Qualità della carne bovina: la tenerezza - Consumi italiani di carne bovina - Ruminantia
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Qualità della carne bovina: la tenerezza Consumi italiani di carne bovina Le stime sul consumo di proteine d’origine animale redatte dalla FAO con proiezione al 2050 prevedono una crescita commisurata all’incremento della popolazione mondiale e del reddito pro capite atteso per i paesi in via di sviluppo, con un incremento mondiale dei consumi globali di carne e una flessione del consumo apparente pro capite. Una diminuzione pro capite delle carni riguarda anche la carne bovina e bufalina che, secondo una ricerca condotta dalla Commissione di Studio istituita dall’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) (Russo et al., 2017), in Italia è passata dai 13,57 chilogrammi per anno del 2010 ai 10,03 chilogrammi per anno del 2015, con un minimo di 9,51 kilogrammi per anno registrato nel 2014. Il tasso medio di variazione del consumo reale pro capite è risultato pari a -0,76 chilogrammi per anno. Il calo dei consumi delle carni bovine ha molte cause, tra le quali anche l’opinione di un calo della loro qualità gastronomica, soprattutto della loro tenerezza, condizione che ha molte cause e che merita qualche considerazione. Carni bibliche grasse e succulente Nella Bibbia sono magnificate le carni grasse e succulente dei ruminanti, oggi si rimpiangono le carni di una volta e soprattutto ci si lamenta che le carni bovine sono dure, un difetto che contribuisce alla riduzione dei consumi e a rivolgersi alla carne di altri animali. Molte sono le condizioni che contribuiscono a conferire a questo alimento l’apprezzata e ricercata tenerezza e meritano una particolare
attenzione, anche perché la non gradita durezza può derivare sia errori che riguardano uno o più anelli della filiera di produzione, che dalla genetica, l’alimentazione e l’allevamento degli animali, fino ai sistemi di cottura. Genetica, alimentazione e tenerezza della carne Il muscolo, oltre alle fibre muscolari, contiene anche il tessuto connettivo che serve a unire e sostenere tali fibre e che in buona parte è costituito da collagene, sostanza fondamentale nel determinare la durezza delle carni. In generale, il muscolo più usato ha anche maggiori quantità di collagene ed è più sodo: per questo gli animali che vivono allo stato brado hanno anche carni più dure. Il muscolo contiene diverse quantità di grasso, che serve come carburante per la sua attività. Il grasso si trova sia all’interno che all’esterno del muscolo: per il primo si parla di grasso marezzato, per il secondo di tessuto adiposo di deposito. Soprattutto il grasso interno al muscolo o di marezzatura interviene nella tenerezza della carne e per questo le carni grasse sono più tenere di quelle magre che tendono ad essere dure. Durante la cottura della carne il grasso di marezzatura si scioglie e rende la carne più tenera perché la lubrifica e trattiene l’acqua interna che, se fosse persa, darebbe una carne stopposa. Per questo, contrariamente a quanto si crede, il grasso di marezzatura interno al muscolo è indice di qualità, sia che abbia un colore bianco e sia che tenda al giallo, in dipendenza dal tipo di alimentazione e dall’età dell’animale. La genetica e la selezione dei bovini influiscono in modo considerevole sulla conformazione e sullo sviluppo delle masse muscolari, ma soprattutto sulla quantità del connettivo nel muscolo e sulla distribuzione muscolare del grasso, come pure il tipo di alimentazione. La carne grassa di un giovane bovino di una razza da carne darà una carne tenera, diversamente da quella di un’anziana e magra vacca di una
razza da latte. Allevamento e tenerezza della carne La consistenza della carne dipende dall’attività fisica dell’animale. Più questo si muove e maggiore è la durezza delle sue carni. Di conseguenza, il vitello ha una carne più tenera del manzo. Per lo stesso motivo i diversi tagli di carne di uno stesso animale hanno una tenerezza differente in base al lavoro che compiono. Il filetto è un muscolo che lavora poco ed è quindi più tenero dei muscoli dei quarti anteriori e posteriori che sostengono il peso dell’animale e lavorano per il suo movimento. Molto importante è anche il regime alimentare dell’animale, e soprattutto l’apporto energetico che condiziona lo stato d’ingrassamento. Trasporto, macellazione, frollatura e tenerezza della carne La qualità della carne e la sua tenerezza dipendono anche da come sono eseguiti il trasporto al macello, la macellazione e la frollatura. Il trasporto, soprattutto di animali non abituati ad un’attività fisica, in particolar modo se lungo e in cattive condizioni (affollamento, forti scuotimenti del mezzo di trasporto, caldo, non abbeverata ecc.), oltre ad essere contrario al benessere degli animali, causa uno stress e un superlavoro muscolare. Un bovino che arriva al macello nelle migliori condizioni e che è macellato bene fornisce una carne di migliore qualità e più tenera di quella di un animale affaticato, spossato e stressato da un lungo viaggio o macellato in modo stressato. Altrettanto importanti sono le condizioni degli animali nel macello, dalle stalle di sosta alle operazioni di macellazione vera e propria, fasi nelle quali bisogna evitare condizioni stressanti di affollamento,
temperature troppo basse o troppo elevate e mancanza d’acqua di abbeverata, eseguendo sempre una conduzione accurata e dolce della mandria e del singolo animale. Il motivo principale che lega uno stress di viaggio e/o di macellazione a una carne dura è che in queste condizioni vi è una forte diminuzione, se non la quasi totale scomparsa dai muscoli, di uno zucchero denominato glicogeno. Un animale stressato ha meno glicogeno nella carne, che sarà quindi meno elastica, più soggetta a guastarsi e soprattutto avrà difficoltà nella successiva fase di frollatura. Per questo le carni di animali selvatici abbattuti dopo una lunga e stressante battuta di caccia hanno bisogno di una lunga frollatura, spesso aiutata da altri trattamenti. Poche sono le carni di animali che possono essere portate in cucina subito dopo la macellazione e tra queste sicuramente non quelle di ruminanti, che hanno bisogno di un più o meno lungo periodo di maturazione o frollatura. Dopo la macellazione la carcassa dell’animale, un tempo con la sua pelle e oggi protetta da particolari involucri che ne impediscono un eccessivo essiccamento, è appesa per distendere le fibre muscolari e deve essere mantenuta in ambienti con temperatura e umidità controllata. In un periodo di tempo variabile che dipende anche dalle caratteristiche dell’animale, nelle carni avvengono processi fisici e di fermentazione da parte degli enzimi naturalmente presenti nei muscoli, utilizzando anche il glicogeno muscolare. Se questo è scarso, se non assente, la frollatura sarà lunga e incompleta e la carne risulterà inevitabilmente dura. Conservazione e tenerezza della carne La carne, come tutti i prodotti alimentari, è soggetta a diversi sistemi di conservazione tra i quali refrigerazione, congelazione, surgelazione, cottura, disidratazione,
