Come le nazioni europee stanno cercando di aiutare il settore culturale dopo il Coronavirus - cheFare

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Come le nazioni europee stanno cercando di aiutare il settore culturale dopo il Coronavirus - cheFare
Come le nazioni europee stanno cercando di
aiutare il settore culturale dopo il
Coronavirus

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su KEA.

L’epidemia di COVID-19 ha bloccato un intero settore economico a causa delle misure adottate per
attuare il blocco e l’allontanamento sociale. L’intera catena del valore culturale è stata colpita
impedendo la messa in scena di eventi culturali, tour, produzione di film, programmi televisivi,
sessioni di registrazione, la pubblicazione di nuovi film, libri, chiusura di punti di distribuzione come
librerie, cinema, sale da concerto, musei, teatri, siti storici o gallerie d’arte. Eventi e festival, fiere
sono annullati o posticipati.

Il settore culturale e creativo (CCS) è un’industria molto importante in Europa. Il suo contributo in
termini di valore aggiunto all’economia è significativo quanto il settore delle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione (TIC). Secondo Eurostat in tutta l’UE-28, ci sono stati 8,7
milioni di persone in occupazione culturale nel 2018 equivalente al 3,8 % del numero totale di
persone occupate. Nel 2017, c’erano 1,1 milioni di imprese culturali nell’UE-27. Il settore è cresciuto
costantemente nel corso degli anni a causa della crescente domanda di intrattenimento e cultura.
Le organizzazioni CCS non sono come tutte le altre aziende. Nell’UE-28, un terzo (33 %) della forza
lavoro culturale è autonomo, rispetto a una media del 14 % per l’intera economia. In quanto tale, il
peso relativo del lavoro autonomo nel settore della cultura è superiore al doppio della media del
l’occupazione totale. La precarietà delle condizioni di lavoro è uno specifico di questo settore. La
crisi sanitaria ha peggiorato le cose. Il settore si basa anche su finanziamenti pubblici nell’ambito
delle politiche in materia di cultura, istruzione e turismo, con una spesa pubblica in tutta l’UE per i
servizi culturali, la radiodiffusione e l’editoria pari a 90 miliardi di euro, pari all’1,4 % di tutta la
spesa pubblica nel 2018.
Come le nazioni europee stanno cercando di aiutare il settore culturale dopo il Coronavirus - cheFare
Venezia è in apnea, per ripensare il turismo
serve una nuova residenzialità

«Sono rimasta bloccata in Sicilia per tutto il lockdown. E laggiù mi sono resa conto che di Venezia
non ne potevo più. Inizierò un’altra attività: è arrivato il momento di cambiare». Alessandra,
chiamiamola così, a Venezia non vuole più viverci.

Fino alla vigilia dell’epidemia affittava appartamenti ai turisti. Assicurava il check-in e il check-out,
pulizie, trasferimenti e tutta la girandola di attività, le escursioni in chiese, musei e isole che la città
ha sempre vantato come una mondanità spicciola. «Sono arrivata a gestire fino a 30 appartamenti e
3 affittacamere. La formula era: pieno per vuoto. Prendevo in affitto case sfitte e le offrivo ai turisti
attraverso le piattaforme on-line». Un buon business in cui è arrivata a impiegare 15 dipendenti.

«Ho sempre creduto in questa città e mi sono impegnata in tante attività per preservarla e
valorizzarla», racconta, davvero convinta che le due cose, la sua impresa turistica e la difesa della
città, potessero convivere. Poi è successo qualcosa, anzi due.

Prima l’acqua altissima del novembre scorso: «Di colpo mi sono trovata con 7 appartamenti allagati
e con tutte le prenotazioni cancellate». L’epidemia poi: «La città sigillata. Chiuso l’intero Paese. E io
bloccata in Sicilia». Il business si è spento e le case abbandonate: «Sono passata da un fatturato di
60 mila euro al mese a zero».

Come Alessandra, molti veneziani negli ultimi vent’anni hanno messo al lavoro le case della città. Lei
almeno aveva un’impresa con tutti i crismi, altri giocavano a fare i fantasmi: «Un’intera famiglia si
iscriveva su Airbnb, ciascuno con uno o due appartamenti, e così, registrati come singoli, eludevano
il fisco», ci spiega. Persino gli hotel prendevano in affitto case singole per offrire l’esperienza di
“vivere” a Venezia, anche se solo per qualche giorno. Come ci capita negli show dei prestigiatori,
sappiamo tutti che la formula magica è essere abili e manipolatori, ma tutti finiamo per crederci. In
laguna lo show si è interrotto d’improvviso, mentre sembrava non finire mai.

Non si distingue più il lamento dal sollievo
I 52 mila veneziani rimasti davvero a viverci sembrano smarriti nella loro stessa città, diventata
troppo grande per loro e troppo piccola per essere una città. Hanno gridato così tanto contro
l’assalto all’isola che, ritrovandola di colpo svuotata, prima hanno festeggiato e poi si sono
immalinconiti. Finito il lockdown, con l’arrivo a frotte nei weekend di visitatori da tutta la regione,
non si distingue più il lamento dal sollievo.

«Abbiamo però scoperto una cosa», confessa Alberta Basaglia, psicologa e scrittrice, che a Venezia
ci è nata, ci vive e ci ha lavorato costruendo alcuni servizi sociali modello. Cosa? «Prima
dell’epidemia, quando stavamo in casa, ci arrivava il vociare dalla strada, i rumori dei trolley e le
risate dei “foresti”: potevamo solamente ascoltare loro che ci passavano sotto le finestre.
Ascoltavamo le parole che venivano da fuori. Durante l’epidemia, invece, passeggiando tra le calli,
riuscivi a distinguere le voci che provenivano dalle cucine e dai salotti. Abbiamo scoperto, dopo
tanto tempo, la voce dei veneziani nelle loro case».
Come le nazioni europee stanno cercando di aiutare il settore culturale dopo il Coronavirus - cheFare
«Abbiamo scoperto, dopo tanto tempo, la
voce dei veneziani nelle loro case»
Il quadro lo ha ricostruito Alice Corona per conto di Inside Airbnb, la piattaforma ideata da Murray
Cox sei anni fa per monitorare il fenomeno degli affitti brevi del colosso californiano.

Tutto è iniziato perché «Airbnb non rende pubblici i dati né li ha mai forniti alle amministrazioni
locali», ha spiegato la data journalist veneziana. Da qui un lavoro certosino per estrarre numeri
visibili. Nel rapporto su Venezia, redatto nel 2019, si è scoperto che il 5% dei 5 mila host gestiva in
città il 63% dei quasi 9 mila annunci, il 75% dei quali riguardavano un’intera casa.

«E così si è smontata la retorica fatta di piccoli proprietari che arrotondano affittando una stanza»,
ha raccontato Corona. E ancora: il 75% degli annunci erano concentrati in centro storico, dove 12
case su 100 stavano in Airbnb e qui 5 persone su 100 gestivano il 35% dei ricavi. Significa una cosa:
«Venezia è un albergo diffuso che funziona senza cambi di destinazione d’uso». In laguna,
residenziale e turistico sono diventati un’unica zona opaca ed elusiva.

