Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Christoph Eschenbach Gidon Kremer - direttore violino

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Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Christoph Eschenbach Gidon Kremer - direttore violino
Orchestra Giovanile
 Luigi Cherubini
       direttore
    Christoph
   Eschenbach
       violino
  Gidon Kremer
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Christoph Eschenbach Gidon Kremer - direttore violino
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Christoph Eschenbach Gidon Kremer - direttore violino
2022

 Orchestra Giovanile
  Luigi Cherubini
           direttore

Christoph Eschenbach
            violino

   Gidon Kremer

    Palazzo Mauro De André
         3 luglio, ore 21
con il patrocinio di
Senato della Repubblica
Camera dei Deputati
Ministero della Cultura
Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

con il sostegno di

                                 Ministero degli Affari Esteri
                                 e della Cooperazione Internazionale

con il contributo di

Comune di Cervia             Comune di Lugo                            Comune di Russi

Koichi Suzuki

partner principale
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                                   Eraldo Scarano

                                 Vice Presidenti
                       Leonardo Spadoni, Maria Luisa Vaccari

                                      Consiglieri
     Andrea Accardi, Paolo Fignagnani, Chiara Francesconi, Adriano Maestri,
 Maria Cristina Mazzavillani Muti, Irene Minardi, Giuseppe Poggiali, Thomas Tretter

                                     Segretario
                                   Giuseppe Rosa

Amici Benemeriti                            Sofia Gardini, Ravenna
Intesa Sanpaolo                             Stefano e Silvana Golinelli, Bologna
                                            Lina e Adriano Maestri, Ravenna
Aziende sostenitrici                        Silvia Malagola e Paola Montanari, Milano
Alma Petroli, Ravenna                       Irene Minardi, Bagnacavallo
LA BCC - Credito Cooperativo                Peppino e Giovanna Naponiello, Milano
Ravennate, Forlivese e Imolese              Giorgio e Riccarda Palazzi Rossi, Ravenna
Ghetti - Concessionaria Fiat, Lancia,       Gianna Pasini, Ravenna
Abarth, Alfa Romeo, Jeep, Ravenna           Giuseppe e Paola Poggiali, Ravenna
Kremslehner Alberghi e Ristoranti, Vienna   Carlo e Silvana Poverini, Ravenna
Rosetti Marino, Ravenna                     Paolo e Aldo Rametta, Ravenna
Suono Vivo, Padova                          Marcella Reale e Guido Ascanelli, Ravenna
Terme di Punta Marina, Ravenna              Grazia Ronchi, Ravenna
Tozzi Green, Ravenna                        Liliana Roncuzzi Faverio, Milano
                                            Stefano e Luisa Rosetti, Milano
Amici                                       Guglielmo e Manuela Scalise, Ravenna
Maria Antonietta Ancarani, Ravenna          Eraldo e Clelia Scarano, Ravenna
Francesca e Silvana Bedei, Ravenna          Leonardo Spadoni, Ravenna
Chiara e Francesco Bevilacqua, Ravenna      Gabriele e Luisella Spizuoco, Ravenna
Mario e Giorgia Boccaccini, Ravenna         Paolino e Nadia Spizuoco, Ravenna
Ada Bracchi, Bologna                        Paolo e Luciana Strocchi, Ravenna
Paolo e Maria Livia Brusi, Ravenna          Thomas e Inge Tretter, Monaco di Baviera
Filippo Cavassini, Ravenna                  Ferdinando e Delia Turicchia, Ravenna
Roberto e Augusta Cimatti, Ravenna          Luca e Riccardo Vitiello, Ravenna
Guido e Eugenia Dalla Valle, Ravenna        Livia Zaccagnini, Bologna
Maria Pia e Teresa d’Albertis, Ravenna
Rosa Errani e Manuela Mazzavillani,         Giovani e studenti
Ravenna                                     Carlotta Agostini, Ravenna
Gioia Falck Marchi, Firenze                 Federico Agostini, Ravenna
Paolo e Franca Fignagnani, Bologna          Domenico Bevilacqua, Ravenna
Giovanni Frezzotti, Jesi                    Alessandro Scarano, Ravenna
Eleonora Gardini, Ravenna
Presidente onorario
Cristina Mazzavillani Muti

Direzione artistica
Franco Masotti
Angelo Nicastro

Fondazione
Ravenna Manifestazioni

Soci
Comune di Ravenna
Provincia di Ravenna
Camera di Commercio di Ravenna
Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna
Confindustria Ravenna
Confcommercio Ravenna
Confesercenti Ravenna
CNA Ravenna
Confartigianato Ravenna
Arcidiocesi di Ravenna-Cervia

Consiglio di Amministrazione
Presidente
Michele de Pascale
Vicepresidente
Livia Zaccagnini
Consiglieri
Ernesto Giuseppe Alfieri
Chiara Marzucco
Davide Ranalli

Sovrintendente
Antonio De Rosa

Segretario generale
Marcello Natali

Responsabile amministrativo
Roberto Cimatti

Revisori dei conti
Giovanni Nonni
Alessandra Baroni
Angelo Lo Rizzo
Orchestra Giovanile
Luigi Cherubini
direttore

Christoph Eschenbach
violino

Gidon Kremer
Mieczyslaw Weinberg (1919-1996)
Concerto per violino in sol minore op. 67
Allegro molto
Allegretto
Andante
Allegro risoluto

Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893)
Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Andante. Allegro con anima
Andante cantabile con alcuna licenza
Valse. Allegro moderato
Finale. Andante maestoso. Allegro vivace
Mieczyslaw Weinberg
Dall’URSS di Weinberg
   alla Russia di Čajkovskij
   di Oreste Bossini

