QUARANTENA - Diatomea.net

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CINQUANTA                   SFUMATURE                    DI
QUARANTENA
Distopia in atto. La farmacia ha esaurito le mascherine.
Rimedio con un travestimento stile L’ Uomo invisibile di H. G.
Wells: sciarpa che copre naso e bocca, occhiali da sole,
guanti; manca il cappello. In tasca l’autocertificazione con
le seguenti motivazioni: passeggiata cane, rifornire il frigo.
Al rientro lavo le mani come per entrare il sala operatoria.
Andrà tutto bene.
Fine della trasmissione del 12 marzo 2020.

Stato di emergenza, quarantena, misure restrittive,
isolamento, terapia intensiva, dispositivi di protezione,
pandemia; segue un repertorio terminologico che non riporto
per intero. Queste sono alcune delle voci del lessico della
paura che ci accompagna nei giorni del corona virus.

Un vocabolario consultato senza risparmio, una fruizione
immersiva alla quale non ci si può sottrarre, data
l’eccezionalità dell’avvenimento: la pandemia.
La nostra conoscenza del mondo si era fermata alle epidemie
geograficamente circoscritte,     ma la pandemia no, non ci
eravamo ancora arrivati al giorno d’oggi e ci ha colti di
sorpresa, attoniti, disturbati da un evento planetario che ha
stravolto la nostra esistenza fatta di interconnessione
ossessiva, accelerazione del tempo voluta dalla consumazione
rapida, frequente e incontrastata di ogni possibile godimento.
Tutto e subito, senza pause tra un’attività e la formulazione
di un desiderio cui deve far seguito un febbrile appagamento.

Covid-19, bastardo micorganismo che ha infettato l’organismo
di migliaia di persone       e influenzato    la vita delle
popolazioni, il tempo che gli serviva per evolversi nel
passaggio dall’animale all’uomo, se lo è preso tutto.
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Quanto tempo avrà impiegato per attuare il salto di specie? Di
sicuro molto più di quello che impieghiamo noi per decidere se
acquistare un oggetto online, guardare una serie TV in
streaming, incontrare gli amici della movida serale o troncare
una relazione via Whatsapp.
Tutto facile, tutto a portata di mano, in una proliferazione
maniacale di atti ripetuti, là dove anche l’amore acerbo si
piega alla ricerca di qualcuno alla stregua di qualcosa che
annulli il tempo di una riflessione, l’accettazione
dell’alterità, la mancata corrispondenza di un ideale
impossibile; nessuna pausa tra un innamoramento e l’altro,
nessun tempo che dilati l’attesa di un prossimo incontro.

Il tempo sincopato che siamo abituati a vivere è sostituito
dal tempo rallentato della vita in un interno, casa nostra se
siamo fortunati, l’ospedale se disgraziatamente abbiamo
bisogno di cure.

Nella città in pausa dove tutti respiriamo la stessa aria,
abbiamo ri-scoperto la vita meditativa del ritiro obbligato,
confortata da quello che siamo capaci di fare una volta
sottratti alle tentazioni che si trovano all’esterno,
dedicandoci a letture, bricolage, cucito, maglia e uncinetto,
pulizie straordinarie della casa, riordino degli archivi, cura
delle piante, film in TV, esperimenti culinari mai tentati
prima. Ci siamo adattati alla situazione riscoprendo il gusto
del fare domestico, per alleggerire il peso di una situazione
anomala che avremmo preferito vedere in un B movie piuttosto
che nella realtà. Il privato è politico si diceva un tempo; in
questo frangente è divenuto centrale nel tenere insieme una
società compromessa da un elemento erroneamente considerato
alieno, di fatto fortemente destabilizzante.

Da buoni improvvisatori e capaci di ammirevole dedizione
nell’emergenza, con patriottico richiamo ci siamo organizzati
una vita nelle retrovie dello schieramento umano, molto più
esposto, dei medici e del personale ospedaliero incaricati di
affrontare un patogeno sconosciuto con gli strumenti della
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scienza, con risorse alterne secondo          la   regione   di
appartenenza e tanta abnegazione.

Noi dal balcone di casa abbiamo applaudito il loro sforzo
tenace, inviato messaggi di incoraggiamento e ammirazione,
fatto del nostro meglio per contribuire ad arginare il
contagio restando a casa.

Nel quartiere milanese di Nolo, Federica P. ha cucito
mascherine di ottima fattura per chi non le ha trovate in
farmacia. Anche un piccolo gesto si è rivelato una risorsa
preziosa. Un gesto riconducibile al concetto di mateship,
sentirsi parte di un vissuto comune.

Alcuni hanno beneficiato del lavoro agile, ma non tutti hanno
avuto la stessa possibilità non potendo interrompere la catena
produttiva dei servizi essenziali; abbiamo         seguito   con
apprensione la loro esposizione al rischio.

