Testi integrativi al modulo monografico - Zenodo

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Corso di estetica – Università degli Studi di Cagliari, A.A. 2020/2021

        Testi integrativi al modulo monografico

Iconic turn

HORST BREDEKAMP – In ogni immagine dei mass-media, delle scienze
naturali e delle arti figurative agisce una gravitazione iconica, che
fornisce le chiavi per evitare di essere sottomessi al ‘flusso’
strabordante, continuamente scongiurato, delle immagini, alla loro
‘velocità’ sopraffacente e al loro ‘potere’ inafferrabile. L’iconic turn è
stato proclamato con l’esigenza non solo di accompagnare gli attuali
campi del visivo, ma anche di analizzarli nel senso di una “logica delle
immagini” da elaborare pazientemente.
[Drehmomente – Merkmale und Ansprüche des iconic turn, in C.
Maar, H. Burda (Hrsg.), Iconic turn. Die neue Macht der Bilder,
DuMont, Köln 2005, pp. 15-26: 23.]

EMANUELE CRESCIMANNO – La contemporaneità è stata più volte
definita in maniera semplicistica e con intento denigratorio come la
civiltà delle immagini senza tuttavia valutare la portata reale di tale
affermazione; le immagini sono state ritenute una forma
gerarchicamente inferiore rispetto alla parola scritta per veicolare
conoscenza e sapere, esse sono state considerate evanescenti e
incapaci di raggiungere la profondità di significato della scrittura.
[La fotogenia. Verità e potenza dell’immagine fotografica,
«Aesthetica Preprint», n. 88, 2010, p. 15.]

MARTINE JOLY – [...] L’ingiustizia della grande paura provocata dalla
«proliferazione dell’immagine» o dalla «civiltà dell’immagine», che
comporterebbero la scomparsa della «civiltà dello scritto», o
addirittura del linguaggio verbale nel suo complesso.
[Introduzione all’analisi dell’immagine (1994), tr. it., Lindau, Torino
1999, 2008², p. 137.]

HORST BREDEKAMP – L’iconic turn è stato proclamato con l’esigenza
non solo di accompagnare gli attuali campi del visivo, ma anche di
analizzarli nel senso di una “logica delle immagini” da elaborare
pazientemente.
[Drehmomente, cit., p. 23.]

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WILLIBALD SAUERLÄNDER – Abbiamo bisogno di una iconoclastia
critica […] della percezione visiva, fondata non solo sulla storia
dell’arte e sull’estetica, ma ancor più sulla sfera civile e pubblica. […]
Una discussione sui nuovi media non può limitarsi ad analisi
ancorché così brillanti dei procedimenti e delle innovazioni, perché la
circolazione in gran numero delle immagini nella società dei media è
divenuto un problema che riguarda la sfera pubblica. […] Perciò non
si può parlare del pictorial o dell’iconic turn solo in modo descrittivo,
ma bisogna parlarne anche dal punto di vista etico e civile.
I teorici francesi parlano di una ‘écologie des images’, una ecologia
delle immagini.
[Iconic turn? Eine Bitte um Ikonoklasmus, in C. Maar, H. Burda
(Hrsg.), Iconic turn, cit., pp. 407-426: 422 e 425.]

ANDREA PINOTTI, ANTONIO SOMAINI – L’iconic turn si è proposto di
reagire a questa invadenza pan-linguistica: le immagini non sono
parole, non si comportano come parole, non sono strutturate (né
semanticamente né sintatticamente) come il linguaggio, fanno venire
all’essere mondi radicalmente diversi da quelli che emergono nel
proferimento di una parola.
[Introduzione a Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina, Milano
2009, pp. 9-35: 17.]

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Bruno Latour, Che cos’è Iconoclash?