    Mieczyslaw Weinberg
(Concerto per violino in sol minore op. 67)
    Il 7 novembre 1990 la «Pravda», organo del Partito Comunista
dell’Unione Sovietica, forniva il resoconto della cerimonia di
consegna dei Premi di Stato, la maggiore onorificenza concessa ai
cittadini sovietici che si erano distinti per un particolare lavoro
nell’ambito della scienza, della tecnica, della cultura e delle arti.
Tra i premiati figurava anche un compositore ebreo polacco
residente nell’Unione Sovietica dal 1939, Mieczyslaw Weinberg,
autore al momento del Premio di ben diciassette Quartetti,
venti Sinfonie (la ventunesima, intitolata Kaddish, sarebbe stata
terminata l’anno successivo), sette opere (di cui le più importanti
mai allestite in Unione Sovietica) e di un’abbondante messe di
musica da camera, vocale, da film. Il tardivo riconoscimento
aveva una sfumatura ancora più beffarda, perché il Premio
arrivava alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che
avrebbe lasciato l’anziano e malato compositore in pratica senza
mezzi di sussistenza, nel caos seguito alle drammatiche vicende
del tentato colpo di stato dell’agosto 1991 e delle dimissioni di
Michail Gorbačëv da Presidente dell’ormai disgregata URSS.
Weinberg, costretto a letto, sarebbe morto pochi anni dopo,
nel 1996, totalmente ignorato dal mondo musicale russo e
internazionale.
    La sua storia s’intreccia in maniera fin troppo simbolica con
le tragedie e i rivolgimenti del cosiddetto “secolo breve”, ma
senza gli strascichi di amarezza e vittimismo che spesso hanno
caratterizzato la narrazione della musica sovietica del Novecento.
Di certo, tutte le piaghe del ventesimo secolo, l’antisemitismo,
la guerra, la repressione politica, hanno afflitto in maniera
implacabile Weinberg fin da giovane, costringendolo a fuggire
dalla Polonia invasa dai nazisti a soli vent’anni, nel 1939, fresco di
diploma al Conservatorio di Varsavia. Il resto della sua famiglia,
rimasta in patria, fu sterminato nei campi di concentramento. Il
padre Shmuel, violinista autodidatta, era arrivato a Varsavia per
lavorare nel Teatro ebraico yiddish, e il giovane Weinberg, negli
anni durissimi della Grande depressione, lo aiutava a preparare
gli spettacoli come arrangiatore e direttore. Rifugiatosi a Minsk,
in Bielorussia, Weinberg continuò a studiare composizione al
Conservatorio con Vasilij Zolotarev, uno dei numerosi allievi di
Rimskij-Korsakov, acquisendo un solido mestiere innestato su
un talento manifestatosi fin dal suo primo Quartetto d’archi,

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Dmitrij Šostakovič

scritto prima di fuggire dalla Polonia. Qui avviene già uno di
quei malintesi d’identità che rivelano il puzzle di nazionalità
che segna la storia dell’Europa orientale, perché la guardia di
frontiera russa che esamina i documenti di Weinberg traduce
nella forma ebraica Moisej il nome polacco Mieczyslaw,
un cambiamento di nome che per tutta la vita affliggerà il
compositore. Ma la fuga verso Est non era ancora finita, perché
l’invasione tedesca del 1941 costrinse Weinberg a rifugiarsi a
Tashkent, capitale della Repubblica Uzbeka. Lì, egli conobbe la
prima moglie Natalia Vovsi, figlia del famoso attore Solomon
Mikhoels, direttore del Teatro ebraico statale di Mosca e
presidente del Comitato antifascista ebraico, un’organizzazione

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voluta da Stalin all’indomani dell’invasione nazista per sostenere
l’Unione Sovietica, soprattutto a livello internazionale, nella
Grande guerra patriottica.
    Nel frattempo, Weinberg era entrato in relazione con Dmitrij
Šostakóvič, che aveva molto elogiato la sua Prima sinfonia
invitandolo a trasferirsi a Mosca. I due compositori diventarono
in seguito amici intimi, scambiandosi continuamente idee e
impressioni sui rispettivi lavori. Weinberg, pur non avendo
mai preso una lezione da Šostakóvič, dichiarava di sentirsi suo
allievo, “sua carne e sangue”. Šostakóvič, a sua volta, non perdeva
occasione per promuovere e apprezzare pubblicamente la musica
del giovane amico, spingendosi anche a esporsi personalmente in
suo aiuto in circostanze molto pericolose. Nel 1953, infatti, poche
settimane prima della morte di Stalin, Weinberg fu arrestato
come sospetto complice del cosiddetto complotto dei medici
ebrei, una delle numerose persecuzioni antisemite scatenate dal
regime negli anni del dopoguerra. La famiglia di Weinberg era
già stata colpita duramente nel 1948, quando il suocero Mikhoels
era stato assassinato su ordine di Stalin dalla polizia politica,
che aveva inscenato un incidente stradale. Incurante del rischio
di intercedere a favore di un nemico del popolo, Šostakóvič
scrisse al potente capo della polizia segreta Lavrentij Berija per
proclamare l’innocenza di Weinberg. Non solo: gli Šostakóvič
si offrirono di prendersi cura della figlia di Weinberg, Vitosha,
nel caso fosse successo qualcosa ai genitori, come sembrava
inevitabile. Dopo la scomparsa di Stalin, invece, Weinberg fu
rilasciato senza altre conseguenze.
    La vita del compositore, per fortuna, non ebbe nuovi
scossoni, rimanendo per sempre in quel limbo di anonimato
dal quale non riuscirono mai a togliere la sua musica né il
sostegno senza riserve dell’amico più celebre, né le numerose
esecuzioni da parte di giganti della musica sovietica come
Mstislav Rostropovič, il Quartetto Beethoven, Emil Gilels, il
direttore d’orchestra Kirill Kondrašin. Weinberg, dal canto suo,
era troppo modesto e riluttante a promuovere il proprio lavoro
per riuscire a superare le barriere imposte dal regime ai rapporti
internazionali, così che rimase sempre in balia delle complicate
logiche spartitorie e burocratiche interne alle varie associazioni
di compositori sovietici. L’unica volta che ebbe l’opportunità di
viaggiare al di fuori dei confini dell’Unione Sovietica fu nel 1966,
per l’importante festival internazionale Autunno di Varsavia,
una delle pochissime occasioni in cui gli artisti del mondo
comunista potevano incontrare i loro colleghi occidentali.
Fu anche l’unica volta in cui Weinberg mise di nuovo piede
nella sua città natale, trovando una Varsavia completamente
diversa da quella che aveva lasciato già da quasi trent’anni.
In primo luogo, ovviamente, era completamente svanito quel
mondo ebraico e yiddish che aveva formato lo sfondo della sua
prima giovinezza. Tutta la sua famiglia, i genitori e la sorella