Verso la fine del lockdown è stato il Rettore dello Iuav, Alberto Ferlenga, a lanciare il sasso. La città
era appesa a una specie di incanto spettrale dove giravano i meme con fenicotteri e coccodrilli in
giro per calli e canali. Ferlenga ha proposto un patto ai residenti: in mancanza di turisti, affittate le
case agli studenti per sei mesi o un anno, e costruiamo una rete finanziaria e legale, di garanzia per i
proprietari.

Residenziale e turistico sono diventati
un’unica zona opaca ed elusiva
I quattro atenei universitari presenti in città (Iuav, Ca’ Foscari, Conservatorio e Accademia di Belle
Arti) sommano circa 20 mila studenti, in gran parte fuorisede. Due anni fa un convegno dello Iuav
(“Vuoto/Pieno. I caratteri della Venezia che cambia”), ha fatto un’altra fotografia.

In quell’occasione, si è stimato un fabbisogno di stanze per 10 mila studenti. Negli ultimi anni, anche
loro sono stati via via espulsi dal centro storico e hanno cercato appartamenti in terraferma, dove
peraltro Airbnb si mangiava case fino ai quartieri più periferici.

A leggere gli atti del convegno, impressiona un altro dato: a fronte di circa 6 mila universitari che
vivono in centro storico, i veneziani tra i 19 e i 25 anni non superano i 3 mila. L’Esu (l’Ente regionale
per il diritto allo studio) garantirebbe non più di 720 posti letto, cui si andranno a sommare altri
1170 letti, una volta che saranno completati i campus a San Giobbe e a Santa Marta in centro storico
e in via Torino a Mestre. I numeri non lasciano scampo.

Di fronte alla proposta del Rettore, le associazioni di B&B si sono dette subito d’accordo, così come
la nuova piattaforma di “turismo sostenibile” FairBnb, per non parlare dell’amministrazione
comunale che annaspa nel vuoto. Più cauti i responsabili di Airbnb, che devono far fronte al
nervosismo delle città storiche di mezzo mondo, comprese le reiterate minacce di tassazioni e limiti
drastici.

Il Rettore si dice pragmatico: «Affittare agli studenti sarebbe una soluzione win-win: la città
tornerebbe ad essere abitata, seppur temporaneamente e i proprietari rassicurati sulla possibilità di
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recuperare gli immobili e di avere nel frattempo un’entrata che ora hanno perduto». Ma soprattutto,
aggiunge, «si potrebbe creare un circolo virtuoso, per cui molti di quei giovani si potrebbero
fermare, se nel frattempo si creassero spazi professionali e nuove filiere economiche». Ai veneziani
c’è voluta una pandemia per farsi dire l’impensabile. E così la proposta del Rettore è finita sul New
York Times.

Solo il 26,5% di chi acquista una casa lo fa
per viverci. Per un altro 26 è un investimento
«Nei giorni successivi al lockdown, i portali immobiliari hanno cominciato a rimpinguarsi di annunci.
È durato una settimana.

Poi, questa folata di case disponibili si è ritirata. Una mossa forse per scansare un effetto bolla ed
evitare che l’offerta facesse scendere i prezzi». Luca Velo insegna urbanistica sempre allo Iuav ed è
un attento osservatore delle dinamiche residenziali della città. In altre parole: «Le agenzie hanno
pacchetti nuovi di case, ma non li mettono in vetrina. D’altra parte, sono in molti a non avere
urgenza di vendere, perché spesso hanno due o di più immobili. E, vista la crisi, hanno deciso di
metterne uno sul mercato, ma con cautela».

Sempre in quel convegno del 2018 ad Architettura, si veniva a sapere che a Venezia solo il 26,5% di
chi acquista una casa lo fa per viverci. Per un altro 26 è un investimento. E per un altro terzo è
seconda casa. L’urbanista Laura Fregolent lo aveva spiegato cosi: «La sfida di oggi non è
semplicemente come gestire il turismo a Venezia, ma di come gestire Venezia con il turismo».
L’epidemia ha risolto, per il momento, una delle due variabili del quesito. Ma resta quella centrale:
come gestire Venezia.

Da sempre la parola d’ordine è fermare l’esodo e attrarre nuovi residenti. Più di vent’anni fa,
l’Osservatorio Casa del Comune di Venezia aveva consegnato all’amministrazione un’indicazione
strategica: il social housing. La scommessa era quella di permettere a un’ampia fascia sociale (e
generazionale) di tornare ad abitare anche in centro storico: persone che non rientrano nelle
condizioni per le liste di edilizia popolare e allo stesso tempo non possono permettersi i prezzi di
mercato.

Vent’anni dopo, un altro Osservatorio Casa, che si fa chiamare “Ocio”, questa volta creato
dall’attivismo civico, ha dimostrato come quella strategia sia stata sterilizzata sul nascere. In due
decadi, dei 13 progetti annunciati, solo 3 sono stati realizzati e in uno sono scomparsi tutti gli alloggi
a edilizia calmierata.

Social housing: in due decadi, dei 13 progetti
annunciati, solo 3 sono stati realizzati
E «anche nei 3 casi in cui gli alloggi sono stati consegnati, non si può sempre parlare davvero di
successo», si legge nel rapporto dell’Osservatorio. Un esempio? «Alla Giudecca, per l’area Junghans
ci sono voluti 18 anni e 11,6 milioni di euro in contributi pubblici per passare dall’annuncio del
concorso alla consegna delle case. Nella convenzione iniziale inoltre erano previsti 137 appartamenti
in vendita e 37 in locazione a prezzi convenzionati. Dei primi, solo 80 sono stati effettivamente
venduti al prezzo concordato. Quelli in locazione sono invece scomparsi del tutto».
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Oggi, nessuno parla più di social housing. Giancarlo Ghigi è uno dei fondatori di Ocio: «In questi
anni le proposte si sono spostate su soluzioni in project-financing o in progetti di cooperative che
costruiscono e lasciano i residenti come usufruttuari a vita. Ma sembrano tutte molto aleatorie.
Credo che nessuna soluzione sia realistica senza una regia e un investimento pubblico massiccio,
che riporti la casa nella sfera del welfare».

Dopo tutto quello che è successo, potrebbero cambiare le politiche pubbliche? Il buio è totale e non
ci sono finora segnali nemmeno dai candidati che si disputeranno le elezioni a settembre. E così la
città sembra fluttuare in un’interminabile apnea. Le case rimarranno chiuse e irraggiungibili? Luca
Velo è pessimista: «Credo che chi ha appartamenti se li tenga stretti. La maggior parte aspetterà,
prima di tutti chi ha davvero investito in grandi proprietà con enormi capitali. Aspetteranno, anche
fino al 2022. Aspetteranno, finché non ripartirà il flusso di turisti. E ripartirà. E temo sarà
predatorio, più di prima».