[293] JEAN-MARC LÉVY-LEBLOND – Il dito fu devotamente prelevato
dallo studioso Antonio Gori, e ci si potrebbe domandare perché non
abbia rimosso il dito indice, cioè quello con cui, certamente, Galileo
indicava il cielo. Con i suoi libri ancora all’indice, sarebbe stata
un’ironia allettante, ma forse rischiosa. Infine il dito, naturalmente
sistemato in modo da puntare verso l’alto, venne montato in uno
scrigno elaborato, piuttosto simile a quelli che contengono vari
frammenti e pezzi di così tanti santi nelle chiese vicine. E che cos’è in
effetti questo reperto se non un santo reliquiario? Questi oggetti
mostrano involontariamente come la figura di Galileo venisse vista in
un contesto dominato dalle forme artistiche e dalle rappresentazioni
mentali della cultura cattolica. Persino per coloro i quali, nel
diciottesimo secolo, fecero assurgere il carattere di Galileo allo status
di un eroe della ragione (scientifica) contro l’oscurantismo
(religioso), gli schemi della venerazione fissati dalla chiesa furono
inevitabili. E si giungerebbe a un fraintendimento completo se uno
interpretasse queste icone come elementi arcaici, vestigia di un’epoca
che volgeva al termine. Il reliquiario e l’ostensorio di Galileo sono
simultaneamente oggetti religiosi e scientifici. Le sue idee dovevano
lottare contro il dogma della chiesa, ma si trattava di una lotta
all’interno del contesto culturale e sociale del tempo.
[Galileo’s Finger, in B. Latour, P. Weibel (eds.), Iconoclash, ZKM,
Karlsruhe – MIT Press, Cambridge 2002, pp. 146-147: 147.]

[293] JEAN-MARC LÉVY-LEBLOND – Se ora il nostro sguardo vaga
attorno al sepolcro, vediamo, sulla parete contro la quale è collocato, i
resti di un affresco del Quattrocento dedicato a Santa Maria
Maddalena. La maggior parte delle pitture sono coperte dal cenotafio,
tuttavia sulla sinistra, a fianco del monumento, sopravvive
un’incantevole figura femminile con i capelli lunghi e biondi. È la
Maddalena in persona, che ancora prega inginocchiata, ma in
adorazione non più del Figlio di Dio, bensì… del Padre della Scienza.
C’è un ben noto detto, attribuito alla saggezza cinese tradizionale:
“Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. La messa in
mostra del dito di Galileo e delle altre reliquie non prova che, quando
si tratta di scienza, facciamo tutti la figura dello stolto?
[Galileo’s Finger, cit., p. 147.]

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[293] LORRAINE DALSTON, PETER GALISON – [Nel tardo XIX secolo]
un tipo di immagine meccanica, la fotografia, divenne l’emblema di
tutti gli aspetti di oggettività non-interventista […]. Questo non
perché la fotografia era necessariamente più vicina alla verità della
natura rispetto alle immagini fatte a mano – molte illustrazioni erano
portatrici di una maggiore somiglianza al loro soggetto rispetto alle
prime fotografie, se non altro perché usavano il colore – ma piuttosto
perché la macchina fotografica, apparentemente, eliminava
l’intervento umano. Il non intervento, la non verosimiglianza,
costituiva il nucleo dell’oggettività meccanica, e questo perché le
immagini prodotte meccanicamente catturavano meglio il loro
messaggio. Le immagini erano sempre state considerate più dirette
delle parole, e le immagini meccaniche, che potevano essere spacciate
come autoritratti della natura, erano ancora più immediate. Così
queste non erano solo il prodotto dell’oggettività meccanica; erano
anche il loro esemplare più importante.
[The Image of Objectivity, in «Representations», n. 40, 1992, pp. 81-
128: 127.]

[295] JAN ASSMANN – Con l’espressione “distinzione mosaica”
intendo l’introduzio-ne della distinzione tra vero e falso in ambito
religioso. Prima di allora la religione si era basata sulla distinzione fra
puro e impuro o tra sacro e profano, e non lasciava spazio alcuno
all’idea di falsi dèi, all’idea di dèi proibiti, che non era consentito
adorare, o all’idea di dèi che non esistono – quest’ultima fu la forma
più radicale della suddetta distinzione. Prima che si arrivasse alla
distinzione mosaica, era dunque assolutamente impensabile
immaginarsi qualcosa del genere.
[da un’intervista al programma TV “Alpha”, cit. in Erich Zenger, Qual
è il prezzo del monoteismo? (2001), in J. Assmann, La distinzione
mosaica ovvero il prezzo del monoteismo (2003), tr. it. di A. Vigliani,
Adelphi ebook, Milano 2019.]

[296] MOHAMMED OMAR – O queste statue sono legate a credenze
idolatriche, o non si tratta che di semplici pietre; nel primo caso,
l’islam comanda di distruggerle, nel secondo, che importa se le si fa a
pezzi?
[cit. in Pierre Centlivres, Les Bouddhas d’Afghanistan, Favre,
Lausanne 2001, p. 141, cit. in Bruno Latour, Iconoclash, cit., p. 326
nota 22.]