affumicatura e salatura, ognuno dei quali può interferire sulla sua tenerezza. La refrigerazione a una temperatura che varia da 0 a +4 gradi centigradi rallenta ma non elimina i processi di frollatura e quindi d’intenerimento. La congelazione a temperature da -10 a -20 gradi, che permette una conservazione prolungata delle carni, può danneggiare la loro qualità e durante lo scongelamento si perdono proteine, vitamine e sali minerali che formano il liquido di trasudazione, riducendo il contenuto delle fibre muscolari e aumentando in proporzione la quantità di connettivo, con un conseguente aumento della durezza. Lo scongelamento va fatto lentamente, trasferendo la carne dal congelatore al frigorifero e poi all’esterno. Carni congelate a frollatura incompleta e mal scongelate sono inevitabilmente dure. Cucina e tenerezza della carne Molte sono le ragioni per cui si cucina la carne e altrettanto numerose sono le relazioni tra la cottura e la sua consistenza. In linea generale, sotto l’azione del calore, le proteine coagulano e perdono acqua: per questo una cottura prolungata rende la carne dura. Cuocere la carne al giusto punto di calore è un’operazione solo apparentemente semplice. Per ottenere una carne cotta alla perfezione, cioè tenera, saporita e profumata, bisogna considerare che le fibre muscolari, l’acqua dei tessuti e il collagene richiedono temperature differenti, senza contare il ruolo e l’importanza di eventuali pretrattamenti della carne. Per avere carni più tenere è utile tritarle, ottenendo polpette e hamburger, o batterle con un pestello. Questi procedimenti scompongono la struttura delle fibre muscolari rendendole più morbide e più facili da masticare. In questo modo sono utilizzate carni che cotte diversamente sarebbero inevitabilmente dure, come quelle di bovine anziane e di razza
da latte macellate a fine carriera. Altro sistema è di marinare la carne con acidi come quelli del succo di limone, aceto o vino. Molti sono i metodi di cottura che sono applicati in relazione alla tradizione, al gusto e al tempo a disposizione e che sono raggruppabili in almeno sei categorie: bollito, fritto, grigliato, arrosto, brasato e stufato. Ognuno di questi metodi di cottura ha le sue caratteristiche in generale abbastanza note e ben adattate alle carni di un tempo, solitamente grasse, di animali adulti e ben frollate. Per le carni bovine moderne, soprattutto magre, è stata sviluppata la cottura a bassa temperatura, meglio se sottovuoto, capace di fornire carni tenere e che merita una particolare attenzione. Cottura a bassa temperatura e tenerezza La cottura a bassa temperatura si basa sulla costatazione che le carni sono costituite da fibre muscolari, acqua e collagene, componenti che hanno bisogno di tre diverse temperature. L’acqua evapora a partire dai 100 °C, il collagene si dissolve a partire dai 55 °C e le proteine delle fibre muscolari coagulano a circa 65 °C. Con le alte temperature la carne perde acqua e tende a divenire più dura, mentre a una temperatura inferiore a 100 °C l’acqua rimane negli alimenti che restano teneri. Da qui la tradizionale regola di lessi ottenuti con acqua che non bolle ma sobbolle. Una lunga cottura poco sopra i 55 °C permette l’idrolisi del collagene e quindi di avere una carne tenera. L’abbinamento di una temperatura tra i 65 e gli 80 °C con tempi di cottura prolungati, soprattutto se eseguita sottovuoto, permette una coagulazione delle proteine muscolari senza indurimento, un interrimento del collagene senza perdita di acqua e quindi una carne cotta morbida e perfetta. Nella pratica, per ottenere una cottura perfetta bisogna stare
attenti alla qualità del prodotto scelto, al confezionamento sottovuoto o preventiva rosolatura, a una temperatura di cottura di almeno 65 °C (perché i batteri proliferano dai 5 °C ai 60 °C) e ad un appropriato tempo di riscaldamento. Tabella di cottura a bassa temperatura per manzo e vitello
Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.
Report Ismea, covid-19: per 2020 perdita di 34 miliardi di euro per spesa extra domestica, cresce di 10 miliardi di euro la spesa domestica Passata la prima fase, in cui il sistema agroalimentare è stato relativamente meno colpito di altri settori dagli effetti del lock-down conseguente al Covid-19, è emersa con chiarezza la portata di alcuni fattori che, invece, lo hanno penalizzato in misura significativa. Tra questi, la chiusura pressoché totale del canale della ristorazione ha assunto un ruolo di particolare rilevanza. L’altro elemento molto importante, sul quale tuttavia è troppo presto per elaborare stime affidabili, riguarda i contraccolpi sui flussi di esportazione. Sul fronte del consumo alimentare extradomestico, la spesa delle famiglie, nel 2019, ha sfiorato gli 86 miliardi di euro, con un incremento reale sull’anno precedente dell’1,6%. A fronte di tale andamento decisamente positivo, le prospettive dei consumi extra-domestici per tutto il 2020 sono tutt’altro che incoraggianti: in base a ipotesi non particolarmente pessimistiche, si può stimare per il canale Horeca un calo di poco inferiore al 40%, per un ammontare che si aggirerebbe attorno ai 34 miliardi di euro. D’altro canto, parte di questi consumi sono compensati dalla crescita delle vendite al dettaglio, che autorizzano a prevedere, per il complesso del 2020, un aumento dei consumi domestici del 6% circa rispetto al 2019.