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minore, era stata trucidata durante la guerra, e più in generale
l’antica anima ebraica della città, che assicurava per esempio
al Conservatorio di Varsavia un buon terzo degli studenti, si
era completamente dissolta. Questo trauma non sarebbe mai
stato superato da Weinberg, che fece della memorialistica un
asse portante della propria produzione, a cominciare dalla
sua opera più importante, Passazhirka (La passeggera), scritta
nel 1968 e tratta da un radiodramma della scrittrice polacca
Zofia Posmysz sopravvissuta ai campi di concentramento di
Auschwitz e Ravensbrück. La musica yiddish è certamente una
delle radici della musica di Weinberg, e molti studiosi hanno
messo in luce l’influenza del compositore di origine polacca
nell’inclinazione di Šostakóvič per la poesia ebraica e per l’uso
della musica yiddish in molti lavori del dopoguerra. La musica
popolare, non solo yiddish ma per esempio anche moldava, non
è tuttavia il solo elemento rilevante dello stile di Weinberg. Un
altro aspetto della sua personalità artistica, infatti, è il legame
con la musica modernista polacca, all’interno di un processo di
complessa stratificazione dell’identità artistica che comprende
non solo la cultura ebraica e quella polacca ma anche la profonda
adesione ai valori e alle forme della sua nuova patria, la Russia
sovietica. Infatti, Weinberg si è sempre sentito profondamente
grato al Paese che l’aveva accolto salvandolo dallo sterminio, e
in particolare all’Armata Rossa che aveva liberato l’Europa dal
flagello fascista, nonostante le disavventure poi vissute sotto
il regime di Stalin e le storture evidenti della società sovietica.
In questo senso, egli, come del resto Šostakóvič, non è in alcun
modo compatibile con le manifestazioni di dissenso nate nel
mondo culturale sovietico tra gli anni Sessanta e Settanta, né ha
mai tentato di presentarsi come una vittima della cultura di stato
o come un artista perseguitato a causa delle sue opinioni. Forse
anche questa è una delle ragioni del peso marginale di Weinberg
nella musica sovietica del secondo Novecento. La generazione di
compositori più giovani, come Alfred Schnittke, Edison Denisov,
Sofija Gubajdulina e Arvo Pärt, grazie a un atteggiamento
più critico verso il regime e a una diversa capacità di stringere
legami con il mondo occidentale, hanno ricevuto più facilmente
un riconoscimento a livello internazionale di quanto abbia
potuto ottenere Weinberg, che invece solo dopo la morte è stato
rivalutato per quello che è, ovvero uno dei maggiori musicisti
russi del Novecento.
     Con la salita al potere di Nikita Kruscev e la nuova politica
del cosiddetto disgelo, nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta,
inizia il periodo migliore di Weinberg, perlomeno dal punto
di vista artistico e sociale. Ed è proprio nel 1959 che scrive
il Concerto in sol minore per violino e orchestra op. 67, su
richiesta di uno dei grandi eroi della scuola violinistica sovietica,
Leonid Kogan, che lo eseguì per la prima volta il 12 febbraio
1961 a Mosca, con l’Orchestra Filarmonica di Mosca diretta da

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Gennadij Rozhdestvenskij. Kogan era un artista ben noto per le
sue simpatie verso il regime, tanto che Šostakóvič ne parla così,
con un velo di ironia, in una lettera all’amico Isaac Glikman
del 1960: «Sono molto impressionato dal Concerto per violino
di M.S. Vainberg [la grafia russa del cognome di Weinberg],
superbamente interpretato dal violinista comunista L.B. Kogan.
È un lavoro magnifico. E sto pesando le parole». Šostakóvič,
probabilmente, aveva ascoltato il Concerto dell’amico in
anteprima a un’esecuzione dell’Unione dei compositori, prassi
abituale in vista della presentazione al pubblico di un nuovo
lavoro.
    Il Concerto è articolato in quattro movimenti, con una
struttura che richiama quindi la forma sinfonica, come aveva
fatto Šostakóvič per il suo Primo Concerto per violino, scritto nel
1947-48. In realtà, il parallelo tra i due lavori si limita all’aspetto
formale, perché il modello dell’amico ha avuto un’influenza,
piuttosto, sul Concerto per violoncello op. 43 di Weinberg,
composto nel 1948 per Rostropovič. Più in generale, il tema del
rapporto tra Weinberg e Šostakóvič è molto interessante, perché
un’analisi attenta delle reciproche influenze rivela una relazione
pressoché unica nella musica del Novecento, qualcosa che
potrebbe richiamare in parte il rapporto tra Brahms e Dvořák.
La visione di un Weinberg come una sorta di piccolo Šostakóvič,
infatti, è del tutto infondata. Weinberg riconosceva all’amico
un primato e un’autorità assoluta, ma non a detrimento della
propria identità e dell’originalità del proprio stile. Le reciproche
influenze, rintracciabili soprattutto nell’ambito del quartetto
e della sinfonia, sono lì a testimoniare un dialogo paritetico
tra i due musicisti, che hanno preso spunto continuamente e
reciprocamente dalle idee l’uno dell’altro. Rispetto a Šostakóvič,
Weinberg aveva uno stile più morbido e romantico, privo di
quella punta di aggressività che nel primo era il retaggio del
mondo avanguardistico delle sue prime esperienze. Weinberg,
invece, era cresciuto nella Varsavia musicale degli anni Trenta,
influenzata da un modernismo neoclassico che non arrivò mai
a una rottura completa con la musica dell’Ottocento. Per questo
motivo, probabilmente, la sua musica sembrava avvolta da una
patina di passatismo che lo rendeva superato agli occhi della
critica e della generazione più giovane, incapace di vedere le altre
qualità del suo lavoro. Egli, per esempio, scriveva alla seconda
moglie Olga Rakhalskaia:

