondo avrebbero tutti lo stesso comun
denominatore: la forza e la riconoscibilità del Brand! È questa infatti la principale leva che ci
spinge a scegliere A al posto di B, o addirittura a scegliere A senza neanche domandarci cosa offre
B.

Perché ricordiamoci che il nostro tempo e la nostra attenzione sono limitati, e il tempo risparmiato a
non considerare B lo impiegheremo indubbiamente a fare qualcos’altro.
E più andremo avanti e più questo trend aumenterà. Di questo ne sono certo.

  Ecco cosa troverete in questo numero:

  ■   L’ identità visiva di due brand storici: Ibm VS Apple.
Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
■   Nuovi Business e il ruolo della brand reputation: regole d’oro che valgono il successo!
  ■   Heineken, il brand che ti conquista con il sorriso.
  ■   Dalla Brand Loyalty, alla fedeltà, a uno stile: storia dell’evoluzione del Brand
  ■   Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico
  ■   Come creare il brand personale e promuoverlo sui social media
  ■   Perchè un brand è un asset strategico?

  …e ci saranno anche altri aggiornamenti!

Buona lettura…e fateci sapere cosa ne pensate!

                                                                                               Ivan Zorico

Questione di Branding – L’editoriale di
Raffaello Castellano
Il termine brand deriverebbe dall’Antico Norreno ‘brandr’, che
significa bruciare. E rimanda quindi all’antica pratica di segnare
il bestiame con un marchio a fuoco per riconoscerne la
proprietà.

L’American Marketing Association (AMA) definisce il brand come “il nome, il termine, il simbolo, il
disegno o una combinazione di questi elementi, che distingue un produttore da ogni altro. Il brand
rappresenta l’identità, unica e irripetibile, di un’azienda sul mercato.”

Quindi fin dalle origini, ma anche nell’uso corrente del termine, brand significa prima di ogni cosa
“distinguere”.

Distinguere noi da loro, il nostro prodotto dagli altri, il nostro servizio dal resto dei servizi, le nostre
mucche da quelle del vicino.

La pratica del distinguere è fondamentale nel mondo del marketing, ancora di più negli ultimi 15
anni, da quando gran parte del commercio si sta spostando dall’off-line all’on-line: essere
“immediatamente” riconoscibili, “subito” identificabili e “rapidamente” rintracciabili può fare la
Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
differenza fra un’azienda di successo ed un’azienda fallita.

In questo
mese in cui
ricorre il
compleanno
della Coca
Cola, che fin
dalla nascita
ha attribuito
grande
importanza
al Brand, che
ne ha fatto
uno       dei
simboli più
famosi e riconosciuti a livello mondiale, noi di Smart Marketing vogliamo approfondire l’importanza
che oggi riveste il brand nel mondo del commercio, del marketing e delle nostre stesse esistenze.

Infatti, sempre negli ultimi 15 anni a questa parte, il brand, il logo, la marca stanno diventando
sempre più invasivi nelle nostre esistenze, travalicando gli scopi iniziali per i quali sono stati creati,
diventando non solo identificativi per le aziende in sé ma, ahimè, anche per le persone stesse che di
fatto smettono di “lavorare” sulla propria identità, per identificarsi totalmente con i brand che hanno
scelto come abito da indossare, scarpe da calzare, smartphone, tablet e computer da usare, auto da
guidare.

Il brand è diventato la nostra seconda pelle, il nostro credo religioso, la nostra mamma, il nostro
papà; un brand è probabilmente l’ultima cosa che vediamo andando a letto e la prima che vediamo al
nostro risveglio. L’avvertimento che, allora, dovrebbe tenerci svegli è lo stesso che Tyler Durden
(Brad Pitt), del film Fight Club, pone al protagonista (Edward Norton):

  “le cose che possiedi, alla fine ti possiedono.”

Buona lettura.

                                                                               Raffaello Castellano

L' identità visiva di due brand storici: Ibm
VS Apple.
Questione di Branding - L'editoriale di Ivan Zorico
In una società dove il termine “brand” non identifica più solo un marchio, ma arriva a definire anche
ciò che ci rende unici e differenti da tutti gli altri (vedi personal branding), siamo sommersi da
milioni di marche, simboli, loghi, nomi.

  Per approfondire:

  ■   Scopri il nostro numero dedicato al branding

E’ bene capire che dietro ogni brand, anche quelli a prima vista più semplici ed elementari, c’è
sempre un’identità, con il suo bagaglio di valori da voler rappresentare e comunicare attraverso
messaggi. Il semiologo francese Jean-Marie Floch spiegò i meccanismi della comunicazione di questi
valori, attraverso il metodo del quadrato semiotico. I valori ed i principi che definiscono un brand
non sono altro che la sua identità e quest’ultima, per essere percepita e compresa, necessita di
essere innanzitutto “visiva”.

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l concetto di identità visiva: identità “come riconoscimento sicuro di attributi (di forma, di contenuto)
caratterizzanti” e visiva perché l’insieme di segni che rappresenta riguarda principalmente la
percezione visiva. Questo concetto d’identità, rientrando nella semiotica visiva, coinvolge tanto il
livello plastico, quanto quello figurativo.L’identità visiva può essere definita sia come “differenza”,
quando assicura il riconoscimento dell’azienda esprimendo la sua particolarità, che come
“permanenza”, quando rappresenta la persistenza dei valori industriali, sociali ed economici
dell’azienda. Tra i vari studi di Floch effettuati per spiegare questo concetto vi è quello in cui pone
l’attenzione sui loghi di due importanti società informatiche, Ibm e Apple, analizzati in quanto
enunciati visivi, con l’obiettivo di comprendere il rapporto tra i loro significanti e i loro significati e il
ruolo che ricoprono nella cultura e nei valori che l’azienda vuole trasmettere.Floch inizia la sua
analisi dal livello plastico: la versione del logo Ibm del 1956 (Fig. 1) è opera del grafico Paul Rand,
che ha raffigurato le iniziali della società, la “International Business Machines”, con un’originale
tipografia egiziana, e dal 1962 le tre lettere sono state divise in strisce orizzontali (Fig. 2),
successivamente di colore blu acceso.
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Il logo della società californiana Apple (Fig. 3), creato da Rob Janov nel 1977, invece, rappresenta
una mela addentata, con i colori dell’arcobaleno (per questo il suo costo era elevato) e sostituisce il
primo logo (pittogramma) (Fig. 4), creato da Ron Wayne nel 1976, che rappresentava il matematico
e fisico inglese, Isaac Newton, seduto sotto un albero da cui pende una mela (citazione della storia
secondo cui lo scienziato ebbe l’intuizione sulla legge di gravità osservando la caduta di una mela). Il
nuovo logo (mitogramma) è molto più semplice del primo e gode di maggior efficacia visiva.
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I loghi presentano le seguenti “invarianti plastiche”:

