Moda e Cinema: l'Italia della Dolce Vita

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Moda e Cinema: l'Italia della Dolce Vita
Moda e Cinema: l’Italia della Dolce Vita
La moda è stata strettamente legata al cinema fin dal suo nascere, ingigantendosi con il fenomeno
dello star system hollywoodiano. La Hollywood italiana è stata la Cinecittà degli anni ‘50, quando il
cinema italiano ha cominciato ad affermarsi attraverso alcuni autentici capolavori (ed un’accorta
politica di sostegno statale). Fra le prime protagoniste della moda legate al fenomeno “cinema” è
Fernanda Gattinoni, creatrice, dal 1946, dell’omonima griffe (tuttora all’attivo) e protagonista
della moda per la “dolce vita” dell’aristocrazia romana. Formatasi a Londra da Molyneux ed ex
direttrice della premiata casa di moda Ventura, il suo primo abito “famoso” fu un paltò di velluto
verde per Clara Calamai. Vestì poi Ingrid Bergman, nella vita e nei film di Roberto Rossellini e, su
richiesta della costumista Maria de’ Matteis, Audrey Hepburn in Guerra e Pace (1956) di King Vidor.

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Cinecittà ha anche “prodotto” importanti e indimenticati divi italiani, come Silvana Mangano,
lanciata nel 1949 da Riso amaro di Giuseppe De Santis: ex indossatrice e già Miss Roma, mise in
luce la sua avvenenza “selvaggia e naturale” con un look fatto di calze nere, golfini attillati,
sottovesti e cappelli di paglia. Nel 1953 furoreggiò Gina Lollobrigida con Pane, amore e fantasia di
Luigi Comencini, al fianco del maestro Vittorio De Sica: quella “vestaglietta” sdrucita e aderente fu
un capo simbolo di una moda lanciata negli anni ‘50. E poi Sophia Loren de La donna del fiume
(1954), diretta da Mario Soldati nella celebre scena in cui balla il mambo, con la vita stretta dalla
cintura altissima; simile a quella che l’anno dopo la Loren ballerà insieme a Vittorio De Sica nello
sgargiante Eastmancolor di Pane,amore e… .

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Moda e Cinema: l'Italia della Dolce Vita
La stretta relazione fra moda e cinema è sancita anche nella sfilata all’hotel Excelsior, durante la
Mostra del Cinema di Venezia, nel 1949: per l’haute couture italiana presentarono i loro modelli
Biki, Carosa e le sorelle Fontana. L’alta moda era pronta a fare il suo ingresso nel cinema dando il
suo apporto alla costruzione di una tipologia divistica femminile. Negli anni ‘60 tale ingresso era già
un fatto compiuto ed il rapporto del cinema italiano con la moda si caratterizzava per l’opera del
grande sarto che vestiva il personaggio o i personaggi facendone delle icone di stile, come Irene
Galitzine con Claudia Cardinale in Vaghe stelle dell’Orsa.

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torio De Sica.

Cinecittà, che oltre a produrre film “in proprio”, ospitava fior fiori di mega-produzioni
hollywoodiane attratte, oltre che da rigurgiti da Grand Tour, dalle impareggiabili maestranze, tanto
dotate quanto a basso costo. In più, la rinata voga del periodo per il kolossal storico (da La caduta
dell’Impero romano, a Quo Vadis?, da Ben Hur a Anna Karenina e Guerra e pace), unì la storia della
moda a quella delle sartorie del costume, come la SAFAS, Umberto Tirelli, la Casa d’Arte Peruzzi,
d’origine fiorentina come la Casa d’arte Cerratelli. Oltre ad essere interpellate per gli abiti di scena,
le case di moda venivano in contatto con gli attori, i produttori, i giornalisti… tutti potenziali
acquirenti di nuovi modelli più o meno esclusivi: un indotto economico e di immagine di tutto
rispetto, come hanno dimostrato le Sorelle Fontana e Schubert per primi.