Date queste ipotesi, l’impatto complessivo sul totale della spesa agroalimentare domestica ed extradomestica consisterebbe in una riduzione attorno al 10% per il 2020, pari a un valore di circa 24 miliardi di euro. Considerando che questo valore incorpora una serie di margini (di servizio, commercializzazione e trasporto) che non riguardano direttamente il settore agroalimentare, una prima stima provvisoria valuta che lo shock della domanda di prodotti agroalimentari, a parità di tutte le altre variabili1, potrebbe determinare una riduzione del valore aggiunto della produzione agricola dello 0,9% e una riduzione dell’1,4% di quello dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco; il comparto che risentirebbe più dello shock è quello della pesca e dell’acquacoltura, con una flessione del 7,1% sul valore di riferimento. L’impatto della riduzione della domanda si scarica in parte sui prodotti importati, riducendo la gravità degli effetti sul settore agroalimentare nazionale e sul settore della pesca. Esistono, ovviamente, altri fattori che potrebbero ulteriormente aggravare tale scenario, primo fra tutti l’impatto sulla capacità di spesa delle famiglie da parte della crisi economica, i cui effetti peggiori sono attesi a partire dall’autunno. L’altro elemento dal quale dipenderanno le sorti del settore agroalimentare è l’export. Anche in questo caso, la crisi si è andata a innestare su un trend particolarmente positivo a guardare i dati disponibili e relativi ai primi mesi dell’anno. Analogamente, l’impatto sarà estremamente differenziato, concentrandosi soprattutto sulle imprese e i settori più dipendenti dallo sbocco estero: definendo la propensione all’export in termini di quota del fatturato esportato sul totale, i comparti dove essa supera la media del settore agroalimentare (pari al 18% circa) sono trasformazione ortofrutticola, olio di pressione, il riso, prodotti da forno,
pasta, caffè, cioccolato, condimenti e spezie, piatti pronti e, naturalmente, vino e spumante. Mentre le recenti riaperture stanno consentendo ai canali della ristorazione extradomestica di riorganizzarsi, pur nei limiti del rispetto delle norme sanitarie, le vendite al dettaglio si mantengono sostenute anche nella prima metà del mese di maggio. Nella settimana dall’11 al 17 maggio, ossia quella in cui i decreti hanno permesso le prime riaperture e un minor contenimento degli spostamenti, l’incremento della spesa per gli alimenti confezionati su base annua segna ancora una crescita del +11% come media nazionale. Si tratta di una crescita caratterizzata da una significativa eterogeneità territoriale, che dal +14% del Nord-Est scende al + 8% del Mezzogiorno, con una differenza di ben 6 punti percentuali, mai riscontrata in nessun periodo della crisi precedentemente analizzato. A una crescita ancora molto sostenuta si accompagna alcuni segnali di un graduale ritorno alle abitudini precedenti l’emergenza Covid-19. Tra questi, la minore preoccupazione per gli aspetti sanitari e i maggiori margini di spostamento, hanno riportato nuovamente l’attenzione sull’aspetto economico e del risparmio, con un forte ritorno al canale Discount (+18% nella settimana dall’11 al 17 maggio rispetto all’anno precedente). Permane, tuttavia, l’incremento delle vendite presso i liberi servizi, ovvero i più piccoli negozi di vicinato, che possa può far pensare al consolidamento di un nuovo rapporto di fiducia tra gli abitanti di una zona e la rete commerciale locale. In ogni caso, i supermercati si confermano il principale canale commerciale con una quota di vendite pari al 42% del totale. Nel merito dell’andamento delle vendite dei prodotti nella prima settimana di riapertura, il trend generale è quello di un ridimensionamento dei picchi incrementali delle settimane di lock-down per la generalità dei prodotti che fanno comunque
ancora segnare livelli importanti di crescita rispetto alla normalità del corrispondente periodo del 2019. Sono un paio le categorie merceologiche il cui tasso di crescita nella settimana di metà maggio ha segnato un’ulteriore accelerazione nel confronto con il periodo di lockdown: l’olio e il vino e gli spumanti, spiegabile anche come recupero successivo alla scarsa dinamica fatta segnare durante quasi tutto il periodo di chiusura. Venendo alle principali filiere produttive, gli elementi più rilevanti sono i seguenti: Per i lattiero-caseari la situazione permane critica, con la conferma della pesante erosione dei listini dei grana, determinata dal combinato disposto di una produzione in crescita, dal rallentamento delle vendite nel complesso e dalle incertezze sugli andamenti dell’export. Naturalmente, anche il prezzo della materia prima mostra evidenti cedimenti con la prospettiva, tuttavia, che il sistema stia trovando quanto meno un assestamento. In questo senso, va osservato con interesse il recente incremento del prezzo della merce spot che anticiperebbe gli spiragli positivi evidenziati dal mercato internazionale. Sul fonte del prodotto da latte ovino, preoccupano particolarmente la crescita della produzione del Pecorino Romano (+24%) e il rallentamento delle esportazioni, (-14% in volume rispetto a febbraio 2019) fattori per i quali è difficile ipotizzare significative inversioni di rotta nei mesi successivi. Il mercato delle carni bovine è ancora caratterizzato da una domanda domestica cauta e selettiva che favorisce il vitellone e penalizza il vitello. Migliore, seppure su livelli non ancora soddisfacenti, l’interesse per i capi adulti, favoriti dalle graduali riaperture delle hamburgherie. Sul fronte dei prezzi, l’offerta eccedentaria rispetto alle ridotte richieste ha
comportato un loro lieve ridimensionamento per tutte le categorie. Filiera lattiero-casearia Mercato dei grana in crisi e affonda anche il prezzo alla stalla La situazione del mercato lattiero-caseario nazionale continua a essere particolarmente critica. Prosegue l’erosione dei listini per i formaggi grana a denominazione, anche in considerazione della maggiore produzione realizzata nel primo quadrimestre 2020 (+5,1% per il Reggiano e +4,8% per il Padano rispetto a gennaio-aprile dello scorso anno) e delle scorte accumulate a seguito dell’azzeramento delle vendite nel canale Horeca nei mesi di marzo e aprile. Infatti, nel mese di maggio è aumentata la variazione negativa dei prezzi rispetto allo scorso anno (-29% Parmigiano Reggiano 12 mesi e -20% per Grana Padano 4-12 mesi) e si è più che dimezzata la forbice tra i due grana Dop (attualmente pari a 1,58 euro/kg). Le ripercussioni sul prezzo del latte alla stalla sono state proporzionali: in Lombardia per le consegne effettuate nel mese di maggio, gli allevatori percepiranno circa 35 euro/100 litri, ovvero 7 euro in meno rispetto a un anno fa (-17% su base annua).
Accanto alle misure emergenziali di sostegno previste dalla Commissione UE per l’ammasso dei formaggi, la chiave di volta del mercato nei prossimi mesi sarà rappresentata in particolar modo dalla tenuta delle vendite sui mercati esteri. L’esordio del 2020 per le esportazioni di formaggi italiani era stato molto positivo (+11% in volume e +12% in valore rispetto al bimestre gennaio-febbraio 2019), ma i risultati finali dell’annata potrebbero essere fortemente compromessi dalle difficoltà logistiche, dal protrarsi della chiusura della ristorazione all’estero, cui è prevalentemente indirizzato il made in italy agroalimentare, e dalla gravità della crisi economica che andrà a impattare soprattutto sui prodotti a elevato valore aggiunto, come i formaggi.