■   nel logo Ibm le tre lettere sono allineate, formano una sorta di trittico, anche se non sono
    visivamente distaccate. La mela del logo Apple, invece, è un’immagine unica; la foglia non è
    un’entità autonoma ma si inserisce nel contorno generale della mela;
■   il logo Ibm è monocromatico, al contrario, il logo Apple riprende i colori dell’arcobaleno, non nella
    giusta sequenza, e i colori caldi, i più numerosi, sono centrali e si trovano proprio nel punto
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visivamente più forte, quello del morso;
■   per quanto riguarda la forma, mentre nel logo Ibm le lettere hanno grande spessore, linee dritte e
    angoli retti, il logo Apple, al contrario, è dominato dalla linea curva e anche nel punto del morso, in
    cui sono presenti rotture nel contorno generale della mela, comunque non si può parlare di
    presenza di angoli retti.

L’obiettivo di
Floch è capire il
ruolo dei loghi
all’interno delle
culture delle due
società
informatiche che
rappresentano, e
ciò è possibile
solo quando, in
seguito all’analisi
dei           loro
messaggi, si avrà
una
corrispondenza
tra le invarianti
plastiche dei
loghi             e
l’immagine che la
società desidera
trasmettere di sé.
Stando           ai
documenti che
Ibm             ha
pubblicato riguardo al suo logo, esso rappresenta la tecnologia avanzata della società, la sua
notevole competenza e l’alta qualità dei servizi che offre al cliente, invece, secondo i documenti
Apple, il logo con la mela arcobaleno simboleggia l’alternativa ad Ibm, la libertà, la creatività, la
convivialità. Pur presentando caratteristiche plastiche differenti, le aziende si basano entrambe su
due programmi narrativi uguali: nel primo “Ibm e Apple sono entrambi i soggetti di discontinuità
nella storia dell’informatica”, facendo riferimento alle novità che le due aziende hanno portato nel
mondo dell’informatica (Ibm mediante la competenza, Apple attraverso la creatività); il secondo
programma narrativo si basa sulla relazione commerciale col cliente e riguarda la comunicazione
all’utente dell’oggetto di valore di cui la società si fa portatrice, che sia esso la qualità dei servizi, la
competenza (per Ibm), o l’innovazione, la convivialità (per Apple).

Floch, successivamente, analizza i due loghi sul piano figurativo:

■   nel logo Apple la mela morsicata e l’arcobaleno richiamano a due importanti momenti della Bibbia:
    il primo ricorda la storia di Adamo ed Eva che furono cacciati dal paradiso per aver mangiato i
    frutti dell’Albero della Conoscenza (mela = sapere) e aver disobbedito a Dio (disobbedienza = sete
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di novità); il secondo evoca la storia di Noè e del Diluvio Universale, al termine del quale Dio inviò
    un arcobaleno per stipulare la sua alleanza con gli esseri umni;
■   la mela simboleggia anche New York (detta la “Grande Mela”), dove è nata nel 1911 l’azienda Ibm
    e il fatto che sia morsicata allude al fatto che la Apple abbia attaccato gli schemi tradizionali
    rappresentati dalla società newyorkese Ibm;
■   la componente cromatica del logo Apple è in opposizione con il sistema delle bande
    monocromatiche del logo Ibm, perché la varietà di colori utilizzati simboleggia la libertà di scelta
    tra i possibili competitor informatici, invece, le bande orizzontali monocromatiche del logo Ibm
    danno l’idea di una scelta obbligata;
■   le strisce orizzontali, inoltre, rappesentano, nella cultura americana, il posto destinato alle firme
    nei documenti legali, dunque, richiama il tema del rispetto dell’impegno preso e il carattere
    tipografico Egiziano appartiene al mondo commerciale e della pubblicità ed è stato creato per
    fornire ad un testo, il massimo impatto visivo possibile.

Dall’analisi del livello figurativo Floch deduce che, la società Apple privilegia i valori utopici e mira
ad identificarsi con il suo destinatario, Ibm, invece, esalta i valori pratici del suo prodotto e mantiene
sempre una certa distanza con il potenziale cliente. La società Apple, inoltre, vuol simboleggiare la
disobbedienza alle regole, l’America degli anni Sessanta dell’anticonformismo e della vita spirituale
non sottomessa al denaro, contro l’America del business rappresentata dall’Ibm.

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se stesso”, i suoi significanti non si possono interpretare indipendentemente dai suoi significati e dai
valori che portano al loro interno, perché un logo non è solo ciò che rappresenta, ma soprattutto, ciò
che decide di non rappresentare.
I loghi delle due importanti società statunitensi, e di conseguenza, le loro rispettive identità visive
hanno subito ulteriori cambiamenti nel corso del tempo, così come è cambiato il ruolo delle due
aziende all’interno del mercato dell’informatica. Ibm, ha una storia che parte da più lontano, nel
1911, e attraversando anche momenti di crisi, riesce ancora oggi a difendere il proprio posto nel
mercato e la Apple è diventata leader mondiale nel suo settore, arrivando a rappresentare,
soprattutto dopo la morte del suo fondatore Steve Jobs, un vero e proprio status sociale.

Nuovi Business e il ruolo della brand
reputation: regole d’oro che valgono il
successo!
Piccole idee che diventano un grande Business è questo il trend del momento che spopola nelle
grandi capitali del mondo, diverse le start up che con idee originali danno vita a nuove servizi ed
opportunità di ricavo.

Business del tutto nuovi o semplicemente rivisti, corretti, vestiti di innovazione. Soluzioni per
nicchie di mercato personalizzate o servizi per tutti, purché utili.
Nuove opportunità allo scopo non necessariamente di vendere prodotti, ma soprattutto di erogare
servizi, fanno capolino cominciando a far parlare di sé.

E’ il caso di Earl Maternity Wear, una soluzione fashion per vestire con capi firmati le mamme
famose in dolce attesa oppure collezioni per l’ufficio di mamme in carriera. Jet-set dove le migliori
tintorie e lavasecco di Londra con una semplice telefonata vengono a casa, ritirano il guardaroba e
lo riportano come se fosse appena acquistato e confezionato mettendolo direttamente in valigia così
da partire senza problemi. Stessa cosa fanno al ritorno; riparando se necessario eventuali buchi, zip
o bottoni. Luggage Free che ti garantisce ritiro e consegna a domicilio del bagaglio ingombrante in
tempo per il proprio arrivo a destinazione. Di gran moda a New York il matchmaker, l’agenzia
matrimoniale 2.0, un vero e proprio organizzatore di appuntamenti, una professionalità con doti di
psicologia e pubbliche relazioni che trova il giusto mix per l’incontro perfetto.

