Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Christoph Eschenbach Gidon Kremer - direttore violino
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2022 Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Christoph Eschenbach violino Gidon Kremer Palazzo Mauro De André 3 luglio, ore 21
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Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Christoph Eschenbach violino Gidon Kremer
Mieczyslaw Weinberg (1919-1996) Concerto per violino in sol minore op. 67 Allegro molto Allegretto Andante Allegro risoluto Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893) Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 Andante. Allegro con anima Andante cantabile con alcuna licenza Valse. Allegro moderato Finale. Andante maestoso. Allegro vivace
Mieczyslaw Weinberg
Dall’URSS di Weinberg alla Russia di Čajkovskij di Oreste Bossini Mieczyslaw Weinberg (Concerto per violino in sol minore op. 67) Il 7 novembre 1990 la «Pravda», organo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, forniva il resoconto della cerimonia di consegna dei Premi di Stato, la maggiore onorificenza concessa ai cittadini sovietici che si erano distinti per un particolare lavoro nell’ambito della scienza, della tecnica, della cultura e delle arti. Tra i premiati figurava anche un compositore ebreo polacco residente nell’Unione Sovietica dal 1939, Mieczyslaw Weinberg, autore al momento del Premio di ben diciassette Quartetti, venti Sinfonie (la ventunesima, intitolata Kaddish, sarebbe stata terminata l’anno successivo), sette opere (di cui le più importanti mai allestite in Unione Sovietica) e di un’abbondante messe di musica da camera, vocale, da film. Il tardivo riconoscimento aveva una sfumatura ancora più beffarda, perché il Premio arrivava alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che avrebbe lasciato l’anziano e malato compositore in pratica senza mezzi di sussistenza, nel caos seguito alle drammatiche vicende del tentato colpo di stato dell’agosto 1991 e delle dimissioni di Michail Gorbačëv da Presidente dell’ormai disgregata URSS. Weinberg, costretto a letto, sarebbe morto pochi anni dopo, nel 1996, totalmente ignorato dal mondo musicale russo e internazionale. La sua storia s’intreccia in maniera fin troppo simbolica con le tragedie e i rivolgimenti del cosiddetto “secolo breve”, ma senza gli strascichi di amarezza e vittimismo che spesso hanno caratterizzato la narrazione della musica sovietica del Novecento. Di certo, tutte le piaghe del ventesimo secolo, l’antisemitismo, la guerra, la repressione politica, hanno afflitto in maniera implacabile Weinberg fin da giovane, costringendolo a fuggire dalla Polonia invasa dai nazisti a soli vent’anni, nel 1939, fresco di diploma al Conservatorio di Varsavia. Il resto della sua famiglia, rimasta in patria, fu sterminato nei campi di concentramento. Il padre Shmuel, violinista autodidatta, era arrivato a Varsavia per lavorare nel Teatro ebraico yiddish, e il giovane Weinberg, negli anni durissimi della Grande depressione, lo aiutava a preparare gli spettacoli come arrangiatore e direttore. Rifugiatosi a Minsk, in Bielorussia, Weinberg continuò a studiare composizione al Conservatorio con Vasilij Zolotarev, uno dei numerosi allievi di Rimskij-Korsakov, acquisendo un solido mestiere innestato su un talento manifestatosi fin dal suo primo Quartetto d’archi, 9
Dmitrij Šostakovič scritto prima di fuggire dalla Polonia. Qui avviene già uno di quei malintesi d’identità che rivelano il puzzle di nazionalità che segna la storia dell’Europa orientale, perché la guardia di frontiera russa che esamina i documenti di Weinberg traduce nella forma ebraica Moisej il nome polacco Mieczyslaw, un cambiamento di nome che per tutta la vita affliggerà il compositore. Ma la fuga verso Est non era ancora finita, perché l’invasione tedesca del 1941 costrinse Weinberg a rifugiarsi a Tashkent, capitale della Repubblica Uzbeka. Lì, egli conobbe la prima moglie Natalia Vovsi, figlia del famoso attore Solomon Mikhoels, direttore del Teatro ebraico statale di Mosca e presidente del Comitato antifascista ebraico, un’organizzazione 10
voluta da Stalin all’indomani dell’invasione nazista per sostenere l’Unione Sovietica, soprattutto a livello internazionale, nella Grande guerra patriottica. Nel frattempo, Weinberg era entrato in relazione con Dmitrij Šostakóvič, che aveva molto elogiato la sua Prima sinfonia invitandolo a trasferirsi a Mosca. I due compositori diventarono in seguito amici intimi, scambiandosi continuamente idee e impressioni sui rispettivi lavori. Weinberg, pur non avendo mai preso una lezione da Šostakóvič, dichiarava di sentirsi suo allievo, “sua carne e sangue”. Šostakóvič, a sua volta, non perdeva occasione per promuovere e apprezzare pubblicamente la musica del giovane amico, spingendosi anche a esporsi personalmente in suo aiuto in circostanze molto pericolose. Nel 1953, infatti, poche settimane prima della morte di Stalin, Weinberg fu arrestato come sospetto complice del