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E poi c’è Vacanze romane (1953), con Audrey Hepburn e Gregory Peck, un film che diventa
subito leggenda, imponendo una moda. Quella di Audrey Hepburn, l’attrice, la diva che più di ogni
altra ha segnato un’icona di stile e di eleganza nel mondo. Modello di vita per tutte le donne che
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facciano del glamour e dell’eleganza uno stile, Audrey impose fin da subito il suo charme fuori dagli
schemi, la sua bellezza moderna, e conquistò le riviste di moda; si pensi che le ballerine indossate da
lei diventarono più seducenti dei tacchi a spillo. Elegante, semplice e affascinante. Sorrideva sempre
ai fotografi che le puntavano contro l’obiettivo. E non la si incontrava mai per strada sciatta e
trasandata. Fu proprio il cinema a consegnarle i ruoli della vita e a farla diventare la “diva delle
dive” internazionale. E lo diventò proprio a Roma, pronta a diventare il centro mondiale del glamour,
dell’eleganza, della moda e del cinema.

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Gregory Peck.

La strada alla “Dolce Vita” era aperta e si poteva tentare “Il sorpasso”. I due omonimi film, il primo
di Fellini (Mastroianni-Ekberg) del 1960, il secondo del 1962 di Dino Risi (Gassman-Trintignant), ci
mettono in guardia sulle contraddizioni generate dal miracolo economico nostrale: la moda si
costruisce sulle imprese del lusso, che basano il mercato sui sogni del pubblico di un’immagine
migliore o comunque diversa della realtà e il cinema aiuta all’illusione, o alla riflessione.

  PER APPROFONDIRE:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Nel 1968 Pasolini chiede a Roberto Capucci di vestire Terence Stamp e Silvana Mangano per il suo
Teorema. A quel momento il sarto artista aveva già deciso di porsi fuori dal meccanismo tritatutto
commercial-mondano della moda (alla Dior per intenderci), rifiutando il nascente regime del prêt à
porter e optando per la sperimentazione di materiali inconsueti e la ricerca artistica. Due anni prima
Mary Quant, nell’Inghilterra della Rational Dress Society, era stata nominata Cavaliere della Corona
(giusto un anno dopo i Beatles).
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nni ed Anita Ekberg nella Fontana di Trevi, nella famosa scena del film “La dolce
vita” di Federico Fellini.

Nessuno fino ad allora aveva tanto considerato le nuove generazioni come potenziali acquirenti. Sarà
questa in fondo la più grande rivoluzione della moda, in ogni sua sfaccettatura: dall’entrata in scena
delle top model-teen agers (con la mitica Twiggy), alla querelle di Courrège sul copyright della
minigonna (nel ’64 aveva presentato abito corti e linee a trapezio) e a cui la stilista inglese aveva
indirettamente risposto: ”Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le stesse che si vedono per la
strada”. E con loro, da qui in poi, anche l’alta moda dovrà fare i conti, soprattutto dopo il “fatidico
‘68”.

5 è il numero perfetto - Il film
Il 29 agosto scorso, è uscito nelle sale un film, che inaugura la “nuova” annata del cinema italiano, la
quale si preannuncia ricca di pellicole interessanti. Parliamo di “5 è il numero perfetto”, film di
Igor Tuveri, con un trio d’eccezione: Toni Servillo, Valeria Golino e Carlo Buccirosso. Il film è
un piccolo e delizioso affresco della Napoli degli anni ’70, resa con tutte le atmosfere tipiche di
quegli anni: una certa cupezza di fondo, un certo colore ed un certo folklore, che rendono la storia
molto suggestiva, anche da un punto di vista iconografico. Abbiamo Toni Servillo, nei panni di
Peppino Lo Cicero, un sicario di seconda classe della camorra in pensione, costretto a tornare in
azione dopo l’omicidio di suo figlio; ma abbiamo anche Carlo Buccirosso amico e complice di una
vita, nei panni di Totò o’macellaio; e Valeria Golino nei panni di Rita, l’amante di Lo Cicero. Il
trio cercherà di far luce sull’omicidio di Nino Lo Cicero, innescando tutt’una serie di azioni
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criminose, ma anche la scintilla per cominciare una nuova vita.

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lo Buccirosso in una scena del film “5 è il numero perfetto” di Igor Tuveri.