Uno scenario inesplorato quello della vita al tempo del corona
virus; molti si sono domandati: “e dopo ?” Cambierà qualcosa
nei nostri comportamenti? Vorranno i governi rendersi
finalmente conto che sfidare la natura porta guai e che la
stessa non si piega alla nostra volontà di umanità incosciente
e capricciosa? Non vorrei eccedere nell’elencare altre
angosciose domande.
Leggo in un documento dal titolo “Nessuno resti indietro“,
redatto da un gruppo di consulenti manageriali:

…Si tratterebbe di promuovere da parte del Governo un
progetto/campagna per sensibilizzare e condividere la
necessità/opportunità di un cambio di paradigma nei
comportamenti individuali e collettivi promuovendo un salto
culturale che porti a comportamenti attenti al bene comune
anziché a “essere furbi”.

Forse abbiamo avuto l’occasione di capire chi siamo o chi
vogliamo diventare, in un futuro post-pandemico di maggiore
consapevolezza e rimozione della visione alterata di un mondo
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fatto di confini considerati stabili, ora           divenuti
immateriali, e penso alla vanità del tutto.

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state
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divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto
copertina ©Chiara Beretta

2020 – APPUNTI SULLA PANDEMIA
Quanto segue è una raccolta di pensieri girovaghi, tra
ricordi, immagini mentali e attività di un presente dominato
da un evento che permea la nostra esistenza spezzando quel
flusso di abitudini e comportamenti consolidati, prima della
pandemia. Una trascrizione automatica di emozioni, domande,
constatazioni che si sono affacciate alla mente incaricata di
elaborare l’accaduto.
Penso che più o meno ognuno di noi abbia rilevato un tracciato
simile e involontario nella propria testa; qui vi presento il
mio.

                              ˜

Appelli alla popolazione, stili di vita in un interno
borghese.
Ventilazione polmonare, voglia di un cappuccino da
consumare alla pasticceria del quartiere. Cineteca
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online: restate a casa, sono le regole. Soufflé al
formaggio, pietanza fallita già ai tempi della prima
repubblica. Lavoro agile e rapide corsette dietro
l’angolo di casa. L’isolamento degli abitanti di Vo’.
Tampone nasale e faringeo. Polverosi album di foto di
famiglia. Mascherine esaurite; animazione sospesa.
Think global, act local. Pandemia, pandemia, pandemia.
                           ˜

Sui balconi svetta il tricolore. Due supermercati hanno
esaurito le scorte di alcol: puntuale disinfezione in
luogo di una corretta igiene mentale. Messa in piega
fai-da-te modello Covid-19 incornicia il viso acqua e
sapone. Parrucchieri e barbieri hanno deposto le
forbici. Aperitivo allo specchio, mise en abyme.
Memorie di un viaggio in Bretagna confortati dal
bozzolo    familiare.    Secondo    principio    della
termodinamica: indietro non si torna.
Energia e informazione. Un pensiero transemisferico
agli amici lontani.
A pranzo pasta ceci e broccoli con una spolverata di
peperoncino.
                           ˜

Nella mia vita fino a un mese fa, ogni mattina al
risveglio la domanda era: – cosa si fa oggi ? Con ciò
intendendo attività fuori casa: incombenze varie,
scambi coi familiari, cinema, teatri, mostre d’arte,
etc. Ora il dinamismo extradomestico è sostituito da: –
cosa cucino oggi ? Segue attenta esplorazione del frigo
puntando sulla combinazione degli alimenti a
disposizione, un’attività che mette in moto la
creatività, la golosità e una vaga attenzione alle
tabelle dietetiche. Oggi seppioline in umido con
piselli.
                           ˜
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La mia buona salute è la tua buona salute, vogliamo
capirlo ? Pensiero circolare.
                           ˜

Zigzagando per il quartiere. Nelle uscite forzate con
Dharma quando incontro persone che marciano nella mia
direzione cambio traiettoria, in un percorso ubriaco
fatto di passaggi da marciapede a marciapiede. Siamo
un’umanità reietta.
                           ˜

Ieri – sabato – mi telefona       un tizio lavoratore
appartenente a una rete di servizi al consumatore e mi
informa che, a seguito di un mio presunto interesse
verso le offerte di luce e gas, voleva sapere se ero
intenzionata a sottoscrivere un dato pacchetto
vantaggiosissimo. A seguito del mio palese disinteresse
verso la sua conveniente offerta, esclama deluso: –
ecco signora, lasciamo stare il mondo così com’è!
Qualcosa di biblico nel sottotesto.
Al che mi scappa una battuta corrosiva sul mondo così
com’è, data la ben nota situazione dei giorni nostri.
Chiudo la telefonata e scatta un monologo interiore sul
mondo così com’è.
                           ˜