cosiddetto complotto dei medici ebrei, una delle numerose persecuzioni antisemite scatenate dal regime negli anni del dopoguerra. La famiglia di Weinberg era già stata colpita duramente nel 1948, quando il suocero Mikhoels era stato assassinato su ordine di Stalin dalla polizia politica, che aveva inscenato un incidente stradale. Incurante del rischio di intercedere a favore di un nemico del popolo, Šostakóvič scrisse al potente capo della polizia segreta Lavrentij Berija per proclamare l’innocenza di Weinberg. Non solo: gli Šostakóvič si offrirono di prendersi cura della figlia di Weinberg, Vitosha, nel caso fosse successo qualcosa ai genitori, come sembrava inevitabile. Dopo la scomparsa di Stalin, invece, Weinberg fu rilasciato senza altre conseguenze. La vita del compositore, per fortuna, non ebbe nuovi scossoni, rimanendo per sempre in quel limbo di anonimato dal quale non riuscirono mai a togliere la sua musica né il sostegno senza riserve dell’amico più celebre, né le numerose esecuzioni da parte di giganti della musica sovietica come Mstislav Rostropovič, il Quartetto Beethoven, Emil Gilels, il direttore d’orchestra Kirill Kondrašin. Weinberg, dal canto suo, era troppo modesto e riluttante a promuovere il proprio lavoro per riuscire a superare le barriere imposte dal regime ai rapporti internazionali, così che rimase sempre in balia delle complicate logiche spartitorie e burocratiche interne alle varie associazioni di compositori sovietici. L’unica volta che ebbe l’opportunità di viaggiare al di fuori dei confini dell’Unione Sovietica fu nel 1966, per l’importante festival internazionale Autunno di Varsavia, una delle pochissime occasioni in cui gli artisti del mondo comunista potevano incontrare i loro colleghi occidentali. Fu anche l’unica volta in cui Weinberg mise di nuovo piede nella sua città natale, trovando una Varsavia completamente diversa da quella che aveva lasciato già da quasi trent’anni. In primo luogo, ovviamente, era completamente svanito quel mondo ebraico e yiddish che aveva formato lo sfondo della sua prima giovinezza. Tutta la sua famiglia, i genitori e la sorella 11
minore, era stata trucidata durante la guerra, e più in generale l’antica anima ebraica della città, che assicurava per esempio al Conservatorio di Varsavia un buon terzo degli studenti, si era completamente dissolta. Questo trauma non sarebbe mai stato superato da Weinberg, che fece della memorialistica un asse portante della propria produzione, a cominciare dalla sua opera più importante, Passazhirka (La passeggera), scritta nel 1968 e tratta da un radiodramma della scrittrice polacca Zofia Posmysz sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz e Ravensbrück. La musica yiddish è certamente una delle radici della musica di Weinberg, e molti studiosi hanno messo in luce l’influenza del compositore di origine polacca nell’inclinazione di Šostakóvič per la poesia ebraica e per l’uso della musica yiddish in molti lavori del dopoguerra. La musica popolare, non solo yiddish ma per esempio anche moldava, non è tuttavia il solo elemento rilevante dello stile di Weinberg. Un altro aspetto della sua personalità artistica, infatti, è il legame con la musica modernista polacca, all’interno di un processo di complessa stratificazione dell’identità artistica che comprende non solo la cultura ebraica e quella polacca ma anche la profonda adesione ai valori e alle forme della sua nuova patria, la Russia sovietica. Infatti, Weinberg si è sempre sentito profondamente grato al Paese che l’aveva accolto salvandolo dallo sterminio, e in particolare all’Armata Rossa che aveva liberato l’Europa dal flagello fascista, nonostante le disavventure poi vissute sotto il regime di Stalin e le storture evidenti della società sovietica. In questo senso, egli, come del resto Šostakóvič, non è in alcun modo compatibile con le manifestazioni di dissenso nate nel mondo culturale sovietico tra gli anni Sessanta e Settanta, né ha mai tentato di presentarsi come una vittima della cultura di stato o come un artista perseguitato a causa delle sue opinioni. Forse anche questa è una delle ragioni del peso marginale di Weinberg nella musica sovietica del secondo Novecento. La generazione di compositori più giovani, come Alfred Schnittke, Edison Denisov, Sofija Gubajdulina e Arvo Pärt, grazie a un atteggiamento più critico verso il regime e a una diversa capacità di stringere legami con il mondo occidentale, hanno ricevuto più facilmente un riconoscimento a livello internazionale di quanto abbia potuto ottenere Weinberg, che invece solo dopo la morte è stato rivalutato per quello che è, ovvero uno dei maggiori musicisti russi del Novecento. Con la salita al potere di Nikita Kruscev e la nuova politica del cosiddetto disgelo, nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, inizia il periodo migliore di Weinberg, perlomeno dal punto di vista artistico e sociale. Ed è proprio nel 1959 che scrive il Concerto in sol minore per violino e orchestra op. 67, su richiesta di uno dei grandi eroi della scuola violinistica sovietica, Leonid Kogan, che lo eseguì per la prima volta il 12 febbraio 1961 a Mosca, con l’Orchestra Filarmonica di Mosca diretta da 12