Il suo autore Igor Tuveri, in arte Igort, splendido fumettista e sceneggiatore, trae questo film da sé
stesso. L’opera omonima a fumetti, è del 2002, ed è il suo libro a fumetti più popolare, vincitore di
numerosi premi internazionali, tra cui la prestigiosa Fiera del Libro di Francoforte. Questo noir
napoletano, ricco di suggestioni, di atmosfere e di sfumature, ha avuto un lavoro di casting molto
lungo e ragionato, proprio in ragione del particolare adattamento del fumetto ai tempi e ai metodi
del cinematografo. Ed è proprio nella scelta degli attori, la metà dell’opera di un film che risulta
azzeccatissimo: tutti i personaggi hanno trovato l’attore giusto che ha offerto loro carne, sangue e
voce. A partire da Toni Servillo che aderisce con grande partecipazione alle azioni e ai pensieri di
un uomo che vede la propria attività di killer come un lavoro faticoso che ha una propria (distorta)
morale. Lui, Buccirosso, Golino e tutti gli altri fino ai ruoli minori sanno offrire caratterizzazioni da
cinema anni ’70 innervate da uno sguardo, quello di Igort, che sa come andare ‘oltre’ la storia
riuscendo a far diventare protagonisti gli spazi e gli edifici in ogni inquadratura.

Qui si vede l’anima dell’artista eclettico che, tavola dopo tavola, ha dovuto ‘ambientare’ le proprie
storie con tutta la libertà che offre il disegno. Questo non è però stato di ostacolo alla ricerca delle
location ma, sembrerebbe, di stimolo all’individuazione delle vie, dei palazzi, delle scale in cui
collocare le vicende. Un film quindi, che sorprende, dove anche il minimo dettaglio assume un senso
e che è stato presentato, fuori concorso, in “prima assoluta”, la mattina del 29 agosto al Festival
del Cinema di Venezia, nella sezione “Giornate degli autori”, ottenendo scroscianti applausi, per
poi essere proiettato a partire dalla stessa serata, in oltre 200 sale cinematografiche nazionali.

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La folle estate del cinema in Puglia
Una volta era “Cinecittà” la capitale del cinema italiano; oggi possiamo definire la Puglia, la regina
incontrastata della settima arte. Set naturale, come pochi altri nel mondo, la Puglia è ormai da anni
oggetto delle attenzioni delle più grosse produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali. Ma
mai come in questa estate, la nostra regione è stata presa d’assalto dal jet set cinematografico. E’ in
Puglia infatti, il meglio del cinema brillante nazionale, con produzioni che vedremo tra televisione e
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cinema, tra l’autunno e il Natale prossimi.

E’ vero, il revival della Puglia come set cinematografico è un fenomeno avviato da anni e sempre in
costante crescita, ma quello che sta accadendo in questi giorni nella nostra regione, è qualcosa di
visto solamente a Roma e Napoli, in quelli che erano gli anni d’oro della commedia all’italiana (n.d.r.
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anni ’60 e ’70). Sul Gargano e nei dintorni si registra in questo momento un sovraffollamento di set.

Carlo Verdone è impegnato tra Salento e bassa costa barese con le riprese di Si vive una volta
sola, con Max Tortora, Rocco Papaleo e Anna Foglietta; mentre Sophia Loren è impegnata a
Trani per La vita davanti a sé, film diretto dal suo secondogenito Edoardo Ponti. Intanto Checco
Zalone, sta terminando le riprese della sua ultima chilometrica fatica, dal titolo Tolo Tolo, girato
tra Africa e Puglia: Massafra, Monopoli e Salento interno, le zone geografiche più toccate dall’attore
barese. Sono in Puglia anche Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno scelto la regione pugliese per
tornare insieme, dopo tre anni di assenza dai set cinematografici: le riprese del loro 12esimo film in
trio, dal titolo Odio l’estate, diretto da Massimo Venier, sono cominciate ad Otranto a metà
giugno e dureranno per circa due mesi. Fino al 29 giugno tra Nardò, Galatina, Acaya e San Vito dei
Normanni, con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Pietro Sermonti e Dino Abbrescia si è girata la
serie Cops, prodotta da Dry Media per Sky e diretta da Luca Miniero, che racconta la vicenda di
una piccola cittadina di provincia nella quale da anni non si commettono reati e il cui commissariato
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è diventato quindi una spesa superflua.

