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Come le nazioni europee stanno cercando di aiutare il settore culturale dopo il Coronavirus Questo articolo è stato originariamente pubblicato su KEA. L’epidemia di COVID-19 ha bloccato un intero settore economico a causa delle misure adottate per attuare il blocco e l’allontanamento sociale. L’intera catena del valore culturale è stata colpita impedendo la messa in scena di eventi culturali, tour, produzione di film, programmi televisivi, sessioni di registrazione, la pubblicazione di nuovi film, libri, chiusura di punti di distribuzione come librerie, cinema, sale da concerto, musei, teatri, siti storici o gallerie d’arte. Eventi e festival, fiere sono annullati o posticipati. Il settore culturale e creativo (CCS) è un’industria molto importante in Europa. Il suo contributo in termini di valore aggiunto all’economia è significativo quanto il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Secondo Eurostat in tutta l’UE-28, ci sono stati 8,7 milioni di persone in occupazione culturale nel 2018 equivalente al 3,8 % del numero totale di persone occupate. Nel 2017, c’erano 1,1 milioni di imprese culturali nell’UE-27. Il settore è cresciuto costantemente nel corso degli anni a causa della crescente domanda di intrattenimento e cultura. Le organizzazioni CCS non sono come tutte le altre aziende. Nell’UE-28, un terzo (33 %) della forza lavoro culturale è autonomo, rispetto a una media del 14 % per l’intera economia. In quanto tale, il peso relativo del lavoro autonomo nel settore della cultura è superiore al doppio della media del l’occupazione totale. La precarietà delle condizioni di lavoro è uno specifico di questo settore. La crisi sanitaria ha peggiorato le cose. Il settore si basa anche su finanziamenti pubblici nell’ambito delle politiche in materia di cultura, istruzione e turismo, con una spesa pubblica in tutta l’UE per i servizi culturali, la radiodiffusione e l’editoria pari a 90 miliardi di euro, pari all’1,4 % di tutta la spesa pubblica nel 2018.
Venezia è in apnea, per ripensare il turismo serve una nuova residenzialità «Sono rimasta bloccata in Sicilia per tutto il lockdown. E laggiù mi sono resa conto che di Venezia non ne potevo più. Inizierò un’altra attività: è arrivato il momento di cambiare». Alessandra, chiamiamola così, a Venezia non vuole più viverci. Fino alla vigilia dell’epidemia affittava appartamenti ai turisti. Assicurava il check-in e il check-out, pulizie, trasferimenti e tutta la girandola di attività, le escursioni in chiese, musei e isole che la città ha sempre vantato come una mondanità spicciola. «Sono arrivata a gestire fino a 30 appartamenti e 3 affittacamere. La formula era: pieno per vuoto. Prendevo in affitto case sfitte e le offrivo ai turisti attraverso le piattaforme on-line». Un buon business in cui è arrivata a impiegare 15 dipendenti. «Ho sempre creduto in questa città e mi sono impegnata in tante attività per preservarla e valorizzarla», racconta, davvero convinta che le due cose, la sua impresa turistica e la difesa della città, potessero convivere. Poi è successo qualcosa, anzi due. Prima l’acqua altissima del novembre scorso: «Di colpo mi sono trovata con 7 appartamenti allagati e con tutte le prenotazioni cancellate». L’epidemia poi: «La città sigillata. Chiuso l’intero Paese. E io bloccata in Sicilia». Il business si è spento e le case abbandonate: «Sono passata da un fatturato di 60 mila euro al mese a zero». Come Alessandra, molti veneziani negli ultimi vent’anni hanno messo al lavoro le case della città. Lei almeno aveva un’impresa con tutti i crismi, altri giocavano a fare i fantasmi: «Un’intera famiglia si iscriveva su Airbnb, ciascuno con uno o due appartamenti, e così, registrati come singoli, eludevano il fisco», ci spiega. Persino gli hotel prendevano in affitto case singole per offrire l’esperienza di “vivere” a Venezia, anche se solo per qualche giorno. Come ci capita negli show dei prestigiatori, sappiamo tutti che la formula magica è essere abili e manipolatori, ma tutti finiamo per crederci. In laguna lo show si è interrotto d’improvviso, mentre sembrava non finire mai. Non si distingue più il lamento dal sollievo I 52 mila veneziani rimasti davvero a viverci sembrano smarriti nella loro stessa città, diventata troppo grande per loro e troppo piccola per essere una città. Hanno gridato così tanto contro l’assalto all’isola che, ritrovandola di colpo svuotata, prima hanno festeggiato e poi si sono immalinconiti. Finito il lockdown, con l’arrivo a frotte nei weekend di visitatori da tutta la regione, non si distingue più il lamento dal sollievo. «Abbiamo però scoperto una cosa», confessa Alberta Basaglia, psicologa e scrittrice, che a Venezia ci è nata, ci vive e ci ha lavorato costruendo alcuni servizi sociali modello. Cosa? «Prima dell’epidemia, quando stavamo in casa, ci arrivava il vociare dalla strada, i rumori dei trolley e le risate dei “foresti”: potevamo solamente ascoltare loro che ci passavano sotto le finestre. Ascoltavamo le parole che venivano da fuori. Durante l’epidemia, invece, passeggiando tra le calli, riuscivi a distinguere le voci che provenivano dalle cucine e dai salotti. Abbiamo scoperto, dopo tanto tempo, la voce dei veneziani nelle loro case».