Situazione molto difficile anche per il latte fresco Forti criticità si confermano anche per il latte fresco, i cui consumi sono significativamente calati, in parte a causa dello spostamento delle preferenze delle famiglie verso l’UHT – che difficilmente saranno recuperate – in parte per la mancanza di turisti negli alberghi e nei bar. La riapertura, seppure ridimensionata, del canale Horeca ha determinato un lieve miglioramento sul fronte degli altri prodotti freschi (mozzarella, ricotta, ecc.) e delle materie grasse (burro e panna) e il leggero incremento delle richieste di materia prima ha riportato su terreno positivo anche le variazioni del prezzo del latte spot. Nell’ultima settimana di maggio le quotazioni dello spot sulla piazza di Lodi hanno raggiunto la media di 34 euro/100 kg, facendo registrare +18% rispetto a inizio mese, quando era stato toccato il minimo dall’esordio della pandemia. A favorire questo andamento sono state soprattutto le dinamiche osservate a livello internazionale, dove si intravede qualche segnale positivo. La tenuta della domanda cinese arresta la caduta dei prezzi dei caseari Nonostante il lockdown, la Cina ha continuato, infatti, ad accrescere le proprie importazioni di prodotti lattiero caseari nel primo trimestre 2020, in particolare burro, formaggi e siero in polvere (+71%, +26% e +10% rispetto ai primi tre mesi del 2019). Sono in frenata, invece, le importazioni cinesi di latte scremato (-16% nei primi tre mesi del 2020) e ciò ha contribuito a innescare forti ribassi dei listini sul mercato europeo (su base congiunturale -8% e -17% nei mesi di marzo e aprile), considerando che lo scorso anno la Cina era diventata la principale destinazione per la produzione UE. Ma, a partire dal mese di maggio, con l’introduzione delle misure straordinarie di sostegno
all’ammasso privato che, oltre i formaggi, riguardano anche il burro e il latte scremato in polvere, la flessione dei prezzi sembra essersi arrestata a livello comunitario. Nei prossimi mesi molto dipenderà anche dall’andamento delle consegne di latte nell’UE (+2,8% nel periodo gennaio-marzo 2020), che proprio nel secondo trimestre dell’anno vedono il picco stagionale.
Filiera ovina da carne e da latte Mercato fermo per il Pecorino Romano Pur registrando un differenziale positivo rispetto al mese di maggio dello scorso anno (+11%), i prezzi del Pecorino Romano sono fermi sui 7,80 euro/kg ormai da diverse settimane. La crisi Covid-19 ha determinato, infatti, un rallentamento delle esportazioni, intensificando le difficoltà che si erano presentate già nel mese di febbraio (-14% in volume rispetto a febbraio 2019). Sul mercato interno, inoltre, con la chiusura del canale Horeca disposta per limitare la diffusione dell’epidemia sono stati colpiti soprattutto i prodotti freschi, inducendo i caseifici a dirottare molto più latte verso i formaggi stagionati. A fine aprile risultava, infatti, un incremento della produzione di Romano di circa il 24% rispetto al dato cumulato della precedente campagna.
Con lo scopo di riequilibrare il mercato, riducendo l’eccesso di offerta, sono state stanziate risorse per l’acquisto di pecorino da distribuire agli indigenti, sia a livello nazionale con il cosiddetto “Decreto emergenze” sia a livello regionale anche con riferimento ai formaggi a bassa stagionatura prodotti in Sardegna. A tali risorse, si aggiunge il sostegno all’ammasso privato dei formaggi introdotto in via straordinaria dalla Commissione UE con il Reg. delegato n. 2020/591. Dopo il fallimento della Pasqua, misure di emergenza a sostegno del settore della carne ovicaprina Dopo il flop del periodo pasquale che comprometterà il risultato economico dell’intera annata, il mercato della carne ovina, è stato caratterizzato da una fase stagnante, con i prezzi degli agnelli assestati nel mese di maggio sul livello di 3,58 euro/kg di peso vivo. Al fine di sostenere il comparto, con il Regolamento (UE) n. 2020/595, la Commissione Europea ha introdotto a fine aprile un regime eccezionale e temporaneo di ammasso per le carni ovine e caprine per un quantitativo minimo ammissibile di 5 tonnellate per ogni domanda e tre diversi livelli di aiuto in
funzione del periodo di stock (866 euro/tonnellata per 90 giorni, 890 euro per 120 giorni e 915 euro nell’ipotesi dei 150 giorni di ammasso). Tale sostegno va ad aggiungersi al premio accoppiato del primo pilastro della PAC e alle risorse nazionali del “Decreto competitività” che ha previsto il pagamento aggiuntivo di 9 euro/capo per gli agnelli macellati nei mesi di marzo e aprile 2020. Filiera carne bovina L’attività di macellazione è rallentata per la domanda debole Prosegue il rallentamento dell’attività di macellazione dei bovini da carne a fronte della debolezza della domanda già in atto da diverse settimane e che comincia a risentire anche dei primi effetti della crisi economica, riportando flessioni più accentuate nell’ultima settimana di maggio. In flessione anche le attività di ristallo a causa della scarsa offerta di qualità e per la poca disponibilità degli ingrassatori a investire in un momento di particolare incertezza.
Come anticipato, il mercato delle carni bovine nelle ultime settimane di maggio è ancora caratterizzato da una domanda domestica cauta e selettiva che favorisce il vitellone e penalizza il vitello. Migliore, seppure su livelli non ancora soddisfacenti, l’interesse per i capi adulti favoriti dalle graduali riaperture delle hamburgherie. Prezzi in ridimensionamento pur con performance migliori che nel resto d’Europa Sul fronte dei prezzi, l’offerta eccedentaria rispetto alle ridotte richieste ha comportato un lieve ridimensionamento dei corsi per tutte le categorie. In particolare, per i vitelli gli attuali livelli sono al di sotto degli analoghi dello scorso anno (-4,4%). Per le vacche, malgrado la debolezza delle scorse settimane, in questa prima fase di riapertura si registra un lieve recupero e l’attuale livello dei prezzi è anche leggermente superiore a quello dello scorso anno (+4,5%). Per i vitelloni i listini hanno mostrato una buona tenuta per i primi due mesi di lockdown, per poi cedere in parte in queste ultime settimane, pur restando comunque su livelli superiori a quelli dei due anni precedenti. I prezzi per il vitellone nazionale, in lieve ridimensionamento, dovrebbero favorire l’assorbimento completo della merce italiana. Preoccupa, tuttavia, anche per questi la pressante concorrenza del prodotto estero che eccedente in quasi tutti i Paesi sta vedendo ovunque ribassi delle quotazioni. Misure di sostegno forse non efficaci per il mercato italiano A sostegno della filiera sono state attivate a livello comunitario misure di per gestire le momentanee eccedenze, in particolare per le carni bovine sono stati concessi aiuti
all’ammasso privato. Ad essere interessate al provvedimento sono però solo le carni degli animali di età non inferiore a otto mesi, restano quindi non compresi i vitelli che al momento sembra essere la categoria più in sofferenza.
