PRIMO QUESTIONARIO Evangelii gaudium: una Chiesa in uscita

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PRIMO QUESTIONARIO
Evangelii gaudium: una Chiesa in uscita
Matera, Istituto Sant’Anna, 7 ottobre 2017

CAPITOLO I: LO SLANCIO MISSIONARIO
La trasformazione missionaria della nostra Chiesa e delle nostre comunità non avviene per magia o
per decreti, ma attraverso un profondo esame di coscienza.
Alla luce del primo capitolo dell’Evangelii gaudium e di quanto è stato su evidenziato, provate a
verificare la vita della vostra comunità parrocchiale, associazione, movimento:

1) quanto è presente lo slancio missionario?

In tutte le risposte pervenute, appare subito chiaro che il dato della presenza o dell’assenza dello
slancio missionario è, per così dire, il “termometro” che permette di capire se la fede è autentica,
cioè se è incarnata nella vita delle persone o se è ridotta ad una serie di gesti vuoti e di rituali sterili
che occupano alcuni momenti della settimana e dell’anno, ma in modo del tutto separato dalla vita
familiare e sociale. In effetti in molti casi (e in molte case) la fede è vissuta privatamente, in luoghi
a parte (la saletta del catechismo, la propria camera) e in orari prestabiliti (nel migliore dei casi,
un’ora alla settimana per il catechismo o le prove del coro, e un’altra per la messa della domenica).

Pur ritrovandosi puntualmente intorno all’altare per le celebrazioni, la comunità sembra poi
perdersi e smarrirsi in una specie di “paralisi” quando si tratta di investire tutta la vita nell’opera di
evangelizzazione. Un attivismo esagerato in parrocchia o nel gruppo e una inattività esagerata fuori
dalla chiesa o fuori del gruppo. Di conseguenza le varie iniziative promosse di tanto in tanto e a vario
livello nel territorio della diocesi per portare a tutti, in uno lancio missionario, il messaggio cristiano,
appaiono talvolta caratterizzate da discontinuità, estemporaneità, frammentarietà, incoerenza o
anche addirittura, concorrenza. Queste attività sarebbero forse più efficaci se coordinate a livello di
uffici diocesani.

Sebbene necessario per la promozione e il raccordo delle singole attività che rischierebbero di
disperdersi in mille rivoli non ben canalizzati, il solo Ufficio diocesano per la missione, non è
sufficiente a sviluppare un vero slancio missionario, perché come si evince dall’E. G., come mostra
la storia della Chiesa, da tutte le risposte al questionario appare chiara la consapevolezza che la fede
si comunica da persona a persona, da cuore a cuore. Ogni credente è chiamato in prima persona ad
accogliere e coltivare l’incontro con Cristo: è questo il motore che dà la spinta alla missione gioiosa
e operosa anche in tempi difficili come il nostro in cui, come ricorda anche il primo Manifesto del
CDAL della Basilicata1, richiamando le parole di papa Francesco, più che di fronte ad un’epoca di
cambiamenti, siamo di fronte ad un cambiamento d’epoca.

1
 “Abitare il tempo per ricucire il tessuto sociale”, Documento della Consulta regionale delle aggregazioni laicali di
Basilicata, 22 febbraio 2018, allegato alla Rivista della diocesi di Matera - Irsina “Logos, Le ragioni della verità”, n. 4 del
28 febbraio 2018.
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Nelle risposte pervenute si evince tutto il desiderio di portare l’annuncio del Vangelo, con i mezzi
tradizionali e con i nuovi canali, ma c’è anche lo sconforto perché l’annuncio sembra non arrivare a
destinazione. È bene dunque confrontarci su questo.

2) Come iniziare un processo di trasformazione?

Già dal numero dei questionari sulla E.G. compilati e restituiti, si nota come il processo di
trasformazione, per grazia di Dio, è già in atto. Il Sinodo diocesano che si va preparando è una
testimonianza della riforma sempre presente nella Chiesa che è un corpo vivo e in quanto tale, è un
corpo che si muove, che vuole camminare, che vuole uscire per non restare bloccato negli schemi.

Più che iniziare di sana pianta un nuovo processo, si cerca di guardare, con grande attenzione, pur
in mezzo a mille cose che non sembrano andare per il verso giusto, dove si può trovare e come
spunta il germe della fede, la pianticella fragile e delicata presente anche nel mondo di oggi. Per
esempio, a questo proposito è stato da più parti messo in evidenza come la missione è visibile e
fervorosa in alcuni “comparti”: gli ospedali, l’accoglienza del disagio e degli immigrati, le carceri.
Paradossalmente i luoghi e i momenti della sofferenza fanno emergere il desiderio dell’uomo e lo
rendono più aperto alla grazia e alla preghiera, più attento all’iniziativa del divino. E rendono i
credenti più solleciti nella carità. Viceversa, la missione sembra del tutto assente nel “mondo reale”
della scuola, del lavoro, della cultura, se non per qualche iniziativa sporadica, sotto forma magari di
concorso a premi. Appare assurdo quello che normalmente accade, per esempio in una scuola, in
un ufficio, in un condominio, dove si è tutti battezzati, ma l’argomento della fede come sostegno e
nutrimento alla vita, non si affronta mai, è un tabù. Ciò che caratterizza di più la propria identità,
cioè il cambiamento qualitativo e ontologico portato dal Battesimo, è tenuto nascosto, separato da
tutto il resto e soffocato.