Come queste soluzioni ce ne sono diverse e in ogni dove, tutte realtà che sono diventate vere e
proprie aziende con un unico comun denominatore: hanno avuto la capacità di individuare un
mercato in crescita e rispondere a un bisogno insoddisfatto; la vera chiave del successo.

  Non è, poi, questa la stessa essenza che ha reso di successo i grandi Brand?
  D’altronde Apple è stato inventato in un garage pensando a fare la differenza.

La verità è davanti agli occhi, se il cliente lo richiede vuol dire che c’è un mercato, motivo per
cui una possibilità di far sì che un bisogno del singolo possa diventare quello di una comunità e su di
lui realizzare il proprio Business.
Ma è a questo punto che entra in gioco il grande ruolo dell’immagine, della costruzione del sé,
della realizzazione di una brand reputation di effetto che faccia memorizzare il proprio brand a
discapito della concorrenza. Identificata la necessità, nata l’idea e realizzata in maniera innovativa si
comincia a farsi spazio tra i big, l’importante è essere caratterizzati da un qualcosa che
permette di differenziarsi.

La lungimiranza può portare a risultati inaspettati ed ovviamente quel pizzico di fortuna, non guasta
mai!

Heineken, il brand che ti conquista con il
sorriso.
Non so voi, ma io trovo che i brand globali siano rassicuranti. L’idea di poter trovare un prodotto
ovunque e con le stesse caratteristiche in diversi paesi nel mondo è per me una certezza
piacevolissima e un grande sollievo.

Un brand tra tutti ad esempio? Heineken, presente in 192 paesi. Sede centrale: Olanda, paese
riconosciuto per la sua cultura di produzione della birra. Ovunque tu vada non puoi non
riconoscere quella bottiglia dal colore verde intenso, la stella rossa, la “e” che ride. Non ci
avete mai fatto caso? La “e” di Heineken è leggermente inclinata e per questo sembra che stia
sorridendo. Conquista subito con il suo sorriso, ispira buon umore.

Anche se la guardate distrattamente da lontano sarete certi che è una bottiglia di Heineken, la
riconoscete senza alcun dubbio. Come ha fatto questo brand a diventare quello che è oggi lo
possiamo capire solo analizzando la sua evoluzione e l’immaginario positivo di marca che è stato
capace di costruire.

La birra, dicono in azienda, è fatta ancora con lo stesso procedimento delle origini , del 1873, perché
chiaramente una ricetta così perfetta non si cambia.

  I valori storici di Heineken sono la sua vera forza:

  ■   Respect,
  ■   Enjoyment
  ■   Passion for Quality

  Ovvero rispetto, divertimento e passione per la qualità.

Rispetto nei confronti delle persone, della società e dell’ambiente; infatti Heineken porta avanti
politiche di consumo di alcol responsabile e programmi specifici contro lo spreco di acqua e il
controllo dell’energia.
Il suo successo internazionale, poi, è costruito intorno alla fondamentale qualità del prodotto (si
dice che il suo fondatore, Gerard Adrian Heineken, fosse solito dire “considero una cattiva bottiglia
di Heineken un insulto personale!”), ma anche alle tante iniziative di comunicazione, legate per lo
più al concetto di divertimento.

Il gruppo Heineken, infatti, ha da sempre sottolineato la fondamentale connessione tra il suo
prodotto e il divertimento, al punto da arrivare a dire che “l’esperienza sociale è inseparabile
dal prodotto”. Da qui la sponsorizzazione di eventi musicali, sportivi e di altro tipo, proprio perché
questi rappresentano ottimi modi per riunire la gente e creare divertimento. Le perfette “situazioni
Heineken” diremmo.

  …E sono stati così bravi ad associare le situazioni di svago, divertimento e musica al brand
  Heineken…che ormai ci crediamo anche noi!

Il brand Heineken si è perfezionato nel tempo, la sua personalità di marca ha preso forma negli
anni, è stata in grado di adattarsi ai numerosi cambiamenti sociali, ha saputo reagire all’evolversi
della società e ha trovato ambiti specifici in cui esprimersi per entrare in sintonia con il suo
target.

Heineken ha creato diversi segmenti di prodotti, si è avvicinato ai suoi consumatori progettando
anche eventi esclusivi sul territorio, come l’Heineken Jammin Festival organizzato per quasi 15
anni o creando un bellissimo museo aziendale ad Amsterdam, l’Heineken Experience, in cui invita
a vivere il mondo Heineken in ottica totalmente immersiva ed esperienziale, facendo persino provare
l’esperienza di sentirsi una bottiglia di birra in prima persona (provare per credere!).
Inoltre il brand è stato partner della Uefa Champions League dal 1994 e si è avvicinato al mondo
della F1 scegliendo degli ambassador, ex piloti, per la creazione di alcuni contenuti. Ha persino
lanciato un bellissimo progetto dal nome “Open your world”, contro gli stereotipi e a favore
dell’apertura e il superamento delle barriere tra le persone.

Possiamo dirlo: non è una marca funzionale, non aspira soltanto a soddisfare un bisogno, ma crea
una relazione con i suoi consumatori. Quando ho iniziato a osservare il brand Heineken mi ha
colpito una frase su una brochure istituzionale

“Heineken è più di una birra di qualità, una fabbrica con
rispetto per la gente, la società e l’ambiente. Heineken è
godersi la vita”.
Dunque ci si sofferma e si pensa: Heineken è la birra per la gente felice…e chi non vuole esserlo?
Ecco perché ci si identifica, ecco perché Heineken non può che essere la tua birra, o una delle prime
che ti vengono in mente quando senti la parola birra. Nel marketing si dice “top of mind”.

L’idea che Heineken vuole creare è quella di un brand che si rivolge a un pubblico emancipato, che
ama la musica, lo sport, la vita, rispetta l’ambiente, crede nell’amicizia, infatti molti dei suoi spot
presentano la birra associata con occasioni di socialità: con gli amici, in compagnia, in momenti
piacevoli.

Heineken è stato da sempre un brand capace di avvicinarsi al suo consumatore, con coerenza ed
estrema flessibilità, affermando, grazie alla comunicazione e alle attività concrete, la propria
appartenenza a un mondo giovane e al passo con i tempi. Un brand relazionale, che ha reso
tangibile il suo valore di marca.