1 È stato simulato con l’ausilio delle tavole SUT dell’Istat uno shock nel quale varia solo la domanda domestica ed extra-domestica per i prodotti agroalimentari (prodotti delle coltivazioni, prodotti della pesca e acquacoltura, prodotti alimentari, bevande e tabacco), come descritto nel testo. Non sono stati considerati gli effetti del lockdown in tutti gli altri settori. Scarica il Report intero Fonte: ISMEA
Il nome della bresaola e dei ruminanti preistorici Bresaola antico salume Uno dei salumi che oggi sta avendo maggior successo nella gastronomia nazionale e internazionale (da tempo ha già il suo bravo sito in Internet) è senza dubbio la bresaola, alla quale è stato anche dedicato il Convegno Bresaola della Valtellina, svoltosi a Tirano il 28 settembre 1997. Secondo una tradizione recentemente inquadrata nel Disciplinare di Produzione collegato a un’Indicazione Geografica Protetta, la bresaola (a volte detta anche brisaola) è la carne di coscia di bovino opportunamente salata e stagionata. Le prime testimonianze letterarie sulla produzione della bresaola risalgono al XV secolo, ma l’origine del salume è senz’altro molto più antica. La produzione è familiare fino ai primi decenni del XIX secolo, e sempre in questo secolo diviene artigianale. Dal 1930, con l‘ampliamento della produzione in vari centri della Valtellina e per lo sviluppo di un turismo alpino che fa conoscere il prodotto, la bresaola ha una progressiva diffusione prima nell’alta Lombardia e, dagli anni sessanta, in tutta l’Italia e la Svizzera. Tuttavia, fino ad oggi pare che vi sia un problema ancora non risolto: l’origine e il significato della denominazione “bresaola”. Anche Guido Margiotta, Delegato di Sondrio dell’Accademia Italiana della Cucina, nella Introduzione degli Atti del citato Convegno, afferma che “lo studio etimologico (della bresaola) resta comunque aperto”. Oggi, lo studio del termine bresaola con i metodi scientifici dell’etimologia rileva l’antichissima origine di questa preparazione di carni conservata, ponendola
tra le più remote inventate dall’uomo. Bresaola, un termine d’incerta derivazione L’etimologia del termine bresaola è stata analizzata da Guido Scaramellini, al quale non si può dare torto quando afferma che sia l’origine sia la denominazione della bresaola sono incerte. Partendo dal detto presente in Chiavenna “salaa come brisa”, riferito alla carne molto salata, si potrebbe accostare l’etimo bresaola a quello di “brisa” della vicina Svizzera, attribuito ad una ricotta condita con sale e con pepe. Un interessante riferimento che tuttavia non spiega molto. Secondo altri, riferisce sempre Scaramellini, bisogna partire da un termine del tardo latino “brasaula”, riduzione di “brasatula” che significherebbe carne trattata alla bracia, dal germanico “brasa”, cioè bracia. Ma la brasa, e qui siamo in pieno accordo con Scaramellini, potrebbe trovare giustificazione solo nell’affumicatura della bresaola, peraltro non obbligatoria e non necessaria per l’essiccazione che è eseguita tradizionalmente in aria libera. Più recentemente Carlo Cantoni (2010) si rifà alle precedenti etimologie e ricorda che il nome di questo salume potrebbe derivare dalla espressione salè come brisa, per l’uso che un tempo si faceva del sale nella conservazione e per il fatto che, in Valchiavenna, brisa indicava una ghiandola dei bovini fortemente salata. Potrebbe altrimenti derivare dal termine brasa (che in dialetto significa brace), perché l’asciugamento del prodotto avveniva in locali riscaldati da bracieri alimentati con carbone di legna di abete e bacche di ginepro, timo e foglie d’alloro. Sullo stesso piano é anche il recente articolo di Carlo Cantoni – Salato come… una bresaola (Premiata Salumeria Italiana, Anno XXVIII, N. 5, Settembre – Ottobre 2016 – Pag. 108 – 110). Se l’uscita della voce, cioè la parte finale della parola,
sembra corrispondere a una “abula”, uno studio etimologico più preciso del termine bresaola può tuttavia portare ad avvicinarsi a quella che potrebbe anche essere la sua (vera) etimologia. O se così non fosse, porterebbe soltanto lo stimolo a una discussione che possa ampliarsi in un approfondimento ulteriore. Bresaola, un etimo antichissimo Anche ad un esame superficiale dell’etimo bresaola è possibile individuare due componenti principali: “bre” e “sal”, oltre alla già citata parte finale della parola. Sull’etimo “sal” non pare vi possa essere molto da discutere: als, alos in greco e sal, salis in latino significano sia sale che mare. Il fatto che il sale fosse oggetto di ampi commerci in tutta l’area europea giustifica un’unicità di denominazione a partire dai tempi più remoti. Che una carne salata abbia una denominazione che contentiene l’etimo als-sal non deve quindi stupire e sotto certi aspetti può indurre a pensare che si tratti di una denominazione antica, forse antichissima. Il problema sta quindi nell’etimo “bre” o forse “bri” e qui è certamente utile rifarsi a quanto discusso da Gaetano Forni (1990) per quanto riguarda i cervidi che oggi sono stimati essere i primi grandi ruminanti cacciati ed addomesticati in Italia settentrionale (e qui siamo in area di Valtellina e bresaola…). Infatti, come afferma Maestrelli (1976), la denominazione dei cervidi è apparentata con il tema indoeuropeo b(h)re/ont, diffuso dal Mediterraneo al mar Baltico. A questo proposito, oltre a Brindisi (città del cervo, da brenda, cervo, in Messapico, antico dialetto dell’Italia meridionale) si può citare il norvegese brunde (renna), lo svedese brinde (alce) ed anche l’italiano (b)renna, senza entrare in ulteriori dettagli nel rapporto tra questo etimo e quello del fulmine e, o fuoco (dal greco bronte, al tedesco brand, brennen) utilizzati per avere le