Gennadij Rozhdestvenskij. Kogan era un artista ben noto per le sue simpatie verso il regime, tanto che Šostakóvič ne parla così, con un velo di ironia, in una lettera all’amico Isaac Glikman del 1960: «Sono molto impressionato dal Concerto per violino di M.S. Vainberg [la grafia russa del cognome di Weinberg], superbamente interpretato dal violinista comunista L.B. Kogan. È un lavoro magnifico. E sto pesando le parole». Šostakóvič, probabilmente, aveva ascoltato il Concerto dell’amico in anteprima a un’esecuzione dell’Unione dei compositori, prassi abituale in vista della presentazione al pubblico di un nuovo lavoro. Il Concerto è articolato in quattro movimenti, con una struttura che richiama quindi la forma sinfonica, come aveva fatto Šostakóvič per il suo Primo Concerto per violino, scritto nel 1947-48. In realtà, il parallelo tra i due lavori si limita all’aspetto formale, perché il modello dell’amico ha avuto un’influenza, piuttosto, sul Concerto per violoncello op. 43 di Weinberg, composto nel 1948 per Rostropovič. Più in generale, il tema del rapporto tra Weinberg e Šostakóvič è molto interessante, perché un’analisi attenta delle reciproche influenze rivela una relazione pressoché unica nella musica del Novecento, qualcosa che potrebbe richiamare in parte il rapporto tra Brahms e Dvořák. La visione di un Weinberg come una sorta di piccolo Šostakóvič, infatti, è del tutto infondata. Weinberg riconosceva all’amico un primato e un’autorità assoluta, ma non a detrimento della propria identità e dell’originalità del proprio stile. Le reciproche influenze, rintracciabili soprattutto nell’ambito del quartetto e della sinfonia, sono lì a testimoniare un dialogo paritetico tra i due musicisti, che hanno preso spunto continuamente e reciprocamente dalle idee l’uno dell’altro. Rispetto a Šostakóvič, Weinberg aveva uno stile più morbido e romantico, privo di quella punta di aggressività che nel primo era il retaggio del mondo avanguardistico delle sue prime esperienze. Weinberg, invece, era cresciuto nella Varsavia musicale degli anni Trenta, influenzata da un modernismo neoclassico che non arrivò mai a una rottura completa con la musica dell’Ottocento. Per questo motivo, probabilmente, la sua musica sembrava avvolta da una patina di passatismo che lo rendeva superato agli occhi della critica e della generazione più giovane, incapace di vedere le altre qualità del suo lavoro. Egli, per esempio, scriveva alla seconda moglie Olga Rakhalskaia: Non capisco perché quasi chiunque al giorno d’oggi voglia scrivere secondo le regole di Schönberg. Per lui era naturale. Ma per gli altri? Perché essere una scimmia? Questa è un’epoca di terribile spersonalizzazione. Si è creato un modello per l’abitante del pianeta. Le culture, come se si arricchissero l’un l’altra, perdono la loro unicità. Le ragazze desiderano essere ora Brigitte Bardot, ora Marilyn Monroe. Molto probabilmente ci sarà presto un solo, benefico, clima universale.1 13
Il Concerto per violino rispecchia questa visione umanistica e profondamente legata alla tradizione, già dalla netta impostazione tonale del primo movimento, Allegro molto, che si apre con un’esplosione sonora sostenuta dalle percussioni e un ritmo incalzante degli archi, sul quale il violino solista scolpisce un tema in sol minore ad accordi pieni di stampo pienamente romantico. L’aspetto più appariscente, non solo del primo movimento, ma di tutto il Concerto, è l’eccezionale rilievo del violino solista, che in pratica suona ininterrottamente dalla prima all’ultima battuta. L’unica eccezione è rappresentata dall’inizio del secondo movimento, Allegretto, in cui l’orchestra da sola espone il tema, che immediatamente dopo sarà variato in molteplici forme dal violino solista. L’Allegro molto iniziale, scritto in una tradizionale forma sonata, contrappone al tambureggiante tema iniziale un secondo tema, più lirico e introspettivo, avvolto da una filigrana orchestrale segnata dal tocco onirico della celesta. L’Adagio è ovviamente il momento più espressivo, con l’infinita cantilena del violino che si espande con la struggente speranza di trovare quella pace interiore che le drammatiche atmosfere del primo movimento sembravano negare. Il finale, Allegro risoluto, inizia nel tradizionale stile robusto e danzante di un movimento conclusivo di concerto, con un’orchestra spumeggiante e colorata di inflessioni musicali klezmer. Un effetto un po’ enigmatico è la citazione, in uno dei temi secondari, della Sinfonia “piccola” in sol minore KV183 di Mozart, preludio all’imprevedibile e celestiale coda conclusiva, con un etereo accordo finale del violino sfumato in un filo di suono che si perde nel cielo. Pëtr Il’ič Čajkovskij (Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64) Negli anni Ottanta dell’Ottocento, Čajkovskij era senz’altro il compositore russo più conosciuto al mondo e una vera celebrità