La storia di Heineken inizia ad Amsterdam nel 1846, quando Gerard Adrian Heineken, a soli 22 anni,
acquista una grande fabbrica di birra nel centro della città. Da quel giorno Heineken smette di
essere un semplice cognome e diventa un brand. Un brand di successo mondiale con un portafoglio
ampio e diversificato e una strategia di marketing forte ed efficace.

Il risultato?
Niente male: ogni giorno vengono consumate più di 1 milione di bottiglie di Heineken in oltre 170
paesi, senza contare le lattine e la birra alla spina di questa marca. Come diceva un vecchio
claim….”Heineken, sounds good”!

Dalla Brand Loyalty, alla fedeltà, a uno
stile: storia dell'evoluzione del Brand
Uno spaccato della società spesso passa attraverso la moda, come rappresentazione ultima degli stili
di un’epoca. Per analizzare il cambio nella concezione del brand possiamo prendere spunto da
come la marca è stata vista e indossata dal consumatore medio.

Anni ’80.
Per lungo tempo le grandi case hanno investito tempo e risorse in sfilate, atelier di lusso, strumenti
di differenziazione e dettagli o marchi in bella vista per essere riconoscibili. Questa è stata la
prassi fino almeno agli Anni ’80.

Gli sforzi del brand servivano per accaparrarsi la fiducia del cliente puntando all’affidabilità
del prodotto e alla distribuzione nelle catene, prima nelle big city e poi nei centri minori.
Artigianalità, tessuti ricercati, esclusività, prestigio sono solo alcuni degli aspetti su cui puntare per
diventare un brand di spicco. La griffe è idolatrata, è lo status simbol che distingue chi può,
da chi non può.

Anni ’90.
Gli sforzi per rimanere sulla cresta dell’onda però non sempre sono bastati. In particolare negli
Anni ’90 si è passati alla tendenza più legata alla strada che ha invaso anche i più
prestigiosi atelier di moda. Così non solo anche i marchi più chic hanno dovuto adattarsi a sfilare
in strada oltre che sulle passerelle ma la fedeltà al brand è venuta meno per incontrare la
molteplicità delle marche. Il consumatore non sceglie più di vestirsi da capo a piedi con un solo
marchio, ma definisce vari accessori che ritiene utili a completare uno stile, rigorosamente street. La
competizione tra le aziende inizia a diventare più marcata da un lato, perché più difficile da gestire
con prodotti simili; dall’altro c’è voglia di cooperazione, sopratutto con testimonial nell’ambito della
musica e dello spettacolo.

La costruzione di una marca passa attraverso la concezione di bisogni e sensazioni che i
singoli individui tendono a integrare nel gruppo. Nasce la voglia di identificarsi in categorie di
persone e quindi anche il prodotto di tendenza si fa più simile. Dopo tanti anni per cercare di
costruire brand in grado di identificare l’azienda e il prodotto, di differenziarsi dai concorrenti e di
offrire un valore distintivo per il cliente, ci si avvia verso un’epoca di omologazione.

Anni ’00 a oggi.
Con il nuovo millennio e ancor più negli anni a seguire si indentifica un nuovo concetto di moda
che si allontana ulteriormente da quello di brand per identificare quello di stile. Lo stile è un mix
di prodotti, concentrati e aggregati insieme che generano sensazioni evocative legate a chi la
persona vorrebbe essere. Attraverso lo stile il soggetto tende ad identificarsi in altro o diventare ciò
che vuole. Il brand può solo essere un mezzo per raggiungere il proprio stile ma non è più
un punto di arrivo.

Il brand classico cerca di modificarsi per avvicinarsi ai gusti del consumatore. Ma il cliente moderno
che insegue il proprio stile e non il brand, sfrutta la marca in modo funzionale per costruire
l’immagine di sè che preferisce. Sono pochi i marchi che riescono a diventare trend setter e,
sempre più spesso, lo sono solo in funzione dei testimonial che hanno scelto.

Spetta al cliente o ai fashion blogger mixare prodotti e accessori per ricreare uno stile che
non sempre risulta vicino alle passerelle. Spesso questo avviene scegliendo prodotti di fascia
alta con altri low cost per ottenere un risultato unico. La voglia di unicità del singolo, ma con
un chiaro richiamo all’omologazione di un’etichetta porta a definire delle linee guida abbastanza
marcate per ogni tipologia di stile che però faticano ad essere rispettate dalle aziende. Infatti
restrizioni troppo rigide rischierebbero di limitare in modo eccessivo il mercato, non offrendo
margini di profittabilità. In molte imprese oggi si è deciso di ampliare il più possibile la gamma
dell’offerta, con misuscole variazioni sul tema, per cercare di accaparrarsi ogni singolo soggetto
che vuole sentirsi unico. Sono invece le piccole realtà, di estrema nicchia, che hanno scelto di
declinare i prodotti in una sola direzione con un pubblico destinatario estremamente limitato.

  I Big quindi non hanno dubbi, tanti prodotti, un po’ per tutti, facili da mescolare, per incontrare
  gli stili di tutti. E il brand storico e costruito perde alcune caratteristiche per diventare un
  poliedrico arlecchino.

Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata,
dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom
economico
  Scoprii Anna Maria Ferrero per strada, in via Aurora a Roma, mentre camminava al fianco di una
  signora. Cercavo la ragazzina per il film e vidi questo scricciolo che aveva una tale intensità negli
occhi. Fece un provino meraviglioso, era nata attrice.

  (Claudio Gora, regista)

Era il 1949, quando appena quindicenne, ma già bellissima, la giovane Anna Maria Ferrero, venne
notata dal regista Claudio Gora e scritturata per una parte nel film Il cielo rosso. Fu l’inizio di una
sfolgorante, ma breve carriera artistica, che si districò nell’arco di un quindicennio o poco più, per
scelta personale infatti, dopo aver sposato l’attore francese Jean Sorel, Anna Maria Ferrero decise di
abbandonare il mondo dello spettacolo. Soltanto brevi altre apparizioni pubbliche, dopo il
mediometraggio Cocaina di domenica parentesi del film ad episodi Controsesso, simpatico film
interpretato al fianco di Nino Manfredi, la Ferrero decide per il ritiro dalle scene, sulla falsariga di
ciò che aveva fatto qualche anno prima, un’altra diva dell’epoca, ovvero Marisa Allasio. Utilizzata in
parti più “impegnate” della Allasio, Anna Maria Ferrero si contraddistinse per una bellezza elegante,
fuori dal comune e per una classe di interprete raffinata e fuori dagli schemi.

