Napoli, Teatro San Carlo - Tosca - Connessi all'Opera

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Napoli, Teatro San Carlo - Tosca - Connessi all'Opera
Napoli, Teatro San Carlo –
Tosca
Opera scura e distopica, essenziale, dal plastico segno d’arte
contemporaneo. Eppure arcaica, quanto visionaria e persino
sarcasticamente trash nella sua sospensione oltre il tempo fra
le macerie simbolo di un mondo, ingannato e spezzato, sotto i
colpi voraci di ogni distruttiva forma di prepotenza. Un mondo
senza luce né pudore, messo a nudo nelle emozioni come nella
lascivia cercandone l’universalità e dunque il legame fra i
tasselli drammaturgico-musicali di base, gli usi e i costumi
dell’hinterland campano, l’immaginario fabulistico della
cinematografia più recente. Come a dire, le affinità
d’elezione tra le fonti di libretto e partitura, l’identità
territoriale e un rimbalzo verso le giovani generazioni.
Nasce così, dall’incontro fra la transavanguardia visiva
dell’artista-scenografo Mimmo Paladino e la disincantata mano
registica del cineasta quarantunenne Edoardo De Angelis,
nell’occasione al suo debutto nella lirica, la Tosca di nuova
produzione firmata da due diversi talenti campani, in scena al
Teatro San Carlo di Napoli fra i tanti applausi e i non pochi
pareri perplessi. Un Puccini distante anni luce dalla grande
tradizione da sempre riservata sulle assi del Lirico
partenopeo al titolo-emblema della modernità musicale italiana
all’alba del secolo XX, fra impianti scenici generalmente ligi
allo stile impero e voci da leggenda: Caniglia con Del Monaco
nel 1950, Gencer nel ’55, Tebaldi con Corelli e Gobbi nel ‘58,
Pobbe, Olivero, Suliotis nel ’71 sostituita dalla Kabaivanska
alla sua prima Floria Tosca sancarliana, Dimitrova nel ’95 e,
nel dicembre ’96, il poker d’assi Kabaivanska-Pavarotti-Pons-
Oren. Il tutto, a partire dalla prima edizione del 20 dicembre
1900 con Angelica Pandolfini in coppia con Fernando De Lucia
diretta dallo stesso Leopoldo Mugnone che intanto ne aveva
vantato il battesimo undici mesi prima al Costanzi di Roma,
con le debite istruzioni del compositore.
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I tre luoghi dell’Ottocento romano di Tosca – Sant’Andrea
della Valle, Palazzo Farnese e gli spalti di Castel
Sant’Angelo – risultano pertanto profondamente rimodulati dal
binomio De Angelis-Paladino, in unione ai parimenti
trasversali costumi firmati da Massimo Cantini Parrini e alle
luci puntuali di Cesare Accetta, così come segue: quattro,
enormi blocchi di cemento armato con ferri scoperti disposti a
croce, come implosi sotto l’azione delle ruspe e così come
visti nella vita vera dagli artefici fra i luoghi periferici
di Castelvolturno, un altarino in pietra sul lato sinistro con
una piccola Madonna mentre in cima e al centro del monolite di
massi, per l’intero primo atto e in luogo del quadro con il
ritratto tanto simile all’Attavanti, si erge una Maddalena di
colore discinta, in carne e ossa (eventualmente, a seconda
della prova o della recita, sostituita da un manichino),
immobile con le mani sui fianchi, seni e gamba completamente
scoperti come mai, a nostra cultura e memoria, ricordiamo sia
stata rappresentata in una chiesa. E questo perché, in tale
rilettura, filtrata psicanalizzando i desideri erotici del
pittore Cavaradossi. In una dimensione a metà fra un mitico
mondo wagneriano e uno scenario da Signore degli anelli,
entrano quindi in sequenza il sagrestano incappucciato come
potrebbe esserlo in una fiaba noir, Cavaradossi in abiti
bohèmien alla Rodolfo, Angelotti in moderno completo color
lavagna e Tosca vestita di nero, in stile Maleficent. E se le
relazioni fra i personaggi scorrono secondo il rito, per
l’ingresso del feroce barone Scarpia e per la massa nel Te
Deum, De Angelis con Paladino s’inventa un capo della polizia
romana in pelle nera, frustino in mano e con un vero, fin
troppo placido pitbull bianco al guinzaglio; quindi, delle
bimbette vestite da sposa corrono verso il proscenio, andando
poi a unirsi alla massa di “chierici, confratelli allievi e
cantori della Cappella” reinterpretati su triplice piano: una
schiera di angiolilli che ricorderebbero, se non le Prime
Comunioni di paese, le flottole dei convittori degli antichi
Conservatori di Napoli reclutati per i vari servizi liturgici,
in presumibile e buon aggancio con il contesto settecentesco e
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borbonico fotografato dalla fonte originale di Sardou; un
gruppo di flagellanti incappucciati e striscianti in
ginocchio, in tonaca bianca macchiata di sangue a citazione
dei cosiddetti “battenti di Guardia Sanframondi” propri del
beneventano (ricordiamo che Paladino è originario di Paduli,
un borgo appunto in provincia di Benevento) e, trovata
esilarante, coriste a mo’ di volgari pacchiane di periferia
versante domizio, impellicciate e ingioiellate a dovere – nel
solco delle pellicole sul trash napoletano in parodia firmate,
ad esempio, da Pappi Corsicato o da Garrone per Gomorra – e
giocate in vistoso quanto posticcio contrasto con il resto
della formazione in foggia religiosa secondo quanto
immaginato, stavolta, dal violento segugio Scarpia. Il che
collima con il background artistico dello sceneggiatore e
produttore nato a Napoli, vissuto fra Portici e Caserta,
diplomatosi nel 2006 presso il Centro sperimentale di
cinematografia di Roma e da lì autore di cortometraggi,
documentari e film pluripremiati: il suo Mistero e Passione di
Gino Pacino conquista la stima di Emir Kusturica che lo
definisce un “talento visionario” e gli fa da executive
producer per il suo lungometraggio d’esordio, Mozzarella
Stories (2011). Il suo secondo lungometraggio, Perez. (2014)
con Luca Zingaretti, è presentato fuori concorso al Festival
di Venezia numero 71. Seguono a stretto giro, fra il 2016 e il
2017, Andiamo a quel paese, l’episodio Magnifico Shock nel
tripartito Vieni a vivere a Napoli presentato in anteprima al
Bifest, Indivisibili (Premio Pasinetti e ben sei statuette ai
David di Donatello), L’ora legale e Vengo anch’io, Il vizio
della speranza nel 2018. Il che non poteva non destare
curiosità e assicurare buone vendite al botteghino.