Una modalità semplice per riprendere coscienza del dono del Battesimo potrebbe essere
semplicemente quella di arrivare cinque minuti prima sul luogo di lavoro, di pregare semplicemente
anche solo con un Ave Maria, sai per santificare il lavoro e il posto di lavoro, ma anche per richiamare
e stessi alla consapevolezza di essere popolo di Dio. Laddove fosse vietato, si potrebbe riunirsi
all’aperto, nel parcheggio, prima di entrare. Sarebbe un modo pratico, utile, subito pronto - del resto
non lo facevano già i nostri genitori? – per riunirsi insieme attorno a Colui che ha sempre mandato
i suoi discepoli a due a due, di ricordare a se stessi di essere membri di un corpo, di essere figli di
una comunità viva. Questo inoltre darebbe la consapevolezza che ogni singolo luogo (come ogni
singolo cuore), è “luogo sacro”, “luogo di culto”, dove il Signore e l’uomo camminano insieme (Cfr.
Lettera pastorale A. G. Caiazzo)2.

3) Come coniugare nella nostra comunità i cinque verbi del n° 24 di EG?
            A. PRENDERE L’INIZIATIVA
            B. COINVOLGERSI
            C. ACCOMPAGNARE
            D. FRUTTIFICARE
            E. FESTEGGIARE

2
 A. G. Caiazzo, “Lettera ai cristiani della Chiesa di Matera-Irsina per il percorso sinodale”, Supplemento a “Logos, le
ragioni della verità”, n. 18 del 2017.

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C’è, da parete di tutti coloro che hanno risposto al questionario, la concordanza sul fatto che questi
verbi andrebbero coniugati alla prima persona singolare e alla prima persona plurale. La fede è
insieme personale e comunitaria.

Questi verbi, però, sono il risultato dell’iniziativa di un Altro. È l’incontro con il Signore Gesù che
introduce nella storia un contenuto nuovo: la gioia della salvezza. Quindi essi vanno coniugati:
      sull’adorazione (il riconoscimento della Sua presenza in mezzo a noi),
      sulla contemplazione (il guardare le meraviglie da Lui compiute non solo nei secoli passati
        ma oggi in mezzo a noi),
      sull’azione (leggere i segni dei tempi, attingere alle sorgenti del patrimonio di fede della
        Chiesa),
      nel riconoscersi Corpo di Cristo, comunità continuamente voluta e ogni istante generata
        dallo Spirito Santo.
Soprattutto, vanno coniugati nella vita per poter comunicare la vita. Occorre rilanciare l‘incontro
con l’uomo e tra gli uomini perché il cristianesimo si comunichi; la relazione è la legge stessa della
vita.

CAPITOLO II: NELLA CRISI DELL'IMPEGNO COMUNITARIO

Papa Francesco mentre esorta tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i
segni dei tempi» offre dei criteri per leggere la realtà, criteri non sociologici ma “nella linea del
discernimento evangelico”. Provate a leggere la realtà della nostra chiesa diocesana e delle nostre
comunità alla luce delle “sfide” e delle “tentazioni” enunciate dall’EG.

   1. Qual è il contesto sociale e culturale in cui opera la nostra chiesa?

La nostra Chiesa opera in un contesto antropologico che potremmo riassumere in un flash con una
immagine significativa: per i giovani vige l’era digitale, liquida, telematica e virtuale, per gli anziani
una comunicazione tradizionale che è fatta ancora guardandosi apertamente e a lungo negli occhi.

Il contesto sociale della nostra diocesi vede un forte invecchiamento della popolazione per via di un
basso tasso di natalità ma anche e soprattutto per la fuga dei giovani, che in genere comincia dopo
il diploma per motivi di studio e si trasforma poi nella decisione di fermarsi a lavorare e a vivere
altrove. La gente è impiegata soprattutto nel settore terziario e nei servizi. Il settore primario è ben
avviato, produce prodotti di qualità apprezzati anche all’estero, ma impiega una scarsa fetta della
popolazione. Il secondario è quasi del tutto assente anche se le industrie hanno lasciato tracce del
loro passaggio nefasto, in siti ancora da risanare. Le infrastrutture sono da potenziare, mentre il
turismo decolla per via del fenomeno Matera2019 e questo comporta lo sviluppo di tante piccole
attività ristorative ed alberghiere.

Il contesto culturale è in genere positivo. La gran parte della popolazione ha un titolo di studio: i più
anziani, della scuola dell’obbligo, i più giovani hanno il diploma e comunque la tendenza a
continuare gli studi. I bambini e i ragazzi frequentano vari circoli per attività pomeridiane legate agli
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sport o alla musica o al recupero scolastico. I luoghi della cultura condivisa sono pochi e di basso
livello in genere. Quelli di élite restano appunto settoriali e sono legati alle attività del Conservatorio
o a qualche iniziativa del Polo museale. Ci sono mostre e rassegne cinematografiche annuali, che
sono appuntamenti seguiti soprattutto dai turisti.