Biohazard, stampe floreali adornano i boudoir, autobus
vuoti, Milano non si ferma. Interruzione della
normalità. Pasqua al mare coi bambini.
Uso fallace del linguaggio, sciatteria lessicale.
Trekking per i sentieri del parco Adamello Brenta.
Fare di necessità virtù. La pandemia non è uno shock
asimmetrico. Mateship per tutti spiegata ai bambini.
                           ˜
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Decostruire per ricostruire.
                            ˜

Gli sguardi dall’India di Luciana M. Paesaggi vicini e
lontani. Le piazze gremite del fermento politico sono
sostituite dal distanziamento sociale: elogio
dell’impermanenza. Mi giunge il cicalino dei messaggi
Whatsapp dei vicini. Algoritmi della psicostoria.
Vivere e abitare Feng Shui. Dharma in un percorso
radiale di modesta estensione; torneremo a giocare al
parco. Non siamo bloccati a casa, siamo sicuri a casa.
Nascondere la torta di mele e darsi al fitness
casalingo. Sembriamo quadri di Edward Hopper ritratti
in spazi prospettici a beneficio di immaginari
osservatori.
                            ˜

Quando tutto finirà, noi come saremo?

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Copertina ©Rita Manganello

Profili dalla quarantena –
Giovanni
Giovanni è un operaio, uno di quelli fortunati però, lavora in
un luogo dove gli operai sono ben pagati e tutelati.

Giovanni è un bell’uomo di origine messinese, un siciliano
biondo con gli occhi grigi; uno di quelli che mi piacciono
tanto, direi un bell’ombroso, nella sua vita ha molto amato,
tre donne e sei figli.

Giovanni lavora in una stamperia, pochi contatti con l’esterno
per il lavoro in sé, ma poi ognuno, terminato di lavorare
torna alla sua vita, e la rete relazionale si estende creando
ragnatele impensabili.

Del resto quante volte ci è capitato di stupirci perché coso
conosceva cosa che tu conosci dai tempi dell’università, da
questo punto di vista il mondo è una sputazzata diceva mia
nonna, anche se adesso immaginare una sputazzata ci riporta
subito a goccioline, saliva, inspiro virus, oddio il male
invisibile!

20 giorni fa uno dei colleghi di Giovanni risulta malato
ovvero positivo al covid19, ricoverato; è relativamente
giovane, come Giovanni e come me è in quell’età limbo dove
ancora ricordi bene l’energia degli anni precedenti e hai la
netta percezione che il tempo passa con o senza di te, di
alzarti ti riesce uguale, ma ogni volta ci vuole un cincinino
di più; la testa però va a mille, forse a consolarti del fatto
che nuove risorse arrivano e altre ti abbandonano.

Giovanni è solo, vive alla porta accanto, fuma sigarette
infinite sul terrazzo, ha un’aria triste, non chiedo, capisco
che è meglio lasciare stare; siamo vicini, ma tra i vicini non
c’è più il contatto di prima spesso sono estranei, adesso più
che altro dei vicini ci si lamenta, come se vivere in un
condominio non richiedesse pazienza reciproca e comprensione,
(questo mi riporta a un’altra storia, la storia di una che si
diceva tanto amante degli essere umani purché non vivessero
nel suo palazzo) poi una mattina mentre stracuravo le mie
piante sbotta in uno sfogo come se ci conoscessimo da sempre:
“Sono a casa da 11 giorni, adesso sono in preda a un’angoscia
che non capisco, non mi manca nulla, Glovo ha risolto per me…
– poi si adombra – no non è vero che non mi manca nulla, mi
mancano i miei bambini e adesso ho anche paura di averli
infettati, io in quarantena, la mamma in quarantena e loro che
non capiscono cosa succede. Il più grande – otto anni – ha
tanti problemi relazionali e ogni giorno aveva psicomotricità;
adesso ci vediamo in video e non capisce perché non ci vado,
la sua routine si è interrotta è molto agitato, stringe forte
forte il fratello piccolo al punto da fargli male. Non ho più
neanche voglia di annaffiare le piante… guarda che schifo!”
Gli sorrido: “Se vuoi alle tue piante ci penso io”
Giovanni sorride: “Ancora poco e finisce questa quarantena,
non mi hanno fatto il test, dici che sarà sicuro andare a
trovarli, ovviamente dopo la quarantena di Isabella? Che
avendomi incontrato è in quarantena anche lei.”

E adesso cosa rispondo? “Giovanni cosa sia sicuro io non l’ho
mai saputo prima, adesso men che meno, ma tu stai bene, non
hai sintomi, ‘mbè credi a questo, non c’è molto altro da
fare.”