«Abbiamo scoperto, dopo tanto tempo, la voce dei veneziani nelle loro case» Il quadro lo ha ricostruito Alice Corona per conto di Inside Airbnb, la piattaforma ideata da Murray Cox sei anni fa per monitorare il fenomeno degli affitti brevi del colosso californiano. Tutto è iniziato perché «Airbnb non rende pubblici i dati né li ha mai forniti alle amministrazioni locali», ha spiegato la data journalist veneziana. Da qui un lavoro certosino per estrarre numeri visibili. Nel rapporto su Venezia, redatto nel 2019, si è scoperto che il 5% dei 5 mila host gestiva in città il 63% dei quasi 9 mila annunci, il 75% dei quali riguardavano un’intera casa. «E così si è smontata la retorica fatta di piccoli proprietari che arrotondano affittando una stanza», ha raccontato Corona. E ancora: il 75% degli annunci erano concentrati in centro storico, dove 12 case su 100 stavano in Airbnb e qui 5 persone su 100 gestivano il 35% dei ricavi. Significa una cosa: «Venezia è un albergo diffuso che funziona senza cambi di destinazione d’uso». In laguna, residenziale e turistico sono diventati un’unica zona opaca ed elusiva. Verso la fine del lockdown è stato il Rettore dello Iuav, Alberto Ferlenga, a lanciare il sasso. La città era appesa a una specie di incanto spettrale dove giravano i meme con fenicotteri e coccodrilli in giro per calli e canali. Ferlenga ha proposto un patto ai residenti: in mancanza di turisti, affittate le case agli studenti per sei mesi o un anno, e costruiamo una rete finanziaria e legale, di garanzia per i proprietari. Residenziale e turistico sono diventati un’unica zona opaca ed elusiva I quattro atenei universitari presenti in città (Iuav, Ca’ Foscari, Conservatorio e Accademia di Belle Arti) sommano circa 20 mila studenti, in gran parte fuorisede. Due anni fa un convegno dello Iuav (“Vuoto/Pieno. I caratteri della Venezia che cambia”), ha fatto un’altra fotografia. In quell’occasione, si è stimato un fabbisogno di stanze per 10 mila studenti. Negli ultimi anni, anche loro sono stati via via espulsi dal centro storico e hanno cercato appartamenti in terraferma, dove peraltro Airbnb si mangiava case fino ai quartieri più periferici. A leggere gli atti del convegno, impressiona un altro dato: a fronte di circa 6 mila universitari che vivono in centro storico, i veneziani tra i 19 e i 25 anni non superano i 3 mila. L’Esu (l’Ente regionale per il diritto allo studio) garantirebbe non più di 720 posti letto, cui si andranno a sommare altri 1170 letti, una volta che saranno completati i campus a San Giobbe e a Santa Marta in centro storico e in via Torino a Mestre. I numeri non lasciano scampo. Di fronte alla proposta del Rettore, le associazioni di B&B si sono dette subito d’accordo, così come la nuova piattaforma di “turismo sostenibile” FairBnb, per non parlare dell’amministrazione comunale che annaspa nel vuoto. Più cauti i responsabili di Airbnb, che devono far fronte al nervosismo delle città storiche di mezzo mondo, comprese le reiterate minacce di tassazioni e limiti drastici. Il Rettore si dice pragmatico: «Affittare agli studenti sarebbe una soluzione win-win: la città tornerebbe ad essere abitata, seppur temporaneamente e i proprietari rassicurati sulla possibilità di
recuperare gli immobili e di avere nel frattempo un’entrata che ora hanno perduto». Ma soprattutto, aggiunge, «si potrebbe creare un circolo virtuoso, per cui molti di quei giovani si potrebbero fermare, se nel frattempo si creassero spazi professionali e nuove filiere economiche». Ai veneziani c’è voluta una pandemia per farsi dire l’impensabile. E così la proposta del Rettore è finita sul New York Times. Solo il 26,5% di chi acquista una casa lo fa per viverci. Per un altro 26 è un investimento «Nei giorni successivi al lockdown, i portali immobiliari hanno cominciato a rimpinguarsi di annunci. È durato una settimana. Poi, questa folata di case disponibili si è ritirata. Una mossa forse per scansare un effetto bolla ed evitare che l’offerta facesse scendere i prezzi». Luca Velo insegna urbanistica sempre allo Iuav ed è un attento osservatore delle dinamiche residenziali della città. In altre parole: «Le agenzie hanno pacchetti nuovi di case, ma non li mettono in vetrina. D’altra parte, sono in molti a non avere urgenza di vendere, perché spesso hanno due o di più immobili. E, vista la crisi, hanno deciso di metterne uno sul mercato, ma con cautela». Sempre in quel convegno del 2018 ad Architettura, si veniva a sapere che a Venezia solo il 26,5% di chi acquista una casa lo fa per viverci. Per un altro 26 è un investimento. E per un altro terzo è seconda casa. L’urbanista Laura Fregolent lo aveva spiegato cosi: «La sfida di oggi non è semplicemente come gestire il turismo a Venezia, ma di come gestire Venezia con il turismo». L’epidemia ha risolto, per il momento, una delle due variabili del quesito. Ma resta quella centrale: come gestire Venezia. Da sempre la parola d’ordine è fermare l’esodo e attrarre nuovi residenti. Più di vent’anni fa, l’Osservatorio Casa del Comune di Venezia aveva consegnato all’amministrazione un’indicazione strategica: il social housing. La scommessa era quella di permettere a un’ampia fascia sociale (e generazionale) di tornare ad abitare anche in centro storico: persone che non rientrano nelle condizioni per le liste di edilizia popolare e allo stesso tempo non possono permettersi i prezzi di mercato. Vent’anni dopo, un altro Osservatorio Casa, che si fa chiamare “Ocio”, questa volta creato dall’attivismo civico, ha dimostrato come quella strategia sia stata sterilizzata sul nascere. In due decadi, dei 13 progetti annunciati, solo 3 sono stati realizzati e in uno sono scomparsi tutti gli alloggi a edilizia calmierata. Social housing: in due decadi, dei 13 progetti annunciati, solo 3 sono stati realizzati E «anche nei 3 casi in cui gli alloggi sono stati consegnati, non si può sempre parlare davvero di successo», si legge nel rapporto dell’Osservatorio. Un esempio? «Alla Giudecca, per l’area Junghans ci sono voluti 18 anni e 11,6 milioni di euro in contributi pubblici per passare dall’annuncio del concorso alla consegna delle case. Nella convenzione iniziale inoltre erano previsti 137 appartamenti in vendita e 37 in locazione a prezzi convenzionati. Dei primi, solo 80 sono stati effettivamente venduti al prezzo concordato. Quelli in locazione sono invece scomparsi del tutto».
Oggi, nessuno parla più di social housing. Giancarlo Ghigi è uno dei fondatori di Ocio: «In questi anni le proposte si sono spostate su soluzioni in project-financing o in progetti di cooperative che costruiscono e lasciano i residenti come usufruttuari a vita. Ma sembrano tutte molto aleatorie. Credo che nessuna soluzione sia realistica senza una regia e un investimento pubblico massiccio, che riporti la casa nella sfera del welfare». Dopo tutto quello che è successo, potrebbero cambiare le politiche pubbliche? Il buio è totale e non ci sono finora segnali nemmeno dai candidati che si disputeranno le elezioni a settembre. E così la città sembra fluttuare in un’interminabile apnea. Le case rimarranno chiuse e irraggiungibili? Luca Velo è pessimista: «Credo che chi ha appartamenti se li tenga stretti. La maggior parte aspetterà, prima di tutti chi ha davvero investito in grandi proprietà con enormi capitali. Aspetteranno, anche fino al 2022. Aspetteranno, finché non ripartirà il flusso di turisti. E ripartirà. E temo sarà predatorio, più di prima». Partecipa al bando per un post-doc alla Vrije Universiteit di Amsterdam in scienze umanistiche Ursula Biemann Ursula Biemann è un’artista, scrittrice e video artist che vive a Zurigo. La sua ricerca è orientata verso luoghi remoti dove investiga la politica ecologica del petrolio e dell’acqua. Ha esposto in importanti musei in Europa e nel mondo.