Partecipa al bando per un post-doc alla Vrije
Universiteit di Amsterdam in scienze
umanistiche

Ursula Biemann

Ursula Biemann è un’artista, scrittrice e video artist che vive a Zurigo. La sua ricerca è orientata
verso luoghi remoti dove investiga la politica ecologica del petrolio e dell’acqua. Ha esposto in
importanti musei in Europa e nel mondo.
Lottare per l’impossibile, ovvero prendersi
cura del paesaggio rurale siciliano

Un anno e mezzo fa sono tornato a vivere ad Alcamo, la mia città natale in Sicilia, dove curo
Landescape, un’istituzione d’arte contemporanea che organizza mostre, ospita residenze artistiche e
progetta laboratori. Ci sono tornato dopo alcuni anni vissuti a Milano, dove seguendo un Master in
Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e partecipando attivamente
all’assemblea di Macao, nuovo centro per l’arte, la ricerca e la cultura di Milano, ho contribuito
allala conversazione sul tema dei beni comuni: un percorso sulla loro proprietà, il loro utilizzo e la
loro natura.

Tutto ciò è andato avanti fino a gennaio 2018, quando dopo aver lavorato alla Guida Galattica per
Nuove Istituzioni, la campagna per negoziare la presenza di Macao all’interno degli edifici comunali
di viale Molise 68, mi accorsi di essere stanco. Non ne potevo più di organizzare eventi per
finanziare la vita e i progetti di Macao: era diventata una macchina tritacarne, e non ero disposto a
lavorare per poche centinaia di euro pur di poter continuare a vivere a Milano. Così, ho deciso di
tornare nel mio paese.

LO SPAZIO È RIDONDANTE
In Sicilia il paesaggio urbano occupa a malapena i bordi dell’isola — si infittisce soltanto attorno alle
grandi città. La costa è una corteccia continua di case di mare, cemento, e sabbia. Il paesaggio
rurale, invece, è un’immensa distesa di terra su cui insistono, a sorvegliare il nulla, le case di
campagna. Esistono più case di quante sia possibile abitare e per ogni abitante esistono molti più
spazi di quanti ne siano effettivamente utilizzati.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape.

La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione
ed investimenti continui per conservare il loro valore, ed è così che — tra le pieghe
dell’accumulazione di capitale e dell’investimento senza cura — si fa spazio la distruzione stessa del
sistema. Nel frattempo, la proprietà pubblica sopravvive grazie ad iniezioni di capitale europeo
lasciando sul territorio dei mostri di cemento nell’attesa che qualcuno suggerisca una destinazione
d’uso o semplicemente qualcosa da farci.

L’attuale stato della aree rurali è una diretta conseguenza del ruolo eccessivamente centrale
dell’agricoltura come motore di sviluppo economico prevalente. Nel corso dei secoli, l’intensificarsi
della produzione industriale e la crescente urbanizzazione hanno reso le aree rurali un bacino da cui
prelevare forza lavoro da trasferire nei centri industriali e cittadini. Fuori da fabbriche e condomini
delle aree metropolitane della piattaforma economica continentale, la Sicilia, così come altre regioni
europee, è relegata alla marginalità: bassa densità di popolazione, emigrazione, bassi livelli di
reddito, poche opportunità di lavoro, mancanza di investimenti pubblici e privati, distanza geografica
dai centri e povertà di servizi sono solo alcuni dei problemi che condannano queste aree ad un
declino economico, sociale e culturale, tale da sembrare inevitabile.

La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni
immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti
continui per conservare il loro valore.
È a partire da questo scenario che nel 2015, poco prima di partire per Milano, insieme al mio caro
amico Giuseppe Calamia abbiamo fondato Landescape: un progetto che allora era principalmente
volto a portare in Sicilia pratiche audiovisive e performative sperimentali che ragionassero sul
paesaggio e sull’ambiente naturale. Nella sua prima forma il progetto venne fuori come una
rassegna super punk all’interno della Riserva Naturale del Bosco d’Alcamo, successivamente
abbiamo trovato ospitalità all’Orto Botanico di Palermo.

La nostra proposta era ingenua, ma spontanea: per una notte l’Orto Botanico di Palermo si popolava
di performance e installazioni che avevano a che fare con l’arte contemporanea. Landescape si è
manifestato in questa forma per 3 edizioni, la prima ad Alcamo, durante le quali abbiamo incassato
un sacco di critiche perché i modi erano dilettanteschi. Per quanto provassimo a replicare modelli di
produzione artistica che in altri contesti avevano funzionato, in Sicilia tutto diventava molto difficile.
Infatti era ed è difficile dare un valore economico a queste esperienze culturali, trovare maestranze
e professionalità in grado di realizzare i progetti che immaginavamo, fare i conti con un pubblico che
non conosce quello che nel quadrante di Milano, Berlino, Parigi, Londra è normale — se non
addirittura banale.

Il 2018 è stato uno spartiacque. Una volta ristabilito definitivamente in Sicilia il centro delle mie
operazioni, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una strategia per sopravvivere. Mi buttai a
capofitto nella natura e nel paesaggio, l’unica cosa che riuscisse a calmare i miei stati d’animo
inquieti: un giorno sì e l’altro pure controllavo il costo dei biglietti per tornare a Milano. Più andavo
avanti e più entravo nel paesaggio rurale, più comprendevo che era esso stesso a suggerirmi la
strategia. Mi si apriva dinnanzi una prospettiva tanto desolante quanto eccitante: processi da
iniziare e spazi da occupare. L’esperienza sul campo a Macao mi aveva insegnato che là dove ci sono
spazi da occupare è necessario attivare dei processi di cura collettivi per rivendicare diritti di
libertà, sociali e culturali. Inoltre ho anche avuto modo di capire che senza una una garanzia
istituzionale, presto o tardi i processi attivati non sopravvivono alle logiche del mercato della
produzione culturale.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape.

Il 2018 è lo stesso anno in cui arriva Manifesta a Palermo. L’Orto Botanico, dove noi eravamo
presenti, diventa una location centrale per la biennale.Sfrattati da Palermo, decidiamo di tornare ad
Alcamo e di cambiare completamente ciò che stavamo facendo, mettendo in relazione il capitale
territoriale locale con quello umano costruito negli anni passati a Milano. Una nuova fase per il
progetto Landescape si apriva grazie alla condivisione delle fatiche e della progettazione con un
altro caro amico, Francesco Stabile.

Insieme, ad Alcamo, abbiamo creato una residenza artistica dove da ottobre 2018 ad oggi abbiamo
ospitato più di 70 artisti, attivisti, professionisti della produzione culturale, prodotto 35 eventi tra
mostre, concerti, workshop, party e talk, utilizzato 20 diverse location pubbliche e private,
moltiplicato per 10 il budget di produzione, messo in rete più di 30 aziende locali
dell’agroalimentare, dell’artigianato, del turismo e dell’edilizia. Non sono grandi numeri, ma per
Alcamo — un paese di 45.000 abitanti in provincia di Trapani — si tratta di un traguardo che non
avremmo mai pensato di raggiungere e in parte è stato possibile grazie alla garanzia economica del
Comune del paese ed il continuo flusso di artisti.