radure nelle quali i grandi ruminanti trovavano pascolo. A quest’ultimo significato, radure create dal fuoco, si collegano diversi toponimi (il nostro italiano Brenta) e, per sineddoche, termini indicanti contenitori di acqua o altri liquidi (ad esempio brenta). Dall’animale ai suoi prodotti il passaggio di denominazione è facile: Alessio (1968) ha segnalato che la denominazione originaria di cervo (bre) è connessa con il nome di formaggi tipo sbrinz (lombardo), brenza (italiano antico), brinza (rumeno), Primsen (tedesco) evidentemente prodotti, all’origine, con latte di cerva. In modo analogo, secondo Alessio, il termine scamorza sarebbe da riferire a un formaggio prodotto con il latte di camoscio, animale affine al cervo. Come fa notare Forni, sembra ovvio che il termine significante bruciare sia derivato da quello che indica il fulmine, unica fonte di origine del fuoco. Da bruciare è derivata la denominazione degli animali (in primo luogo il cervo) e delle piante il cui sviluppo era incrementato dalla radurazione col fuoco. Diversi altri autori (Maestrelli, 1976; Buck, 1949; Pokorny, 1949-1950) aggiungono che alcuni termini affini, connessi con il significato di cervo (latino Cervus) sono all’origine di denominazioni significanti capra, vacca, ecc. Questo mostra che, almeno in Europa, l’allevamento dei cervidi ha preceduto quello degli ovicaprini e dei bovini. All’allevamento brado dei cervidi, anche senza arrivare a una domesticazione vera e propria, si devono attribuire i primordi di diverse tecniche che vanno dal diboscare al cavalcare, e soprattutto al traino. Non dimentichiamo, infatti, l’uso rimasto a lungo delle slitte trainate da cerve e renne, di cui ci rimane anche il ricordo di Babbo Natale (una delle renne o cerve della slitta di Babbo Natale, secondo una tradizione nordica, si chiama Dancer e forse per questo mi sto interessando all’argomento, ma questa è un’altra storia). Altrettanto importanti furono, in un lontano passato, le tecniche di conservazione e miglioramento degli alimenti e tra queste è già stata indicata quella del prelievo del latte
dalle cerve, con la produzione di formaggi. È altrettanto evidente che un uso alimentare del cervo, precedente a quello del latte, sia stato quello della carne. A buona ragione si deve concludere che almeno nell’Europa continentale, e soprattutto nei territori alpini e prealpini, una carne importante, se non la “carne” per antonomasia, sia stata quella di cervo (bre), anche come termine emblematico (la parte per il tutto) di ogni carne di ruminante di medie e grandi dimensioni. Senza entrare in altri dettagli o ampliamenti, come sarebbero quelli della presenza del cervo nella cultura nuragica sarda ben documentata dai bronzetti, oppure il fatto che in tempi preistorici nelle steppe asiatiche i cavalli erano adornati con simulacri di corna (come documentato da recentissime scoperte nelle tombe di notabili), da quanto brevemente esposto, è facile concludere che i dati paleolinguistici indicano chiaramente che dai due etimi bre e sal deriva il termine di bresaola, con il chiaro significato di(carne di) cervo salata. Un’etimologia che riconduce a una tecnica antichissima, ma con un grande avvenire Il termine bresaola si connette alla tecnologia antichissima e certamente preistorica della salagione delle carni, prima dei pesci e poi di altri animali. Non è questa la sede per affrontare questo vasto problema, ma molto schematicamente si deve pensare che la tecnica, scoperta forse casualmente per il pesce di mare, sia passata poi alle carni. Non è infatti certamente un caso che l’etimo italiano di salame significava pesce salato e che solo in seguito sia passato ad indicare la carne, soprattutto di maiale, salata. La tecnica della conservazione tramite salagione degli alimenti si è poi diffusa lungo le vie del sale che dal mare hanno percorso l’Europa, interessando anche carni di specie animali diverse.
Soprattutto nell’Europa continentale, la salatura delle carni, spesso associata all’affumicatura anche per risparmiare il prezioso sale, è stata applicata inizialmente alle carni selvatiche, dal cervo ed altri grandi ruminanti, per poi passare alle carni di altri animali, ad esempio il maiale, come è avvenuto in pianura padana, dove è attestata, sia pure indirettamente, almeno dal V secolo prima dell’era corrente. In un lontano passato la salatura delle carni di animali che non avevano un preminente destino alimentare ma erano impiegati per il lavoro, come il cavallo e soprattutto i bovini, era quasi inesistente. I bovini erano infatti utilizzati per il lavoro nei campi ed il lento traino dei carichi pesanti, ed al massimo da loro si ricavava il poco latte che potevano dare nel periodo primaverile, dopo il parto e lo svezzamento del vitello. Animali da latte erano invece le capre e le pecore, mentre da carne era soprattutto il maiale. È tuttavia facile intuire che quando i bovini sono divenuti più abbondanti e soprattutto si è avuta la disponibilità di giovani femmine (scottone e manzarde), la tecnica di conservazione e di valorizzazione gastronomica della carne tramite salatura e stagionatura sia stata trasferita dal cervo e da altri ruminanti selvatici alle carni di bovino. Lo stesso tipo di trasferimento è avvenuto molte altre volte. Ad esempio, per la conservazione delle carni bisogna ricordare il caso di un altro animale, quando le tecniche di conservazione della coscia (prosciutto) dal cinghiale selvatico sono state trasferite al maiale domestico. L’ora indicata origine etimologica del termine bresaola pone una serie di nuovi interrogativi o, se si vuole, di nuove piste di ricerca che potrebbero essere molto utili per una successiva valorizzazione del prodotto. Senza entrare in dettagli in questa sede superflui, è qui sufficiente elencare le principali questioni che oggi compaiono sul tappeto legate all’origine dell’indicata etimologia. Qual è stato il ruolo della posizione geografica della Valtellina e della Valchiavenna, e delle loro comunicazioni tra il Mediterraneo e