Lottare per l’impossibile, ovvero prendersi cura del paesaggio rurale siciliano Un anno e mezzo fa sono tornato a vivere ad Alcamo, la mia città natale in Sicilia, dove curo Landescape, un’istituzione d’arte contemporanea che organizza mostre, ospita residenze artistiche e progetta laboratori. Ci sono tornato dopo alcuni anni vissuti a Milano, dove seguendo un Master in Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e partecipando attivamente all’assemblea di Macao, nuovo centro per l’arte, la ricerca e la cultura di Milano, ho contribuito allala conversazione sul tema dei beni comuni: un percorso sulla loro proprietà, il loro utilizzo e la loro natura. Tutto ciò è andato avanti fino a gennaio 2018, quando dopo aver lavorato alla Guida Galattica per Nuove Istituzioni, la campagna per negoziare la presenza di Macao all’interno degli edifici comunali di viale Molise 68, mi accorsi di essere stanco. Non ne potevo più di organizzare eventi per finanziare la vita e i progetti di Macao: era diventata una macchina tritacarne, e non ero disposto a lavorare per poche centinaia di euro pur di poter continuare a vivere a Milano. Così, ho deciso di tornare nel mio paese. LO SPAZIO È RIDONDANTE In Sicilia il paesaggio urbano occupa a malapena i bordi dell’isola — si infittisce soltanto attorno alle grandi città. La costa è una corteccia continua di case di mare, cemento, e sabbia. Il paesaggio rurale, invece, è un’immensa distesa di terra su cui insistono, a sorvegliare il nulla, le case di campagna. Esistono più case di quante sia possibile abitare e per ogni abitante esistono molti più spazi di quanti ne siano effettivamente utilizzati.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape. La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti continui per conservare il loro valore, ed è così che — tra le pieghe dell’accumulazione di capitale e dell’investimento senza cura — si fa spazio la distruzione stessa del sistema. Nel frattempo, la proprietà pubblica sopravvive grazie ad iniezioni di capitale europeo lasciando sul territorio dei mostri di cemento nell’attesa che qualcuno suggerisca una destinazione d’uso o semplicemente qualcosa da farci. L’attuale stato della aree rurali è una diretta conseguenza del ruolo eccessivamente centrale dell’agricoltura come motore di sviluppo economico prevalente. Nel corso dei secoli, l’intensificarsi della produzione industriale e la crescente urbanizzazione hanno reso le aree rurali un bacino da cui prelevare forza lavoro da trasferire nei centri industriali e cittadini. Fuori da fabbriche e condomini delle aree metropolitane della piattaforma economica continentale, la Sicilia, così come altre regioni europee, è relegata alla marginalità: bassa densità di popolazione, emigrazione, bassi livelli di reddito, poche opportunità di lavoro, mancanza di investimenti pubblici e privati, distanza geografica dai centri e povertà di servizi sono solo alcuni dei problemi che condannano queste aree ad un declino economico, sociale e culturale, tale da sembrare inevitabile. La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti continui per conservare il loro valore. È a partire da questo scenario che nel 2015, poco prima di partire per Milano, insieme al mio caro amico Giuseppe Calamia abbiamo fondato Landescape: un progetto che allora era principalmente
volto a portare in Sicilia pratiche audiovisive e performative sperimentali che ragionassero sul paesaggio e sull’ambiente naturale. Nella sua prima forma il progetto venne fuori come una rassegna super punk all’interno della Riserva Naturale del Bosco d’Alcamo, successivamente abbiamo trovato ospitalità all’Orto Botanico di Palermo. La nostra proposta era ingenua, ma spontanea: per una notte l’Orto Botanico di Palermo si popolava di performance e installazioni che avevano a che fare con l’arte contemporanea. Landescape si è manifestato in questa forma per 3 edizioni, la prima ad Alcamo, durante le quali abbiamo incassato un sacco di critiche perché i modi erano dilettanteschi. Per quanto provassimo a replicare modelli di produzione artistica che in altri contesti avevano funzionato, in Sicilia tutto diventava molto difficile. Infatti era ed è difficile dare un valore economico a queste esperienze culturali, trovare maestranze e professionalità in grado di realizzare i progetti che immaginavamo, fare i conti con un pubblico che non conosce quello che nel quadrante di Milano, Berlino, Parigi, Londra è normale — se non addirittura banale. Il 2018 è stato uno spartiacque. Una volta ristabilito definitivamente in Sicilia il centro delle mie operazioni, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una strategia per sopravvivere. Mi buttai a capofitto nella natura e nel paesaggio, l’unica cosa che riuscisse a calmare i miei stati d’animo inquieti: un giorno sì e l’altro pure controllavo il costo dei biglietti per tornare a Milano. Più andavo avanti e più entravo nel paesaggio rurale, più comprendevo che era esso stesso a suggerirmi la strategia. Mi si apriva dinnanzi una prospettiva tanto desolante quanto eccitante: processi da iniziare e spazi da occupare. L’esperienza sul campo a Macao mi aveva insegnato che là dove ci sono spazi da occupare è necessario attivare dei processi di cura collettivi per rivendicare diritti di libertà, sociali e culturali. Inoltre ho anche avuto modo di capire che senza una una garanzia istituzionale, presto o tardi i processi attivati non sopravvivono alle logiche del mercato della produzione culturale.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape. Il 2018 è lo stesso anno in cui arriva Manifesta a Palermo. L’Orto Botanico, dove noi eravamo presenti, diventa una location centrale per la biennale.Sfrattati da Palermo, decidiamo di tornare ad Alcamo e di cambiare completamente ciò che stavamo facendo, mettendo in relazione il capitale territoriale locale con quello umano costruito negli anni passati a Milano. Una nuova fase per il progetto Landescape si apriva grazie alla condivisione delle fatiche e della progettazione con un altro caro amico, Francesco Stabile. Insieme, ad Alcamo, abbiamo creato una residenza artistica dove da ottobre 2018 ad oggi abbiamo ospitato più di 70 artisti, attivisti, professionisti della produzione culturale, prodotto 35 eventi tra mostre, concerti, workshop, party e talk, utilizzato 20 diverse location pubbliche e private, moltiplicato per 10 il budget di produzione, messo in rete più di 30 aziende locali dell’agroalimentare, dell’artigianato, del turismo e dell’edilizia. Non sono grandi numeri, ma per Alcamo — un paese di 45.000 abitanti in provincia di Trapani — si tratta di un traguardo che non avremmo mai pensato di raggiungere e in parte è stato possibile grazie alla garanzia economica del Comune del paese ed il continuo flusso di artisti. LA CASA VICINA AL BOSCO Ma budget e artisti non sarebbero bastati a far sopravvivere ciò che stavamo facendo: guardando indietro, il reale valore che abbiamo generato è quello che deriva dalla cura delle relazioni tra i vari attori