Il contesto sociale e culturale in cui opera la nostra Chiesa, pur essendo ancora, tutto sommato,
genuino per quanto riguarda la trasmissione dei valori cristiani e morali, è già di per sé una periferia.
Piano piano, però, la cultura tradizionale tende a cedere il passo a nuovi modelli e stili di vita
introdotti dalla globalizzazione. In tanti non conoscono le scritture, i documenti della Chiesa, le gioie
e le sofferenze dei cristiani fuori dalla regione.

Le sfide che toccano più da vicino la nostra comunità sono diverse, in particolare quelle della
inculturazione della fede, l’instaurazione di relazioni nuove generate da Gesù Cristo, la costruzione
di una nuova economia inclusiva e distributiva, la promozione di u lavoro personale per coltivare
una spiritualità che esca dall’intimismo e rafforzi la volontà e il coraggio di mettersi in gioco in prima
persona, come parte attiva di un popolo.

    2. Quante e quali delle sfide indicate dall’EG toccano più da vicino le nostre comunità?

Sicuramente l’idolatria del denaro. Il desiderio di diventare ricchi, magari per un colpo di fortuna.
Questo comporta da un lato il pessimismo, l’inattivismo e l’accidia perché questo colpo di fortuna
non arriva mai; ma genera anche invidia, odio e sospetto per chi sembra essere diventato
benestante senza meritarlo; genera anche diffidenza verso il diverso e il bisognoso che viene accolto
e supportato dai servizi sociali o dalle reti di sostegno.
Quando invece un impiego lavorativo lo si ha, spesso il fatto di non ricevere il riconoscimento
continuo e gratificante per il lavoro svolto (segno questo di bassa autostima e di poca serenità),
genera conflitti latenti nei posti di lavoro, dove le ore che passano vengono sopportate a malapena.
Si aspira ad un consenso e ad un successo che quando pure arrivassero, sono per loro natura
momentanei e passeggeri, incapaci di sostenere la persona nella giornata.
Questo dato di realtà va tenuto presente, perché le 24 ore della giornata, si passano nel mondo,
anche quella che si trascorre in Chiesa.

    3. Quali le tentazioni che assalgono gli operatori pastorali?

Oltre agli aspetti sopra indicati (pessimismo, accidia, invidia, frustrazione), che in misura ragionevole
sono anche fisiologici, talvolta l’atteggiamento degli operatori pastorali rischia di essere
contraddistinto da rassegnazione, chiusura e ripiegamento negli spazi sicuri della Chiesa e della
saletta parrocchiale.
Questa, tuttavia, rischia di diventare una contro testimonianza. Chi entra per la prima volta in una
parrocchia o in un ufficio, non sa che fare perché tutto è già ben incasellato, dal posto dove sedersi,
a come muoversi, a cosa fare per cui ci si sente “di troppo” e ci si guarda bene dal tornare in quel
posto dove c’è gente strana che parla di cose bizzarre. Tanti, infatti, oggi non sembrano conoscere
l’abc della fede, pur essendo battezzati. Gli stessi luoghi, visitati da soli, sono capacci di suscitare il
dialogo intimo con il divino.
Molti operatori fanno parte di vari gruppi e vogliono appartenere a tutte le “commissioni
importanti”, finendo per non svolgere bene nessuno dei ruoli così assunti. Tanti altri fedeli, invece,
partecipano alle celebrazioni passivamente, come utenti di un servizio del quale, peraltro, non si
interessano minimamente.
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4. È sempre e da tutti riconosciuto il ruolo dei laici nella nostra Chiesa?

“Col nome di laici – si legge nella Lumen Gentium - si intendono tutti i fedeli ad esclusione dei
membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere
stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi
dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e per il
mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.
Il ruolo dei laici nella Chiesa diocesana è generalmente attivo, riconosciuto e valorizzato, un po’
dappertutto. Il problema è che i laici che si coinvolgono sono una piccolissima percentuale dei
credenti praticanti (che a loro volta non sono tantissimi). In genere sono persone provenienti da
gruppi parrocchiali o associazioni e movimenti, che vivono l’esperienza di fede a livello personale,
familiare e comunitario.
È bene che essi sentano di più il legame con la comunità, perché un “laico” che si concepisse e si
muovesse in totale autonomia, non sarebbe granché di aiuto in nulla e a nessuno; anche questo
fenomeno è però presente, perché l’appartenenza alla comunità potrebbe avvenire solo in modo
esteriore, senza un coinvolgimento intimo, forte e motivato. La Chiesa è consapevole di questo e
non si scandalizza; cerca invece la crescita armoniosa di tutti anche di chi ha il passo lento, intralciato
dal peso di mille pensieri.

    5. I laici sono capaci di assumersi responsabilità di testimoniare il vangelo nella società e nella
       politica?

Non molto, in realtà. Gli ambiti più facilmente “frequentati” dai laici in modo attivo sono ancora
quelli della solidarietà e dell’educazione. La consapevolezza sociale e politica c’è, ma la
testimonianza in questi campi è “indiretta”, affidata (scaricata?) ad altri che sappiano fare meglio di
noi, cha abbiano mezzi, tempo e risorse.
Una fede verificata nell’esperienza dovrebbe essere capace di tenere insieme tutti i “pezzi”
dell’esistenza: vita, gioie, dolori, morte e …politica e di viverli in pienezza in prima persona. Una
persona unita in sé (grazie all’unione con Cristo) respira la libertà del figlio di Dio e sa muoversi e
agire in modo gioioso e costruttivo pur in mezzo a mille difficoltà.
Questo è chiaro a tutti, mentre quello che non si riesce a vedere con altrettanta chiarezza è una
strada che renda possibile questo coinvolgimento attivo.