   Non capisco perché quasi chiunque al giorno d’oggi voglia scrivere
   secondo le regole di Schönberg. Per lui era naturale. Ma per gli
   altri? Perché essere una scimmia? Questa è un’epoca di terribile
   spersonalizzazione. Si è creato un modello per l’abitante del pianeta.
   Le culture, come se si arricchissero l’un l’altra, perdono la loro unicità.
   Le ragazze desiderano essere ora Brigitte Bardot, ora Marilyn Monroe.
   Molto probabilmente ci sarà presto un solo, benefico, clima universale.1

                                                                            13
Il Concerto per violino rispecchia questa visione umanistica
e profondamente legata alla tradizione, già dalla netta
impostazione tonale del primo movimento, Allegro molto, che si
apre con un’esplosione sonora sostenuta dalle percussioni e un
ritmo incalzante degli archi, sul quale il violino solista scolpisce
un tema in sol minore ad accordi pieni di stampo pienamente
romantico. L’aspetto più appariscente, non solo del primo
movimento, ma di tutto il Concerto, è l’eccezionale rilievo del
violino solista, che in pratica suona ininterrottamente dalla
prima all’ultima battuta. L’unica eccezione è rappresentata
dall’inizio del secondo movimento, Allegretto, in cui l’orchestra
da sola espone il tema, che immediatamente dopo sarà variato
in molteplici forme dal violino solista. L’Allegro molto iniziale,
scritto in una tradizionale forma sonata, contrappone al
tambureggiante tema iniziale un secondo tema, più lirico e
introspettivo, avvolto da una filigrana orchestrale segnata dal
tocco onirico della celesta. L’Adagio è ovviamente il momento
più espressivo, con l’infinita cantilena del violino che si espande
con la struggente speranza di trovare quella pace interiore che
le drammatiche atmosfere del primo movimento sembravano
negare. Il finale, Allegro risoluto, inizia nel tradizionale stile
robusto e danzante di un movimento conclusivo di concerto,
con un’orchestra spumeggiante e colorata di inflessioni musicali
klezmer. Un effetto un po’ enigmatico è la citazione, in uno dei
temi secondari, della Sinfonia “piccola” in sol minore KV183 di
Mozart, preludio all’imprevedibile e celestiale coda conclusiva,
con un etereo accordo finale del violino sfumato in un filo di
suono che si perde nel cielo.

     Pëtr Il’ič Čajkovskij
(Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64)
     Negli anni Ottanta dell’Ottocento, Čajkovskij era senz’altro
il compositore russo più conosciuto al mondo e una vera
celebrità in patria, seconda solo a Lev Tolstoj. La sua fiorente
ascesa internazionale culmina con la trionfale tournée negli
Stati Uniti nel 1891 e con la laurea honoris causa all’Università
di Cambridge nel 1893. Gli innumerevoli successi e attestati
di stima cominciavano finalmente a dissipare in lui le
ombre interiori, e a rafforzare la fiducia in sé stesso, sebbene
continuasse a soffrire un senso d’inferiorità nei confronti della
tradizione europea. Questo rapporto non sereno con la musica
occidentale, per esempio, emerge dai ruvidi giudizi espressi
su Brahms, appena mitigati dalla cordialità del loro incontro
a Lipsia nel 1888, così come, al contrario, dalla calda simpatia
dimostrata per compositori al pari suo “periferici”, come Grieg
e Dvořák. Čajkovskij non sopportava l’idea di una superiorità
della musica tedesca, e riteneva di aver dimostrato con la Quarta
Sinfonia che era possibile adattare le forme musicali classiche

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a una sensibilità diversa e a un’espressione drammatica più
immediata e personale. L’incontro ad Amburgo con l’anziano
maestro Theodor Avé-Lallemant, nel gennaio 1888, in occasione
di un concerto di musiche sue alla Philharmonie, è la conferma
di questa tensione latente. Il venerabile vecchio, dopo averlo
accolto con affetto paterno e ascoltato con la massima attenzione,
confessò apertamente a Čajkovskij, com’è riportato nel suo
diario,

   che c’erano molte cose non di suo gusto nei miei lavori eseguiti ad
   Amburgo; che non poteva sopportare la mia rumorosa strumentazione;
   che detestava alcuni effetti orchestrali a cui ricorrevo (specialmente
   con le percussioni), ma che tuttavia egli vedeva in me i segni di un
   buono e autentico compositore tedesco. Quasi con le lacrime agli occhi
   mi esortava a lasciare la Russia e a trasferirmi in Germania, dove le
   tradizioni classiche e una cultura di livello più elevato non avrebbero
   mancato di correggere i miei difetti, che erano facilmente imputabili al
   fatto di essere nato e cresciuto in un Paese che era ancora così arretrato
   e poco illuminato in confronto alla Germania.

    Egli, in realtà, non si sentì offeso dai pregiudizi del vecchio
maestro, al contrario rimase profondamente toccato dal suo
candore e dalla sincera passione. Questo incontro è stato forse la
scintilla della Quinta Sinfonia in mi minore, scritta tra maggio
e agosto del 1888. Čajkovskij era ansioso, come scrive alla sua
mecenate Nadezhda von Meck, «di dimostrare agli altri, ma
soprattutto a me stesso, di non essere ancora spirato». Non solo,
di dimostrare anche che con la Quarta Sinfonia non si era infilato
in un cul-de-sac, bensì aveva iniziato un percorso originale e
russo, indipendente dagli sviluppi della musica occidentale.
Curiosamente, è proprio la dedica della nuova sinfonia al vecchio
Avé-Lallemant, che purtroppo non fece in tempo ad ascoltare il
lavoro, eseguito ad Amburgo nel 1889, a rivelare questo grumo di
sentimenti controversi.
    Tra gli schizzi di Čajkovskij si trovano anche i resti
di un vago programma narrativo del primo movimento:
«Introduzione. Totale sottomissione al Fato – o, che è la stessa
cosa, all’imperscrutabile disegno della Provvidenza. Allegro.
1 Sussurri, dubbi, lamenti. Rimproveri contro ...xxx; 2 Dovrei
gettarmi nell’abbraccio della Fede?». In effetti, l’Andante
inizia con un tema dei clarinetti formato da due citazioni che
sembrerebbero confermare questo sfondo poetico. La prima è un
frammento tratto dal terzetto dell’Atto I di Una vita per lo Zar di
Michail Glinka, il padre della musica russa. Le parole esatte del
passo citato recitano «non piegarti alle ansie», mentre le sei note
di scala discendente della seconda parte della frase riecheggiano
le sei note discendenti del tema del Fato nella scena della lettera
dell’Eugenio Onegin. È significativo che Čajkovskij abbia attinto
un tema da quella che è considerata la prima opera russa,