Proseguendo nella nuova Tosca, lo studio di Scarpia a Palazzo
Farnese nel denso atto centrale si trasforma nello stanzone-
deposito di un famelico collezionista-rigattiere che accumula
negli scaffali sul fondo cianfrusaglie di ogni genere.
Compreso un gigantesco coccodrillo imbalsamato che, alla
Capitan Hook o secondo gli usi degli antichi musei di scienze
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naturali, penzola con la sua mole inquietante dall’alto. In
mezzo, un lungo tavolo, con sopra tanti antichi candelabri
accesi, ori e collane. Lui siede lì, tracotante, in vestaglia
di seta aperta dal petto al gonfio addome, tipo ultimo samurai
ma in versione Gomorra nel ricco antro dei quaranta ladroni.
Anche in tal caso le cinque sezioni dell’atto rispettano la
canonica articolazione: Scarpia al tavolo anziché alla
scrivania, ingresso di Cavaradossi, arrivo di Tosca stavolta
in abito dorato tipo “Rocher”, laido ricatto e uccisione di
Scarpia. Sostanziale differenza, però. la mancanza del
crocifisso e, di conseguenza, dello scrupolo religioso di
Tosca che non torna indietro per sistemare i candelabri
accanto al cadavere quanto, piuttosto, per aprire un
cancelletto laterale rendendo finalmente libero il docile
pitbull. Un gesto bello e per nulla trascurabile se posto in
collegamento con i segnali di libertà riconoscibili fra il
programma della Repubblica partenopea del 1799 e il suo volo
suicidale nel finale.
In chiusura, le soluzioni per l’Atto III, unicamente dominato
su fondo nero da un immenso angelo di pietra caduto e, neanche
a dirlo, decapitato: la prima riguarda lo stornello dell’alba
romana, non cantato da un pastorello ma da una coppia di
deliziosi angiolilli, ciascuno con una sola ala. A seguire il
didascalico sfondo di lucine nel buio per la romanza “E
lucevan le stelle”, presto mutate nei segreti numeri delle
tante vittime e, infine, l’esecuzione non ad opera di un
plotone militare bensì dei due fidi birri Sciarrone e
Spoletta.