LA CASA VICINA AL BOSCO
Ma budget e artisti non sarebbero bastati a far sopravvivere ciò che stavamo facendo: guardando
indietro, il reale valore che abbiamo generato è quello che deriva dalla cura delle relazioni tra i vari
attori coinvolti. In queste relazioni sono inscritte le esperienze di azioni fatte insieme, che diventano
memorie e vissuti in grado di alimentare l’orizzonte immaginario verso cui tendiamo nell’incessante
sforzo di sovvertire il reale. Queste relazioni e questo stare insieme avevano bisogno di una casa

Così abbiamo creato uno spazio, si chiama Posto Segreto, un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e
mandorle. PS è fondamentale nell’infrastruttura che stiamo creando per assicurare una base sicura
a tutti quelli che fanno parte del nostro network, ma al contempo creare un’opera d’arte vivente che
rappresenti il tentativo incessante di migliorare le nostre condizioni di vita.

È per questo motivo che siamo ripartiti dalle basi di tutte le micro-società primitive: alimentazione e
relazioni umane. Abbiamo messo a sistema il network di contadini,produttori locali e artisti in
residenza per fare di Posto Segreto lo snodo principale di questa rete. Puoi passare per scambiare
prodotti, organizzare una cena, fermarti a dormire, lavorare nei campi, ma soprattutto incontrare i
forestieri.

Posto Segreto è un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e
mandorle, oltre che lo snodo principale di un network di
contadini, produttori locali e artisti in residenza.
L’incontro tra i locali e gli artisti che invitiamo genera delle energie inaspettate dal quale
spontaneamente si creano situazioni confortevoli in cui ciascuno è libero di esprimersi come meglio
crede. È così che è nato il progetto di rigenerazione del MACA, il Museo d’Arte Contemporanea di
Alcamo: frutto dell’incontro esplosivo tra Landescape e R.I.S.A. – Research Institute for Spontaneous
Action, che abbiamo fondato insieme a Giovanni Bozzoli e Alessandro Veneruso e che oggi include
anche Anna Brussi, Francesca Maciocia, Federica Carenini, Francesco Stabile e Vitaly Weber.
Contestualmente Landescape è diventata un’associazione e oggi conta una ventina di membri. Fare
questi nomi e ripercorrere certe tappe non è semplice narcisismo, ma è il tentativo di ricostruire
quel complesso reticolo di relazioni senza le quali questa storia non si potrebbe raccontare.
Insieme abbiamo immaginato Alcamo come un campo da gioco in cui gli attori, i luoghi, i materiali, i
medium nonché le relazioni che si stabiliscono tra di loro disegnano una mappa. In questo senso
natura, rurale, folklore, cultura culinaria e religione sono quelle aree tematiche che raccontano lo
spirito di Alcamo. Allo stesso tempo diventano il contesto all’interno del quale invitare un artista a
rappresentare il contemporaneo e la stretta connessione con la tradizione della popolazione
autoctona. Gli artisti coinvolti sono invitati a partire dalla necessità di creare una prossimità tra la
loro opera e gli altri attori coinvolti – fruitori museo, artisti locali, privati fornitori di materiali,
proprietari delle location, istituzioni, professionalità dell’arte, media. Ciò assicura che l’intervento
possa effettivamente entrare in relazione con la città e la sua comunità.

Foto per gentile concessione di Cavestudio / Landescape.

NUOVE MITOLOGIE PER VECCHIE ISTITUZIONI
Mentre io sogno di vedere funzionare un Museo d’Arte Contemporanea nel paesaggio rurale, mio
nonno — come molti altri siciliani — sognava di realizzare una cantina all’interno di “ ‘u macasenu ”
di campagna. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio
necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata, per questo sto
scrivendo una mitologia che racconti il paesaggio contemporaneo, i suoi attori e i suoi rituali.

Questo racconto inizia il 1° maggio 1947, la data dell’eccidio di Portella della Ginestra: quando
uccisi i contadini che manifestavano contro il latifondismo a favore dell’occupazione delle terre
incolte e festeggiavano la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i
comunisti di Togliatti, alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana. I braccianti si erano uniti
attraverso l’intera isola per rivendicare la proprietà delle terre incolte e la loro redistribuzione, ma il
movimento venne represso nel sangue. Pochi anni dopo, nel 1950, viene approvata la riforma
agraria, che… prende il via in tutta Italia grazie alla spinta prorompente che arrivava dalle lotte del
movimento contadino siciliano. Ma in realtà questa storia è quella di una rivoluzione annunciata ma
inattuata — come impedita da qualcosa di inatteso.

Ad Alcamo, tutti gli anziani che incontro mi dicono che in effetti negli anni ‘50 la rivoluzione vera è
un’altra: resine melammina-formaldeide, poliestere, nylon, polietilene, polipropilene isotattico: il
boom economico. Da quel momento nessuno avrebbe dovuto più temere “‘u pitittu” e gli odori che
esalavano dai fuochi accesi nelle campagna cominciavano a sapere di morte.

Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una
comunità e il suo territorio, necessità di un’opera di
ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata.
È a questo punto, però, che si scopre che il consumismo come nuovo modello di sviluppo economico
non assicura la creazione di ricchezza. I braccianti agricoli, infatti, facevano ancora la fame perché
sostituiti dai trattori: appendevano le zappe ai muri e decidevano di partire con destinazione il Nord.
A cavallo degli anni ‘60 e ‘70, un nuovo modello di sviluppo economico si diffonde su tutta l’isola:
l’abusivismo edilizio. In quegli anni chi disponeva di un po’ di capitale o di qualche garanzia per
ottenere un prestito comincia a costruire case improbabili, villette sulla sabbia e palazzi a tre-piani;
di cui se andava bene terminavano il piano terra e il primo piano, mentre gli altri due li destinavano
ai figli lasciandoli incompiuti.

Basta fare un giro ad Alcamo, oggi, per trovare centinaia di esempi di incompiuto nelle zone di
nuova espansione: è un paesaggio che si estende dalla pedemontana alle zone costruite dopo il
terremoto del ’68 — da Alcamo Marina alle arterie che portano al mare. Piani di cemento su piani di
cemento che aspettano figli che non vogliono più tornare a casa. Quest’opera di deruralizzazione
della Sicilia è collegata all’attesa della rivoluzione borghese industriale, che non è mai avvenuta e
mai avverrà. Il paesaggio porta i segni di questa attesa vana e nel cemento, che ancora oggi scorre a
tonnellate, ha trovato la propria cura. Ma la modernità ha una data di scadenza, quella della durata
del cemento.

Rapidamente, ecco arrivare una nuova rivoluzione a promessa di un futuro roseo. È il 1992 e l’Italia
promette ai suoi partner europei di diventare un membro virtuoso e accede al club dei paesi che
avrebbero introdotto l’Euro, la nuova moneta, per amplificare e aumentare la velocità degli scambi
commerciali tra gli stati nazionali europei. Le aree rurali diventano la meta di un modo di fare
turismo integrato alla agri-cultura locale, e l’opportunità si trasforma presto in modello di sviluppo.
È così che assistiamo, negli ultimi anni, alla proliferazione degli Airbnb che promettono accesso al
mare e wi-fi gratuito, di escursioni in natura con quad e motoscafi fiammanti, di vendemmie per
giovani tedeschi e workshop di “maccarruna cu la sarsa” per francesi rompicoglioni.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape.