coinvolti. In queste relazioni sono inscritte le esperienze di azioni fatte insieme, che diventano memorie e vissuti in grado di alimentare l’orizzonte immaginario verso cui tendiamo nell’incessante sforzo di sovvertire il reale. Queste relazioni e questo stare insieme avevano bisogno di una casa Così abbiamo creato uno spazio, si chiama Posto Segreto, un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e mandorle. PS è fondamentale nell’infrastruttura che stiamo creando per assicurare una base sicura a tutti quelli che fanno parte del nostro network, ma al contempo creare un’opera d’arte vivente che rappresenti il tentativo incessante di migliorare le nostre condizioni di vita. È per questo motivo che siamo ripartiti dalle basi di tutte le micro-società primitive: alimentazione e relazioni umane. Abbiamo messo a sistema il network di contadini,produttori locali e artisti in residenza per fare di Posto Segreto lo snodo principale di questa rete. Puoi passare per scambiare prodotti, organizzare una cena, fermarti a dormire, lavorare nei campi, ma soprattutto incontrare i forestieri. Posto Segreto è un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e mandorle, oltre che lo snodo principale di un network di contadini, produttori locali e artisti in residenza. L’incontro tra i locali e gli artisti che invitiamo genera delle energie inaspettate dal quale spontaneamente si creano situazioni confortevoli in cui ciascuno è libero di esprimersi come meglio crede. È così che è nato il progetto di rigenerazione del MACA, il Museo d’Arte Contemporanea di Alcamo: frutto dell’incontro esplosivo tra Landescape e R.I.S.A. – Research Institute for Spontaneous Action, che abbiamo fondato insieme a Giovanni Bozzoli e Alessandro Veneruso e che oggi include anche Anna Brussi, Francesca Maciocia, Federica Carenini, Francesco Stabile e Vitaly Weber. Contestualmente Landescape è diventata un’associazione e oggi conta una ventina di membri. Fare questi nomi e ripercorrere certe tappe non è semplice narcisismo, ma è il tentativo di ricostruire quel complesso reticolo di relazioni senza le quali questa storia non si potrebbe raccontare.
Insieme abbiamo immaginato Alcamo come un campo da gioco in cui gli attori, i luoghi, i materiali, i medium nonché le relazioni che si stabiliscono tra di loro disegnano una mappa. In questo senso natura, rurale, folklore, cultura culinaria e religione sono quelle aree tematiche che raccontano lo spirito di Alcamo. Allo stesso tempo diventano il contesto all’interno del quale invitare un artista a rappresentare il contemporaneo e la stretta connessione con la tradizione della popolazione autoctona. Gli artisti coinvolti sono invitati a partire dalla necessità di creare una prossimità tra la loro opera e gli altri attori coinvolti – fruitori museo, artisti locali, privati fornitori di materiali, proprietari delle location, istituzioni, professionalità dell’arte, media. Ciò assicura che l’intervento possa effettivamente entrare in relazione con la città e la sua comunità. Foto per gentile concessione di Cavestudio / Landescape. NUOVE MITOLOGIE PER VECCHIE ISTITUZIONI Mentre io sogno di vedere funzionare un Museo d’Arte Contemporanea nel paesaggio rurale, mio nonno — come molti altri siciliani — sognava di realizzare una cantina all’interno di “ ‘u macasenu ” di campagna. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata, per questo sto scrivendo una mitologia che racconti il paesaggio contemporaneo, i suoi attori e i suoi rituali. Questo racconto inizia il 1° maggio 1947, la data dell’eccidio di Portella della Ginestra: quando uccisi i contadini che manifestavano contro il latifondismo a favore dell’occupazione delle terre incolte e festeggiavano la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti, alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana. I braccianti si erano uniti attraverso l’intera isola per rivendicare la proprietà delle terre incolte e la loro redistribuzione, ma il movimento venne represso nel sangue. Pochi anni dopo, nel 1950, viene approvata la riforma agraria, che… prende il via in tutta Italia grazie alla spinta prorompente che arrivava dalle lotte del
movimento contadino siciliano. Ma in realtà questa storia è quella di una rivoluzione annunciata ma inattuata — come impedita da qualcosa di inatteso. Ad Alcamo, tutti gli anziani che incontro mi dicono che in effetti negli anni ‘50 la rivoluzione vera è un’altra: resine melammina-formaldeide, poliestere, nylon, polietilene, polipropilene isotattico: il boom economico. Da quel momento nessuno avrebbe dovuto più temere “‘u pitittu” e gli odori che esalavano dai fuochi accesi nelle campagna cominciavano a sapere di morte. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio, necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata. È a questo punto, però, che si scopre che il consumismo come nuovo modello di sviluppo economico non assicura la creazione di ricchezza. I braccianti agricoli, infatti, facevano ancora la fame perché sostituiti dai trattori: appendevano le zappe ai muri e decidevano di partire con destinazione il Nord. A cavallo degli anni ‘60 e ‘70, un nuovo modello di sviluppo economico si diffonde su tutta l’isola: l’abusivismo edilizio. In quegli anni chi disponeva di un po’ di capitale o di qualche garanzia per ottenere un prestito comincia a costruire case improbabili, villette sulla sabbia e palazzi a tre-piani; di cui se andava bene terminavano il piano terra e il primo piano, mentre gli altri due li destinavano ai figli lasciandoli incompiuti. Basta fare un giro ad Alcamo, oggi, per trovare centinaia di esempi di incompiuto nelle zone di nuova espansione: è un paesaggio che si estende dalla pedemontana alle zone costruite dopo il terremoto del ’68 — da Alcamo Marina alle arterie che portano al mare. Piani di cemento su piani di cemento che aspettano figli che non vogliono più tornare a casa. Quest’opera di deruralizzazione della Sicilia è collegata all’attesa della rivoluzione borghese industriale, che non è mai avvenuta e mai avverrà. Il paesaggio porta i segni di questa attesa vana e nel cemento, che ancora oggi scorre a tonnellate, ha trovato la propria cura. Ma la modernità ha una data di scadenza, quella della durata del cemento. Rapidamente, ecco arrivare una nuova rivoluzione a promessa di un futuro roseo. È il 1992 e l’Italia promette ai suoi partner europei di diventare un membro virtuoso e accede al club dei paesi che avrebbero introdotto l’Euro, la nuova moneta, per amplificare e aumentare la velocità degli scambi commerciali tra gli stati nazionali europei. Le aree rurali diventano la meta di un modo di fare turismo integrato alla agri-cultura locale, e l’opportunità si trasforma presto in modello di sviluppo. È così che assistiamo, negli ultimi anni, alla proliferazione degli Airbnb che promettono accesso al mare e wi-fi gratuito, di escursioni in natura con quad e motoscafi fiammanti, di vendemmie per giovani tedeschi e workshop di “maccarruna cu la sarsa” per francesi rompicoglioni.
Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape. In questo disegno niente va messo da parte, il modello consumista e il patrimonio immobiliare costituiscono l’infrastruttura materiale su cui gira questo modello di sviluppo contemporaneo, mentre la agri-cultura, il patrimonio immateriale di conoscenza da cui attingere per dare una parvenza di realità alla nuova economia. Pre-post Covid-19, un nuovo medioevo È in questo scenario che un pattern si fa evidente: l’orizzonte rivoluzionario di cui ha sempre vissuto la Sicilia si trasforma ciclicamente nel motore principale della sua marginalizzazione. I processi di sviluppo economico si finanziarizzano rapidamente e generano, nuovamente, la domanda di un’altra rivoluzione. Nel frattempo, tutto rimane uguale. La storia della capacità del capitale di territorializzare qualsiasi cosa non è, ovviamente, solo siciliana: nel mondo pre-Coronavirus lo stesso sentore lo si stava avendo con il montante movimento ecologista, invischiato nelle contraddizioni emerse a causa dei compromessi che ne hanno facilitato proprio la diffusione. Tra mercificazione in slogan, e prodotti, moda e comunicazione diventa chiaro il problema di una di una lotta che non si auto-organizza e prende per buona l’infrastruttura del sistema stesso che combatte. La domanda circa quale lotta ingaggiare, come organizzarla e con quale strategia è al centro di tanti progetti che come istituzione culturale promuoviamo, nelle premesse e nell’approccio Prima della quarantena insieme a RISA, il Dirty Art Department del Sandberg Instituut e a Macao stavamo progettando la terza edizione della residenza artistica Wandering School: immaginavamo un intervento spontaneo all’interno della settimana del Fuorisalone che rappresentasse a livello simbolico, estetico e speculativo lo snervante fatica di tutti i precariche non riescono a mettersi
insieme, in quanto divisi dai processi produttivi che li mettono in competizione tra di loro. Della pratica di quel progetto, per ora, non se ne farà nulla — ma le premesse sono ancora lì, esasperate dall’esplosione della pandemia. La parola del momento è together, e non posso nascondere che anche io la uso parecchio. È lo slogan principale della campagna elettorale di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e che già sappiamo essere sacrificabile sull’altare del progressismo di sinistra bianco e maschilista, rappresentato da Joe Biden. La stessa parola può essere riciclata come slogan delle nuove pubblicità di Vodafone. Per diventare, infine, il mantra anaffettivo di tutti i politici di destra o sinistra, a cui gli studi di comunicazione suggeriscono come entrare nella testa delle persone. Foto per gentile concessione di Giovanni Bozzoli / Landescape. Con la definitiva sconfitta del movimento operaio, e la contestuale trasformazione delle persone in monadi votate al consumo, la socialità, il semplice stare insieme, diventa un bene da consumare, accompagnato da un po’ di intrattenimento culturale. L’aver reso la socialità e la cultura beni di consumo ha di fatto neutralizzato le intenzioni degli artisti, degli attivisti o di quanti in questi anni hanno creduto di star facendo arte politica. L’ipocrisia del sistema di produzione culturale è venuta definitivamente a galla quando una volta chiusi bar, teatri, club, cinema, musei, centri culturali ecc., abbiamo di fatto scoperto la natura non essenziale di un certo tipo di lavoro culturale. Il semplice e spontaneo stare insieme diventa il campo dove condurre lo scontro. Per questo motivo, con gli amici di sempre, oggi, più che mai si litiga; è difficile fidarsi, la competizione e la frustrazione si insinuano in tutte le comunità. I nostri privilegi, piccoli o grandi che siano, sono allo stesso tempo l’ostacolo e l’opportunità di un miglioramento del nostro stare insieme. Per questo non ci si può abbandonare alla depressione della telecomunicazione: i corpi scalpitano, ardentemente desiderano
stare insieme, lottare e farsi comunità. Curare il comune oggi è in teoria impossibile, e per questo sollecita una pratica risoluta che sa che tempo e spazio sono limitati. Questo conflitto è interiore, dell’individuo contro se stesso, della propria coscienza contro la propria morale. A partire da questa consapevolezza, spesso tradita, i discorsi contemporanei rivendicano giustamente migliori condizioni di lavoro e più reddito. In realtà in gioco c’è la sopravvivenza della comunità, che allo stesso tempo è la piattaforma da cui avanzare successive rivendicazioni. Prima del Coronavirus immaginavamo di fare di Posto Segreto per questa stagione il centro di una serie di workshop, performance ed eventi. La pandemia ha chiesto una modifica della strategia sul breve periodo. Adesso, come i monasteri nel Medioevo per il mondo che verrà ospiteremo i pellegrini. Stiamo sognando Non si salva il cinema con lo streaming, serve progettazione culturale e anche un po’ di utopia Si registra di questi giorni un susseguirsi di progetti e di iniziative riguardanti il cinema che prova a superare il momento di emergenza. Quale fosse la situazione ce lo ha già detto, in un puntuale articolo su questo sito, Roy Menarini che fotografava bene quanto stava avvenendo, sia a livello di produzione che di distribuzione, sale e festival. Due settimane fa, invece, la rivista “Film TV” ha pubblicato uno speciale davvero dettagliato in cui si sono potute sentire le voci di vari operatori. La situazione è davvero emergenziale e soprattutto si è abbattuta sul settore improvvisamente e con poche garanzie riguardanti il prossimo futuro. E così tra timide aperture e le speranze riposte nell’autunno, la risposta sembra essere piuttosto univoca: streaming. Ecco, però, streaming non significa un po’ nulla… streaming… Quale? Come? Su quale piattaforma? Con quale idea di cinema? Secondo quali modalità? Con quale ingegnerizzazione? Verso quale pubblico? Prevedendo quale tipo di fruizione? Domande spesso inevase e rimandate a un “vedremo” che non promette niente di buono. Lo streaming non può essere lo strumento