in patria, seconda solo a Lev Tolstoj. La sua fiorente ascesa internazionale culmina con la trionfale tournée negli Stati Uniti nel 1891 e con la laurea honoris causa all’Università di Cambridge nel 1893. Gli innumerevoli successi e attestati di stima cominciavano finalmente a dissipare in lui le ombre interiori, e a rafforzare la fiducia in sé stesso, sebbene continuasse a soffrire un senso d’inferiorità nei confronti della tradizione europea. Questo rapporto non sereno con la musica occidentale, per esempio, emerge dai ruvidi giudizi espressi su Brahms, appena mitigati dalla cordialità del loro incontro a Lipsia nel 1888, così come, al contrario, dalla calda simpatia dimostrata per compositori al pari suo “periferici”, come Grieg e Dvořák. Čajkovskij non sopportava l’idea di una superiorità della musica tedesca, e riteneva di aver dimostrato con la Quarta Sinfonia che era possibile adattare le forme musicali classiche 14
a una sensibilità diversa e a un’espressione drammatica più immediata e personale. L’incontro ad Amburgo con l’anziano maestro Theodor Avé-Lallemant, nel gennaio 1888, in occasione di un concerto di musiche sue alla Philharmonie, è la conferma di questa tensione latente. Il venerabile vecchio, dopo averlo accolto con affetto paterno e ascoltato con la massima attenzione, confessò apertamente a Čajkovskij, com’è riportato nel suo diario, che c’erano molte cose non di suo gusto nei miei lavori eseguiti ad Amburgo; che non poteva sopportare la mia rumorosa strumentazione; che detestava alcuni effetti orchestrali a cui ricorrevo (specialmente con le percussioni), ma che tuttavia egli vedeva in me i segni di un buono e autentico compositore tedesco. Quasi con le lacrime agli occhi mi esortava a lasciare la Russia e a trasferirmi in Germania, dove le tradizioni classiche e una cultura di livello più elevato non avrebbero mancato di correggere i miei difetti, che erano facilmente imputabili al fatto di essere nato e cresciuto in un Paese che era ancora così arretrato e poco illuminato in confronto alla Germania. Egli, in realtà, non si sentì offeso dai pregiudizi del vecchio maestro, al contrario rimase profondamente toccato dal suo candore e dalla sincera passione. Questo incontro è stato forse la scintilla della Quinta Sinfonia in mi minore, scritta tra maggio e agosto del 1888. Čajkovskij era ansioso, come scrive alla sua mecenate Nadezhda von Meck, «di dimostrare agli altri, ma soprattutto a me stesso, di non essere ancora spirato». Non solo, di dimostrare anche che con la Quarta Sinfonia non si era infilato in un cul-de-sac, bensì aveva iniziato un percorso originale e russo, indipendente dagli sviluppi della musica occidentale. Curiosamente, è proprio la dedica della nuova sinfonia al vecchio Avé-Lallemant, che purtroppo non fece in tempo ad ascoltare il lavoro, eseguito ad Amburgo nel 1889, a rivelare questo grumo di sentimenti controversi. Tra gli schizzi di Čajkovskij si trovano anche i resti di un vago programma narrativo del primo movimento: «Introduzione. Totale sottomissione al Fato – o, che è la stessa cosa, all’imperscrutabile disegno della Provvidenza. Allegro. 1 Sussurri, dubbi, lamenti. Rimproveri contro ...xxx; 2 Dovrei gettarmi nell’abbraccio della Fede?». In effetti, l’Andante inizia con un tema dei clarinetti formato da due citazioni che sembrerebbero confermare questo sfondo poetico. La prima è un frammento tratto dal terzetto dell’Atto I di Una vita per lo Zar di Michail Glinka, il padre della musica russa. Le parole esatte del passo citato recitano «non piegarti alle ansie», mentre le sei note di scala discendente della seconda parte della frase riecheggiano le sei note discendenti del tema del Fato nella scena della lettera dell’Eugenio Onegin. È significativo che Čajkovskij abbia attinto un tema da quella che è considerata la prima opera russa, 15
Pëtr Il’ič Čajkovskij come per rivendicare orgogliosamente l’appartenenza a una tradizione nazionale anche all’interno di una scrittura sinfonica, così come un altro tema dal lavoro teatrale a cui si sentiva più legato. L’Andante introduttivo, in altre parole, getta una luce autobiografica sulla Sinfonia, che racconta un dramma vissuto in prima persona. Il corpo del primo movimento, Allegro con anima, si sviluppa, infatti, da un tema ritmato di clarinetto e fagotto, evidentemente associato al tema della speranza. Dopo un’ampia elaborazione, compare il secondo tema, un’appassionata frase in si minore degli archi. Come accade spesso in Čajkovskij, l’esposizione si arricchisce di un terzo tema, un elegante valzer cantabile ed espressivo in re maggiore. I tre temi s’intrecciano e si mescolano in maniera drammatica nel poderoso sviluppo, fino a sfociare nella ripresa del tema iniziale, con un’orchestra spossata dalla violenza delle passioni. Il fagotto, infatti, sembra nutrire ancora un barlume di speranza, risvegliando poco a poco l’energia degli altri strumenti verso un trionfante finale in maggiore che tuttavia non arriva, perché il movimento si estingue nel cupo mi minore dell’inizio. Il compositore, poi, ha sentito il bisogno di aggiungere all’indicazione del successivo movimento, Andante cantabile, le parole con alcuna licenza. Forse intendeva sottolineare il carattere narrativo di questo grande affresco lirico, una delle pagine più alte della letteratura sinfonica. Il movimento si apre con un’introduzione degli archi, che preparano il famoso solo del corno in re maggiore. Il secondo tema, più apertamente amoroso, è affidato invece all’oboe, ma quando questi due temi si riversano nella voce degli archi la temperatura emotiva sale fino a toccare 16