    6. Quale il ruolo della donna?

Le donne oggi reggono una buona parte del peso della società, perché lavorano, curano la famiglia,
educano i figli, assistono gli anziani. Anche se hanno poche possibilità di accesso ai ranghi più alti
della vita politica ed istituzionale, studiano e lavorano con tenacia e volontà.
Nell’ambito della pastorale le donne sono ben inserite e molto attive. La presenza femminile
caratterizza fortemente la comunità parrocchiale; vari sono i compiti affidati alle donne che con
semplicità e disponibilità si mettono al servizio in molteplici ambiti: dalle pulizie alla catechesi, dalla
liturgia ad incarichi ricoperti nelle aggregazioni laicali. A tal proposito, infatti, si evidenzia come,
fatte salve poche eccezioni, la guida dei principali movimenti e/o associazioni delle realtà
parrocchiali, sono affidate a fedeli di sesso femminile.
È un dato rilevante il fatto che il Direttore della Caritas diocesana e il Direttore della rivista Logos,
oltre a diversi direttori di uffici diocesani, siano donne. Un dato, questo, di tutto rilievo. In tal senso
è possibile affermare che sono state ben recepite le indicazioni dell’EG al n. 104, laddove c’è l’invito
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a riconoscere “il ruolo della donna lì dove si prendono decisioni importanti nei vari ambiti della
Chiesa”.
Tuttavia non sempre la collaborazione delle donne (religiose o laiche che siano) nelle attività
pastorali, avviene a livello paritario rispetto agli uomini. Spesso il compito affidato alle donne è di
tipo esecutivo e questo potrebbe in parte sacrificare il loro bagaglio di creatività e potenzialità. Le
donne costituiscono veramente ancora un tesoro nascosto.

    7. Come accogliere e accompagnare i giovani nella ricerca del senso della vita?

I giovani risultano essere la croce e la delizia delle comunità, come delle famiglie. La gioventù c’è,
ma poi scappa; ti viene a cercare in parrocchia o in privato, ma poi non ti sopporta; ti guarda e ti
giudica in maniera spesso impietosa. Il rapporto con la Chiesa è in genere positivo, ma non c’è voglia
di impegnarsi in un cammino di vita. Bisogna quindi incontrare i ragazzi nei loro ambiti di vita:
famiglia, scuola, associazioni e parlare il loro linguaggio, condividere i loro problemi, ascoltarli,
accompagnarli.

I canali di trasmissione intergenerazionale della fede sono completamente saltati. La fede è
diventata una scelta soggettiva, frutto di scoperta e decisione personale. Questa situazione di
secolarizzazione, indifferenza e diffidenza è dovuta ad una visione materialista e individualista della
vita.

È cambiato anche il rapporto che i giovani hanno con il futuro. Se in passato il futuro era visto per
lo più come il tempo della “promessa”, della realizzazione del possibile, attualmente prevale una
percezione molto diversa del futuro visto come “minaccia” che – a causa della sua imprevedibilità –
rischia di tarpare le ali e frantumare i sogni di una vita. Questa perdita della speranza e della fiducia
nell’avvenire è uno dei tratti più preoccupanti e tende ad acuirsi per via del periodo di crisi e
recessione che stiamo vivendo. Una mancanza di fiducia che incide su tante situazioni, rendendole
ancora più pesanti sul piano delle relazioni affettive (che si fanno più precarie), dell’etica (che si
privatizza sempre più) e della progettualità che finisce per avere il “fiato corto” e per ridursi ad
obiettivi a breve termine, privi di un respiro più ampio.

Le inchieste sui giovani mettono in evidenza che non esiste una vera crisi della religiosità e della
ricerca di senso; esiste anzi un gruppo notevole di giovani che avvertono il bisogno di scavare nella
dimensione della spiritualità per trovare l’equilibrio e l’armonia personale in questo mondo
frenetico, frammentato e in rapida evoluzione. Si tratta però di una religiosità ad uso individuale, di
consolazione e non di responsabilità, che coinvolge l’aspetto emotivo e quello psicologico mettendo
in gioco i sentimenti e la passionalità, ma trascurando i valori che servono a sostenerla nel tempo,
come la fedeltà, la costanza, la coerenza delle scelte, i progetti di vita.

Se in epoche precedenti la fede era collegata all’etica e all’impegno per la trasformazione del
mondo, oggi è collegata all’estetica e allo spirito di convivenza e comunione. In questo senso
l’identità religiosa dei giovani (identità che in molti conserva ancora il riferimento alla fede cattolica)
diviene un’identità-rifugio, senza un vero approfondimento interiore, spirituale ed etico.
Delle modalità per accogliere e accompagnare i giovani nella ricerca del senso della vita sono
possibili
      condividendo non solo i momenti della decisione, ma camminando con loro costantemente
         e liberamente;

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   condividendo i loro spazi (scuola, università), le loro attività (sport, cultura, studio), i loro
        tempi;
       trovando e segnando vie di amicizia, nella città e nei paesi;
       incontrandosi nelle case, per abitare e per accogliere.