per tamponare aspettando una normalità a venire Il punto è che lo streaming non può essere lo strumento per tamponare aspettando una normalità a venire (dopo che, tra l’altro, è stato trattato come nemico del cinema vero). Senza un’accurata progettazione culturale nei mondi (troppo spesso sconosciuti) del digitale, si rischia di produrre male, e soprattutto di perdere l’occasione di una vera rivoluzione nel settore che sia in grado di porre le basi anche per un rilancio. Anche perché – diciamocelo chiaramente – non è che prima dell’emergenza non ci fosse crisi, e così, in una dialettica perversa in cui emergenza rincorre crisi, si rischia solo di rinviare il momento di un crollo generalizzato. Streaming rischia di essere la classica parola vuota che cela, spesso, una certa insipienza e una difficoltà progettuale (prova ne è che nessuno del settore ha recapitato al ministero di competenza la richiesta di un patto infrastrutturale sulla rete, presupponendo così di fondare questa nuova stagione emergenziale su una differenza di classe basata sul digital divide). E non voglio nemmeno citare l’idea del drive-in (che fortunatamente sembra essere accantonata): in un paese che sta soffrendo una delle più gravi crisi di intossicazione dell’aria un bel ritorno all’automobile è proprio quello che ci mancava. Ma ritorniamo allo streaming… siamo sicuri che dopo mesi di telelavoro e telescuola abbiamo ancora le forze e le pupille per stare davanti a uno schermo casalingo a vedere film? Probabilmente si… e gli oculisti ringraziano. Ma anche gli psichiatri, dato che è ormai certificato il nesso tra ansie, nausee e veri e propri attacchi di panico legati a questo imponente uso. Ma tant’è! Anche negli interventi di direttori di festival o di esercenti ciò che ricorre maggiormente è un senso di frustrazione misto a speranza. Eppure un operatore culturale anche quello dovrebbe fare, essere aggiornato, guardare, interrogarsi sullo statuto del cinema. Anche perché – come si diceva – non che prima si navigasse in buone acque… ma al di là di qualche sterile dibattito su film di Netflix si e film di Netflix no che ha investito, per esempio, il festival di Cannes… poco o nulla. Ora tutti a correre verso… lo streaming. Niente riflessione sulle piattaforme, sulle tecnologie. Andrebbe posta la questione tecnologica assieme a quella culturale Andrebbe posta la questione tecnologica assieme a quella culturale. Anzi le due sono di per se stesse legate inesorabilmente. Non si può davvero pensare a una mera funzione strumentale della tecnologia. In molti si stanno accorgendo di come il digitale sia in grado di strutturare un legame solido tra archivi, fondi ed educational. Si può immaginare una macchina in grado di dialogare con le scuole, di sfruttare le sue piattaforme per inaugurare una nuova fase di rifunzionalizzazione degli archivi, per pensare megari anche alla didattica a distanza, alla digitalizzazione e la archiviazione (anche qui, si fa presto a dire streaming live e registrato ma poi come lo si archivia, dove lo si cataloga, con quali strategie secondo quali norme). Per ricollegarsi al territorio in maniera nuova, ponendo in essere la questione del sistema culturale.
Partendo da una digitalizzazione avveduta si può connettere luoghi e tempi diversi per immettere il cinema in un nuovo discorso culturale. Bisogna avere una visione e poi le capacità di fare network invocando un nuovo patto culturale tra musei, biblioteche, scuole, università, spazi pubblici, beni culturali. Solo così si difende oltre che il valore culturale di questa produzione anche il lavoro di chi opera nel settore, rilanciandolo, non provando a bloccare le falle. La giusta visione può coniugare la giusta riflessione sul cinema come industria, sulla tecnologia e sul cinema come statuto. Vent’anni fa l’avvento della prima vera ondata digitale ha generato il dibattito sul tema della “morte del cinema” con interventi interessanti, come quelli di Peter Greenaway che ne sanciva la fine celebrando invece la nuova alba dei film. Di contro Raymond Bellour tagliava corto affermando che il cinema è solo la proiezione in sala! Oggi la si può porre la questione? Stiamo affidando temporaneamente alla “morte del cinema” la sua sopravvivenza? Io non lo penso, però sarebbe bello che si generasse un dibattito, una sincera attenzione critica (che è poi quello che musei e festival dovrebbero fare). Magari per organizzare provocatoriamente un festival a porte chiuse che salvaguardasse lo statuto del cinema. Utopia? Certo! Un festival a porte chiuse che salvaguardasse lo statuto del cinema. Utopia? Certo! L’altra strada sarebbe invece adottare una progettualità riferita alla mancanza della sala, alle sue opportunità e alle possibilità tecnologiche che certo non si riassumono semplicemente nello streaming. Nessuno può estrarre magicamente le risposte dal cilindro ma certo sarebbe bello avviare un dibattito, una riflessione, sarebbe vitale pensare ad alcune opzioni. Magari prendendo esempio da chi come il festival SouthbySouthWest da anni mette insieme informatici e sviluppatori di game, artisti di digital art e registi creando così un momento di riflessione e di scambio davvero vivificante e progettuale. Un’operazione che fanno anche il Sundance e il Tribeca. Ma la stessa storia del cinema ci ha regalato importanti riflessioni e pratiche legate a una diversa prospettiva. E non si tratta solo del cinema d’avanguardia e sperimentale come ci ricordava Bruno Di Marino in un pezzo di qualche giorno fa. Mi viene anche in mente il pensiero di RobertoRossellini per un cinema televisivo ed educativo (e noto che in queste settimane da molte parti si invoca un nuovo patto tra area dello spettacolo e della cultura e area formativa ed educazionale). L’Expanded Cinema teorizzato da Gene Youngblood o il Future Cinema di Jeffrey Shaw e Peter Weibel (ma la lista potrebbe comprendere le riflessioni “futurologiche” di René Berjavel o Alvin Toffler). Ma anche l’utopia del cinema elettronico che ha animato il dibattito tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 e che ha potuto avvalersi di interessanti questioni poste da registi quali Francis Ford Coppola e Michelangelo Antonioni. Un altro percorso ancora potrebbe essere quello di organizzare dei tavoli di lavoro con chi, per sua stessa natura, pensa al digitale, sviluppa, crea, realizza app e piattaforme… penso all’industria del gaming che tra l’altro dedica parecchio spazio alla questione della narrazione. È un’industria presente sul territorio, anche piuttosto sviluppata, e può contare addirittura su un’associazione di categoria (IIDEA, ex AESVI).