il primo picco di questa cima espressiva. La sezione successiva si apre in la maggiore con un nuovo tema del clarinetto, più quieto e riflessivo, che porta però a una drammatica citazione del tema della speranza e del Fato, imprimendo così all’Andante un marcato carattere autobiografico. I violini riprendono sulla quarta corda la melodia iniziale del corno, contrappuntata da espressivi soli dei fiati. La risposta del tema d’amore in re maggiore è talmente impetuosa da travolgere l’orchestra con una nuova irruzione del motto principale della Sinfonia, che pone definitivamente il lavoro sotto il segno della speranza e del destino. L’ombra di questo motto si allunga anche sulla luminosa Valse successiva in la maggiore, infilandosi con una larvata citazione in pianissimo del tema della speranza nella coda finale, ma legandosi in maniera più subdola anche al grazioso tema iniziale del movimento, che altro non è che le sei note discendenti del tema del Fato. Niente di allusivo, viceversa, nell’Andante maestoso finale, che si apre con un’eloquente ripresa del motto, diviso in due dinamiche nettamente separate. La parte della speranza, infatti, è in tono sommesso, mentre quella del Fato è vivacemente sonora. In maniera speculare al primo movimento, dopo l’introduzione lenta, il Finale sviluppa una forma sonata, Allegro vivace, dove forse si dibattono in maniera convulsa i dubbi e le recriminazioni di cui si parla nell’abbozzo di programma. La Sinfonia, però, si chiude nel segno di un’altra citazione, soffiata a pieni polmoni dalle trombe come nel giorno del Giudizio. Il tema principale del primo movimento, infatti, torna qui in maniera trionfante in mi maggiore, scacciando il motto che aveva ossessionato l’intero lavoro, forse indizio della volontà di abbracciare quella Fede tanto a lungo invocata, ma probabilmente mai davvero trovata. 1 In «Muzykal’noy Zhizni» (Vita musicale), 2000, n. 1. 17
2022 gli arti sti
© Luca Piva
Christoph Eschenbach Unanimemente apprezzato sia come direttore d’orchestra che come pianista, si colloca saldamente nel solco della tradizione intellettuale tedesca, che coniuga però a una rara intensità emotiva, regalando performances acclamate dagli spettatori di tutto il mondo. Rinomato per la vastità del repertorio e la profondità delle interpretazioni, ha diretto molte prestigiose orchestre e ottenuto i più importanti riconoscimenti musicali. Nato a Breslavia nel 1940 e rimasto orfano durante la guerra, fu adottato da una cugina della madre, la pianista Wallydore Eschenbach, che lo crebbe tra lo Schleswig-Holstein e la città di Aquisgrana, avviandolo allo studio del pianoforte e alla carriera musicale. Dopo gli studi con Eliza Hansen (pianoforte) e Wilhelm Brückner-Rüggeberg (direzione d’orchestra), vince importanti premi pianistici come il Concorso ARD di Monaco nel 1962 e il “Clara Haskil” nel 1965, che contribuiscono ad aprirgli la strada del successo internazionale. Sostenuta da mentori come George Szell e Herbert von Karajan, la sua carriera si è poi concentrata sempre più sulla direzione d’orchestra: è stato Direttore principale e Direttore artistico dell’Orchestra della Tonhalle di Zurigo dal 1982 al 1986, Direttore musicale della Houston Symphony dal 1988 al 1999, Direttore artistico del Festival Musicale dello Schleswig-Holstein dal 1999 al 2002, Direttore musicale dell’Orchestra Sinfonica della NDR dal 1998 al 2004, della Philadelphia Orchestra dal 2003 al 2008, e dell’Orchestre de Paris dal 2000 al 2010. Dal 2010 al 2017, Eschenbach ha quindi ricoperto il ruolo di Direttore musicale della Washington National Symphony Orchestra. Oltre a tanti prestigiosi incarichi, ha sempre dato grande importanza anche all’attività di Direttore ospite, collaborando con orchestre come Wiener Philharmoniker e Berliner Philharmoniker, poi Chicago Symphony Orchestra, Staatskapelle Dresden, New York Philharmonic, Scala di Milano, London Philharmonic Orchestra e NHK Symphony Orchestra di Tokyo. Nel corso di cinque decenni, ha accumulato una discografia impressionante, sia come direttore d’orchestra che come pianista, con un repertorio che spazia da Bach alla musica contemporanea. Molte delle sue incisioni sono diventate veri e propri capisaldi, e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il German Record Critics’ Prize, il MIDEM Classical Award e un Grammy. Per molti anni, in ambito liederistico, il suo partner preferito è stato il baritono Matthias Goerne: sia nelle incisioni sia nelle esecuzioni dal vivo, come per esempio al Festival di 21