Questo virus non sta solo mangiando avidamente i polmoni delle
persone, sta mangiando gli affetti, ma ci sta anche
riavvicinando, ci porta a raccontarci di nuovo con meno
diffidenza; perché sì avremo anche tutti paura, ma questa
paura ci sta unendo, ci fa sentire – paradossalmente tutti
uguali – e anche se a volte i nostri nervi saltano e ci danno
fastidio i comportamenti altrui, le relazioni vivono di una
nuova confidenza, una confidenza che serve a scaldare il
cuore.

Oggi Giovanni esce, Isabella anche ha concluso la quarantena,
sono una coppia separata, ma finchè c’è questa situazione
hanno deciso di vivere assieme, dicono per i bambini, ma penso
che invece sia perché c’è bisogno di stare vicini, anche per i
bambini; forse potrebbe rinascere la loro storia adesso, su
nuove basi, sulla consapevolezza che questa separazione fisica
ha fatto “male” a tutti.
Forse no, ma mi piace tanto pensarlo.
Buon.

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divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright.
Copertina: Renato Guttuso, Balcone a Velate, al tramonto,
1967. Olio su tela cm. 190×270 (due elementi di cm. 190×135
ognuno)

Metamorfosi di una quarantena
     Se per una volta le si presta fede, una speranza dura per
                                                   lungo tempo
            Spes tenet in tempus, semel est si credita, longum
                                                        Ovidio

Roma. Quarantena A.D. MMXX

Inizio questo scritto raccontando delle mie sensazioni,
muovendomi in una città in sospensione, in un paese in
sospensione. Così come mentre batto le dita su uno schermo,
nella mia abitazione spira un vento da nord, che prende a
schiaffi il lato più esposto, scivola attraverso i mattoni
vivi del perimetro, muove le foglie di edera sul balcone
completamente soleggiato e rientra dalla finestra a sud,
facendo ondeggiare le tende. In un silenzio di periferia semi
rurale…
Uso spesso i puntini di sospensione, a me tanto cari, perché
mi danno l’impressione delle sfumature dei pensieri, come se
fossero degli haiku collegati tra loro, senza metrica, ma solo
per materializzare i grigi che stanno tra il primo pensiero al
risveglio e l’ultimo prima di addormentarmi. Insieme a quelli
notturni, che a volte schizzano fuori dai miei sonni spesso
disturbati da paralisi ipnagogica, dove il peso dell’Uomo Nero
si posa sulle mie spalle…

Reduce da un lutto, con cui ho iniziato a fare i conti molto
prima che questo avvenisse, una calma apparente maschera ciò
che l’inconscio accumula, elabora e manifesta. Tutto questo è
parte di un avvenimento traumatico mondiale, che sembra come
se il mal comune possa alleviare l’impegno, lo stress e la
capacità di reagire, con una elaborazione ed analisi costante,
che porta all’accettazione dello status quo di giorno in
giorno. Tra morti, bollettini della Protezione Civile e
stupide polemiche politiche di idioti dallo scranno
parassitario.

Le mie esperienze di “istituzionalizzazione forzata” quali
scuola, caserma, carcere, struttura psichiatrica e presente
ambiente lavorativo, mi hanno dato l’opportunità di riprendere
e sviluppare l’origine del personale carattere che
contraddistingue una certa propensione alla solitudine.
Ricercando continuamente quell’auto-mutuo-aiuto che proviene
da un percorso di pulizia dell’Anima, anche con la
condivisione di spiritualità legata soprattutto alla
connessione con il pianeta, che ospita il mio passaggio su di
esso…

Cosa mi manca…

Prima di tutto mi manca il mio Paese. Che non è la totalità
della sua “gens”, per usare un termine latino o più
propriamente popolo, che racchiude tutte le diversità, che
sono ricchezza, o motivo di separazione, e che sono
particolare occasione di conoscere, incontrare e stabilire una
connessione. Temporanea, stabile, effimera, distanziata,
stabile o a termine.
Questo accade, quando nel proprio paese di nascita, si viaggia
attraverso di esso, mossi dalla curiosità di un bambino che si
perde con la fantasia in ogni angolo. Apprezzando le
sensazioni, adoperandosi ad amplificare non solo ciò che è
tattile, visivo, olfattivo, uditivo o gustativo, ma
nell’insieme accendere quello stato mentale che porta ad una
“cura catartica”.