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[296] MOHAMMED OMAR – Se fossero oggetti del culto di una
minoranza afgana, dovremmo rispettare le loro credenze e i loro
oggetti, ma non abbiamo neanche un buddista in Afganistan, quindi
perché salvaguardare falsi idoli? E se non hanno carattere religioso,
perché essere così turbati? Si tratta solo di rompere pietre.
[cit. in Pierre Centlivres, Life, Death, and Eternity of the Buddhas in
Afghanistan, tr. ingl. di L. Libbrecht, in Bruno Latour, Peter Weibel
(eds.), Iconoclash, cit., pp. 75-77: 75.]

[297] JÖRG HUBER – Se ammettiamo che le immagini rappresentano
o esibiscono qualcosa o rendono presente qualcosa, sia “fuori” sia
dentro l’immagine, la domanda è: A che cosa si riferiscono le
immagini e che cosa rendono visibile?
Se ci aspettiamo, in particolare dalle immagini scientifiche, che
mostrino qualcosa di concreto, che “esiste” o “accade” nella realtà,
allora uno sguardo alla loro origine e al loro uso dirigerà la nostra
attenzione in un’altra direzione. In termini di luce, l’evento da
“osservare” accade all’interno di un campo di onde che sono più
piccole della lunghezza delle onde del campo visivo. I sensori dei
rilevatori registrano l’evento per mezzo di misurazioni elettroniche; i
dati vengono in seguito analizzati e visualizzati dal computer. Questa
è l’“arte” dell’esperimento: pensare con l’occhio.
[On the Credibility of World-Pictures, in B. Latour, P. Weibel (eds.),
Iconoclash, cit., pp. 520-522: 520.]

[297] JÖRG HUBER – La fase decisiva nella comprensione scientifica
avviene solo per mezzo di immagini, in quanto le immagini
permettono una riduzione della complessità, una condensazione
nella rappresentazione, e producono chiarezza visiva: un’immagine
dice più di mille parole. È ovvio che le immagini sono l’effetto di una
manipolazione “manuale” degli scienziati, i quali selezionano,
modificano e interpretano i dati; nella produzione di immagini si fa
in modo che esse somiglino ad altre immagini già esistenti,
immaginarie o reali che siano. Idee di immagini convenzionali e
criteri estetici hanno un ruolo in tutto questo. Le strutture formali, le
organizzazioni spaziali e l’effetto multicolore ottenuto attraverso
un’attribuzione convenzionale, e perciò contingente, del colore
producono l’attrazione estetica specifica delle rappresentazioni visive.
Associazioni con il repertorio culturale delle immagini – come, in
questi casi, a mappe del traffico urbano, fuochi d’artificio o i quadri di
Joan Miró – sostengono queste immagini. Nonostante la loro
artificialità, le immagini ricevono la loro validità e credibilità tramite

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la loro precisione tecnologica: sono immagini perfette, perché sono
state prodotte da macchine. […]
Rimane tuttavia aperta la questione se e in che rispetto queste
immagini abbiano qualcosa a che fare col mondo. Come mostra la
loro origine, le immagini scientifiche si riferiscono a dati e agli
algoritmi per il cui tramite sono state generate. Il loro livello di
referenzialità è sì la realtà – però non la realtà della realtà
fenomenica, come di solito si ritiene, ma quella della loro costruzione
mediale. Per capire le immagini, dobbiamo trovare nuovi criteri di
orientamento: esse non si riferiscono (più) a un mondo “dietro” o
“sotto” l’immagine. […]
L’immagine si relaziona ad altre immagini; come rappresentazione si
riferisce ad altre forme e media di rappresentazione. […]
Le immagini sono modelli teorici realizzati visivamente; non
mostrano il mondo, bensì pensano sul mondo. Visualizzano
concezioni del mondo. […]
Si riferiscono alla realtà – sebbene non direttamente al fattuale, ma
alla sua possibile rappresentazione. […]
Il pensare con l’occhio non auspica un’evidenza visiva, né promette
una fede nel mondo, ma avviene discorsivamente. Le immagini
scientifiche, in particolare, che rivendicano una credibilità in senso
tradizionale, mostrano che non puoi credere a loro, ma solo
comprenderle. Questo è il loro intrinseco iconoclash prodotto
culturalmente.
[On the Credibility of World-Pictures, cit., pp. 520 e 522.]