Salisburgo, i due artisti, in perfetta sintonia, hanno esplorato i gioielli del Romanticismo tedesco da Schubert a Brahms. Christoph Eschenbach è stato insignito dei titoli di Cavaliere della Legion d’Onore e Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere, le più alte onorificenze conferite dallo Stato francese, oltre che della Croce Federale Tedesca al Merito. Ha vinto inoltre anche il prestigioso Leonard Bernstein Award. Infine è noto anche per essere un instancabile sostenitore di giovani talenti: è questa la sua più grande passione, e il contributo dato al sostegno di talenti emergenti è, per lui, quasi più importante della sua stessa carriera. Commosso dall’energia e dalla grinta dei giovani talenti, ha fatto propria la missione di “passare il testimone” alla generazione ventura. Tra le sue “scoperte” figurano il pianista Lang Lang, la violinista Julia Fischer e i violoncellisti Leonard Elschenbroich e Daniel Müller-Schott. In qualità di consulente artistico e docente della celebre Accademia di Kronberg, accompagna giovani violinisti, violoncellisti e violisti nel percorso che li renderà solisti di livello mondiale. Nel frattempo, continua a esplorare nuovi orizzonti, e da settembre 2019 ricopre l’incarico di Direttore musicale della Konzerthausorchester di Berlino. 22
© Angie Kremer Gidon Kremer Mosso da una filosofia artistica sorprendentemente intransigente, si è affermato in tutto il mondo come uno degli artisti più originali e convincenti della sua generazione. Il suo repertorio comprende partiture classiche standard e musica dei principali compositori del xx e xxi secolo. Ha promosso le opere dei compositori russi e dell’Europa orientale, ed eseguito molte nuove e importanti composizioni, diverse delle quali dedicate a lui stesso. Il suo nome è strettamente legato a quello di compositori come Alfred Schnittke, Arvo Pärt, Giya Kancheli, Sofija Guabjdulina, Valentin Silvestrov, Luigi Nono, Edison Denisov, Aribert Reimann, Pēteris Vasks, John Adams, Viktor Kissine, Michael Nyman, Philip Glass, Leonid Desyatnikov e Astor Piazzolla, le cui opere propone nel rispetto della tradizione ma sempre con la massima freschezza e originalità. Si può certamente affermare che, tra i solisti di pari livello internazionale, nessuno più di lui abbia promosso la causa dei compositori contemporanei e della nuova musica per violino. Ha inciso oltre 120 album, molti dei quali insigniti di prestigiosi premi internazionali per le eccezionali intuizioni interpretative. La lunga lista di onorificenze e premi include l’Ernst von Siemens Musikpreis, la Bundesverdienstkreuz, il Premio Triumph di Mosca, il Premio Unesco e il Premio “Una vita nella musica - Arthur Rubinstein”. Nel 2016 Kremer ha ricevuto anche il Praemium Imperiale, considerato da molti il Nobel della musica. Nel 1997, ha fondato l’orchestra da camera Kremerata Baltica con lo scopo di promuovere giovani musicisti di spicco 23
provenienti dall’area baltica. L’ensemble si esibisce spesso in tournée, e ha inciso quasi 30 album per le etichette Nonesuch, Deutsche Grammophon ed ECM. Nella stagione 2016/17 la Kremerata Baltica, giunta a celebrare il xx anniversario, è stata impegnata in tournée memorabili in Medio Oriente, Nord America, Europa e Asia. Da sottolineare anche l’impegno che Kremer ha profuso nella “scoperta” del compositore Mieczyslaw Weinberg, al quale ha reso, negli ultimi anni, un servizio eccellente. Nel 2019 e nel 2021, Deutsche Grammophon e Accentus Music hanno pubblicato album incisi da e con Gidon Kremer con i brani orchestrali e cameristici di Weinberg. 24
© Silvia Lelli Orchestra Giovanile Luigi Cherubini Fondata da Riccardo Muti nel 2004, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini ha assunto il nome di uno dei massimi compositori italiani di tutti i tempi attivo in ambito europeo per sottolineare, insieme a una forte identità nazionale, la propria inclinazione a una visione europea della musica e della cultura. L’Orchestra, che si pone come strumento privilegiato di congiunzione tra il mondo accademico e l’attività professionale, divide la propria sede tra le città di Piacenza e Ravenna. La Cherubini è formata da giovani strumentisti, tutti sotto i trent’anni e provenienti da ogni regione italiana, selezionati attraverso centinaia di audizioni da una commissione costituita dalle prime parti di prestigiose orchestre europee e presieduta dallo stesso Muti. Secondo uno spirito che imprime all’orchestra la dinamicità di un continuo rinnovamento, i musicisti restano in orchestra per un solo triennio, terminato il quale molti di loro hanno l’opportunità di trovare una propria collocazione nelle migliori orchestre. In questi anni l’Orchestra, sotto la direzione di Riccardo Muti, si è cimentata con un repertorio che spazia dal Barocco al Novecento alternando ai concerti in moltissime città italiane importanti tournée in Europa e nel mondo nel corso delle quali è stata protagonista, tra gli altri, nei teatri di Vienna, Parigi, Mosca, Salisburgo, Colonia, San Pietroburgo, Madrid, Barcellona, Lugano, Muscat, Manama, Abu Dhabi, Buenos Aires e Tokyo. Il debutto a Salisburgo, al Festival di Pentecoste, con Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa, ha segnato nel 2007 la prima tappa di un progetto quinquennale che la rassegna austriaca, in coproduzione con Ravenna Festival, ha realizzato con Riccardo Muti per la riscoperta e la valorizzazione del 25