È necessario formare i giovani insieme, come comunità educante, nel raccordo con le principali
agenzie educative: Chiesa, scuola, famiglia, gruppi, associazioni sportive, musicali ecc.

    8. E della loro vocazione?

Nel contesto culturale e sociale odierno, sono molti i segni di un processo di autoreferenzialità che
mira ad escludere l’idea della vita come vocazione per affermare la pretesa di una vita svincolata da
ogni legame duraturo e, soprattutto, da ogni relazione con il mistero di Dio.
Nella “pastorale sfilacciata” e nei complessi percorsi familiari e personali, è sempre più “normale”
incontrare giovani che non hanno alle spalle una ordinata e continuativa esperienza di fede. Molti
non hanno idea di chi sia Gesù. Questo però non è necessariamente uno svantaggio: anche quando
Gesù è venuto, nessuno (a parte Maria, Giuseppe, e pochi altri) sapeva chi fosse. Occorre dunque
partire dal primo annuncio, fresco e gioioso della Sua presenza.
È venuto per l’uomo comune il Signore, per l’uomo nelle sue normali attività, perduto spesso in mille
problemi e colpito da tante sciagure. È venuto per ogni uomo del nostro tempo che incrociamo, che
incontriamo o che urtiamo per sbaglio; è venuto per questi uomini a dare la vita e non mollerà
nessuno di noi.

CAPITOLO III: L’ANNUNCIO DEL VANGELO
Questo ampio capitolo ci porta al cuore dell’annuncio e mette in gioco tutti i battezzati come
discepoli-missionari. Sottolinea il ruolo del popolo di Dio nel compito di evangelizzare e della pietà
popolare e del dialogo con la scienza. Sorvoleremo per ora sull’omelia ma ci vogliamo soffermare di
più sulla catechesi.

        1. La nostra Chiesa ha la coscienza di essere Chiesa di popolo?

Il popolo di Dio ha un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione. È necessaria, per questo, una
preparazione non solo spirituale, ma anche dottrinale, per permettere un più grande impegno
nell’evangelizzazione, nel dialogo con i fratelli e nel confronto con gli altri. Talvolta c’è la percezione
dell’essere popolo, per esempio in occasione delle grandi celebrazioni solenni di Natale e di Pasqua,
ma sono momenti nel corso dell’anno che hanno poi poca capacità di tenere viva la comunione che
va continuamente vissuta e alimentata.

   La coscienza di essere popolo di Dio (Cost. dogm. Lumen gentium, 9; Catechismo della Chiesa
    Cattolica, 782), non è sempre presente. Si tende a riconoscersi più nelle istituzioni (piccole e
    grandi) e nei ruoli.
   Anche la consapevolezza che il popolo di Dio è formato e voluto da Dio appunto e comprende
    tutti gli uomini, non solo chi frequenta la Chiesa cattolica, non è molto chiara.
   Il fatto poi che con il Battesimo si è introdotti in questo popolo, attraverso la fede in Cristo, dono
    di Dio, resta del tutto irrilevante nella vita quotidiana, non fa la differenza.

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   Non è chiara (oltre alla natura) neanche la missione di questo popolo che è quella di “portare
    nel mondo la speranza e la salvezza di Dio: essere segno dell’amore di Dio che chiama tutti
    all’amicizia con Lui” (Papa Francesco).
   Non è chiaro il fine che è il Regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso e che deve essere
    ampliato fino al compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr Lumen gentium, 9).

       2. Che considerazione ha della pietà popolare?

Spesso la pietà popolare viene guardata come elemento negativo da superare da parte dei
sacerdoti. Che si tratti della festa patronale o di una devozione, non si vede l’ora che “questa pratica”
finisca, per tornare alla routine della pastorale ordinaria. Non si ha forse tutta la consapevolezza di
come questa pietà sia radicata e di fatto unisca il popolo a livello antropologico, sociale e culturale,
fino a toccare l’arte, l’architettura, il calendario dell’anno sociale, la vita della famiglia.

Ma anche la stessa pietà popolare non è sempre vissuta con consapevolezza da parte di chi la
pratica. È necessario anche in questo settore tornare all’essenziale, ripulendo i gesti di pietà
popolare di tanti orpelli folkloristici. La semplicità aiuta molto a mettere a fuoco il contenuto.

       3. Valorizza i carismi di ciascuno per il bene di tutta la Chiesa?

Il tentativo c’è. C’è anche la necessità di utilizzare tutte le risorse umane disponibili a lavorare
gratuitamente ed offrire il proprio servizio per il bene comune. La Chiesa valorizza anche tutti in
quanto figli di Dio che vanno accolti e amati. I carismi dei singoli credenti, anche le più piccole
attitudini in qualche campo o servizio, vengono senz’altro messe a frutto, laddove, appunto ci sia
una disponibilità a mettersi in gioco. A ognuno la Chiesa offre non solo servizi ma anche un orizzonte
di vita, obiettivi, compiti, responsabilità serie, che servono innanzitutto alla crescita della persona.
È davvero un luogo di Misericordia la Chiesa, anche per chi non può avvicinarsi ai sacramenti.