In questo disegno niente va messo da parte, il modello consumista e il patrimonio immobiliare
costituiscono l’infrastruttura materiale su cui gira questo modello di sviluppo contemporaneo,
mentre la agri-cultura, il patrimonio immateriale di conoscenza da cui attingere per dare una
parvenza di realità alla nuova economia.

Pre-post Covid-19, un nuovo medioevo

È in questo scenario che un pattern si fa evidente: l’orizzonte rivoluzionario di cui ha sempre vissuto
la Sicilia si trasforma ciclicamente nel motore principale della sua marginalizzazione. I processi di
sviluppo economico si finanziarizzano rapidamente e generano, nuovamente, la domanda di un’altra
rivoluzione. Nel frattempo, tutto rimane uguale.

La storia della capacità del capitale di territorializzare qualsiasi cosa non è, ovviamente, solo
siciliana: nel mondo pre-Coronavirus lo stesso sentore lo si stava avendo con il montante movimento
ecologista, invischiato nelle contraddizioni emerse a causa dei compromessi che ne hanno facilitato
proprio la diffusione. Tra mercificazione in slogan, e prodotti, moda e comunicazione diventa chiaro
il problema di una di una lotta che non si auto-organizza e prende per buona l’infrastruttura del
sistema stesso che combatte.

La domanda circa quale lotta ingaggiare, come organizzarla e con quale strategia è al centro di tanti
progetti che come istituzione culturale promuoviamo, nelle premesse e nell’approccio Prima della
quarantena insieme a RISA, il Dirty Art Department del Sandberg Instituut e a Macao stavamo
progettando la terza edizione della residenza artistica Wandering School: immaginavamo un
intervento spontaneo all’interno della settimana del Fuorisalone che rappresentasse a livello
simbolico, estetico e speculativo lo snervante fatica di tutti i precariche non riescono a mettersi
insieme, in quanto divisi dai processi produttivi che li mettono in competizione tra di loro.

Della pratica di quel progetto, per ora, non se ne farà nulla — ma le premesse sono ancora lì,
esasperate dall’esplosione della pandemia. La parola del momento è together, e non posso
nascondere che anche io la uso parecchio. È lo slogan principale della campagna elettorale di Bernie
Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e che già sappiamo essere sacrificabile sull’altare del
progressismo di sinistra bianco e maschilista, rappresentato da Joe Biden. La stessa parola può
essere riciclata come slogan delle nuove pubblicità di Vodafone. Per diventare, infine, il mantra
anaffettivo di tutti i politici di destra o sinistra, a cui gli studi di comunicazione suggeriscono come
entrare nella testa delle persone.

Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape.

Con la definitiva sconfitta del movimento operaio, e la contestuale trasformazione delle persone in
monadi votate al consumo, la socialità, il semplice stare insieme, diventa un bene da consumare,
accompagnato da un po’ di intrattenimento culturale. L’aver reso la socialità e la cultura beni di
consumo ha di fatto neutralizzato le intenzioni degli artisti, degli attivisti o di quanti in questi anni
hanno creduto di star facendo arte politica. L’ipocrisia del sistema di produzione culturale è venuta
definitivamente a galla quando una volta chiusi bar, teatri, club, cinema, musei, centri culturali ecc.,
abbiamo di fatto scoperto la natura non essenziale di un certo tipo di lavoro culturale.

Il semplice e spontaneo stare insieme diventa il campo dove condurre lo scontro. Per questo motivo,
con gli amici di sempre, oggi, più che mai si litiga; è difficile fidarsi, la competizione e la frustrazione
si insinuano in tutte le comunità. I nostri privilegi, piccoli o grandi che siano, sono allo stesso tempo
l’ostacolo e l’opportunità di un miglioramento del nostro stare insieme. Per questo non ci si può
abbandonare alla depressione della telecomunicazione: i corpi scalpitano, ardentemente desiderano
stare insieme, lottare e farsi comunità. Curare il comune oggi è in teoria impossibile, e per questo
sollecita una pratica risoluta che sa che tempo e spazio sono limitati. Questo conflitto è interiore,
dell’individuo contro se stesso, della propria coscienza contro la propria morale. A partire da questa
consapevolezza, spesso tradita, i discorsi contemporanei rivendicano giustamente migliori condizioni
di lavoro e più reddito. In realtà in gioco c’è la sopravvivenza della comunità, che allo stesso tempo è
la piattaforma da cui avanzare successive rivendicazioni.

Prima del Coronavirus immaginavamo di fare di Posto Segreto per questa stagione il centro di una
serie di workshop, performance ed eventi. La pandemia ha chiesto una modifica della strategia sul
breve periodo. Adesso, come i monasteri nel Medioevo per il mondo che verrà ospiteremo i
pellegrini. Stiamo sognando

Non si salva il cinema con lo streaming, serve
progettazione culturale e anche un po’ di
utopia

Si registra di questi giorni un susseguirsi di progetti e di iniziative riguardanti il cinema che prova a
superare il momento di emergenza. Quale fosse la situazione ce lo ha già detto, in un puntuale
articolo su questo sito, Roy Menarini che fotografava bene quanto stava avvenendo, sia a
livello di produzione che di distribuzione, sale e festival.

Due settimane fa, invece, la rivista “Film TV” ha pubblicato uno speciale davvero dettagliato
in cui si sono potute sentire le voci di vari operatori. La situazione è davvero emergenziale e
soprattutto si è abbattuta sul settore improvvisamente e con poche garanzie riguardanti il prossimo
futuro.

E così tra timide aperture e le speranze riposte nell’autunno, la risposta sembra essere piuttosto
univoca: streaming. Ecco, però, streaming non significa un po’ nulla… streaming… Quale? Come? Su
quale piattaforma? Con quale idea di cinema? Secondo quali modalità? Con quale ingegnerizzazione?
Verso quale pubblico? Prevedendo quale tipo di fruizione? Domande spesso inevase e rimandate a un
“vedremo” che non promette niente di buono.

Lo streaming non può essere lo strumento
per tamponare aspettando una normalità a
venire
Il punto è che lo streaming non può essere lo strumento per tamponare aspettando una normalità a
venire (dopo che, tra l’altro, è stato trattato come nemico del cinema vero). Senza un’accurata
progettazione culturale nei mondi (troppo spesso sconosciuti) del digitale, si rischia di produrre
male, e soprattutto di perdere l’occasione di una vera rivoluzione nel settore che sia in grado di
porre le basi anche per un rilancio.

Anche perché – diciamocelo chiaramente – non è che prima dell’emergenza non ci fosse crisi, e così,
in una dialettica perversa in cui emergenza rincorre crisi, si rischia solo di rinviare il momento di un
crollo generalizzato.