Organizzare dei tavoli di lavoro con chi pensa al digitale… penso all’industria del gaming Non mi pare che siano stati avviati tavoli di lavoro con loro, eppure avrebbero parecchio da dire nell’ordine anche della creazione di ambienti virtuali, sale avatar da funzionalizzare in una chiave diversa. Saprebbero anche indirizzare verso l’uso della Realtà Virtuale che potrebbe, in parte, rivitalizzare la visione cinematografica offrendo anche la condivisione (multiplayer) e l’immersione al buio tipiche della sala e che invece nello streaming sarebbero irrimediabilmente perse (molti operatori culturali stanno cominciando a rivolgersi a Twitch la web TV dei gameplayer per la sua funzionalità… perché non sperimentare qualcosa in quella direzione?). Ci sono anche piattaforme italiane che forse sarebbe interessate a ospitare progettualità in questo senso, penso a VR Stories di PlayStation Italia e Rai Cinema VR. Ma ci sono anche parecchie aziende che si occupano di Realtà Virtuale, Aumentata e Mista sul territorio italiano che in questo momento stanno cercando nuove idee e nuovi territori… qualcuno le ha sentite? È stato realizzato un collegamento? Certo non gli si può andare a chiedere di fare lo streaming… Perché pensare allo streaming come un mezzo ponte per ovviare alla mancanza della sala non funziona. Streaming significa accedere a un sistema diverso e a una serie di opzioni che presuppongono, per esempio, una comunicazione differente e diverse forme di convergenza. Non significa entrare in un sistema che ci ospita per qualche tempo e finita lì. Le cose non stanno proprio così: si entra in un territorio (che non è neutro) con pubblici, regole, composizioni diverse. Che si avvale di caratteri diversi e che quindi può essere sfruttato al meglio solo assecondando una visione programmatica. L’esempio migliore in questa direzione è stata l’idea di legare le sale alle proiezioni su una piattaforma ormai certificata come Mymovies. Progetto ottimo che si smarca dall’idea un po’ qualunquista di dire semplicemente “streaming”. Streaming sì, ma con idee e una prospettiva, legandosi a un progetto di virtualizzazione della sala che, a dire il vero, Mymovies porta avanti già da un po’ e che non significa solo creare una sala virtuale ma, in questo caso, anche collegare la rete delle sale alla possibilità di essere ad accesso virtuale. Mymovies sta accompagnando il cinema da anni lavorando anche sulle proiezioni on-line sostenute, però, da una non comune attenzione al cinema d’autore e indipendente e da un apparato critico in grado di rivitalizzare anche le sale e i festival. E la stessa cosa si può dire di una rivista come “Film TV”. In entrambi i casi abbiamo una visione che, pur rimanendo cinefila, è stata in grado di dare attenzione a forme e pratiche diverse, di incorporarle di farne materiale critico. Ecco le due anime possono assolutamente coesistere, così come la sacrosanta azione di salvaguardare i posti di lavoro, ma proprio per dare respiro a queste pratiche bisogna avere il coraggio di guardare oltre, di ampliare la visione, di mettere in discussione le posizioni. Immagine di copertina, Le Nozze di Cana di Paolo Veronese: una visione di Peter Greenaway
L’arte ci aiuta a sopportare l’isolamento, per questo abbiamo bisogno di un recovery fund culturale La solidarietà si è messa in moto anche in campo artistico in questa stancante situazione di emergenza. Se da una parte musei grandi e piccoli si sono fin da subito ingegnati per continuare la loro missione culturale attraverso gli strumenti social, gli artisti contemporanei, soprattutto gli street artist, hanno dimostrato di voler essere uno degli attori di questa fase storica. Come? Partecipando alla vita delle loro città, mettendo all’asta opere per finanziare ospedali o altri progetti di beneficienza legati all’emergenza e facendo quello che sanno fare meglio: rappresentare, dando una lettura di questo nostro momento di disagio, per continuare a nutrire l’immaginazione e stimolare la riflessione nelle persone. Su queste due linee si muove l’arte durante l’emergenza: garantire conoscenza e diffusione delle opere e partecipare alla vita collettiva, raccogliendo fondi e raccontandola. I musei italiani e stranieri si sono ingegnati per permettere agli utenti di continuare a sognare, interagire, divertirsi, imparare e stupirsi tramite le loro collezioni. Hanno provato a governare la fragilità della vita collettiva per trasformarla in risorsa. Il sistema dell’arte istituzionalizzata ha trasferito alcune attività su internet, creando tour virtuali nei musei, ampliando il catalogo di opere sui siti, continuando l’attività di didattica dedicata ai bambini (che aiuta anche i genitori a gestirli). Queste iniziative hanno provato ad alimentare la trasformazione della fruizione culturale ed hanno dato vita ad un nuovo modo di pensare la fruizione, prima assolutamente marginale, ma che si può immaginare diventerà la modalità “ordinaria” di accesso al patrimonio culturale, almeno nella prima fase del post-epidemia, quando viaggiare ancora sarà sconsigliato e le persone reticenti a farlo. I veri protagonisti dello scambio tra mondo della cultura e cittadini sono i social media I veri protagonisti dello scambio tra mondo della cultura e cittadini sono però i social media, sia per la comunicazione fatta direttamente dai vari istituti (spiegazioni di opere e luoghi fatte da curatori, personale del museo, direttori) sia per le iniziative che hanno coinvolto, con notevole successo, il pubblico sui social media.
Le iniziative sono le più varie ma hanno in comune il voler avvicinare le persone alle collezioni e ai luoghi culturali con linguaggi differenti da quello classico di spiegazione, più affini alla leggerezza dei mezzi e più vicine alle sensibilità degli utenti. (Qui per le iniziative promosse dagli istituti Mibact). Diverso e complementare è invece il ruolo dell’arte contemporanea in generale e degli street artist in particolare. Questi hanno raccontato e interpretato la crisi attraverso le loro opere regalate ai muri delle città ma anche continuando a veicolare i loro messaggi su internet perché l’arte in strada non è più facilmente fruibile. (qui un servizio di focus sull’arte di strada dedicata alla quarantena). Ma sono stati soprattutto protagonisti della solidarietà verso ospedali ed enti no profit. Lo strumento innovativo utilizzato è stato quello delle aste di beneficienza attraverso Instagram. Gli artisti, da soli o con il supporto delle Gallerie, hanno organizzato su profili o ricorrendo ad # delle aste, i cui proventi non transitano sui loro conti, ma vanno direttamente all’ente o associazione destinataria. Queste iniziative testimoniano la solida rete presente nel mondo dell’arte “spontanea” e l’attenzione verso il contesto sociale di riferimento. Se in alcuni casi le iniziative si sono svolte in sostegno di enti nazionali o lontani dal contesto locale di riferimento (ospedale Spallanzani, ospedali civili di Brescia, Croce Rossa), più frequente è stata la dinamica cittadina, la volontà di venire in auto ad un certo territorio con iniziative locali connotate da un forte impatto sociale (come #streetartistperfirenze; #unitiperbologna, a cui hanno partecipato anche tattoo artist) promosse da artisti cittadini, principalmente con la partecipazione di altri artisti cittadini, anche molto noti. Una di queste in particolare (#unitisisvolta) ha il merito di aver promosso un’asta per aiutare il tessuto sociale più debole, quello di cui meno ci si ricorda ma che vive nelle condizioni peggiori, raccogliendo fondi in favore