patrimonio musicale del Settecento napoletano e di cui la Cherubini è stata protagonista in qualità di orchestra residente. A Salisburgo, poi, l’Orchestra è tornata nel 2015, debuttando – unica formazione italiana invitata – al più prestigioso Festival estivo, con Ernani: a dirigerla sempre Riccardo Muti, che l’aveva guidata anche nel memorabile concerto tenuto alla Sala d’Oro del Musikverein di Vienna, nel 2008, pochi mesi prima che alla Cherubini venisse assegnato l’autorevole Premio “Abbiati” quale miglior iniziativa musicale per “i notevoli risultati che ne hanno fatto un organico di eccellenza riconosciuto in Italia e all’estero”. All’intensa attività con il suo fondatore, la Cherubini ha affiancato moltissime collaborazioni con artisti quali Claudio Abbado, John Axelrod, Rudolf Barshai, Michele Campanella, James Conlon, Dennis Russell Davies, Gérard Depardieu, Kevin Farrell, Patrick Fournillier, Valery Gergiev, Herbie Hancock, Leonidas Kavakos, Lang Lang, Ute Lemper, Alexander Lonquich, Wayne Marshall, Kurt Masur, Anne-Sophie Mutter, Kent Nagano, Krzysztof Penderecki, Donato Renzetti, Vadim Repin, Giovanni Sollima, Yuri Temirkanov, Alexander Toradze e Pinchas Zukerman. Impegnativi e di indiscutibile rilievo i progetti delle “trilogie”, che al Ravenna Festival l’hanno vista protagonista, sotto la direzione di Nicola Paszkowski, delle celebrazioni per il bicentenario verdiano in occasione del quale l’Orchestra è stata chiamata ad eseguire ben sei opere al Teatro Alighieri. Nel 2012, nel giro di tre sole giornate, Rigoletto, Trovatore e Traviata; nel 2013, sempre l’una dopo l’altra a stretto confronto, le opere “shakespeariane” di Verdi: Macbeth, Otello e Falstaff. Per la Trilogia d’autunno 2017, la Cherubini, diretta da Vladimir Ovodok, ha interpretato Cavalleria rusticana, Pagliacci e Tosca; nel 2018, si è misurata con una nuova straordinaria avventura verdiana, guidata da Alessandro Benigni per Nabucco, Hossein Pishkar per Rigoletto e Nicola Paszkowski per Otello; e di nuovo, nel 2019, con capolavori quali Carmen, Aida e Norma. Negli ultimi anni il repertorio operistico viene affrontato regolarmente dall’Orchestra anche nelle coproduzioni che vedono il Teatro Alighieri di Ravenna al fianco di altri importanti teatri italiani di tradizione. Dal 2015 al 2017 la Cherubini ha partecipato inoltre al Festival di Spoleto, sotto la direzione di James Conlon, eseguendo l’intera trilogia Mozart-Da Ponte. Il legame con Riccardo Muti l’ha portata a prender parte all’Italian Opera Academy per giovani direttori e maestri collaboratori, creata dal Maestro nel 2015: se in quel primo anno la Cherubini ha avuto l’occasione di misurarsi con Falstaff, negli anni successivi l’attenzione si è concentrata su Traviata, Aida, Macbeth, Le nozze di Figaro, Cavalleria rusticana, Pagliacci e, infine, Nabucco. Al Ravenna Festival, dove ogni anno si rinnova l’intensa esperienza della residenza estiva, la Cherubini è regolarmente impegnata in nuove produzioni e concerti, nonché, dal 2010, 26
del progetto “Le Vie dell’Amicizia” che l’ha vista esibirsi, tra le altre mete, a Nairobi, Redipuglia, Tokyo, Teheran, Kiev, Atene e, nel 2021, a Erevan, sempre diretta da Riccardo Muti. Nel 2020 è stata al centro del progetto di Ravenna Festival per il ritorno alla musica dal vivo in Italia dopo il lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19; il concerto inaugurale diretto da Muti alla Rocca Brancaleone in presenza di pubblico è stata anche la prima trasmissione in diretta streaming per l’Orchestra. A seguito della nuova sospensione degli eventi con spettatori, la Cherubini e Muti sono stati impegnati in concerti in streaming: due appuntamenti a novembre al Teatro Alighieri – diffusi anche attraverso la partnership con i siti web di «El País», «Rossiyskaya Gazeta» e lo Spring Festival di Tokyo – e, a marzo 2021, in una tournée in streaming che ha toccato Bergamo (Teatro Donizetti), Napoli (Teatro Mercadante) e Palermo (Teatro Massimo). È stata protagonista del concerto diretto da Riccardo Muti nel Cortile d’Onore del Palazzo del Quirinale, in occasione del G20 della Cultura 2021. www.orchestracherubini.it La gestione dell’Orchestra è affidata alla Fondazione Cherubini costituita dalle municipalità di Piacenza e Ravenna e da Ravenna Manifestazioni. L’attività dell’Orchestra è resa possibile grazie al sostegno del Ministero della Cultura. Il progetto “L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini – un’orchestra di formazione” è co-finanziato dal Fondo Sociale Europeo PO 2014-2020 Regione Emilia-Romagna. direttore musicale e artistico Riccardo Muti segretario artistico Carla Delfrate management orchestra Antonio De Rosa segretario generale Marcello Natali coordinatore delle attività orchestrali Leandro Nannini 27