Streaming rischia di essere la classica parola vuota che cela, spesso, una certa insipienza e una
difficoltà progettuale (prova ne è che nessuno del settore ha recapitato al ministero di competenza la
richiesta di un patto infrastrutturale sulla rete, presupponendo così di fondare questa nuova
stagione emergenziale su una differenza di classe basata sul digital divide).

E non voglio nemmeno citare l’idea del drive-in (che fortunatamente sembra essere accantonata): in
un paese che sta soffrendo una delle più gravi crisi di intossicazione dell’aria un bel ritorno
all’automobile è proprio quello che ci mancava. Ma ritorniamo allo streaming… siamo sicuri che
dopo mesi di telelavoro e telescuola abbiamo ancora le forze e le pupille per stare davanti a uno
schermo casalingo a vedere film? Probabilmente si… e gli oculisti ringraziano. Ma anche gli
psichiatri, dato che è ormai certificato il nesso tra ansie, nausee e veri e propri attacchi di panico
legati a questo imponente uso. Ma tant’è!

Anche negli interventi di direttori di festival o di esercenti ciò che ricorre maggiormente è un
senso di frustrazione misto a speranza. Eppure un operatore culturale anche quello dovrebbe fare,
essere aggiornato, guardare, interrogarsi sullo statuto del cinema. Anche perché – come si diceva –
non che prima si navigasse in buone acque… ma al di là di qualche sterile dibattito su film di Netflix
si e film di Netflix no che ha investito, per esempio, il festival di Cannes… poco o nulla. Ora tutti a
correre verso… lo streaming. Niente riflessione sulle piattaforme, sulle tecnologie.

Andrebbe posta la questione tecnologica
assieme a quella culturale
Andrebbe posta la questione tecnologica assieme a quella culturale. Anzi le due sono di per se stesse
legate inesorabilmente. Non si può davvero pensare a una mera funzione strumentale della
tecnologia. In molti si stanno accorgendo di come il digitale sia in grado di strutturare un legame
solido tra archivi, fondi ed educational.

Si può immaginare una macchina in grado di dialogare con le scuole, di sfruttare le sue piattaforme
per inaugurare una nuova fase di rifunzionalizzazione degli archivi, per pensare megari anche alla
didattica a distanza, alla digitalizzazione e la archiviazione (anche qui, si fa presto a dire streaming
live e registrato ma poi come lo si archivia, dove lo si cataloga, con quali strategie secondo quali
norme).

Per ricollegarsi al territorio in maniera nuova, ponendo in essere la questione del sistema culturale.
Partendo da una digitalizzazione avveduta si può connettere luoghi e tempi diversi per immettere il
cinema in un nuovo discorso culturale.

Bisogna avere una visione e poi le capacità di fare network invocando un nuovo patto culturale tra
musei, biblioteche, scuole, università, spazi pubblici, beni culturali. Solo così si difende oltre che il
valore culturale di questa produzione anche il lavoro di chi opera nel settore, rilanciandolo, non
provando a bloccare le falle. La giusta visione può coniugare la giusta riflessione sul cinema come
industria, sulla tecnologia e sul cinema come statuto.

Vent’anni fa l’avvento della prima vera ondata digitale ha generato il dibattito sul tema della “morte
del cinema” con interventi interessanti, come quelli di Peter Greenaway che ne sanciva la fine
celebrando invece la nuova alba dei film.

Di contro Raymond Bellour tagliava corto affermando che il cinema è solo la proiezione in sala! Oggi
la si può porre la questione? Stiamo affidando temporaneamente alla “morte del cinema” la sua
sopravvivenza? Io non lo penso, però sarebbe bello che si generasse un dibattito, una sincera
attenzione critica (che è poi quello che musei e festival dovrebbero fare). Magari per organizzare
provocatoriamente un festival a porte chiuse che salvaguardasse lo statuto del cinema. Utopia?
Certo!

Un festival a porte chiuse che salvaguardasse
lo statuto del cinema. Utopia? Certo!
L’altra strada sarebbe invece adottare una progettualità riferita alla mancanza della sala, alle sue
opportunità e alle possibilità tecnologiche che certo non si riassumono semplicemente nello
streaming. Nessuno può estrarre magicamente le risposte dal cilindro ma certo sarebbe bello
avviare un dibattito, una riflessione, sarebbe vitale pensare ad alcune opzioni. Magari prendendo
esempio da chi come il festival SouthbySouthWest da anni mette insieme informatici e sviluppatori
di game, artisti di digital art e registi creando così un momento di riflessione e di scambio davvero
vivificante e progettuale. Un’operazione che fanno anche il Sundance e il Tribeca.

Ma la stessa storia del cinema ci ha regalato importanti riflessioni e pratiche legate a una diversa
prospettiva. E non si tratta solo del cinema d’avanguardia e sperimentale come ci ricordava Bruno
Di Marino in un pezzo di qualche giorno fa. Mi viene anche in mente il pensiero di
RobertoRossellini per un cinema televisivo ed educativo (e noto che in queste settimane da molte
parti si invoca un nuovo patto tra area dello spettacolo e della cultura e area formativa ed
educazionale).

L’Expanded Cinema teorizzato da Gene Youngblood o il Future Cinema di Jeffrey Shaw e Peter
Weibel (ma la lista potrebbe comprendere le riflessioni “futurologiche” di René Berjavel o Alvin
Toffler). Ma anche l’utopia del cinema elettronico che ha animato il dibattito tra la fine degli anni ’70
e gli inizi degli anni ’80 e che ha potuto avvalersi di interessanti questioni poste da registi quali
Francis Ford Coppola e Michelangelo Antonioni.

Un altro percorso ancora potrebbe essere quello di organizzare dei tavoli di lavoro con chi, per sua
stessa natura, pensa al digitale, sviluppa, crea, realizza app e piattaforme… penso all’industria del
gaming che tra l’altro dedica parecchio spazio alla questione della narrazione. È un’industria
presente sul territorio, anche piuttosto sviluppata, e può contare addirittura su un’associazione di
categoria (IIDEA, ex AESVI).
Organizzare dei tavoli di lavoro con chi pensa
al digitale… penso all’industria del gaming
Non mi pare che siano stati avviati tavoli di lavoro con loro, eppure avrebbero parecchio da dire
nell’ordine anche della creazione di ambienti virtuali, sale avatar da funzionalizzare in una chiave
diversa. Saprebbero anche indirizzare verso l’uso della Realtà Virtuale che potrebbe, in parte,
rivitalizzare la visione cinematografica offrendo anche la condivisione (multiplayer) e l’immersione al
buio tipiche della sala e che invece nello streaming sarebbero irrimediabilmente perse (molti
operatori culturali stanno cominciando a rivolgersi a Twitch la web TV dei gameplayer per la sua
funzionalità… perché non sperimentare qualcosa in quella direzione?).