È presente anche la valorizzazione dei carismi di gruppi e movimenti. La “razionalizzazione” dei
contributi dei laici ha avuto ultimamente un notevole impulso nella diocesi, grazie alla costituzione
della Consulta per le aggregazioni laicali, organismo in cui si incontrano le associazioni e i movimenti
ecclesiali, con lo scopo di favorire la reciproca conoscenza, la comune riflessione, il confronto di idee
ed esperienze, la stima e il rispetto reciproco per crescere insieme nella comunione e nella carità.

Da qualche parte, tuttavia, c’è il sentore che i laici, più che essere valorizzati, siano piuttosto
utilizzati. La stessa cosa vale per la donna e per le religiose. Si ha la tendenza a considerare il parroco
come l’unico detentore e conoscitore della cultura, specie di quella biblica, e l’unico capace di
discernimento. C’è poca consapevolezza del sacerdozio comune dei fedeli anche rispetto al
riconoscimento dei carismi.

       4. Dialogo con le culture?

La mentalità attuale sembra voler spegnere il pensiero, ogni domanda, ogni dubbio, proponendo
sempre la via più facile, le relazioni facili, le risposte facili; è il tempo della leggerezza e della
superficialità. È impegnativo fare cultura in modo serio quando gli stimoli e “le offerte” arrivano ad
ogni piè sospinto e da tante parti.

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La Chiesa diocesana nelle sue istituzioni è capace di dialogo franco, aperto e costruttivo a tutti i
livelli, anche quello culturale. Questo dialogo è fondamentale perché lo scambio di doni è sempre
reciproco.
I singoli fedeli forse lo sono di meno. Si direbbe quasi che la forza dello Spirito venga “strozzata” non
per la persecuzione esterna ma per una presa di posizione “interna” al singolo credente. Il flusso di
grazia viene quasi interrotto come fosse un rubinetto da aprire e chiudere a piacimento.
È fondamentale focalizzare la presenza in ambito culturale, lavorando insieme con percorsi ad hoc:
non si può lasciare incolto questo campo di lavoro sterminato.

       5. La catechesi è a servizio della crescita della fede in ciascuno, non solo bambini, ma
          adolescenti, giovani, adulti?

È sotto gli occhi di tutti il fatto che il catechismo viene frequentato solo in vista dell’ottenimento del
sacramento e poi disertato. È chiaro a tutti che c’è qualcosa che non va.
«La conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire
pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa» (Porta Fidei, 10).
La fede è adesione alla chiamata alla vita, ma è anche conoscenza della realtà.
Purtroppo l’approfondimento dei contenuti della nostra fede oggi non è adeguato. Il kerigma non
va annunciato solo all’inizio e poi messo da parte. È un seme che deve svilupparsi durante tutta la
vita nel credente. E il kerigma cresce non con l’aggiunta di contenuti, ma aprendosi ed esprimendosi
nella carità. La fede cresce comunicandosi. È l’unico tesoro che più viene offerto agli altri, più si
arricchisce anche in chi lo condivide.
Su come migliorare la catechesi, che è uno dei punti dolenti, non sono arrivate proposte concrete.

CAPITOLO IV: LA DIMENSIONE SOCIALE DELL'EVANGELIZZAZIONE

    1. Quale consapevolezza nelle nostre comunità della dimensione sociale
       dell’evangelizzazione?

Gli stili e i ritmi della vita sono fortemente cambiati e, con loro, anche i riferimenti etici e morali. Per
grazia di Dio, c’è ancora spazio, nella nostra diocesi, per la ricchezza dei rapporti sociali, per la
gratuità e la solidarietà, ma questo spazio è sempre più minacciato dai ritmi frenetici ed
individualistici imposti da una società sempre più secolarizzata e consumeristica nella quale la fede
è diventata per molti, una delle tante opzioni possibili e il progetto di vita cristiano è fortemente
sfidato e a volte apertamente osteggiato.
L’evangelizzazione è un elemento necessario nella dimensione sociale, importante per valorizzare
la dignità di ciascun individuo indipendentemente dalla condizione economica, sociale e culturale.
A livello istituzionale la consapevolezza è grande. Agli uomini e alle donne del nostro tempo che
sembrano oggi paralizzati e bloccati dalla paura, sentiamo l’urgenza di far giungere il fuoco della
grazia di Dio, il calore del Vangelo, l’abbraccio del Padre.
Al livello del “credente medio”, salvo rare e fragili eccezioni, la questione semplicemente non si
pone. Società e fede sono visti come ambiti separati che viaggiano su binari paralleli che non si
incontrano mai.
Tuttavia la Parola incarnata porta già in sé una conseguenza sociale. Se è incarnata, è presente, si
vede e si tocca con mano. Già la sua presenza è un santuario che opera in mezzo al mondo, che
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agisce nel fedele in modo naturale e creativo nelle attività quotidiane e nello stile di vita. È questo
l’annuncio che arriva e che tocca i cuori. Si tratta, come qualcuno suggeriva nelle sue risposte di
essere “contemplattivi”, con due “t”.
Se ci fosse la consapevolezza della fede, la luce del vangelo arriverebbe dunque in ogni angolo, ad
ogni passo e al semplice respiro del credente. Arriverebbe in modo capillare ed efficace,
comunicandosi da persona a persona, da cuore a cuore. Come scrive Madeleine Delbrêl: «Non è
organizzando il mondo che noi saremo innestati sulle nozze della Chiesa, ma con il portare in noi
ciascuno degli uomini di questo mondo, ciascuno di quelli che incontriamo, dando loro non
un’organizzazione di vita, ma il diritto di vivere nella nostra vita, comunicando loro tutto ciò che noi
siamo, tutto ciò che è nostro, dal pane alla grazia» (in “La gioia di credere”).