Interessante che la visione registica sospesa nel tempo e
innervata dalle varie reminiscenze del grande schermo o del
nostro vissuto trovi poi negli esiti della musica una sponda
complice e coerente, di paritetico respiro nella dimensione
sonora quasi filmica così come offerto dall’esperto Donato
Renzetti, sul podio dell’Orchestra, del Coro (ben istruito da
Gea Garatti Ansini) e del Coro di voci bianche (preparato da
Stefania Rinaldi) della Fondazione. A rivelarlo già il triplo
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forte dell’Andante molto sostenuto in breve successione
accordale per la brusca apertura analogamente al Vivacissimo
con violenza immediatamente a seguire che restituiscono,
invece, smalti più morbidi e fluenti rispetto ai previsti
affondi scabrosi. Una cifra in realtà precisa e costante, pur
attraversando le molteplici agogiche, come a fare fin troppa
attenzione a non coprire le voci e a rendere carezzevoli o
avvolgenti, più che folgoranti, le spinte ritmico-dinamiche in
pentagramma. Il che è valso anche per quel bellissimo nervo
scoperto in cui traspare in buca l’idea del pugnale, uno dei
passaggi strumentali più alti ed intensi. Di preziosa
efficacia, in particolare, gli equilibri sonori fra spazi
interni ed esterni, il rilievo dei legni, le suggestioni delle
campane, il respiro alle voci.

E appunto passando ai protagonisti del canto, a ben ricordarla
come procace e notevolissima Violetta al San Carlo nella
Traviata d’apertura lirica datata dicembre 2012, la prima
Floria Tosca partenopea del soprano Carmen Giannattasio sembra
avere per Puccini ancora diversi conti in sospeso da levigare,
soprattutto vantando un non comune temperamento teatrale. La
sua prova, su tutti, vibra infatti di contraddizioni, gelosia,
slancio, coraggio e passione ma, vocalmente, nei passaggi di
tono e registro al primo atto tende a ovattare e dunque spesso
a coprire i suoni, rendendo poco leggibile e autentica la sua
pur sempre apprezzata pasta timbrico-espressiva. Viceversa a
seguire, in via crescente nel drammatico duetto con il
carnefice Scarpia, ben governa lo scarto fra canto e
recitazione laddove la voce esce in forma più chiara e
stentorea dalle non distinte note al grave, convincendo per
volume e pregnanza nella faticosa tessitura musicale fra le
ruvide emissioni naturalistiche, fino a restituire nella sua
più celebre preghiera un’intera e accorata gamma di colori ed
emozioni. Magnifico dalla prima all’ultima sua nota, invece,
il tenore Fabio Sartori nel ruolo di Mario Cavaradossi che,
pur a fronte della scarsa fisicità in palcoscenico, incanta
per dizione, intonazione e soavità di tinte. Tanta la poesia
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nelle sue mezzevoci tornite fra Romanza e Duetto al primo
atto, così come efficace è la tempra nell’invettiva centrale
contro Scarpia, “rubando” lui il tempo all’Orchestra nel suo
apice canoro per esaltarne la duttilità e l’intensità del
fraseggio. Parimenti, per chiarezza, emissione e condotta,
assai bella la voce del baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat,
ma in sé più che per il ruolo efferato di Scarpia: troppo
nobile e omogeneo, troppo lineare e composto nell’eleganza del
portamento, persino nei toni più accesi dove non basta alzare
solo il volume per rendere la febbrile ferocia di accenti
indispensabili a far tremare tutta Roma. L’Angelotti del basso
cinese Renzo Ran deve poi aggiustare anche la pronuncia,
soprattutto la doppia sibilante chiamando al suo esordio e a
gran voce in scena Cavaradossi. Completavano il cast Matteo
Peirone (Sagrestano), il bravo Francesco Pittari (Spoletta),
Donato Di Gioia (Sciarrone), il corista sancarliano Carmine
Durante (carceriere).
Il pubblico, al termine, applaude tutti gli artisti usciti al
proscenio (alla recita mancano regista e scenografo),
tributando speciali consensi alla terna Giannattasio-Sartori-
Amartuvshin e al direttore Donato Renzetti.[Rating:3/5]

             Teatro San Carlo – Stagione 2019/20
                            TOSCA
                   Melodramma in tre atti
         Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
                  Musica di Giacomo Puccini

               Floria Tosca Carmen Giannattasio
               Mario Cavaradossi Fabio Sartori
            Il Barone Scarpia Amartuvshin Enkhbat
                  Cesare Angelotti Renzo Ran
                 Il Sagrestano Matteo Peirone
                  Spoletta Francesco Pittari

           Orchestra e coro del Teatro di San Carlo
         Coro di voci bianche del Teatro di San Carlo
                  Direttore Donato Renzetti
Napoli, Teatro San Carlo - Tosca - Connessi all'Opera
Regia Edoardo De Angelis
                      Scene Mimmo Paladino
                Costumi Massimo Cantini Parrini
                      Luci Cesare Accetta
           Nuova produzione del Teatro di San Carlo
                    Napoli, 24 gennaio 2020

Photo credit: Luciano Romano
Napoli, Teatro San Carlo - Tosca - Connessi all'Opera
Photo    credit:   Luciano
Romano

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