A Taranto fino al 20 luglio tengono banco i ciak della fiction Rai Il commissario Ricciardi diretto
da Alessandro D’Alatri, con Lino Guanciale nei panni del commissario inventato dallo scrittore
napoletano Maurizio De Giovanni. Dall’inizio di giugno e fino al 6 luglio, tra Bari, Spinazzola e
Pulsano, c’è Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra per le riprese del film drammatico
Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, prodotto da La Sarraz Pictures, Shellac Sud
e Rai. E in agosto, sbarca in Puglia anche una grossa e storica produzione hollywoodiana: James
Bond Daniel Craig con la sua nuova avventura farà tappa tra gli uliveti e le spiagge pugliesi, con
Taranto sede principale della maggior parte delle scene.

Insomma per la Puglia, per anni tagliata fuori dalle grosse produzioni nazionali e riscoperta
praticamente dalla commedia sexy all’italiana in poi (metà anni ’70), cinematograficamente è un
periodo d’oro, che sembra non avere fine. L’estate poi, dona alla regione, grazie alla bontà del suo
clima e ai colori paesaggistici unici al mondo, la luce naturale perfetta per essere invasa dalle grandi
produzioni cinematografiche. Qualcuno già anni fa si era accorto della grandezza cinematografica
della nostra Puglia, qualcuno che si chiamava Pier Paolo Pasolini, che diceva questo a proposito di
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Taranto, la quale tra tanti problemi sociali, è pur sempre la seconda città della regione:

     “Taranto brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. Viverci è come vivere
 all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia,
intorno i due mari e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle
 navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti.”

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La Luna e il Cinema
Fin dall’antichità la Luna, il nostro fedele satellite, ha ispirato poeti e artisti, e come tale il Cinema
non poteva rimanere insensibile di fronte al fascino, alla magia, al sogno e al mistero che la avvolge.
La Luna ha un ascendente enorme sulla nostra fantasia e come tale ha avuto le sue esperienze
cinematografiche. Già dagli albori, il cinema si è interessato ad essa, e ben presto il rapporto Luna-
Cinema è diventato epocale. L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la
navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per
pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il
viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di
fantascienza della storia. Se i fratelli Lumière, gli inventori “ufficiali” del cinema, filmavano quasi
solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che
il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Méliès è ricordato come “il creatore della
spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento
fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo
internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo
proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al
romanzo Dalla Terra alla luna di Jules Verne in tutta la prima parte, quella relativa alla
progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta
all’immaginazione del regista. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo
seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi
atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere
sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale
“cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un
kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli
acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le
copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne
sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi.

Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un
secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta
famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del
film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue
pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’
più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la
navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti
dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo,
ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta
del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema
nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è
oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si
capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di
un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta,
di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di
tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma
ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo
dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla
Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I
Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece
azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due
pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e
talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra
Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne
inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre.

Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà
aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va
sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di
essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento
molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di
questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri
“alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso
regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo
stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti
sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo
la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario,
dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e
persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per
una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che
aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi
volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat
Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova
atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri
telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra.

Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo
Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e
anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è
strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira
per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che
vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce,
Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e
dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un
racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene
ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai
viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla
missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile
di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della
fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello
stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui
celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla
Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel
quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è
abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni
giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in
California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto
poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962),
ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle
vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto
nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter
finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco –
come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la
spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per
satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma
è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene
interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da
attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori,
lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick
per il suo Dottor Stranamore.

Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di
fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le
Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello
noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in
una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli
siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di
cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della
superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai
non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un
grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film
modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert
Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman.

Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non
ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune
scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base
statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla
base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla
Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione
dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo
genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era
quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale
e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa
a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si
occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri
già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del
2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu
pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal
cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro
(un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle
sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua
produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in
tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla
trama alla recitazione.

Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà
solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione.
In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute,
extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due
astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché
una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto
dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le
colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del
buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe
migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato
a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire
espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri
film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello
spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999).

Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che
peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto
impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso
“ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller
molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini
(Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon
Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006),
dove viene comunque “ricostruita”.

Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e
Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla
sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla
stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si
estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come
unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire
ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di
se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo
momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre
più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano
altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce
di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di
fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza
essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato.

Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna
nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando
l’interesse del pubblico di tutte le generazioni.
Il grande spirito - Il film
Quello appena uscito nelle sale, ovvero Il grande spirito, è un film complesso, poeticamente
stralunato e avvolto da un realismo magico, cifre distintive del cinema di Sergio Rubini e di Rocco
Papaleo, attore comico “lunare”, un po’ alla Macario. Sempre in bilico fra materia e spirito, fra
concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile, Il grande spirito è una storia di miseria e
nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto
curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano
nervosa. Il grande spirito è dunque un piccolo gioiello, partito quasi nell’ombra, ma che ben presto
ha assorbito ammiratori come una spugna assorbe l’acqua. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche
profondamente calato nella realtà locale: il film è girato a Taranto, ma nella parte industriale, quella
avvelenata dai veleni dell’industria siderurgica, la quale però, saggiamente, rimane sempre sullo
sfondo.

I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La
vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in
basso nel sentimentalismo o nella banalità. E’ la storia di Tonino (Sergio Rubini), un ladruncolo
sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una
rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino
fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno
strano personaggio: Renato (Rocco Papaleo), che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si
ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba
sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo,
che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà
un’intesa frutto non solo dell’emarginazione, ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute.

Rubini, alla sua 14esima regia, sforna un film, che sembra rifarsi allo stralunato gioiello della
commedia all’italiana Non toccare la donna bianca, in cui la guerra di secessione americana, era
ambientata in una cava nel centro di Parigi e le avventure dei protagonisti (Mastroianni, Tognazzi,
Noiret, Piccoli), si svolgevano con i grattacieli di Parigi sullo sfondo. Allo stesso modo la storia
attuale si svolge sui tetti, anziché in una cava, e sullo sfondo al posto dei grattacieli ci sono le famose
ciminiere di Taranto. Le immagini della fabbrica, con le sue fornaci e i suoi tossici fumi, si mescolano
alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e
devozione, peccato e redenzione. Altra scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi
tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la
parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e
rovinosi schianti a terra – quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le
ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare
tarantino.

La questione dell’Ilva insomma, pur senza invadere il campo della vicenda, permea – come un veleno
silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia
(mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato. Tonino e Renato sono quindi, l’uno l'”uomo del
destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce
che lotta contro il buio circostante. Ma i due personaggi sono soprattutto lo specchio del talento dei
due protagonisti, autori-attori di straordinario talento, poliedrici e capaci di acchiappare il pubblico
di tutte le età, con un viscerale amore per il cinema, che permea dal primo all’ultimo minuto di film.
Una pellicola da ricordare e…da vedere: amara e figlia dei tempi attuali.

Ma cosa ci dice il cervello - Il film
Iniziamo dall’epilogo: Ma cosa ci dice il cervello consegna a Paola Cortellesi, splendida
protagonista del film, il Nastro d’Argento come miglior attrice di commedia, un giusto
riconoscimento ad una donna del cinema, che ogni anno che passa diventa sempre più brava, sempre
più interprete dei vizi e delle virtù della donna italiana. In questo potremmo forse paragonarla a
Monica Vitti? Probabilmente è la più vicina, perché è quella che più di tutte, al giorno d’oggi,
nell’ambito della commedia riesce meglio a comprendere come siano le donne italiane del nuovo
millennio.

Le avrà probabilmente giovato l’accoppiata non solo artistica con Riccardo Milani, regista del
suddetto film e suo compagno di vita. Al suo quarto film con il regista, dopo Scusate se esisto,
Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale, Paola Cortellesi è utilizzata in una parodia
delle spy story di spionaggio all’americana, che mette in risalto il suo grande talento comico.
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“Ma cosa ci dice il cervello”.