di persone che non hanno una casa, vittime di violenza, tratta, sfruttamento lavorativo o escluse dai percorsi di accoglienza. Le aste sono trainate da street artist e artisti già affermati, ma sono anche un modo per arricchire il panorama artistico dando spazio al percorso e al lavoro di artisti meno conosciuti, che hanno così l’occasione di farsi notare, e sono accomunati tutti dalla volontà di rendere l’arte simbolo di speranza, mutuo soccorso e positività. L’arte urbana si è messa in moto spontaneamente ed ha fatto ricorso a nuovi spazi di comunicazione L’arte urbana si è messa in moto spontaneamente ed ha fatto ricorso a nuovi spazi di comunicazione per adattare vecchi strumenti di solidarietà (le aste di beneficienza) e partecipare dello sforzo collettivo contro l’emergenza sanitaria e la crisi sociale che la segue. La donazione diretta di opere da mettere in asta ha espresso così la volontà di questo mondo di trasmettere valori essenziali come quelli di condivisione, solidarietà e partecipazione. Ma chi aiuta gli artisti? Questa domanda non ha una risposta soddisfacente. Il sistema dell’arte è sicuramente uno dei più colpiti dalle misure emergenziali, perché vive soprattutto di relazioni sociali e spaziali, di presenza negli spazi pubblici e di partecipazione. La parte più fragile del mondo dell’arte è costituta da artisti emergenti, spazi no profit e piccole gallerie che una lunga inattività porta a non potersi più sostenere. Le piccole realtà artistiche spesso sono le più dinamiche del contesto cittadino, garantiscono spazi di espressione e sperimentazione ma
proprio per il loro non essere legati a filiere strutturate ne comporta la maggiore fragilità. Penso sia alle piccole gallerie che danno spazio ad artisti poco noti, sia agli artisti stessi, che come gli altri hanno dovuto chiudere gli studi e con questi la possibilità di vivere delle proprie creazioni. Alcune misure economiche sono state promosse dal Governo per provare a mitigare le conseguenze economiche dell’emergenza sul settore culturale, ma si tratta appunto di contributi simbolici, o comunque distribuiti su una platea amplissima di destinatari. (Qui per un approfondimento, anche su cosa è stato fatto all’estero). Situazione che ha portato l’arte ad aiutare sé stessa, con strumenti di mutuo soccorso tra gallerie e artisti che collaborano con loro, per rilanciare l’arte e sostenere gli artisti, come ha fatto la galleria Rosso27. Alcuni artisti hanno spostato sui canali social le vetrine dei loro studi. Lo stesso hanno provato a fare le gallerie, soprattutto le indipendenti, come la Street Levels Gallery, che si stanno organizzando per essere presenti con piattaforme on line per portare avanti la loro missione di cultura, informazione e narrazione dei progetti degli artisti. C’è bisogno di un recovery fund culturale La digitalizzazione degli spazi permette anche di assecondare le richieste di un pubblico che sembra ancora più interessato all’arte in pubblico Lo spostamento su internet della vita artistica, comprese le aste, ha infatti permesso di venire a conoscenza del fatto che alcune opere di street art si possono comprare. Soprattutto però, resistono consapevoli delle difficoltà che saranno presenti anche dopo la fine dell’emergenza, perché a causa della crisi economica che seguirà a quella sanitaria i compratori di arte potrebbero diminuire e con essi la possibilità di finanziare progetti e fare informazione culturale. Queste iniziative nate spontaneamente però non danno una soluzione definita e su larga scala a come sostenere il mondo dell’arte in generale e della street art in particolare. Soluzione che potrebbe essere cercata attraverso l’intervento di quella stessa rete istituzionale ed associativa che ha promosso l’intervento dell’arte a sostegno di chi lotta per contenere il contagio, anche facendo pressione a livello nazionale. C’è bisogno di un recovery fund culturale. Nell’America del dopo Seconda Guerra Mondiale e, ancora prima, con il New Deal, l’amministrazione americana aveva previsto incentivi statali per la cultura, perché aveva capito la necessità di vincere anche la guerra culturale oltre che quella sui campi di battaglia. Grazie a quella lungimiranza furono prodotti alcuni capolavori del cinema, come Citizen Kane (Quarto Potere). Certo, quella in corso non è una guerra, ma allo stesso modo il sistema paese non può ripartire senza un approccio anche culturale alla ripresa. C’è bisogno di una strategia che coinvolga consumatori di arte e istituzioni, perché l’arte è anche economia e ricchezza e perché dietro ad un’opera c’è una vita.
5 proposte per costruire le città dopo il Coronavirus L’attuale emergenza ci costringe a ripensare completamente le nostre città e il modo in cui ne percepiamo spazi e funzioni. Nel giro di poche settimane si sono avviati processi di cambiamento, se non irreversibili, almeno destinati a durare sul medio-lungo periodo, che ci costringono a guardare con nuovi occhi ai dibattiti e alle parole d’ordine del recente passato. È inutile girarci attorno: anni di dibattiti sulla resilienza nelle città non sono serviti a niente. Al primo shock sistemico del nostro tempo, ovvero la prima emergenza che ha colpito indistintamente tutto il mondo, nessuna città è stata in grado di opporre un piano, una strategia, una serie di misure preparate da tempo per gestire l’imprevisto prevedibile. Le poche megalopoli capaci di strutturare una risposta coerente e coordinata hanno avuto bisogno di un forte intervento dello Stato centrale per attrezzare interventi in grado di limitare i danni (con l’eccezione della città-stato di Singapore dove le dimensioni statuale e urbana coincidono). Che lezione trarre da questo? Le città hanno dimostrato quanto lo sviluppo di una nuova generazione di strategie di resilienza, in primo luogo sociale poi economica e ambientale, sia indifferibile e necessiti di un coinvolgimento attivo della cittadinanza. Non si tratta di una questione di governance, ma di sopravvivenza. Non si tratta di reclamare un ritorno alle città di prima ma di costruire in maniera collaborativa forme nuove di vivere urbano, che incorporino regole e soluzioni emerse dall’attuale stato emergenziale e le rendano elementi di base di nuovi stili di vita. Stili di vita che non è detto siano necessariamente peggiori rispetto a quelli adottati negli ultimi anni, a patto che la transizione sia supportata potentemente da idee e azioni radicali che sembravano impossibili da attuare, come sembrava impossibile costringere le nostre città a una domenica lunga mesi (se tutto andrà bene). Qui di seguito qualche soluzione su cui amministrazioni locali e comunità dovranno confrontarsi per rendere la fine del lockdown un’opportunità utile per riconsiderare radicalmente il futuro delle nostre città. Meno spazio per le auto, più spazio per le persone Mettere in pratica il distanziamento sociale richiede un intervento forte sullo spazio pubblico e sul modo in cui viviamo strade e piazze delle nostre città. Riservare più spazio ai pedoni e alle biciclette, come stanno già facendo in queste settimane Budapest, Bogotà e Città del Messico con l’allargamento delle piste ciclabili o le città della Nuova Zelanda con l’estensione dei marciapiedi, rappresenta una necessità che va accompagnata con interventi che gradualmente restituiscono alle persone la ownership di strade e piazze finora occupate prevalentemente dalle automobili. La creazione di nuovi percorsi pedonali può costituire anche un’alternativa slow ad un trasporto
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