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Pëtr Il’ič Čajkovskij

come per rivendicare orgogliosamente l’appartenenza a una
tradizione nazionale anche all’interno di una scrittura sinfonica,
così come un altro tema dal lavoro teatrale a cui si sentiva più
legato. L’Andante introduttivo, in altre parole, getta una luce
autobiografica sulla Sinfonia, che racconta un dramma vissuto in
prima persona. Il corpo del primo movimento, Allegro con anima,
si sviluppa, infatti, da un tema ritmato di clarinetto e fagotto,
evidentemente associato al tema della speranza. Dopo un’ampia
elaborazione, compare il secondo tema, un’appassionata frase
in si minore degli archi. Come accade spesso in Čajkovskij,
l’esposizione si arricchisce di un terzo tema, un elegante valzer
cantabile ed espressivo in re maggiore. I tre temi s’intrecciano
e si mescolano in maniera drammatica nel poderoso sviluppo,
fino a sfociare nella ripresa del tema iniziale, con un’orchestra
spossata dalla violenza delle passioni. Il fagotto, infatti, sembra
nutrire ancora un barlume di speranza, risvegliando poco a
poco l’energia degli altri strumenti verso un trionfante finale
in maggiore che tuttavia non arriva, perché il movimento si
estingue nel cupo mi minore dell’inizio.
     Il compositore, poi, ha sentito il bisogno di aggiungere
all’indicazione del successivo movimento, Andante cantabile, le
parole con alcuna licenza. Forse intendeva sottolineare il carattere
narrativo di questo grande affresco lirico, una delle pagine
più alte della letteratura sinfonica. Il movimento si apre con
un’introduzione degli archi, che preparano il famoso solo del
corno in re maggiore. Il secondo tema, più apertamente amoroso,
è affidato invece all’oboe, ma quando questi due temi si riversano
nella voce degli archi la temperatura emotiva sale fino a toccare

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il primo picco di questa cima espressiva. La sezione successiva
si apre in la maggiore con un nuovo tema del clarinetto, più
quieto e riflessivo, che porta però a una drammatica citazione
del tema della speranza e del Fato, imprimendo così all’Andante
un marcato carattere autobiografico. I violini riprendono sulla
quarta corda la melodia iniziale del corno, contrappuntata
da espressivi soli dei fiati. La risposta del tema d’amore in re
maggiore è talmente impetuosa da travolgere l’orchestra con
una nuova irruzione del motto principale della Sinfonia, che
pone definitivamente il lavoro sotto il segno della speranza
e del destino. L’ombra di questo motto si allunga anche sulla
luminosa Valse successiva in la maggiore, infilandosi con una
larvata citazione in pianissimo del tema della speranza nella
coda finale, ma legandosi in maniera più subdola anche al
grazioso tema iniziale del movimento, che altro non è che le sei
note discendenti del tema del Fato. Niente di allusivo, viceversa,
nell’Andante maestoso finale, che si apre con un’eloquente ripresa
del motto, diviso in due dinamiche nettamente separate. La
parte della speranza, infatti, è in tono sommesso, mentre quella
del Fato è vivacemente sonora. In maniera speculare al primo
movimento, dopo l’introduzione lenta, il Finale sviluppa una
forma sonata, Allegro vivace, dove forse si dibattono in maniera
convulsa i dubbi e le recriminazioni di cui si parla nell’abbozzo
di programma. La Sinfonia, però, si chiude nel segno di un’altra
citazione, soffiata a pieni polmoni dalle trombe come nel giorno
del Giudizio. Il tema principale del primo movimento, infatti,
torna qui in maniera trionfante in mi maggiore, scacciando il
motto che aveva ossessionato l’intero lavoro, forse indizio della
volontà di abbracciare quella Fede tanto a lungo invocata, ma
probabilmente mai davvero trovata.

1   In «Muzykal’noy Zhizni» (Vita musicale), 2000, n. 1.

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2022

gli
arti
sti
© Luca Piva
Christoph Eschenbach

    Unanimemente apprezzato sia come direttore d’orchestra
che come pianista, si colloca saldamente nel solco della
tradizione intellettuale tedesca, che coniuga però a una rara
intensità emotiva, regalando performances acclamate dagli
spettatori di tutto il mondo. Rinomato per la vastità del
repertorio e la profondità delle interpretazioni, ha diretto molte
prestigiose orchestre e ottenuto i più importanti riconoscimenti
musicali.
    Nato a Breslavia nel 1940 e rimasto orfano durante la guerra,
fu adottato da una cugina della madre, la pianista Wallydore
Eschenbach, che lo crebbe tra lo Schleswig-Holstein e la città
di Aquisgrana, avviandolo allo studio del pianoforte e alla
carriera musicale. Dopo gli studi con Eliza Hansen (pianoforte)
e Wilhelm Brückner-Rüggeberg (direzione d’orchestra), vince
importanti premi pianistici come il Concorso ARD di Monaco nel
1962 e il “Clara Haskil” nel 1965, che contribuiscono ad aprirgli la
strada del successo internazionale.
    Sostenuta da mentori come George Szell e Herbert von
Karajan, la sua carriera si è poi concentrata sempre più sulla
direzione d’orchestra: è stato Direttore principale e Direttore
artistico dell’Orchestra della Tonhalle di Zurigo dal 1982 al 1986,
Direttore musicale della Houston Symphony dal 1988 al 1999,
Direttore artistico del Festival Musicale dello Schleswig-Holstein
dal 1999 al 2002, Direttore musicale dell’Orchestra Sinfonica
della NDR dal 1998 al 2004, della Philadelphia Orchestra dal
2003 al 2008, e dell’Orchestre de Paris dal 2000 al 2010. Dal 2010
al 2017, Eschenbach ha quindi ricoperto il ruolo di Direttore
musicale della Washington National Symphony Orchestra. Oltre
a tanti prestigiosi incarichi, ha sempre dato grande importanza
anche all’attività di Direttore ospite, collaborando con orchestre
come Wiener Philharmoniker e Berliner Philharmoniker, poi
Chicago Symphony Orchestra, Staatskapelle Dresden, New York
Philharmonic, Scala di Milano, London Philharmonic Orchestra
e NHK Symphony Orchestra di Tokyo.
    Nel corso di cinque decenni, ha accumulato una discografia
impressionante, sia come direttore d’orchestra che come
pianista, con un repertorio che spazia da Bach alla musica
contemporanea. Molte delle sue incisioni sono diventate veri e
propri capisaldi, e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra
cui il German Record Critics’ Prize, il MIDEM Classical Award e
un Grammy. Per molti anni, in ambito liederistico, il suo partner
preferito è stato il baritono Matthias Goerne: sia nelle incisioni
sia nelle esecuzioni dal vivo, come per esempio al Festival di