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Anna Maria Ferrero, “stella” del cinema italiano del boom economico. Bella come poche,
elegante come poche, affascinò tutti i più grandi cineasti dell’epoca. Fidanzata per molto
tempo con Vittorio Gassman, sposò nel 1962 l’attore francese Jean Sorel e nel 1965 si ritirò
dalle scene.

Fu “musa” ispiratrice per i più grandi cineasti dell’epoca, da Monicelli a Lizzani, e fu anche
abbastanza utilizzata sulle copertine delle maggiori riviste mondane dell’epoca. Si chiamava Anna
Maria Guerra, ma utilizzò il cognome d’arte “Ferrero”, in omaggio al suo padrino, il musicista
statunitense Willy Ferrero, diventando Anna Maria Ferrero, anche per il fatto che egli stesso sarà
l’unico a incoraggiarla ad intraprendere la carriera d’attrice, al contrario dei suoi genitori, specie
suo padre, che si dimostreranno in un primo momento contrari alla scelta della figlia. Nel 1952 è
impegnata nella lavorazione del suo primo film da protagonista, Le due verità di Antonio Leonviola.
Nonostante la giovane età, Anna Maria offre un’ottima interpretazione, e finalmente la critica
incomincia ad accorgersi di lei, così come registi e produttori. L’anno successivo si rivelerà il più
prolifico della sua carriera, interpreta addirittura otto film, tra cui spicca la sua commovente e
realistica interpretazione nel film Le infedeli di Mario Monicelli; o ancora Siamo tutti inquilini, al
fianco di attori del calibro di Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Nel settembre del 1953 partecipa
alla 14ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nella rassegna viene proiettato il
film Napoletani a Milano dove Anna Maria recita accanto ad Eduardo de Filippo e, grazie alla sua
sempre ottima interpretazione, l’attrice sarà ammirata come una delle più interessanti giovani
promesse del cinema italiano dell’epoca.
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a 1958, all’apice del suo successo.

Anche il 1954 si rivelerà un grande anno per Anna Maria, darà sfoggio della sua bravura nel
film Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, ancora una volta nella parte di una servetta, e
soprattutto in Totò e Carolina, dove con la sua passionale recitazione, riesce a stare sullo stesso
piano recitativo di Totò stesso. Tuttavia i ruoli che le vengono proposti sono tutti un po’ simili,
ricalcano tutti il personaggio della ragazza debole ed ingenua, insicura nelle sue scelte, lasciata a se
stessa.

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ò, nel discusso “Totò e Carolina”(1953).

Le cronache mondane dell’epoca si interessarono di Anna Maria Ferrero anche per una lunga e
spesso burrascosa relazione con Vittorio Gassman, durata dal 1954 al 1960, e interrotta, per il rifiuto
di Gassman a sposarsi. Inoltre lo stesso Vittorio, spesso la rimproverava del fatto di doversi dedicare
più assiduamente alla carriera cinematografica che a quella teatrale. Proprio nel 1960, l’anno della
loro separazione ufficiale, la carriera di Anna Maria Ferrero ottiene un’improvvisa
impennata. Accantonato per il momento il teatro, e senza le imposizioni di Gassman, l’attrice accetta
di partecipare alle numerose pellicole che le vengono proposte dai produttori. Fra quelli interpretati
in questo periodo, va ricordato, quella dell’intraprendente camerierina innamorata di Walter Chiari,
imbranato professore in Le sorprese dell’amore(1959); e soprattutto quello della tenace ebrea
Giulia ne L’oro di Roma(1961), il capolavoro di Carlo Lizzani, ambientato nella Roma occupata dalle
truppe nazi-fasciste nell’ottobre del 1943. A detta della stessa attrice, sarà la sua migliore
interpretazione di sempre.

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el film “L’oro di Roma”(1961), di Carlo Lizzani, da molti ritenuta l’interpretazione della vita di Anna
Maria Ferrero, in un ruolo drammatico di grande intensità emotiva.

Il 1960 segnerà per Anna Maria un incontro che cambierà non poco la sua vita. In aprile ad una festa
a casa dell’attore Pierre Brice incontra l’attore francese Jean Sorel, all’epoca pressoché sconosciuto.
I due si fidanzeranno e di lì a poco si sposeranno. L’anno successivo Anna Maria protagonista del
film L’oro di Roma suggerirà al regista che proprio al suo nuovo compagno venga affidato un ruolo
nel film. Anna Maria preferisce recitare insieme all’attore francese, evitando così quelle distanze
fatali che avevano contribuito a far fallire la sua precedente relazione con Vittorio Gassman. Non
sarà la prima volta che l’attrice aiuterà la carriera del marito con le sue conoscenze.

I due si sposeranno nel 1962, continuando, almeno per un paio di anni, la loro carriera artistica
parallelamente, non disdegnano qualche apparizione insieme, come in Un marito in condominio. Nel
1964, dopo Controsesso, recitato al fianco di Nino Manfredi, Anna Maria decide improvvisamente di
lasciare tutto. L’attrice romana non spiegherà mai il vero motivo di tale rinuncia, forse perché in 15
anni di carriera cinematografica e 10 di quella teatrale, le occasioni per dimostrare appieno tutto il
suo talento sono state molto poche, o forse perché spinta dal desiderio di dedicarsi alla famiglia.
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ieme a Nino Manfredi e Carlo Ponti sul set del film “Cocaina di domenica” episodio del
lungometraggio “Controsesso”(1964).

La sua vita proseguirà lontano dai set cinematografici, da tempo trasferitasi a vivere nella periferia
di Parigi, tornando raramente in Italia. Non riuscirà a diventare madre, e questo fatto si ripercuoterà
negativamente sul suo matrimonio con l’attore francese. Nel decennio successivo le notizie sulla sua
vita saranno pochissime, l’attrice concederà solo alcune interviste ai vari quotidiani dell’epoca,
mentre le sue apparizioni pubbliche saranno praticamente nulle. Tuttavia Anna Maria dichiarerà di
essersi pentita non poco di aver abbandonato la carriera d’attrice, e già dopo pochi anni dal suo
ritiro avrebbe volentieri accettato una parte in un film. Un suo ritorno sui set cinematografici era
previsto per il 1985, in un piccolo ruolo nel film Maccheroni di Ettore Scola, ma alla fine l’attrice
romana ci ripensò e quello fu il suo ultimo contatto con il mondo del cinema. L’ultima apparizione in
pubblico di Anna Maria Ferrero avviene nell’aprile del 2008, quando fa parte della giuria del Busto
Arsizio Film Festival, accanto al marito Jean Sorel. In quell’occasione è stata proiettata la versione
restaurata del film L’oro di Roma.
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il marito Jean Sorel, in una foto dei primi anni ’60.