Ci sono anche piattaforme italiane che forse sarebbe interessate a ospitare progettualità in questo
senso, penso a VR Stories di PlayStation Italia e Rai Cinema VR. Ma ci sono anche parecchie aziende
che si occupano di Realtà Virtuale, Aumentata e Mista sul territorio italiano che in questo momento
stanno cercando nuove idee e nuovi territori… qualcuno le ha sentite? È stato realizzato un
collegamento? Certo non gli si può andare a chiedere di fare lo streaming…

Perché pensare allo streaming come un mezzo ponte per ovviare alla mancanza della sala non
funziona. Streaming significa accedere a un sistema diverso e a una serie di opzioni che
presuppongono, per esempio, una comunicazione differente e diverse forme di convergenza. Non
significa entrare in un sistema che ci ospita per qualche tempo e finita lì. Le cose non stanno proprio
così: si entra in un territorio (che non è neutro) con pubblici, regole, composizioni diverse. Che si
avvale di caratteri diversi e che quindi può essere sfruttato al meglio solo assecondando una visione
programmatica.

L’esempio migliore in questa direzione è stata l’idea di legare le sale alle proiezioni su una
piattaforma ormai certificata come Mymovies. Progetto ottimo che si smarca dall’idea un po’
qualunquista di dire semplicemente “streaming”. Streaming sì, ma con idee e una prospettiva,
legandosi a un progetto di virtualizzazione della sala che, a dire il vero, Mymovies porta avanti già
da un po’ e che non significa solo creare una sala virtuale ma, in questo caso, anche collegare la rete
delle sale alla possibilità di essere ad accesso virtuale.

Mymovies sta accompagnando il cinema da anni lavorando anche sulle proiezioni on-line sostenute,
però, da una non comune attenzione al cinema d’autore e indipendente e da un apparato critico in
grado di rivitalizzare anche le sale e i festival. E la stessa cosa si può dire di una rivista come “Film
TV”. In entrambi i casi abbiamo una visione che, pur rimanendo cinefila, è stata in grado di dare
attenzione a forme e pratiche diverse, di incorporarle di farne materiale critico.

Ecco le due anime possono assolutamente coesistere, così come la sacrosanta azione di
salvaguardare i posti di lavoro, ma proprio per dare respiro a queste pratiche bisogna avere il
coraggio di guardare oltre, di ampliare la visione, di mettere in discussione le posizioni.

Immagine di copertina, Le Nozze di Cana di Paolo Veronese: una visione di Peter Greenaway
L’arte ci aiuta a sopportare l’isolamento, per
questo abbiamo bisogno di un recovery fund
culturale

La solidarietà si è messa in moto anche in campo artistico in questa stancante situazione di
emergenza. Se da una parte musei grandi e piccoli si sono fin da subito ingegnati per continuare la
loro missione culturale attraverso gli strumenti social, gli artisti contemporanei, soprattutto gli
street artist, hanno dimostrato di voler essere uno degli attori di questa fase storica. Come?

Partecipando alla vita delle loro città, mettendo all’asta opere per finanziare ospedali o altri progetti
di beneficienza legati all’emergenza e facendo quello che sanno fare meglio: rappresentare, dando
una lettura di questo nostro momento di disagio, per continuare a nutrire l’immaginazione e
stimolare la riflessione nelle persone.

Su queste due linee si muove l’arte durante l’emergenza: garantire conoscenza e diffusione delle
opere e partecipare alla vita collettiva, raccogliendo fondi e raccontandola.

I musei italiani e stranieri si sono ingegnati per permettere agli utenti di continuare a sognare,
interagire, divertirsi, imparare e stupirsi tramite le loro collezioni. Hanno provato a governare la
fragilità della vita collettiva per trasformarla in risorsa.

Il sistema dell’arte istituzionalizzata ha trasferito alcune attività su internet, creando tour virtuali nei
musei, ampliando il catalogo di opere sui siti, continuando l’attività di didattica dedicata ai bambini
(che aiuta anche i genitori a gestirli). Queste iniziative hanno provato ad alimentare la
trasformazione della fruizione culturale ed hanno dato vita ad un nuovo modo di pensare la
fruizione, prima assolutamente marginale, ma che si può immaginare diventerà la modalità
“ordinaria” di accesso al patrimonio culturale, almeno nella prima fase del post-epidemia, quando
viaggiare ancora sarà sconsigliato e le persone reticenti a farlo.

I veri protagonisti dello scambio tra mondo
della cultura e cittadini sono i social media
I veri protagonisti dello scambio tra mondo della cultura e cittadini sono però i social media, sia per
la comunicazione fatta direttamente dai vari istituti (spiegazioni di opere e luoghi fatte da curatori,
personale del museo, direttori) sia per le iniziative che hanno coinvolto, con notevole successo, il
pubblico sui social media.
Le iniziative sono le più varie ma hanno in comune il voler avvicinare le persone alle collezioni e ai
luoghi culturali con linguaggi differenti da quello classico di spiegazione, più affini alla leggerezza
dei mezzi e più vicine alle sensibilità degli utenti. (Qui per le iniziative promosse dagli istituti
Mibact).

Diverso e complementare è invece il ruolo dell’arte contemporanea in generale e degli street artist
in particolare. Questi hanno raccontato e interpretato la crisi attraverso le loro opere regalate ai
muri delle città ma anche continuando a veicolare i loro messaggi su internet perché l’arte in strada
non è più facilmente fruibile. (qui un servizio di focus sull’arte di strada dedicata alla quarantena).
Ma sono stati soprattutto protagonisti della solidarietà verso ospedali ed enti no profit.

Lo strumento innovativo utilizzato è stato quello delle aste di beneficienza attraverso Instagram. Gli
artisti, da soli o con il supporto delle Gallerie, hanno organizzato su profili o ricorrendo ad # delle
aste, i cui proventi non transitano sui loro conti, ma vanno direttamente all’ente o associazione
destinataria.

Queste iniziative testimoniano la solida rete presente nel mondo dell’arte “spontanea” e l’attenzione
verso il contesto sociale di riferimento. Se in alcuni casi le iniziative si sono svolte in sostegno di enti
nazionali o lontani dal contesto locale di riferimento (ospedale Spallanzani, ospedali civili di Brescia,
Croce Rossa), più frequente è stata la dinamica cittadina, la volontà di venire in auto ad un certo
territorio con iniziative locali connotate da un forte impatto sociale (come #streetartistperfirenze;
#unitiperbologna, a cui hanno partecipato anche tattoo artist) promosse da artisti cittadini,
principalmente con la partecipazione di altri artisti cittadini, anche molto noti. Una di queste in
particolare (#unitisisvolta) ha il merito di aver promosso un’asta per aiutare il tessuto sociale più
debole, quello di cui meno ci si ricorda ma che vive nelle condizioni peggiori, raccogliendo fondi in
favore di persone che non hanno una casa, vittime di violenza, tratta, sfruttamento lavorativo o
escluse dai percorsi di accoglienza.

Le aste sono trainate da street artist e artisti già affermati, ma sono anche un modo per arricchire il
panorama artistico dando spazio al percorso e al lavoro di artisti meno conosciuti, che hanno così
l’occasione di farsi notare, e sono accomunati tutti dalla volontà di rendere l’arte simbolo di
speranza, mutuo soccorso e positività.