                                                                  21
Salisburgo, i due artisti, in perfetta sintonia, hanno esplorato
i gioielli del Romanticismo tedesco da Schubert a Brahms.
    Christoph Eschenbach è stato insignito dei titoli di Cavaliere
della Legion d’Onore e Commendatore dell’Ordine delle Arti
e delle Lettere, le più alte onorificenze conferite dallo Stato
francese, oltre che della Croce Federale Tedesca al Merito. Ha
vinto inoltre anche il prestigioso Leonard Bernstein Award.
    Infine è noto anche per essere un instancabile sostenitore
di giovani talenti: è questa la sua più grande passione, e il
contributo dato al sostegno di talenti emergenti è, per lui,
quasi più importante della sua stessa carriera. Commosso
dall’energia e dalla grinta dei giovani talenti, ha fatto propria
la missione di “passare il testimone” alla generazione ventura.
Tra le sue “scoperte” figurano il pianista Lang Lang, la violinista
Julia Fischer e i violoncellisti Leonard Elschenbroich e Daniel
Müller-Schott. In qualità di consulente artistico e docente della
celebre Accademia di Kronberg, accompagna giovani violinisti,
violoncellisti e violisti nel percorso che li renderà solisti di livello
mondiale. Nel frattempo, continua a esplorare nuovi orizzonti,
e da settembre 2019 ricopre l’incarico di Direttore musicale della
Konzerthausorchester di Berlino.

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© Angie Kremer
   Gidon Kremer

    Mosso da una filosofia artistica sorprendentemente
intransigente, si è affermato in tutto il mondo come uno degli
artisti più originali e convincenti della sua generazione.
    Il suo repertorio comprende partiture classiche standard
e musica dei principali compositori del xx e xxi secolo. Ha
promosso le opere dei compositori russi e dell’Europa orientale,
ed eseguito molte nuove e importanti composizioni, diverse
delle quali dedicate a lui stesso. Il suo nome è strettamente
legato a quello di compositori come Alfred Schnittke, Arvo
Pärt, Giya Kancheli, Sofija Guabjdulina, Valentin Silvestrov,
Luigi Nono, Edison Denisov, Aribert Reimann, Pēteris Vasks,
John Adams, Viktor Kissine, Michael Nyman, Philip Glass,
Leonid Desyatnikov e Astor Piazzolla, le cui opere propone nel
rispetto della tradizione ma sempre con la massima freschezza e
originalità. Si può certamente affermare che, tra i solisti di pari
livello internazionale, nessuno più di lui abbia promosso la causa
dei compositori contemporanei e della nuova musica per violino.
    Ha inciso oltre 120 album, molti dei quali insigniti di
prestigiosi premi internazionali per le eccezionali intuizioni
interpretative. La lunga lista di onorificenze e premi include
l’Ernst von Siemens Musikpreis, la Bundesverdienstkreuz, il
Premio Triumph di Mosca, il Premio Unesco e il Premio “Una
vita nella musica - Arthur Rubinstein”. Nel 2016 Kremer ha
ricevuto anche il Praemium Imperiale, considerato da molti il
Nobel della musica.
    Nel 1997, ha fondato l’orchestra da camera Kremerata
Baltica con lo scopo di promuovere giovani musicisti di spicco
                                                                23
provenienti dall’area baltica. L’ensemble si esibisce spesso in
tournée, e ha inciso quasi 30 album per le etichette Nonesuch,
Deutsche Grammophon ed ECM. Nella stagione 2016/17 la
Kremerata Baltica, giunta a celebrare il xx anniversario, è stata
impegnata in tournée memorabili in Medio Oriente, Nord
America, Europa e Asia.
   Da sottolineare anche l’impegno che Kremer ha profuso nella
“scoperta” del compositore Mieczyslaw Weinberg, al quale ha
reso, negli ultimi anni, un servizio eccellente. Nel 2019 e nel 2021,
Deutsche Grammophon e Accentus Music hanno pubblicato
album incisi da e con Gidon Kremer con i brani orchestrali e
cameristici di Weinberg.