Di lei comunque, rimangono soprattutto le immagini degli oltre 40 film interpretati, rimane
l’immagine di una donna forte, bella, bellissima; rimane l’immagine di una grande e giovane attrice.
Anna Maria Ferrero fu la diversa bellezza che piace, non tutta curve tipo Sophia Loren, Marisa
Allasio, piuttosto come una “nostrana” Audrey Hepburn in miniatura: elegante, raffinata, minuta, ma
bella, dotata di un sorriso ipnotizzante. Nonostante spesso in questo Paese, così superficiale, si
rischi di cadere nel dimenticatoio facilmente, Anna Maria Ferrero conserva comunque il suo spazio
indelebile nella storia del cinema italiano. Film che sono rimasti nei cuori della gente, forse perché
rimangono legate all’epoca più bella della storia italiana: quella del boom economico, quella di
Cinecittà soprannominata la “Hollywood sul Tevere”. Tempi d’oro, malinconici, inarrivabili, di cui la
Ferrero era una delle stelle indiscusse.

Come creare il brand personale e
promuoverlo sui social media
Perché alcuni brand personali piacciono più degli altri? Come comunicano con voi per creare una
relazioni costante nel tempo, infondere fiducia e spingervi a comprare prodotti e servizi? Quali
personalità vi attraggono? Tutto dipende dalle caratteristiche della persona a cui si comunica ed è
per questo che nella costruzione del brand personale è importante pensare al target di
riferimento. Approfondiamo la creazione del brand personale e la sua promozione grazie ai social
media in questo articolo.
Il brand personale implica innanzitutto che il prodotto da promuovere e da vendere siete voi, con il
vostro pacchetto di competenze, esperienze e personalità sia nella realizzazione di un’attività in
proprio sia nella ricerca di lavoro. Ecco quindi perché una gestione efficace del vostro brand
personale è oggi fondamentale e insieme alle vostre competenze di marketing vi permetterà di
trasformare la vostra passione in un lavoro oppure ottenere il posto di lavoro tanto ambito. Perché
sicuramente un brand personale si comunica anche con il CV e il colloquio di lavoro.

4 consigli per diventare un brand
Ecco alcuni consigli per creare un brand personale efficace.

1. Identificare il target di riferimento

Ogni brand personale e aziendale deve comprendere il target di riferimento per effettuare azioni di
marketing che permettano di raggiungere le persone interessate ai prodotti e servizi. Ecco quindi
che per dar vita al vostro brand personale dovrete fare una ricerca di mercato e sui principali
competitor analizzando siti web e canali social.

2. Definire la vostra USP

Per avere successo dovete sapervi distinguere dai competitor con un’apposita USP (unique selling
pro position): perché siete la risorsa migliore per quel posto di lavoro, cosa vi rende unici agli occhi
di un potenziale cliente? Potrebbe sicuramente essere l’esperienza personale ma anche la vostra
personalità o altro ancora: scoprire tutti questi elementi vi aiuterà a costruire il vostro brand
personale.

3. Identificare le vostre keyword personali

Ogni cosa venga scritta e pubblicata online non può più escludere la ricerca delle keyword, che
come per un prodotto e servizio sono fondamentali anche per la costruzione di un brand personale.
Analizzate i termini di ricerca più diffusi nel vostro settore o quelli legati al ruolo per cui vi state
candidando e utilizzateli correttamente nella definizione della vostra immagine online.

Una volta costruito il vostro brand personale ecco come rendere l’attività di personal branding più
produttiva grazie ai social media.

Fare personal branding con i social media
Oggi l’attività di marketing online è quella che occupa la maggior parte delle ore della giornata ed è
quindi indispensabile rendere anche il personal branding più produttivo, magari proprio grazie ai
social media, individuando una serie di azioni online mirate ed efficienti. Oggi si contano oltre 300
social network che il professionista ha a disposizione per fare personal branding anche se i più
influenti restano Facebook, Linkedin, YouTube e Instagram. Diventa quindi essenziale sfruttare nel
migliore dei modi il tempo trascorso online, in quanto lo scopo del lavoro – come diceva Aristotele –
è guadagnarsi del tempo libero.

Ecco quindi i nostri consigli.
■   Non stare sempre connessi

Le maggiori energie e le migliori idee vengono quando si è staccati da Intenet, magari nella pausa
caffè, leggendo un libro o facendo una passeggiata.

■   Create una tabella di marcia

Stabilite degli orari in cui pubblicherete i contenuti sui social media dedicando del tempo alla
promozione del brand anche offline. In questo modo abituerete i follower e raggiungerete un
pubblico più ampio.

■   Mantenete i contatti giusti

Avere un personal brand significa accrescere il numero di contatti ed importante sapere mantenere
conversazioni interessanti per far crescere il vostro business.

■   Considerate gli orari di maggiore attività dei vostri contatti

Nel creare la tabella di marcia considerate non solo i vostri tempi ma anche quelli in cui i vostri
contatti sono più attivi per dar vita a una conversazione veramente proficua. Certo oggi siamo tutti
connessi 24 ore su 24 ma saper organizzare al meglio il tempo trascorso online permetterà di
sviluppare il proprio personal brand grazie alle potenzialità del web, senza trascurare il tempo
libero da dedicare alle passioni, alla famiglia e agli amici.
Un ultimo consiglio: impostare una strategia di branding
Il punto di partenza per diventare un brand è impostare una strategia di personal branding,
in quanto non si può lavorare senza partire da basi solide nate da un’attenta schematizzazione di
competenze, necessità e punti da migliorare. Potresti applicare la classica analisi SWOT al tuo
personal branding, magari usando un personal branding canva con cui mettere nero su bianco
ogni aspetto del tuo lavoro. Perché la verità è semplice, non si può improvvisare. Ecco perché per
evitare di lavorare perdendo tempo ti lasciamo questa risorsa utile: bigname.it/personal-branding-
canvas.

E tu come fai personal branding? Quali risultati stai ottenendo? Raccontacelo nei commenti!

Perchè un brand è un asset strategico?
Come suggerivano i vecchi esperti di comunicazione: “non si può stare senza un prodotto, ma non
appena lo si possiede occorre averne subito un altro”.

  Attenzione: anni fa si parlava di prodotti non di brand.