I vecchi non   dormono

Questo si dice di chi raggiunge un età avanzata, come se fosse
un luogo comune da citare insieme a tanti altri.
I vecchi dormono eccome. Questo l’ho sempre pensato da quando
osservavo mio Padre che spesso si adagiava. Sembra come se si
abituino già alla Morte, quando il loro sonno diventa anche
diurno, o come se volessero spegnersi anche per un dosaggio di
“nulla” della Mente.
Questa ultima settimana mi sono recato al lavoro, necessità di
spostarmi in un clima di quarantena consigliata, attenendomi a
tutti i dettami declamati per la prevenzione. Azioni che
dovrebbero essere la normalità di un popolo responsabile, che
per molte delle sue azioni , decantando scenari dittatoriali e
uomini unici dal pensiero unico, oltre a non avere un minimo
senso civico, mettono in pericolo quella che è la
collettività.

Mi vengono alla mente i comportamenti che tengono i cittadini
cresciuti nelle socialdemocrazie, spesso tacciati di tendenze
suicide o eccessiva freddezza nei rapporti sociali. La
prossemica varia da paese a paese, ed usi e costumi, anche nel
nostro Bel Paese, sono differenti.

Un virus

La parificazione delle vite passa dall’eliminazione delle
sovrastrutture, spesso involucro presentabile secondo i canoni
di un modello ipercapitalistico. Per dirla alla Fromm (Erich)
l’Homo Consumens ha dato e sta dando la massima spallata a
questo pianeta. E questo reagisce con una difesa biologica,
forse, anche diffondendo un virus, emanazione di un
decadimento    sociale    e   purtroppo    naturale,    che
l’antropizzazione ha accelerato. A suo danno.

Da sempre sono esistiti individui convinti che per essere
felici sarebbe bastato raggiungere il piacere, il potere, la
fama e la ricchezza, e che l’unica cosa da imparare non fosse
tanto l’arte di vivere quanto il modo per ottenere abbastanza
successo da acquisire i mezzi per vivere bene. Eppure, se
anche esistevano individui e gruppi che praticavano il
principio di un edonismo radicale, tutte le culture avevano
maestri di vita e maestri di pensiero. Questi proclamavano che
vivere bene è un’arte che va imparata, che imparare quest’arte
richiede fatica, dedizione, comprensione e pazienza,         e
tuttavia costituisce la cosa più importante da apprendere.
Una delle ragioni che spiegano questo sviluppo va ascritta al
fatto che viviamo in una società dominata dalle macchine,
nella quale il lavoro artigianale è stato sostituito da quello
meccanico o informatico. Un tempo produrre una scarpa o un
tavolo era un compito arduo, per imparare il quale occorrevano
anni. Oggi chi produce scarpe o tavoli utilizzando delle
macchine non compie più un’operazione complessa né ha bisogno
di anni di apprendistato. Sempre meno professioni
specializzate richiedono una formazione paragonabile a quella
di un muratore.

Lo stesso sviluppo, la possibilità cioè di fare le cose con
facilità, si può osservare nel settore dei consumi. Cucinare,
guidare un’auto, usare un computer o telefono…ebbene quasi
tutte le attività legate al consumo non richiedono più
capacità, né sforzo o concentrazione: basta seguire le
semplici istruzioni per l’uso. Perché sobbarcarsi la fatica di
imparare quest’arte, quando invece ogni cosa può essere
sbrigata facilmente, quando ogni bambino, schiacciando il
pulsante di un televisore, può produrre per incantesimo un
intero mondo?
Eppure, vivere non è facile…

L’uomo è dotato solo di alcune pulsioni istintive, che non può
fare a meno di soddisfare per la sopravvivenza tanto del
singolo quanto della specie. Sotto tale profilo non siamo
diversi dagli animali. Ma, a differenza di questi, non
possediamo un corredo istintivo innato che di volta in volta
ci indichi come organizzare la nostra vita e che contenga un
progetto per l’arte di vivere. Se noi uomini, nelle nostre
azioni, fossimo determinati da queste necessità biologiche,
agiremmo allora “razionalmente” e – per fare solo un esempio –
non ci uccideremmo a vicenda per questioni di onore, di fama o
di ricchezza, ma saremmo solidali tra noi con l’obiettivo
della sopravvivenza. Se il nostro agire fosse determinato solo
dalla ragione, non sorgerebbero problemi…

In confronto all’animale, l’uomo viene al mondo prematuramente
e completa la propria nascita fisiologica solo molti mesi dopo
la nascita vera e propria. Ciò vale per l’aspetto psichico più
ancora che per quello fisico. Sotto il profilo psichico
all’uomo occorre tutta la vita per portare a pieno compimento
la propria nascita. Nel corso di questo processo può anche
accadergli di perdersi; in ogni momento del suo sviluppo può
cessare di crescere per finire con l’approdare, come un
menomato psichico, nella “distruttività”, nella depressione,
nell’incapacità di amare e nell’isolamento.

L’uomo è soggetto alla legge di ogni vita fisica e psichica:
vivere significa crescere ed essere attivi; se la crescita si
interrompe, subentrano il decadimento e la morte. Non è
difficile riconoscere la morte fisiologica, mentre la morte
psicologica è figlia del decadimento.
A.D. MMXVI. Qualche tempo fa….