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© Silvia Lelli
 Orchestra Giovanile
Luigi Cherubini
     Fondata da Riccardo Muti nel 2004, l’Orchestra Giovanile
Luigi Cherubini ha assunto il nome di uno dei massimi compositori
italiani di tutti i tempi attivo in ambito europeo per sottolineare,
insieme a una forte identità nazionale, la propria inclinazione a una
visione europea della musica e della cultura. L’Orchestra, che si
pone come strumento privilegiato di congiunzione tra il mondo
accademico e l’attività professionale, divide la propria sede tra le
città di Piacenza e Ravenna. La Cherubini è formata da giovani
strumentisti, tutti sotto i trent’anni e provenienti da ogni regione
italiana, selezionati attraverso centinaia di audizioni da una
commissione costituita dalle prime parti di prestigiose orchestre
europee e presieduta dallo stesso Muti. Secondo uno spirito che
imprime all’orchestra la dinamicità di un continuo rinnovamento,
i musicisti restano in orchestra per un solo triennio, terminato
il quale molti di loro hanno l’opportunità di trovare una propria
collocazione nelle migliori orchestre.
     In questi anni l’Orchestra, sotto la direzione di Riccardo
Muti, si è cimentata con un repertorio che spazia dal Barocco
al Novecento alternando ai concerti in moltissime città italiane
importanti tournée in Europa e nel mondo nel corso delle quali
è stata protagonista, tra gli altri, nei teatri di Vienna, Parigi,
Mosca, Salisburgo, Colonia, San Pietroburgo, Madrid, Barcellona,
Lugano, Muscat, Manama, Abu Dhabi, Buenos Aires e Tokyo.
     Il debutto a Salisburgo, al Festival di Pentecoste, con
Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa, ha segnato nel 2007
la prima tappa di un progetto quinquennale che la rassegna
austriaca, in coproduzione con Ravenna Festival, ha realizzato
con Riccardo Muti per la riscoperta e la valorizzazione del
                                                                  25
patrimonio musicale del Settecento napoletano e di cui la
Cherubini è stata protagonista in qualità di orchestra residente.
    A Salisburgo, poi, l’Orchestra è tornata nel 2015, debuttando
– unica formazione italiana invitata – al più prestigioso Festival
estivo, con Ernani: a dirigerla sempre Riccardo Muti, che l’aveva
guidata anche nel memorabile concerto tenuto alla Sala d’Oro
del Musikverein di Vienna, nel 2008, pochi mesi prima che alla
Cherubini venisse assegnato l’autorevole Premio “Abbiati” quale
miglior iniziativa musicale per “i notevoli risultati che ne hanno
fatto un organico di eccellenza riconosciuto in Italia e all’estero”.
    All’intensa attività con il suo fondatore, la Cherubini ha
affiancato moltissime collaborazioni con artisti quali Claudio
Abbado, John Axelrod, Rudolf Barshai, Michele Campanella,
James Conlon, Dennis Russell Davies, Gérard Depardieu, Kevin
Farrell, Patrick Fournillier, Valery Gergiev, Herbie Hancock,
Leonidas Kavakos, Lang Lang, Ute Lemper, Alexander Lonquich,
Wayne Marshall, Kurt Masur, Anne-Sophie Mutter, Kent Nagano,
Krzysztof Penderecki, Donato Renzetti, Vadim Repin, Giovanni
Sollima, Yuri Temirkanov, Alexander Toradze e Pinchas
Zukerman.
    Impegnativi e di indiscutibile rilievo i progetti delle
“trilogie”, che al Ravenna Festival l’hanno vista protagonista,
sotto la direzione di Nicola Paszkowski, delle celebrazioni per
il bicentenario verdiano in occasione del quale l’Orchestra è stata
chiamata ad eseguire ben sei opere al Teatro Alighieri. Nel 2012,
nel giro di tre sole giornate, Rigoletto, Trovatore e Traviata; nel
2013, sempre l’una dopo l’altra a stretto confronto, le opere
“shakespeariane” di Verdi: Macbeth, Otello e Falstaff. Per la Trilogia
d’autunno 2017, la Cherubini, diretta da Vladimir Ovodok, ha
interpretato Cavalleria rusticana, Pagliacci e Tosca; nel 2018, si
è misurata con una nuova straordinaria avventura verdiana,
guidata da Alessandro Benigni per Nabucco, Hossein Pishkar
per Rigoletto e Nicola Paszkowski per Otello; e di nuovo, nel
2019, con capolavori quali Carmen, Aida e Norma. Negli ultimi
anni il repertorio operistico viene affrontato regolarmente
dall’Orchestra anche nelle coproduzioni che vedono il Teatro
Alighieri di Ravenna al fianco di altri importanti teatri italiani
di tradizione. Dal 2015 al 2017 la Cherubini ha partecipato
inoltre al Festival di Spoleto, sotto la direzione di James Conlon,
eseguendo l’intera trilogia Mozart-Da Ponte. Il legame con
Riccardo Muti l’ha portata a prender parte all’Italian Opera
Academy per giovani direttori e maestri collaboratori, creata
dal Maestro nel 2015: se in quel primo anno la Cherubini ha
avuto l’occasione di misurarsi con Falstaff, negli anni successivi
l’attenzione si è concentrata su Traviata, Aida, Macbeth, Le nozze
di Figaro, Cavalleria rusticana, Pagliacci e, infine, Nabucco.
    Al Ravenna Festival, dove ogni anno si rinnova l’intensa
esperienza della residenza estiva, la Cherubini è regolarmente
impegnata in nuove produzioni e concerti, nonché, dal 2010,

26
del progetto “Le Vie dell’Amicizia” che l’ha vista esibirsi, tra le
altre mete, a Nairobi, Redipuglia, Tokyo, Teheran, Kiev, Atene e,
nel 2021, a Erevan, sempre diretta da Riccardo Muti.
     Nel 2020 è stata al centro del progetto di Ravenna Festival per
il ritorno alla musica dal vivo in Italia dopo il lockdown imposto
dalla pandemia da Covid-19; il concerto inaugurale diretto da
Muti alla Rocca Brancaleone in presenza di pubblico è stata
anche la prima trasmissione in diretta streaming per l’Orchestra.
A seguito della nuova sospensione degli eventi con spettatori, la
Cherubini e Muti sono stati impegnati in concerti in streaming:
due appuntamenti a novembre al Teatro Alighieri – diffusi anche
attraverso la partnership con i siti web di «El País», «Rossiyskaya
Gazeta» e lo Spring Festival di Tokyo – e, a marzo 2021, in una
tournée in streaming che ha toccato Bergamo (Teatro Donizetti),
Napoli (Teatro Mercadante) e Palermo (Teatro Massimo).
     È stata protagonista del concerto diretto da Riccardo Muti nel
Cortile d’Onore del Palazzo del Quirinale, in occasione del G20
della Cultura 2021.
     www.orchestracherubini.it

     La gestione dell’Orchestra è affidata alla Fondazione Cherubini
costituita dalle municipalità di Piacenza e Ravenna e da Ravenna
Manifestazioni. L’attività dell’Orchestra è resa possibile grazie
al sostegno del Ministero della Cultura.
     Il progetto “L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini – un’orchestra
di formazione” è co-finanziato dal Fondo Sociale Europeo PO 2014-2020
Regione Emilia-Romagna.