Il vecchio mantra era “spendo dunque sono” e non vi era un particolare attaccamento al brand in
quanto tale bensì al prodotto. All’epoca la funzione del brand era principalmente, ed a volte
unicamente, quella di aumentare le vendite.

Oggi, invece, è tutto cambiato. Le aziende investono molte risorse, umane ed economiche, per
sviluppare il brand e tutte le sue declinazioni. Si parla di brand building, di re branding, di
brand touch point, di brandizzazioni, di brand relevance e di molto molto altro.

  Con il tempo i manager si sono resi conto che gli asset di marca erano necessari.

All’inizio il brand management veniva visto esclusivamente in chiave tattica (aspetti legati alla
gestione dell’immagine di marca, alla creazione di campagne promozionali). Da quando, invece, i
brand sono stati considerati degli asset, il ruolo del brand management è radicalmente cambiato
passando da tattico e reattivo a strategico e pro attivo.

Ma partiamo dal principio: chiediamoci, cos’è un brand?
In molti, erroneamente, associano alla parola brand ad un nome o ad un logo.
Associazione decisamente riduttiva. Il brand, infatti, è la promessa che un’azienda fa ai suoi
clienti (attuali e potenziali). Cosa può mai promettere un’azienda? Beh, certamente benefici
materiali, ma soprattutto emotivi, sociali.
Partendo da questo presupposto, quindi, appare evidente che le aziende devono lavorare, e
verificare, sul posizionamento che il proprio brand ha sul mercato.

Nella classifica BrandZ Top 100 Most Valuable Global Brands cioè l’analisi annuale di Wpp e
Kantar Millward Brown sui brand a maggior valore, che tiene conto dell’impatto della marca nel
portare fatturato, crescita e capitalizzazione di mercato, Il settore merceologico che, ancora una
volta, la fa da padrone è la tecnologia. Nella top10, infatti, beh 8 brand appartengono al
“mondo tecnologico”.

Dietro a Google, a quota 302,1 miliardi di dollari, con un aumento del 23% rispetto allo scorso anno,
Apple, con 300,6 miliardi di dollari (+28%) e Amazon, con 207,594 (+49%), troviamo colossi hi-tech
del calibro di Microsoft, Tencent, Alibaba e Netflix. A fare la differenza, secondo gli esperti, sono
l’implementazione crescente di tecnologie data-driven (come l’intelligenza artificiale), approcci di
marketing creative, contenuti personalizzati e brand experience eccezionali.

Anche alla luce dell’evoluzione che vi abbiamo descritto appare evidente come “fare branding” sia
un attività tanto indispensabile quanto complessa.

E’ inevitabile considerare il proprio brand uno degli asset strategici della propria azienda, anzi
forse il più importante.

Lo Specchietto Retrovisore. Crisi di
Sistema, nuove elezioni in vista,
referendum implicito sull'Euro e
comunicazione virale.
Nel non accettare la nomina di Paolo Savona al Ministero dell’Economia, Sergio Mattarella fa
riferimento esplicito nel suo discorso a motivazioni che potrebbero allarmare gli investitori e
risparmiatori, sia italiani che esteri. In particolare si legge “…non sia visto come sostenitore di una
linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente,
la fuoruscita dell’Italia dall’euro.“

Un comunicato che non lascia spazio ad equivoci e forse dovremmo partire proprio dalla chiarezza di
questo messaggio per districarci nel vivace dibattito che vede centrale la tenuta dell’Europa
e della sua moneta.

Un merito che bisogna infatti riconoscere a chi si sgola, twitta e regala perle di saggezza
liofilizzate in post sui social network, molto spesso senza il supporto di numeri e base scientifica,
risiede nella immediatezza comunicativa. Inutile nascondersi dietro epiteti che provano a
ridimensionare il fenomeno ai malumori della pancia dell’elettorato. Prima di tutto perchè si tratta di
una pancia non solo italiana, ma di un sentimento diffuso anche in altre nazioni. Inoltre la pancia
si esprime in modo chiaro, efficace, diretto. La sua forma di comunicazione è vincente
perchè virale, perchè si autoalimenta, perché trova sempre un’altra pancia vuota che ha la
necessita di nutrirsi, di stigmatizzare in un concetto lontano, le proprie paure, i propri insuccessi e
carenze, le proprie colpe del passato. E invece chi sostiene che tutto sommato la presenza
dell’euro, per quanto non rappresenti l’ottimo paretiano, sia l’elemento indiscusso da cui
partire per migliorare l’intera esperienza europea, spesso comunica in maniera meno efficace.
Si ritrova a spiegare concetti complessi (eppure gli stessi degli anti europeisti) non riuscendo a
cogliere il fine ultimo di una buona comunicazione. Giungere alla testa delle persone, passando
anche dalla pancia delle stesse qualora se ne avvedesse l’opportunità.

È già iniziata la campagna elettorale. Se l’allargamento dello spread segnala che la soglia di
attenzione dei mercati si è già innalzata, dall’altro lato il termometro sociale ci indica che la
popolazione italiana potrebbe anche valutare positivamente un eventuale voto di rottura.

     Un merito che bisogna infatti riconoscere a chi si sgola, twitta e regala perle di saggezza
     liofilizzate in post sui social network, molto spesso senza il supporto di numeri e base
     scientifica, risiede nella immediatezza comunicativa.

Ricordo uno studio di qualche anno fa pubblicato su Linkiesta.it, che torna inevitabilmente
d’attualità e che apprezzo, perchè con rigore scientifico analizza le diverse variabili messe
sotto accusa dagli anti euro. Chiaramente i detrattori della tesi pro-euro possono obiettare sulla
valenza della metodologia statistica adottata o il controllo sintetico, da parte degli autori (Tommaso
Nannicini, Alessandro Saia, Paolo Manasse). Tuttavia proprio attraverso una simulazione rigorosa si
tenta di simulare cosa sarebbe successo all’Italia se non avesse adottato la moneta unica.

Qui di seguito mi sono permesso di estrapolare qualche punto del loro studio. Anzi
potremmo anche andare oltre e sintetizzarli come se fossero dei tweet. Poche parole che però
giungano al maggior numero di persone. E anche qualora il messaggio non ci dovesse piacere a
primo impatto, comunque ci lascia il seme della riflessione.