violini primi Simone De Sena Valentina Benfenati** Enea Bertolini Sofia Cipriani Benedetta Giolo Giulia Zoppelli Pierpaolo Greco Francesco Ferrati Daniele Fanfoni contrabbassi Giulio Noferi Leonardo Cafasso* Alice Parente Claudio Cavallin Mara Paolucci Giacomo Vacatello Debora Fuoco Giuseppe Albano Elena Sofia Ferrante Edoardo Dolci Magdalena Frigerio Lucia Boiardi Doriano Di Domenico Alessandro Pizzimento Miranda Mannucci Michele Badini Alessia Arnetta Francesco Norelli flauti/ottavino Teresa Giordano Chiara Picchi* Isabella Casu violini secondi Denise Fagiani (anche ottavino) Elena Nunziante* Oleksandra Zinchenko oboi Francesca Vanoncini Linda Sarcuni* Irene Barbieri Anna Leonardi Alessandra Rigliari Matilde Berto clarinetti Federica Castiglione Riccardo Broggini* Elisabetta Levorato Luca Mignogni* Valerio Quaranta Elisa Catto clarinetto basso Valeria Francia Mirko Cerati Giulia Lussoso Maria Cristina Pellicanò fagotti Aurora Sanarico Leonardo Latona* Martino Tubertini viole Francesco Zecchi* controfagotto Davide Mosca Edoardo Casali Diego Romani Francesco Paolo Morello corni Novella Bianchi Federico Fantozzi* Tommaso Morano Giovanni Mainenti* Maria Cecilia Bonato Xavier Soriano Cambra Doriana Calcagno Matteo Carmelo Leone Federica Cardinali Miryam Traverso trombe Rachele Fiorini Pietro Sciutto* Giulia Guardenti Matteo Novello violoncelli tromboni Ilario Fantone* Antonio Sabetta* Alessandro Brutti Giovanni Ricciardi Matteo Bodini Cosimo Iacoviello Caterina Ferraris Giovannella Berardengo tuba Roberta Di Giacomo Alessandro Iezzi 28
timpani celesta Federico Moscano* Davide Cavalli percussioni Alessandro Beco ** spalla Francesco Bodini *prima parte Francesco Bruno arpa Benedetta De Simone* Si ringraziano Costanza Bonelli e Claudio Ottolini per la donazione all’orchestra in memoria di Liliana Biolzi 29
luoghi del festival Il Palazzo “Mauro de André” è stato edificato alla fine degli anni ’80, con l’obiettivo di dotare Ravenna di uno spazio multifunzionale adatto ad ospitare grandi eventi sportivi, artistici e commerciali; la sua realizzazione si deve all’iniziativa del Gruppo Ferruzzi, che ha voluto intitolarlo alla memoria di un collaboratore prematuramente scomparso, fratello del cantautore Fabrizio. L’edificio, progettato dall’architetto Carlo Maria Sadich ed inaugurato nell’ottobre 1990, sorge non lontano dagli impianti industriali e portuali, all’estremità settentrionale di un’area recintata di circa 12 ettari, periodicamente impiegata per manifestazioni all’aperto. I propilei in laterizio eretti lungo il lato ovest immettono nel grande piazzale antistante il Palazzo, in fondo al quale si staglia la mole rosseggiante di “Grande ferro R”, di Alberto Burri: due stilizzate mani metalliche unite a formare l’immagine di una chiglia rovesciata, quasi una celebrazione di Ravenna marittima, punto di accoglienza e incontro di popoli e civiltà diverse. A sinistra dei propilei sono situate le fontane in travertino disegnate da Ettore Sordini, che fungono da vasche per la riserva idrica antincendio. L’ingresso al Palazzo è mediato dal cosiddetto Danteum, una sorta di tempietto periptero di 260 metri quadri formato da una selva di pilastri e colonne, cento al pari dei canti della Commedia: in particolare, in corrispondenza ai pilastri in laterizio delle file esterne, si allineano all’interno cinque colonne di ferro, tredici in marmo di Carrara e nove di cristallo, allusive alle tre cantiche dantesche. Il Palazzo si presenta di pianta quadrangolare, con paramento esterno in laterizio, ravvivato nella fronte, fra i due avancorpi laterali aggettanti, da una decorazione a mosaico disegnata da Elisa Montessori e realizzata da Luciana Notturni. Al di sopra si staglia la grande cupola bianca, di 54 metri per lato, realizzata in struttura metallica reticolare a doppio strato, coperta con 5307 metri quadri di membrana traslucida in fibra di vetro spalmata di PTFE (teflon); essa è coronata da un lucernario quadrangolare di circa otto metri per lato che si apre elettricamente per garantire la ventilazione. Quasi 4.000 persone possono trovare posto nel grande vano interno, la cui fisionomia spaziale è in grado di adattarsi alle diverse occasioni (eventi sportivi, fiere, concerti), grazie alla presenza di gradinate scorrevoli che consentono il loro trasferimento sul retro, dove sono anche impiegate per spettacoli all’aperto. Il Palazzo dai primi anni Novanta viene utilizzato regolarmente per alcuni dei più importanti eventi artistici di Ravenna Festival. Gianni Godoli © Silvia Lelli 30
programma di sala a cura di Susanna Venturi coordinamento editoriale e grafica Ufficio Edizioni Ravenna Festival stampa Elios Digital Print, Ravenna L’editore è a disposizione degli aventi diritto per quanto riguarda le fonti iconografiche non individuate
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