    2. Quale il posto dei poveri nella comunità?

I poveri hanno il primo posto non solo nei desideri, ma proprio nei fatti. Non c’è nessuna possibilità
di equivoco: la nostra Chiesa non detiene nessun potere materiale e se assomiglia a qualcosa,
assomiglia veramente ad uno sgangherato ospedale da campo in cui per forza di cose qualche volta
si rischia di sbagliare l’approccio al problema. Gli interventi sono armonizzati e valorizzati grazie al
lavoro di coordinamento della Caritas diocesana.
Uno dei problemi più importante per tanti poveri è il costo esoso degli affitti in città, pari spesso al
reddito mensile percepito. L’impossibilità di pagare il fitto, con il conseguente sfratto, è la causa
della creazione di rapporti difficili nella coppia, con il ritorno dei coniugi separati nelle famiglie di
origine, con l’aumento conseguente della povertà diffusa.
Naturalmente, è molto importante che la carità sia essa stessa evangelizzazione, che quindi porti ad
una crescita e ad una maturazione nella fede e nella consapevolezza sia dei volontari che nei
destinatari.
Non si può infatti ridurre la Chiesa ad una agenzia di assistenzialismo. C’è una bella differenza tra
“accoglienza” e “accondiscendenza”. Quest’ultima sembra essere una scorciatoia per togliersi
davanti il disturbo, ma alla fine crea rapporti poco sani. Bisogna dunque anche saper dire di no. Se
da una parte, infatti, tra quelli che bussano alle porte della canonica per chiedere un aiuto
economico, come il pagamento delle bollette delle utenze elettriche, tanti accettano con umiltà e
dignità e ringraziamo per la vicinanza, in altri c’è la pretesa di un diritto dovuto, completamente
avulso e scollegato dalla partecipazione alla vita della comunità.

    3. Siamo sinceramente impegnati all’edificazione di una società in pace e in dialogo con tutti?

A livello istituzionale sì, la Chiesa diocesana è fortemente impegnata nel dialogo franco e aperto con
tutti. A livello comunitario e personale in genere il coinvolgimento è facilmente delegato ad altri.
Dialogare è difficile, richiede un lavoro di preparazione, la disponibilità all’ascolto, il mettersi di
fronte e accanto all’altro, il guardare se stessi e gli altri per come si è, senza le lenti di un modello di
perfezione, senza la pretesa del risultato.
È perciò necessario mettersi insieme, confrontarsi anche tra di noi, perché tutto il Corpo della Chiesa
possa muoversi in modo armonico e non strampalato e poco efficace nel dialogo con tutti. La
difficoltà non sta tanto nel linguaggio da usare, perché nella vita siamo tutti espertissimi ad
esprimerci in ambito lavorativo e professionale, ma proprio nell’autenticità del nostro approccio
personale e comunitario alla fede.

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CAPITOLO V: EVANGELIZZATORI CON SPIRITO

Preghiera e lavoro pilastri della spiritualità del discepolo-missionario. Come le nostre comunità
educano alla preghiera e al lavorare per il Regno? Verifichiamo se per caso nelle nostre comunità
la preghiera non sia un rifugio intimistico o una chiusura individualistica.

Purtroppo, come capita dappertutto, anche nella nostra diocesi si registra il fenomeno per cui
ognuno tende a pregare per il proprio benessere spirituale e a lavorare per il proprio benessere
materiale e familiare.
Per lo più la religione e la preghiera sono diventati un fatto individualistico, tradotto nelle frasi:
“prego a casa mia”, “mi confesso direttamente con Dio”. Occorre dunque una crescita significativa
nella dimensione spirituale e comunitaria della fede.
L’invito alla preghiera e al lavoro vengono accolti quando la persona che riceve l’invito vede nella
preghiera e nell’impegno una possibilità di bene per sé in termini di crescita umana e di possibilità
di letizia. All’inizio ciò avviene per “osmosi”: vedendo un testimone credibile felice della vita e
desideroso di comunicarla, si resta affascinati e si prova ad imitarlo, a seguirlo. Ma solo
dall’esperienza personale dell’incontro con Cristo nelle vicende della vita viene il desiderio di
moltiplicare tali momenti di preghiera e di lavoro per fare nuovamente esperienza della gioia che
portano.
Gli schemi di missione programmati e/o la routine pastorale, sembrano a volte mettere un freno a
mano alla comunicazione della fede, che appare invecchiata e fuori dal mondo. Non si può
rinchiudere la realtà in uno schema prestabilito e pretendere che ci stia per forza tutta dentro.
Bisogna allora, più che “andare” nel modo, visto che già ci siamo, starci veramente, esserci ed essere
autentici, senza formalismi, senza maschere, senza filtri. Fidarsi dell’umano e scommettere
sull’umano per quanto fragile e incompiuto questo sia.
Essere e stare senza paura, tenere il cuore aperto, camminare con passo spedito. Così si può tornare
poi al luogo fisico della Chiesa per rendere grazie al Signore e attingere ai suoi doni nei Sacramenti.
Il fedele di oggi deve al più presto superare un atteggiamento “schizofrenico” che lo vede “credente”
in Chiesa e “neutro” e amorfo nel mondo. Ci vuole molto cuore e molta creatività per essere se
stessi. E ci vuole molta fede.