■   Orizzonte temporale: consideriamo anche la data di inizio dei cambi fissi, 1 gennaio 1999.
    Prendere in esame la data del 1 gennaio 2002 (moneta circolante) potrebbe essere fuorviante.
■   Commercio con l’estero: pollice su, un bel like. “i flussi bilaterali tra l’Italia e i paesi Euro sono
    aumentati in maniera sostanziale”.
■   Inflazione: non c’è stata alcuna impennata inflativa. Con l’avvio dei cambi fissi abbiamo addirittura
    una riduzione dell’inflazione in Italia rispetto al suo sintetico”.
■   Spread e rendimenti dei titoli di stato: grazie Banca Centrale Europea. Nell’articolo ovviamente si
    fa riferimento a dati fino al 2013 e ci si ritrova comunque in una situazione di parità di andamento.
    Tuttavia grazie al massiccio intervento del quantitative easing sono proprio i paesi della periferia
    che hanno beneficiato dell’abbassamento dei rendimenti e della convergenza degli spread verso la
    Germania. Un’altro slogan, potrebbe essere il seguente: lo spread non è il nostro nemico. Se
    paghiamo poco, tutti ne beneficiano. L’intero sistema Paese se ne giova, coincide con l’interesse
    degli italiani.
■   Crescita e produttività: nota dolente. Ma è colpa dell’Europa o demerito nostro? Sul tema crescita
    anche la Germania “perde” qualcosa in termini di PIL nel confronto rispetto al potenziale
contrattuale.

  …chi sostiene che tutto sommato la presenza dell’euro, per quanto non rappresenti l’ottimo
  paretiano, sia l’elemento indiscusso da cui partire per migliorare l’intera esperienza
  europea, spesso comunica in maniera meno efficace.

Paradossalmente l’Italia mostra uno scostamento inferiore. Ma è proprio sulla produttività del lavoro
dove l’Italia si scosta dal paniere di Paesi presi come unità di controllo sintetico (Regno Unito,
Turchia, Danimarca e Israele con pesi differenti). Una plausibile spiegazione potrebbe risiedere nella
mancanza di adozione di riforme che marciano nella direzione giusta. Più facile cullarsi e farsi
coccolare sotto l’ombrello dell’Europa che rimboccarsi le maniche. Si sono persi anni utili per
attuare le giuste riforme e ora si attacca l’Europa. La si indica come la radice dei propri mali.

Il debito pubblico, enorme è e resta nostro, non dell’Europa. Chiaramente l’impalcatura
europea si può e si deve rafforzare; l’intera macchina burocratica si modificherà nel tempo per
migliorarsi. Tuttavia la moneta unica non può che rappresentare la base di partenza,
garantendo a tutti i cittadini europei la medesima solidità. Ogni spinta che porti alla deriva
dall’Euro va nella direzione opposta, erodendo la solidità del sistema Europa e creando singole
soluzioni più deboli, non fosse altro per l’esigenza di dover siglare nuovi accordi commerciali e per
imbarcarsi in un’esperienza con una valuta più debole e spinte inflazionistiche.

                                                                   Christian Zorico: LinkedIn Profile

Lo Specchietto Retrovisore. Il contratto di
governo: ci si misura ancora con lo spread
e le promesse.
È davvero raro che gli appuntamenti dello “Specchietto Retrovisore” si colorino di politica. O
meglio, molte volte è accaduto che avvenimenti geo-politici abbiano influenzato i giorni che
precedevano la stesura dell’articolo, tuttavia l’angolo restava più legato alle dinamiche
caratterizzanti i movimenti di mercato.

  Il nuovo contratto che invece i due movimenti populisti in Italia hanno intenzione di
  implementare mi spinge oltre.

Accantoniamo subito le reazioni dei mercati, che hanno nei fatti bocciato quanto partorito dalla
Lega e dal Movimento 5 Stelle. Lo spread torna in area 160 punti base, molte società hanno
“pagato” alcune dichiarazioni poco amiche del mercato e mi riferisco al caso Monte Paschi
cosi come all’azienda Enel, infine l’intero indice azionario si ritrova a perdere circa il 3% nel corso
dell’intera settimana. Una settimana evidentemente incentrata sulla stesura del contratto di
governo e sull’uscita mirabolante di una bozza che ha letteralmente messo in guardia sulla natura
dirompente del nascente governo. C’è da dirlo sin da subito, l’ultima versione del contratto
appare più malleabile, ricca di principi che toccano sia la pancia del Paese sia evidentemente
alcune esigenze del sentire comune. Difficile non essere d’accordo nel momento in cui si mira
ad ottenere più equità sociale. In effetti i dolori di pancia nascono riverberandosi sullo spread,
indice del gradimento del mercato nel momento, in cui si toccano argomenti cari all’economia.

Attenzione però, almeno in questo occorre essere perentori e logicamente onesti: i mercati non
puniscono, non attaccano, semplicemente si aggiustano al nuovo set informativo. E di
questo parliamo nelle prossime righe. Da un’analisi effettuata dall’Osservatorio Conti Pubblici
Italiani, CPI, diretto da Carlo Cottarelli, si evince che le ragioni per aver mal di pancia sono
tante. Oltre 100 miliardi previsti sulla base delle proposte effettuate nel contratto; una
stima, quest’ultima, che potrebbe lievitare dal momento che alcuni dettagli applicativi, sia della Flat
Tax che del Reddito di Cittadinanza, appaiono ancora non chiarissimi.
Ma sono soprattutto le coperture ad essere chiaramente insufficienti.

Ed a nulla sono valse le dichiarazioni che chiedono ancora tempo per identificare pienamente le voci
di copertura necessarie. Tutt’altro, amplificano il senso di disagio e connotano le eventuali
misure che i due partiti si apprestano ad implementare come davvero populiste, sia negli annunci
della campagna elettorale, insensati ma almeno legittimi perché volti a conquistare quanti più
elettori possibile, sia nel seguito, a vittoria ottenuta. Infatti promettere ancora che saranno in grado
di attuare l’intervento sulla flat tax (circa 50 miliardi l’anno), il reddito di cittadinanza (ben
altri 17 miliardi, sebbene posticipati almeno tra due anni dopo aver provato a rinforzare,
inutilmente con soli 2 miliardi i centri di lavoro) e ancora la sterilizzazione dell’aumento dell’IVA
(che solo per l’anno in corso costerà 12.5 miliardi), provoca uno scompenso per le casse dello
Stato perché non rimpinguato da nuove entrate.

Nell’attesa di magici moltiplicatori, la contropartita passa inevitabilmente dal debito.
Effettuare ancora nuovo debito non è propriamente preso a buon viso dai mercati, questi cattivoni
che insieme all’Europa vogliono blindare i conti dei Paesi dell’Unione Europea. Scusate la facile
ironia, ma purtroppo la situazione è drammatica nell’essenza, perché dietro i nuovi politici, le
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