l’Europa centrale, anche come valle di passaggio di una via del sale, nello sviluppo della bresaola? Quando e com’è avvenuto il passaggio, nella preparazione della bresaola, dall’uso di carne selvatica (cervo e altri grandi ruminanti selvatici e predomestici) a quello di carne domestica di bovini allevati allo stato brado? Quali rapporti vi sono tra la bresaola e altre carni salate di ruminanti, come il violin (Fantoni, 1984) o la spàleta di capra, anche nell’ambito della carne secca o carni salate ed essiccate dell’arco alpino? Durante un lunghissimo periodo, dalla preistoria fin quasi ai nostri giorni, vi è un inspiegabile silenzio sulla bresaola: non sarà che la produzione partendo da animali selvatici, cervi e altri grandi ruminanti riserva delle classi abbienti e dominanti avveniva prevalentemente come un’appendice ad una caccia di frodo sulla quale era bene tacere? Quale collegamento vi è tra l’attuale constatazione che le carni migliori per produrre la bresaola sono quelle della giovane femmina (scottona e manzarda) e la domesticazione delle femmine di cervo, dalle quali le popolazioni alpine hanno ottenuto il primo latte animale? Questi e altri interrogativi dimostrano come la storia della bresaola, pur antichissima, e certamente iniziata molti secoli prima dell’era corrente, è ancora in gran parte da scoprire e soprattutto può indicarci nuove strade, pur sempre solidamente ancorate al passato. Infatti, lo studio del termine bresaola con i metodi scientifici della etimologia rivela un’antichissima origine di questa preparazione di carni conservata, ponendola tra le più antiche inventate dall’uomo. CENNI BIBLIOGRAFICI Alessio (1968) – Forni G. – Agli albori dell’agricoltura – Origine ed evoluzione fino agli Etruschi ed Italici – Edizioni Reda, 1990. AA.VV. – Bresaola della Valtellina – Atti del Convegno
svoltosi a Tirano il 28 settembre 1997 – Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998. Ballarini G. – L’etimologia documenta un’antichissima origine della bresaola – Premiata Salumeria Italiana, n. 5, p. 18, 1999Ballarini G. – Parole a fette – Nomi e soprannomi dei salumi italiani – TLC, Colorno, Parma, 2001 Buck (1949) – Forni G. – Agli albori dell’agricoltura – Origine ed evoluzione fino agli Etruschi ed Italici – Edizioni Reda, 1990. Campodoni A. – La bresaola di Valtellina, salume tipico di montagna – in AA. VV. – Bresaola della Valtellina – Atti del Convegno svoltosi a Tirano il 28 settembre 1997 – Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998. Cantoni C. – Le bresaole, origini e caratteristiche – Premiata Salumeria Italiana, n. 3, pag. 11, 2010. Cantoni C. – Salato come… una bresaola – Premiata Salumeria Italiana, Anno XXVIII, N . 5, Settembre – Ottobre 2016 (pag. 108 – 110). Fantoni G. (1984) – Il Violino – in INSOR – Gastronomia e Società – Franco Angeli, Milano, 1984. Forni G. – Agli albori dell’agricoltura – Origine ed evoluzione fino agli Etruschi ed Italici – Edizioni Reda, 1990. INSOR – Gastronomia e Società – Franco Angeli, Milano, 1984. Maestrelli (1976) – cit. Forni G. – Agli albori dell’agricoltura – Origine ed evoluzione fino agli Etruschi ed Italici – Edizioni Reda, 1990. Margiotta G. – Introduzione – in AA. VV. – Bresaola della Valtellina – Atti del Convegno svoltosi a Tirano il 28 settembre 1997 – Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998. Menon V. – Bresaola di manzo della Valtellina – Premiata Salumeria Italiana, n. 5, pag. 21, 1997. Montanari G. – Bresaola e salumi equini, quando il gusto incontra la saluta – Premiata Salumeria Italiana n. 3,
p. 24, 2010. Pokorny (1949-1950) – cit. Forni G. – Agli albori dell’agricoltura – Origine ed evoluzione fino agli Etruschi ed Italici – Edizioni Reda, 1990. Riva M. – Aspetti scientifici, nutrizionali e gastronomici della bresaola – in AA. VV. – Bresaola della Valtellina – Atti del Convegno svoltosi a Tirano il 28 settembre 1997 – Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998 Scaglioni C. – Bresaola: gusto, fragranza e morbidezza in tavola, con fantasia – Premiata Salumeria Italiana, n. 3, p. 22, 2010. Scaramellini G – La Brisavola: origini e letteratura – in: AA. VV. – Bresaola della Valtellina – Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998. Eurostat: crolla a marzo 2020 la produzione di carne bovina in Italia Secondo i nuovo dati presentati da Eurostat, a marzo 2020, mese in cui le misure di contenimento della pandemia hanno iniziato ad essere applicate, nei macelli italiani la
produzione di carne di vacca è diminuita del 41,5% (rispetto a marzo 2019) mentre quella di carne di vitello è diminuita del 10,9%, con il calo maggiore tra gli Stati membri dell’UE. A marzo 2020, i macelli dell’UE hanno prodotto 2,0 milioni di tonnellate di carne suina (in peso carcassa) e 0,6 milioni di tonnellate di carne bovina. Rispetto a marzo 2019, questi ultimi dati mensili rappresentano un aumento del 3,3% nella produzione di carne suina e un lieve calo dello 0,4% per la carne bovina. Questi dati suggeriscono che la produzione di queste carni nell’UE non è stata immediatamente influenzata dalle misure di contenimento della pandemia di COVID-19 che hanno iniziato ad essere applicate a marzo 2020.
Source dataset: apro_mt_pwgtm L’apparente stabilità nella produzione di carne bovina nell’UE è dovuta a sviluppi contrastanti: mentre la macellazione dei vitelli (- 4,3% a marzo 2020 rispetto a marzo 2019) e delle vacche (- 5,7%) è diminuita, quella di tori e vitelloni è aumentata (+ 4,5%). Nel caso di vitelli, tori e vitelloni, i livelli di produzione nel marzo 2020 erano vicini a quelli di marzo 2018. Va notato che i vitelli e le vacche provengono da allevamenti da latte, mentre i tori e i vitelloni vengono allevati solo per la carne.
Source dataset: apro_mt_pwgtm Questo andamento a livello di UE riflette gli sviluppi di ciascuno degli Stati membri. La produzione di carne suina a marzo 2020 è stata superiore a quella di marzo 2019 in molti dei principali produttori, ovvero: Spagna (+ 12,7%), Paesi Bassi (+ 6,1%), Germania (+ 3,9%), Francia (+ 1,4%) e Polonia (+ 1,3%). Il calo complessivo della quantità di carne di vacca prodotta a livello dell’UE tra marzo 2020 e marzo 2019 è stato trainato dalla pesante diminuzione che si è verificata in Italia (-41,5%), Polonia (-10,7%) e Germania (-6,5%), che compensa gli aumenti in Francia (+ 1,1%) e Paesi Bassi (+ 19,8%). Il calo complessivo della quantità di carne di vitello prodotta a livello dell’UE deriva principalmente dal crollo della produzione in Italia (-10,9%), Paesi Bassi (-8,0%), Belgio (-7,3%) e Francia (-5,5%).