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RESTITUZIONE PRIMO QUESTIONARIO

Punti di luce nella vita pastorale della diocesi

     È molto significativo il fatto che, nel rispondere al questionario, nessuno dei padri sinodali o
      delle comunità interpellate, lo abbia fatto con superficialità o per adempiere ad un dovere.
      Si legge, tra le righe - sia che siano state scritte a mano che inviate per email – e si sente
      vibrare, tutta la freschezza di una esperienza cristiana viva e vera.
     In diverse parrocchie si sono costituiti gruppi di lavoro sul sinodo diocesano con l’obiettivo
      di raggiungere e coinvolgere quanta più gente possibile intorno a questo evento di grazia per
      il nostro territorio. Altre parrocchie hanno distribuito il questionario e raccolto le risposte
      dei fedeli, che poi sono state restituite così, nude e crude, e proprio per questo danno bene
      il termometro della situazione.
     Nella nostra diocesi è in crescita l’identità e la coscienza battesimale del laico come anche la
      sua partecipazione attiva a livello intraecclesiale e a livello extraecclesiale nella società e
      negli ambiti lavorativi.
     L’attenzione e la cura dei poveri e dei bisognosi appaino molto radicate, probabilmente
      anche a causa del fatto che storicamente la nostra gente è sempre stata povera. Da buoni
      meridionali, abbiamo innato il senso dell’accoglienza. Un punto concreto di incontro è
      costituito dall’istituzione di corsi di lingua italiana sorti spontaneamente in tantissimi luoghi
      della diocesi, aperti a tutti e frequentati da uomini e donne di diversa provenienza, cultura
      e religione.

Punti deboli e da rafforzare nel cammino

     Diffuso atteggiamento di denuncia e valutazione negativa della realtà socio - culturale ed
      ecclesiale, incapacità di coglierne le positività, seppur latenti, e di considerare le fragilità
      come una preziosa risorsa da cui ripartire, mettendosi gioco. Come principio, lo sappiamo
      che la via è la povertà e come discorso riusciamo anche ad articolarlo bene. Ma alla fine noi
      stessi non ci crediamo. Non crediamo che la situazione di bisogno e povertà sia la strada
      maestra del Vangelo e quella preferenziale per annunciarlo.
     Nelle comunità parrocchiali lo slancio missionario è molto presente e si manifesta con
      iniziative rivolte di volta in volta ai giovani, alle famiglie, agli adulti ecc. Questo impegno, è
      in genere molto collegato ai periodi dell’anno liturgico e finalizzato alla celebrazione dei
      sacramenti. D’altra parte, i tentativi di promuovere iniziative che riguardino aspetti
      dell’attualità o del vivere quotidiano affrontati alla luce del messaggio evangelico e
      dell’esperienza cristiana di vita, vedono la partecipazione di persone già direttamente
      impegnate nella sfera parrocchiale e non arrivano a una platea più ampia. È la comunità
      educante nel suo insieme che si è fatta latitante.

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Spunti di pensiero teologico

     Attenzione a tutto quanto il processo del Sinodo, evitando la fretta e l’ansia di schematizzare
      tutto. Le questioni presentate nei questionari sono ampie e profonde e meritano tanto
      spazio di riflessione e discernimento.
     Una ermeneutica del Concilio vaticano II attenta sia ai processi che hanno portato alle
      costituzioni, sia a come esse si sono incarnate nel magistero fino ad oggi.
     La designazione di Matera a Capitale europea della cultura per il 2019 come opportunità per
      la nostra Chiesa di riscoprire la valenza culturale della sua missione evangelizzatrice e per
      aprire e tenere vivo un dialogo con le diverse culture.

Proposte pastorali

     È necessario promuovere e avviare processi di purificazione delle devozioni e della pietà
      popolare che spesso è confusa con la fede.
     Raggiungere i giovani nella loro situazione e costruire con loro qualcosa di bello, valido e
      definitivo. Avviare laboratori / oratori per gli anziani.
     Procedere ad una verifica periodica all’interno dei gruppi e tra i gruppi, aiutandosi, nello
      spirito della correzione fraterna, a superare limiti e difficoltà e a guardare tutti nella stessa
      direzione.
     Favorire un approccio di annuncio e di relazione basato sull’ascolto, sull’accompagnamento
      nella situazione di vita concreta della persona; sull’assunzione di uno stile di vita comune e
      vicino alla gente; su un atteggiamento di speranza e di comprensione profonda;
      sull’attenzione a valorizzare le specificità e le risorse altrui; sullo spirito di collaborazione
      nelle realtà dove si è inseriti.

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