L’arte urbana si è messa in moto
spontaneamente ed ha fatto ricorso a nuovi
spazi di comunicazione
L’arte urbana si è messa in moto spontaneamente ed ha fatto ricorso a nuovi spazi di comunicazione
per adattare vecchi strumenti di solidarietà (le aste di beneficienza) e partecipare dello sforzo
collettivo contro l’emergenza sanitaria e la crisi sociale che la segue. La donazione diretta di opere
da mettere in asta ha espresso così la volontà di questo mondo di trasmettere valori essenziali come
quelli di condivisione, solidarietà e partecipazione. Ma chi aiuta gli artisti? Questa domanda non ha
una risposta soddisfacente.

Il sistema dell’arte è sicuramente uno dei più colpiti dalle misure emergenziali, perché vive
soprattutto di relazioni sociali e spaziali, di presenza negli spazi pubblici e di partecipazione. La
parte più fragile del mondo dell’arte è costituta da artisti emergenti, spazi no profit e piccole gallerie
che una lunga inattività porta a non potersi più sostenere. Le piccole realtà artistiche spesso sono le
più dinamiche del contesto cittadino, garantiscono spazi di espressione e sperimentazione ma
proprio per il loro non essere legati a filiere strutturate ne comporta la maggiore fragilità. Penso sia
alle piccole gallerie che danno spazio ad artisti poco noti, sia agli artisti stessi, che come gli altri
hanno dovuto chiudere gli studi e con questi la possibilità di vivere delle proprie creazioni.

Alcune misure economiche sono state promosse dal Governo per provare a mitigare le conseguenze
economiche dell’emergenza sul settore culturale, ma si tratta appunto di contributi simbolici, o
comunque distribuiti su una platea amplissima di destinatari. (Qui per un approfondimento, anche su
cosa è stato fatto all’estero). Situazione che ha portato l’arte ad aiutare sé stessa, con strumenti di
mutuo soccorso tra gallerie e artisti che collaborano con loro, per rilanciare l’arte e sostenere gli
artisti, come ha fatto la galleria Rosso27.

Alcuni artisti hanno spostato sui canali social le vetrine dei loro studi. Lo stesso hanno provato a fare
le gallerie, soprattutto le indipendenti, come la Street Levels Gallery, che si stanno organizzando per
essere presenti con piattaforme on line per portare avanti la loro missione di cultura, informazione e
narrazione dei progetti degli artisti.

C’è bisogno di un recovery fund culturale
La digitalizzazione degli spazi permette anche di assecondare le richieste di un pubblico che sembra
ancora più interessato all’arte in pubblico Lo spostamento su internet della vita artistica, comprese
le aste, ha infatti permesso di venire a conoscenza del fatto che alcune opere di street art si possono
comprare. Soprattutto però, resistono consapevoli delle difficoltà che saranno presenti anche dopo
la fine dell’emergenza, perché a causa della crisi economica che seguirà a quella sanitaria i
compratori di arte potrebbero diminuire e con essi la possibilità di finanziare progetti e fare
informazione culturale.

Queste iniziative nate spontaneamente però non danno una soluzione definita e su larga scala a
come sostenere il mondo dell’arte in generale e della street art in particolare. Soluzione che
potrebbe essere cercata attraverso l’intervento di quella stessa rete istituzionale ed associativa che
ha promosso l’intervento dell’arte a sostegno di chi lotta per contenere il contagio, anche facendo
pressione a livello nazionale.

C’è bisogno di un recovery fund culturale. Nell’America del dopo Seconda Guerra Mondiale e,
ancora prima, con il New Deal, l’amministrazione americana aveva previsto incentivi statali per la
cultura, perché aveva capito la necessità di vincere anche la guerra culturale oltre che quella sui
campi di battaglia. Grazie a quella lungimiranza furono prodotti alcuni capolavori del cinema, come
Citizen Kane (Quarto Potere).

Certo, quella in corso non è una guerra, ma allo stesso modo il sistema paese non può ripartire senza
un approccio anche culturale alla ripresa. C’è bisogno di una strategia che coinvolga consumatori di
arte e istituzioni, perché l’arte è anche economia e ricchezza e perché dietro ad un’opera c’è una
vita.
5 proposte per costruire le città dopo il
Coronavirus

L’attuale emergenza ci costringe a ripensare completamente le nostre città e il modo in cui ne
percepiamo spazi e funzioni. Nel giro di poche settimane si sono avviati processi di cambiamento, se
non irreversibili, almeno destinati a durare sul medio-lungo periodo, che ci costringono a guardare
con nuovi occhi ai dibattiti e alle parole d’ordine del recente passato.

È inutile girarci attorno: anni di dibattiti sulla resilienza nelle città non sono serviti a niente. Al
primo shock sistemico del nostro tempo, ovvero la prima emergenza che ha colpito indistintamente
tutto il mondo, nessuna città è stata in grado di opporre un piano, una strategia, una serie di misure
preparate da tempo per gestire l’imprevisto prevedibile. Le poche megalopoli capaci di strutturare
una risposta coerente e coordinata hanno avuto bisogno di un forte intervento dello Stato centrale
per attrezzare interventi in grado di limitare i danni (con l’eccezione della città-stato di Singapore
dove le dimensioni statuale e urbana coincidono).

Che lezione trarre da questo? Le città hanno dimostrato quanto lo sviluppo di una nuova generazione
di strategie di resilienza, in primo luogo sociale poi economica e ambientale, sia indifferibile e
necessiti di un coinvolgimento attivo della cittadinanza. Non si tratta di una questione di
governance, ma di sopravvivenza. Non si tratta di reclamare un ritorno alle città di prima ma di
costruire in maniera collaborativa forme nuove di vivere urbano, che incorporino regole e soluzioni
emerse dall’attuale stato emergenziale e le rendano elementi di base di nuovi stili di vita. Stili di vita
che non è detto siano necessariamente peggiori rispetto a quelli adottati negli ultimi anni, a patto
che la transizione sia supportata potentemente da idee e azioni radicali che sembravano impossibili
da attuare, come sembrava impossibile costringere le nostre città a una domenica lunga mesi (se
tutto andrà bene).

Qui di seguito qualche soluzione su cui amministrazioni locali e comunità dovranno confrontarsi per
rendere la fine del lockdown un’opportunità utile per riconsiderare radicalmente il futuro delle
nostre città.

Meno spazio per le auto, più spazio per le persone

Mettere in pratica il distanziamento sociale richiede un intervento forte sullo spazio pubblico e sul
modo in cui viviamo strade e piazze delle nostre città. Riservare più spazio ai pedoni e alle biciclette,
come stanno già facendo in queste settimane Budapest, Bogotà e Città del Messico con
l’allargamento delle piste ciclabili o le città della Nuova Zelanda con l’estensione dei marciapiedi,
rappresenta una necessità che va accompagnata con interventi che gradualmente restituiscono alle
persone la ownership di strade e piazze finora occupate prevalentemente dalle automobili. La
creazione di nuovi percorsi pedonali può costituire anche un’alternativa slow ad un trasporto
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