Mutevolezza. Attraverso il mio paese. Le mie mancanze passano
per delle strade, quelle dove il silenzio è la sola presenza,
rotta dalla mia presenza.

Due alberi. Piccoli. Su un crinale.
La strada é quella che porta a Macereto.
Ci sono quei luoghi, che io chiamo “emozionali” dove ognuno
trova il suo essere animale, primordiale.
Quando.
Il silenzio della mattina poco dopo l’alba è inteso
nell’insieme delle luci, dei profumi del vento che entra dalle
cuciture del giubbotto.

Le   curve che scendono da Fiastra verso Sarnano.
Si   snodano su 25 km e sette tornanti che rapidamente poggiano
la   quota di altitudine.
In   tempi diversi, la terra ha tremato. Forte.

Nello scorrere del tempo su queste strade, la faglia sismica
si è spostata, da sud verso nord. Come a dividere la terra e i
suoi due mari Adriatico e Tirreno.
Poi, in solitudine, lontano dalla diffusione mediatica, solo
così si può sentire come la Terra nella sua Vita, in un
piccolo tremore, nella sua scala di intensità di movimento,
cerca di comunicare con chi vi poggia i piedi sopra.
Le case, in cui l’Umano vive, poggiano come i suoi piedi, ma
se queste hanno fragili radici, inevitabilmente crollano.
Così come le certezze, che solo dalle sovrastrutture, inutili,
fanno di un tetto, un luogo non sicuro. Non collegato alla
vera struttura, dell’insieme.
Solitamente, i viaggi, hanno bisogno di una preparazione, in
base al luogo dove c’è intenzione di recarsi. Un carico di
responsabilità spirituale, misto a razionalità organizzativa.
Fosse anche spostarsi con l’autobus.
Ma quei due piccoli alberi….li ho immaginati quando la “botta
grossa” li ha strapazzati.
Così come ero sdraiato nella mia tenda, solo, con la
motocicletta accanto.
Il tintinnìo delle pentole e gli argini del lago di Fiastra
che si sono riversati nell’acqua.
Un giorno dei tanti. Quelli vissuti attraverso. Come il Sacro
volto di Manoppello.
Un altro evento di trauma.

Argini

I limiti sono volubili, spesso determinati da quei numeri che
vanno a costruire i grafici che ogni sera vengono esposti nei
telegiornali. Un terremoto, una popolazione, i decessi, i
guariti…
E l’Anima che a stenti guarisce, sempre toccata da quei
bollettini di guerra. Troppo spesso paragonati ad un conflitto
dove il nemico lo puoi vedere in faccia, ma che le nostre
facce vengono eguagliate da una mascherina. Dove il virus
rende tutti uguali. Un dittatore molto democratico…

Quello che non c’è è ciò che mi manca di più. Senza darlo per
scontato. Prendere la metro, camminare dritto sul pavimento
della stazione, tra il desiderio mattutino di evadere nei
silenzi, di quegli angoli del mio paese. Tra i colori e le sue
tradizioni. L’essenza.

Niente sarà più come prima? Questo non lo sa nessuno. Almeno
io ogni giorno non sono mai lo stesso.

E rimarrà Storia del secolo XXI…

(R)

Sopporta e persevera; cose molto più gravi sopportasti.
Perfer et obdura: multo graviora tulisti.
Ovidio

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©(R)amingo

La violenza                     al         tempo            del
virus
Lei esce sul balcone e si mette a suonare il flauto, quello
che si usa alle scuole medie per iniziare ad avvicinarsi alla
musica, lui inizia a urlarle contro da dentro casa, poi le si
avvicina violento e inizia a strattonarla. Non sappiamo se lui
sia il marito, il compagno, un anziano di casa. La sostanza
non cambia.

Il video ha girato per giorni – con un titolo che pressappoco
recitava “lei suona e lui la corca” – ed è rimbalzato ovunque,
in questo impeto social che tutti ci ha travolti con il
Covid-19. Arrivano di continuo: foto, remake di canzoni
famose, cartoline, video satirici ma anche di pessimo gusto,
spie di qualcosa d’altro che non c’entra nulla con l’epidemia
in corso. Quel video, ad esempio, ci dice molto sulla continua
e reiterata violenza maschile sulle donne, ma anche
dell’irrilevanza che il fenomeno ha su gran parte della
società perché nei commenti a quel video si ride, così come si
ride degli striscioni messi sui balconi da mariti che dicono
che prima o poi faranno qualcosa alle mogli che devono
‘sopportare’ nella quarantena. Battute che sono prese ancora
troppo alla leggera, solleticano i peggiori umori, quelli che
una cultura maschilista persistente ancora alimenta ed educa.
La stessa cultura che, detto per inciso, non ha molta cura
della salute pubblica, che per anni ha privatizzato i servizi
e che non prende in seria considerazione i nessi fra salute
ambientale e umana.