Come in tutti i film di spionaggio che si rispettino, anche quelli parodistici, si viaggia per il mondo.
Si gira a Roma, a Mosca proprio nella Piazza Rossa, a Siviglia e perfino per le vie del mercato di
Marrakech.

Lo stesso regista, all’ottava edizione di Ciné-Giornate di cinema, ha descritto così il suo film, che
poi sarebbe uscito qualche giorno dopo, ovvero il 18 aprile scorso:

“Una commedia sociale per raccontare un Paese che ha bisogno di risvegliarsi dal torpore. Proprio
come farà la sua protagonista, Paola Cortellesi, donna abituata alle angherie del quotidiano, alle
prepotenze del traffico e che un giorno, rincontrando amici di vecchia data, avrà la forza per alzare
la testa e smuovere qualcosa, magari rimettendo le cose al proprio posto”.

Le avventure che vive l’agente segreto interpretato da Paola Cortellesi, con sferzante ironia,
possono essere viste come un tentativo comunque riuscito, di raccontare il nostro Paese, in chiave di
divertimento e di riflessione sui tempi moderni.

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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David di Donatello 2019: i verdetti
Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di
Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e
leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar
italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e
presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti.

Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David
vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura
originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel,
montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo
Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da
applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale,
continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto
insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di
tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande
schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza
sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante
invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più
grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre
più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei
cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a
scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero
aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.»

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations,
conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi
porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David
Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il
miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente
trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso
attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano
Cucchi:

Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca
Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo
Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa
Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi.
L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero
emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata.
Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il
provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A
Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a
trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie
davvero, non me lo aspettavo.»

Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il
miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte
Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della
speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio
«alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a
Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello
Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di
Gabriele Muccino.
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zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9
e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il
miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo
Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso
Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David
per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla
Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo,
accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che
riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto
emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani
come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è
come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha
poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto
Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E
per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei
più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo
ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar.

Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli
altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla
grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi
con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima
statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza
standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David,
dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica:
«Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho
mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno
solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì,
ma troppo tardi».

Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente
previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film,
Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì
sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato
negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più
consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla
gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
David di Donatello 2019: le candidature
La 64esima edizione dei cosiddetti “Oscar italiani”, ovvero quella dei David di Donatello, è
ormai imminente: si terrà infatti mercoledì 27 marzo in diretta su Rai Uno, dove la cerimonia
torna, dopo le parentesi mediocri su Sky. La conduzione della serata di gala sarà affidata all’esperto
Carlo Conti: una sicurezza, nonché un marchio di fabbrica di mamma Rai. L’edizione di quest’anno
ha visto l’introduzione di una serie di cambiamenti, tra cui la nomina di una nuova giuria, nuove
regole di ammissione dei film e la nascita del David di Donatello dello Spettatore. Il premio sarà
assegnato al film uscito entro il 31 dicembre 2018 che avrà ottenuto il maggior numero di spettatori.

Il direttore artistico Piera Detassis, al momento dell’annuncio alla stampa delle nominations, ha
enunciato tutte le novità di un’edizione che si preannuncia innovativa, progressista, anche più
internazionale se possibile. I gloriosi David alla Carriera, quelli più prestigiosi e importanti
saranno assegnati al visionario e sognatore regista americano Tim Burton e al nostro Dario
Argento, maestro mondiale dell’horror movie. Come per i David speciali alla carriera, anche altri
premi sono stati già svelati: il David dello spettatore, assegnato al film che ha registrato più incassi
al botteghino, è andato al film A casa tutti bene, opera corale di Gabriele Muccino, già vincitore
del Nastro d’argento speciale a tutto il cast; il David al miglior film straniero, va a Roma di
Alfonso Cuaròn, già vincitore degli Oscar come miglior film e migliore regia; il David al miglior
cortometraggio, infine, è stato assegnato a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Tutti gli altri numerosi premi, verranno svelati la sera del 27 marzo, a fronte di una giuria numerosa
che si è già pronunciata in merito. Ovviamente l’attenzione è quasi tutta concentrata sui premi
principali, ovvero quelli al miglior film e alla migliore regia e ai quattro dedicati agli attori (miglior
attore e miglior attrice, categorie protagonista e non protagonista). Quattro film sono presenti sia
nella categoria “miglior film” che in quella dedicata alla “miglior regia”: Chiamami col tuo
nome, di Luca Guadagnino; Dogman, di Matteo Garrone; Euforia, di Valeria Golino; Lazzaro
felice di Alice Rohrwacher. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è invece presente soltanto nella
categoria “miglior film”, così come Capri-revolution, di Mario Martone è presente soltanto in
quella alla “miglior regia”. L’impressione, come spesso accade, è che il premio al miglior film e alla
miglior regia, andranno a combaciare nel giudizio insindacabile della giuria.