direttore musicale e artistico
Riccardo Muti

segretario artistico Carla Delfrate
management orchestra Antonio De Rosa
segretario generale Marcello Natali
coordinatore delle attività orchestrali Leandro Nannini

                                                                     27
violini primi              Simone De Sena
Valentina Benfenati**      Enea Bertolini
Sofia Cipriani             Benedetta Giolo
Giulia Zoppelli            Pierpaolo Greco
Francesco Ferrati
Daniele Fanfoni            contrabbassi
Giulio Noferi              Leonardo Cafasso*
Alice Parente              Claudio Cavallin
Mara Paolucci              Giacomo Vacatello
Debora Fuoco               Giuseppe Albano
Elena Sofia Ferrante       Edoardo Dolci
Magdalena Frigerio         Lucia Boiardi
Doriano Di Domenico        Alessandro Pizzimento
Miranda Mannucci           Michele Badini
Alessia Arnetta
Francesco Norelli          flauti/ottavino
Teresa Giordano            Chiara Picchi*
                           Isabella Casu
violini secondi            Denise Fagiani (anche ottavino)
Elena Nunziante*
Oleksandra Zinchenko       oboi
Francesca Vanoncini        Linda Sarcuni*
Irene Barbieri             Anna Leonardi
Alessandra Rigliari
Matilde Berto              clarinetti
Federica Castiglione       Riccardo Broggini*
Elisabetta Levorato        Luca Mignogni*
Valerio Quaranta
Elisa Catto                clarinetto basso
Valeria Francia            Mirko Cerati
Giulia Lussoso
Maria Cristina Pellicanò   fagotti
Aurora Sanarico            Leonardo Latona*
                           Martino Tubertini
viole
Francesco Zecchi*          controfagotto
Davide Mosca               Edoardo Casali
Diego Romani
Francesco Paolo Morello    corni
Novella Bianchi            Federico Fantozzi*
Tommaso Morano             Giovanni Mainenti*
Maria Cecilia Bonato       Xavier Soriano Cambra
Doriana Calcagno           Matteo Carmelo Leone
Federica Cardinali
Miryam Traverso            trombe
Rachele Fiorini            Pietro Sciutto*
Giulia Guardenti           Matteo Novello

violoncelli                tromboni
Ilario Fantone*            Antonio Sabetta*
Alessandro Brutti          Giovanni Ricciardi
Matteo Bodini              Cosimo Iacoviello
Caterina Ferraris
Giovannella Berardengo     tuba
Roberta Di Giacomo         Alessandro Iezzi

28
timpani                                celesta
Federico Moscano*                      Davide Cavalli

percussioni
Alessandro Beco                        ** spalla
Francesco Bodini                       *prima parte
Francesco Bruno

arpa
Benedetta De Simone*

Si ringraziano Costanza Bonelli e Claudio Ottolini
per la donazione all’orchestra in memoria di Liliana Biolzi

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luoghi del festival
      Il Palazzo “Mauro de André” è stato edificato alla fine degli anni ’80, con
l’obiettivo di dotare Ravenna di uno spazio multifunzionale adatto ad ospitare
grandi eventi sportivi, artistici e commerciali; la sua realizzazione si deve
all’iniziativa del Gruppo Ferruzzi, che ha voluto intitolarlo alla memoria di un
collaboratore prematuramente scomparso, fratello del cantautore Fabrizio.
L’edificio, progettato dall’architetto Carlo Maria Sadich ed inaugurato nell’ottobre
1990, sorge non lontano dagli impianti industriali e portuali, all’estremità
settentrionale di un’area recintata di circa 12 ettari, periodicamente impiegata
per manifestazioni all’aperto. I propilei in laterizio eretti lungo il lato ovest
immettono nel grande piazzale antistante il Palazzo, in fondo al quale si staglia
la mole rosseggiante di “Grande ferro R”, di Alberto Burri: due stilizzate mani
metalliche unite a formare l’immagine di una chiglia rovesciata, quasi una
celebrazione di Ravenna marittima, punto di accoglienza e incontro di popoli
e civiltà diverse. A sinistra dei propilei sono situate le fontane in travertino
disegnate da Ettore Sordini, che fungono da vasche per la riserva idrica
antincendio.
      L’ingresso al Palazzo è mediato dal cosiddetto Danteum, una sorta di
tempietto periptero di 260 metri quadri formato da una selva di pilastri e colonne,
cento al pari dei canti della Commedia: in particolare, in corrispondenza ai pilastri
in laterizio delle file esterne, si allineano all’interno cinque colonne di ferro, tredici in
marmo di Carrara e nove di cristallo, allusive alle tre cantiche dantesche.
      Il Palazzo si presenta di pianta quadrangolare, con paramento esterno in
laterizio, ravvivato nella fronte, fra i due avancorpi laterali aggettanti, da una
decorazione a mosaico disegnata da Elisa Montessori e realizzata da Luciana
Notturni. Al di sopra si staglia la grande cupola bianca, di 54 metri per lato,
realizzata in struttura metallica reticolare a doppio strato, coperta con 5307
metri quadri di membrana traslucida in fibra di vetro spalmata di PTFE (teflon);
essa è coronata da un lucernario quadrangolare di circa otto metri per lato che si
apre elettricamente per garantire la ventilazione.
      Quasi 4.000 persone possono trovare posto nel grande vano interno, la cui
fisionomia spaziale è in grado di adattarsi alle diverse occasioni (eventi sportivi,
fiere, concerti), grazie alla presenza di gradinate scorrevoli che consentono il loro
trasferimento sul retro, dove sono anche impiegate per spettacoli all’aperto.
      Il Palazzo dai primi anni Novanta viene utilizzato regolarmente per alcuni dei
più importanti eventi artistici di Ravenna Festival.

Gianni Godoli

                                                                                © Silvia Lelli

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programma di sala a cura di
Susanna Venturi

coordinamento editoriale e grafica
Ufficio Edizioni Ravenna Festival

stampa
Elios Digital Print, Ravenna

L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per quanto riguarda le fonti iconografiche
non individuate
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