A peggiorare la situazione è comparso il Covid-19, perché per
molte, troppe donne restare a casa è più pericoloso del
possibile contagio.

A dirlo subito, appena scattate le restrizioni, sono state le
femministe della rete Non Una Di Meno che hanno rilanciato sui
social un messaggio chiaro: “Per molte persone, soprattutto
molte donne #stareacasa non è un invito rassicurante. Il
numero nazionale dei centri antiviolenza 1522 è attivo”.

E suona bizzarro, e ipocrita, che a rilanciare la campagna sia
stata la stessa sindaca Raggi, il cui governo non fa nulla per
proteggere luoghi importanti per le donne a Roma, da Lucha Y
Siesta alla Casa internazionale delle donne.

Le operatrici di Trama di Terre ad Imola scrivono “La nostra
piccola campagna territoriale #icentriantiviolenzasonoaperti
nasce perché sappiamo come agisce la violenza familiare
maschile all’interno delle mura domestiche. Le donne, in
emergenza Covid-19, vivono segregate con uomini maltrattanti
che hanno in questa situazione il pieno controllo sui
movimenti e sulle azioni delle donne e dei figli/e. Diventa
dunque difficile per una donna cercare aiuto e sostegno in
questa situazione. Non solo, in un regime di isolamento
dettato dall’emergenza sanitaria, le madri faticano
doppiamente a chieder aiuto. Infatti, è probabile che
ritengano giustamente pericoloso esporrei/le figli/e se stesse
al rischio di contagio scappando dalla propria abitazione, non
avendo la certezza di sapere con chi andranno a vivere e
dove”.

Non solo, “per ridurre al minimo l’esposizione al pericolo
delle donne vittime di violenza che trovano il coraggio di
denunciare il maltrattante – aggiungono da Trama –
sollecitiamo un accordo tra le varie istituzioni e le forze
dell’ordine affinché siano gli uomini ad essere allontanati
(come l’applicazione della legge sul femminicidio consente
nella parte in cui attribuisce alle forze dell’ordine il
potere di procedere con il fermo, l’arresto o l’allontanamento
urgente dall’abitazione familiare tutte le volte che si renda
necessario). In questo modo sono le donne e i/le loro figli/e
a rimanere nelle loro abitazioni al sicuro. Dopo questa
emergenza, ci auguriamo che le istituzioni si rendano
finalmente conto che in questo sistema di protezione sono le
donne a pagare il prezzo maggiore della violenza, prima e dopo
una denuncia per violenze. Di fatto allontanare una donna,
unitamente ai suoi figli, dalla propria casa vuole dire
punirla per aver chiesto aiuto”.

Il 7 marzo scorso, il giorno prima della giornata
internazionale delle donne, alla vigilia del decreto che ha
iniziato a fermare tutto il paese, proprio a Imola una donna è
morta in circostanze ancora poco chiare. Se, come dicono molti
esperti quella con il Covid-19 è “una guerra con nemico
invisibile”, in questo caso conosciamo perfettamente il nostro
nemico e come ripetono da tempo le femministe, l’assassino ha
le chiavi di casa e in questa emergenza Covid-19 potrebbe
chiudere ben stretta la serratura.

La quarantena ai tempi del
COVID–19:   osservazioni  e
riflessioni su uno stile di
vita
  Uomini siamo Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene.
    Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere.

                             (G. Deledda, Elias Portolu, 1903)

Ho sempre trovato malinconica e veritiera la metafora delle
canne al vento illustrata nei romanzi di Grazia Deledda. Negli
anni la vita mi ha mostrato continuamente il mio stato di
fragilità rispetto agli eventi ma ha anche mostrato una
soluzione, nascosta forse perché invisa a molti, ma sempre
attuabile: arrendersi al vento per piegarsi e adattarsi alla
direzione in cui soffia.
Se Deledda ha voluto concentrarsi sulla fragilità del nostro
stato io preferisco concentrarmi, nella vita e in questo
scritto, sulla nostra capacità di adattarci agli eventi,
caratteristica degli esseri umani e delle specie viventi.

Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo ho
pensato inizialmente di scrivere sulla paura (e l’assenza di
essa) che in questo periodo attanaglia (giustamente) i nostri
cuori e condiziona le nostre azioni; poi però ho visto che in
rete si trova già abbastanza materiale senza necessariamente
aggiungere il mio contributo. E così, senza neanche tanto
sforzo da parte mia nel trovare qualcosa da osservare, il mio
sguardo si è posato su un fenomeno che in questi ultimi giorni
sta emergendo sempre più prepotentemente: le persone che non
rispettano la quarantena.