Le notevoli diminuzioni che si sono verificate in Italia riflettono in gran parte l’attuale ristrutturazione del comparto della carne bovina del Paese. Fonte: Eurostat Ismea, news mercati: comparto dei bovini vivi, da macello e da ristallo ancora in attesa di riprendersi dalle conseguenze della pandemia News mercati settimana n. 21/2020, dal 18 al 24 maggio 2020
Mercato nazionale alla produzione Prezzi medi settimanali Il punto sul mercato La ventunesima settimana dell’anno, per quanto riguarda il comparto dei bovini vivi, da macello e da ristallo è ancora in attesa di riprendersi dalle conseguenze della pandemia di Covid-19. Si segnala come la prossima settimana riprenderanno al Nord Italia i mercati in presenza di animali, prassi che dovrebbe garantire una maggiore omogeneità dei prezzi e migliore diffusione delle informazioni di mercato. Dalle piazze di Padova c’è motivo di ritenere la domanda da parte della distribuzione molto cauta, possibile conseguenza dell’avvicinarsi del fine mese e di un calo dei consumi. I tagli anteriori proseguono un andamento ribassista causato dalle crescenti temperature che dissuadono il consumatore ad intraprendere lunghe cotture domestiche. Nel complesso, le riaperture dei canali Horeca e del turismo dovrebbero far
sentire un effetto di segno positivo sui prezzi del comparto bovino ma è incerta la tempistica. Gli animali da ristallo mostrano stabilità sulla piazza di Padova. Sulla piazza di Modena i vitelli da ristallo di pezzata nera da 45 a 55 Kg di peso recuperano quindici centesimi portandosi a 1,75-2,1 Euro/Kg di peso vivo, oltre ad un lieve recupero di vitelli da ristallo di Charolaise e incroci francesi. La piazza di Padova non fa registrare variazioni degne di nota. Per quanto riguarda il macellato, su Modena il vitello perde 10 centesimi di Euro/Kg per tutte le categorie come busti, selle e mezzene. Sulla piazza di Milano si nota una contrazione di dieci centesimi di Euro/Kg su tutte le classi di quarti anteriori di scottona. Anche i quarti anteriori di vitellone hanno mostrato una contrazione di dieci centesimi di Euro/Kg su tutte le classi tranne sulla classe R, che ha perso venti centesimi di Euro/Kg. La piazza di Padova vede una contrazione dei vitelli da macello con i vitelli vivi all’origine scambiati a 4-5 centesimi di Euro/Kg di peso vivo in meno della scorsa settimana. Le scottone Charolaise, sempre su Padova, perdono due centesimi per Kg di peso vivo, così come i vitelloni della stessa razza che perdono quattro centesimi. N.B.: a causa dell’emergenza sanitaria COVID-19, sono disponibili le quotazioni per prodotto/varietà delle sole piazze dove è stato possibile rilevare le contrattazioni. Le informazioni sono quindi determinate sulla base delle quotazioni disponibili.
Prezzi medi per piazza
Mercato nazionale all’ingrosso Prezzi medi per piazza
Fonte: ISMEA Futuro della carne bovina di alta gamma: antropologia di
un mito Consumi delle carni e miracolo economico italiano Nei primi novant’anni postunitari i consumi alimentari degli italiani sono quelli di un Paese povero e arretrato, condannato ad una dieta pressoché vegetariana, povera di grassi e di proteine. Soltanto con il miracolo economico del secondo dopoguerra si apre un’epoca nuova e senza precedenti, di crescita costante e intensa, nella quale l’alimentazione italiana raggiunge i livelli e gli standard dei Paesi avanzati del mondo occidentale. Fino ai primi decenni del secolo scorso, solo una parte dei 16 chilogrammi di carne consumata dagli italiani è bovina, e questa è in gran parte costituita da carni di buoi e vacche da lavoro giunte a fine carriera, carni di scarso pregio e destinate ai bolliti delle feste e di qualche domenica del popolo. Solo una piccola parte della carne bovina è di giovani animali, destinati alle mense di una classe borghese che ha i mezzi per acquistarla; è il tempo del proverbio “chi legge cartello (dei prezzi) non mangia vitello”. Alla fine del XX secolo gli italiani giungono a consumare 25 chilogrammi di carne bovina per persona per anno, quantità che ha un transitorio calo solo in coincidenza dell’incidente della BSE e della Mucca Pazza ma che sembra essere una solida acquisizione. Ma così non è perché dal 2007-2008, gli italiani, pur non diminuendo il consumo di carne in generale, diminuiscono progressivamente quello di carne bovina, arrivando ad una quantità compresa tra i 19 e i 18 chilogrammi per persona per anno, con un calo che ha molte cause che rientrano nei mutamenti in atto considerati dall’antropologia alimentare.
Antropologia delle carni bovine Per spiegare il calo dei consumi di carne bovina sono indubbiamente importanti la crisi economica che colpisce l’Italia dal 2007-2008 diminuendo il potere d’acquisto delle famiglie, la continua e quasi martellante diffusione di notizie distorte sulla carne e su quella bovina in particolare e la progressiva perdita di tradizioni alimentari sostituite dalle mode del vegetarianesimo e del veganismo. Non sono da sottovalutare neanche le altre condizioni del cambiamento antropologico che ha subito il consumo di carne bovina, che meritano qualche considerazione anche in relazione al futuro di questo alimento nella dieta degli italiani. La carne bovina, dall’antichità fin quasi ai giorni nostri, è stata ritenuta la carne per eccellenza, destinata alle più alte categorie sociali. I bovini non sono soltanto gli animali destinati ai più importanti sacrifici, come la consacrazione del nuovo tempio di Gerusalemme o il romano suovetaurilia, ma il vitello grasso è anche il cibo della grande festa per il ritorno de figliol prodigo. Anche in tempi a noi più vicini la carne bovina e dei grandi ruminanti rimane il cibo dei potenti, tanto che la sua astinenza diviene il simbolo di esclusione e punizione dei vinti, senza dimenticare – anche se è soltanto un aneddoto – la denominazione di mangiatori di bistecche, Beefeaters, data alle Guardie del Palazzo Reale di Sua Maestà e della fortezza della Torre di Londra, il cui salario includeva una razione di carne di manzo (beef) in modo che questi guardiani potessero mangiare carne bovina a volontà dalla tavola imbandita del sovrano. Quando gli italiani escono dalla povertà ed entrano nel periodo di miracolo economico del secondo dopoguerra vogliono mangiare più carne, secondo la regola che a ogni passaggio dalla povertà alla ricchezza, reale o percepita che sia, è la carne bovina che la popolazione vuole, e non quella di vecchie vacche o di buoi da lavoro ma del vitello di biblica memoria. In questo periodo però la richiesta di carne di vitello o di vitellone non può
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