Per la categoria “miglior attrice protagonista”, favoritissima la splendida Elena Sofia Ricci, per
la superba interpretazione di Veronica Lario nel film Loro, di Paolo Sorrentino, già vincitrice del
Nastro d’argento nella medesima categoria. Sue rivali Marianna Fontana per Capri-Revolution,
Pina Turco per Il vizio della speranza, Alba Rohrwacher per Troppa grazia, Anna Foglietta
per Un giorno all’improvviso. Cinquina fenomenale ed incerta anche quella al “miglior attore
protagonista”: Marcello Fonte – Dogman, Riccardo Scamarcio – Euforia, Luca Marinelli –
Fabrizio De André: Principe libero, Toni Servillo – Loro, Alessandro Borghi - (quest’ultimo
favoritissimo). Particolare la cinquina della categoria al “miglior attore non protagonista”: dal
favorito Massimo Ghini per A casa tutti bene, ad Edoardo Pesce per Dogman, passando per
l’onnipresente Valerio Mastandrea (Euforia), collezionista di premi e nominations ai David, fino al
compianto Ennio Fantastichini per Fabrizio De André: Principe libero, e Fabrizio Bentivoglio
per Loro. Nella stessa categoria al femminile troviamo le seguenti candidature: Donatella
Finocchiaro – Capri-Revolution, Marina Confalone – Il vizio della speranza, Nicoletta Braschi –
Lazzaro felice, Kasia Smutniak – Loro, Jasmine Trinca – Sulla mia pelle.

Considerato anche i numerosi premi minori, precisando quel termine “minori”, come impatto
mediatico e non certo per l’impegno o per le professionalità delle competenze messe in atto, a fare la
parte del leone è Dogman con 15 nomination, seguito da Capri-Revolution con 13 e Chiamami
col tuo nome e Loro con 12 nomination ciascuno. Tutto è pronto dunque per quella che ogni
anno, tra critiche e polemiche di ogni tipo, è la serata di gala del cinema italiano, checché se ne dica,
sempre vivo e pieno di fresche novità.

10 giorni senza mamma - Il film
Commedia brillante, “10 giorni senza mamma” è l’ennesima fatica sostenuta dal talento comico
di Fabio De Luigi, in questo determinato momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è
stato già pochi mesi fa, a novembre, in sala con “Ti presento Sofia”, al fianco di Micaela
Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle
costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il
sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli,
anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma” (Valentina Lodovini, bellissima) decide
di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente,
per lavoro e per pigrizia: guai a catena.

E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si presta a meraviglia ad una
tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle vicende in cui si ritrova
invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte malinconia di un padre che
ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che non comprende a pieno il
ruolo di una madre full time.

In questo si nota la volontà degli sceneggiatori di scrivere un prodotto diverso, sia pure nell’ambito
della commedia brillante. Così facendo, creano un lavoro dal retrogusto amaro, che convince
soprattutto nel rapporto di questo padre con i suoi tre figli, e soprattutto in quello, ancora salvabile,
con la propria partner.

E quindi appare chiara la forte volontà di portare sul grande schermo tematiche attuali quali la
frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il difficile connubio famiglia/lavoro. E
specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui è stato scritto il personaggio
interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore (finalmente) contemporaneo. Il
film rimane come uno dei migliori prodotti brillanti dell’annata, che si prospetta proficua per il
nostro cinema e per la commedia, all’alba del nuovo decennio.

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