Senza
entrare nel merito delle azioni di ognuno, il filo conduttore
che ho visto
legare molti di questi casi è (le virgolette sono d’obbligo)
“l’impossibilità”
di restare a casa oltre un certo periodo.

Questo mi ricollega ad una frase che ho detto a una persona
esattamente una settimana prima che cominciasse la quarantena:
“devi imparare a tollerare la frustrazione del non poter
uscire, perché se non ci pensi da sola potrebbe pensarci la
vita al posto tuo e potrebbe non avere la clemenza che
vorresti”. È inutile che vi dica che una settimana dopo, a
quarantena cominciata, questa persona mi ha detto, con un
risolino a metà tra il divertito e il preoccupato: “Giusti’ me
l’hai tirata?”.
La
frustrazione, questa sconosciuta. O meglio: la frustrazione è
una cosa brutta,
perciò va evitata.

In
realtà questa cosa brutta è il motore dell’essere umano, sia
come singolo
individuo che come specie, e fa parte del processo di
adattamento, quella cosa
strana per cui tutte le specie viventi continuano a esistere
nel tempo mutando
continuamente (e non mi parlate di dinosauri perché è evidente
che non si sono
adattati bene!).

Osservate le reazioni dei bambini quando viene loro impedito
di ottenere l’oggetto a lungo bramato: alcuni si disperano, si
buttano per terra, strillano, picchiano chiunque e qualsiasi
cosa abbiano attorno (pure loro stessi), a volte anche per
delle ore; alcuni invece, specie i più grandi, accettano più o
meno di buon grado l’imposizione e trovano un modo alternativo
di consolarsi e gratificarsi.

Quello che vedete in pratica non sono altro che prove tecniche
di tolleranza alla frustrazione. In terapia un buon 60% di
persone che arriva al mio studio ha necessità di lavorare
sulla propria tolleranza alla frustrazione, e la prima cosa
che tutti (o quasi) mi chiedono è: “ma scusa non si può
levare?” Ebbene si, levare: perché purtroppo viviamo in un
mondo che giorno dopo giorno ci insegna a centrarci sempre più
su noi stessi e ci spinge, edonisticamente, a concentrarci su
ciò che ci piace rifuggendo tutto ciò che ci provoca
dispiacere.
Solo
che tutto questo non è reale. Questa non è vita. La vita è
anche dolore, morte,
tristezza, paura, costrizione.

“Mamma mia Giusti’ come sei pessimista!!”. No, sono realista.

Questo
non significa che me li devo andare a cercare gratuitamente,
sia chiaro (e
fortunatamente il nostro istinto di sopravvivenza ci viene
incontro); ma non
abbiamo neanche bisogno di farlo perché tanto saranno loro a
cercare noi prima
o poi.

“E quando arrivano che faccio Giusti’?” … “Stacce”.

Un
concetto così complesso e articolato ridotto ad una sola
parola. Vedere gli
sguardi increduli delle persone a questa parola non ha prezzo.
Siamo talmente
abituati a scansare ogni stimolo disturbante o negativo che ci
si palesa
davanti da non saper affrontare quelli che non hanno
intenzione di schiodare
quando lo diciamo noi. Ecco quindi che molte persone chiuse in
casa possono
“uscire di testa” nel non poter fare quello che vogliono,
quello che hanno
sempre fatto e che li fa stare bene. Perché l’unico modo che
conoscono di
reagire è quello di aggirare l’ostacolo, creandosi e creando
agli altri più
problemi di quelli avuti in partenza.

Tempo
fa vidi in rete un video bellissimo e molto commovente di un
bambino che si
disperava per qualcosa e un adulto dietro di lui che, in
silenzio, lo lasciava
fare, mantenendo attorno a lui uno spazio sicuro onde evitare
che potesse farsi
male senza tuttavia impedire lo sfogo di queste emozioni. Con
il passare del
tempo il bambino ha iniziato a calmarsi e a cercare conforto
tra le braccia
dell’adulto, introiettando    quella   consolazione   per   poi
imparare a consolarsi da
solo da adulto.

Imparare
a tollerare la frustrazione vuol dire imparare a consolarci
per una perdita,
non fare finta che quella perdita non sia mai avvenuta, e non
è una cosa
semplice. Ecco perché è una cosa che si dovrebbe imparare da
bambini: è una
lezione di vita, un bagaglio per muoversi nel mondo. Non è una
sconfitta, come
molti erroneamente pensano, per un motivo molto semplice: non
puoi vincere
sulla vita. Puoi solo adattarti al suo soffio come fanno le
canne al vento, per
ritrovare la tua strada, che nel frattempo si è modificata,
per quanto tempo la
vita stessa te lo concederà.
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