[298] ANDREA PINOTTI, ANTONIO SOMAINI – Intorno agli […] anni
Cinquanta Christian Metz, semiologo e teorico del cinema francese,
conia un termine destinato a grande fortuna nel vocabolario degli
studi di cultura visuale: «regime scopico» (régime scopique). Nella
riflessione metziana l’espressione è impiegata nello specifico per
caratterizzare il «voyeurismo allo stato puro» del cinema in quanto
sguardo desiderante che pone l’oggetto del desiderio come
costitutiva-mente inaccessibile.
[Cultura visuale, Einaudi, Torino 2016, p. 130.]

[301] BRUNO LATOUR – La parola “feticcio” e la parola “fatto” hanno
la stessa etimologia ambigua […].
Ma ognuna delle due parole insiste sulla sfumatura contraria
dell’altra. La parola “fatto” sembra rinviare alla realtà esterna, la
parola “feticcio” alle folli credenze del soggetto. Entrambi
dissimulano, nella profondità della loro radice latina, il lavoro
intenso di costruzione che permette la verità dei fatti come quella

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degli spiriti. È questa verità che dobbiamo liberare, senza credere né
alle elucubrazioni di un soggetto psicologico saturo di sogni, né
all’esistenza esteriore degli oggetti freddi astorici che cadrebbero nei
laboratori come dal Cielo. Senza credere più alla credenza ingenua.
Unendo le due fonti etimologiche, noi chiamiamo fatticcio la robusta
certezza che permette alla pratica di passare all’azione senza mai
credere alla differenza tra costruzione e raccoglimento, immanenza e
trascendenza.
[Il culto moderno dei fatticci (1996), tr. it. di C. Pacciolla, Meltemi,
Milano 2017 (ebook).]

[301] BRUNO LATOUR – Qui occorre aggiungere l’artefatto – in un
senso preso in prestito dall’inglese – e che nei laboratori designa un
parassita erroneamente creduto nuovo – come quando Tin Tin (a
dispetto delle leggi dell’ottica!) prende un ragno che passeggia sul
telescopio dell’osservatorio per la stella che minaccia la Terra. Al
contrario del fatto, l’artefatto sorprende perché si scopre l’azione
umana dove non ce la si aspetterebbe. La parola assicura dunque la
transizione tra la sorpresa dei fatti e quella dei feticci. Non ci sono più
ragioni per privarsi della parola “feticcio” quanto della parola “fatto”,
con il pretesto che i moderni hanno creduto alla credenza e voluto
dequalificare gli uni per tenersi gli altri. In pratica, nessuno ha mai
creduto ai feticci, ognuno si è sempre astutamente preoccupato dei
fatti. Le due parole restano dunque intatte. Siccome la differenza tra i
fonemi “fé” e “fait” non è sempre udibile, si potrebbe preferire
“factiche” anche se meno elegante (factish in inglese).
[Il culto moderno dei fatticci, cit., nota 22.]

[302, nota 38] JEAN DE LA FONTAINE
VI - Lo Scultore e la Statua di Giove

– Lapide, o vaso, o statua, –
uno scultor diceva allo scalpello, – traggi da questo bello
blocco di marmo candido.

Lapide o vaso...? All’opera immortale
sia tema il dio, che stringe in man la folgore
agli uomini fatale;
ecco che il ciglio ei muove,
temete, o vivi, l’apparir di Giove.

Sì ben trasse l’artefice
l’immagine del Nume che l’accende,

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che ognuno che la mira
esclama: – Essa respira! –.
E tanta meraviglia egli ne prende,
che quasi esterrefatto
teme di ciò che ha fatto.

Come costui per opra di scalpello
non men provò sgomento
il poeta quel dì che in suo cervello
previde lo spavento
e l’odio e degli dèi l’amor, lo zelo
da lui creati e collocati in cielo.

Temer per un nonnulla
è dei poeti e non è men dei semplici
fanciulli, sempre in ansia ed in affanno
che s’infranga il gioiel che li trastulla.

È fantasia che il cor tragge all’inganno,
onde le tante favole
che per il mondo vanno.

Di qui nacque degli idoli
il culto, a cui si strinsero
siccome a cose salde i ciechi popoli.
E ciò mi spiega, o Pigmalion, siccome
tu divenissi adorator di quella,
che uscì dalla tua man Venere bella.

Ciascun i sogni suoi
di colorir procura,
per la menzogna si diventa eroi
e il vero fa paura.
[Lo scultore e la statua di Giove, in Favole, libro IX (1679), tr. it. di
E. De Marchi, Intratext - Eulogos 2007: http://www.intratext.com.]

[302 nota 38] DARIO GAMBONI – Nella mia ipotesi, uno dei motivi del
titolo Fountain è un gioco di parole con il nome del poeta francese del
XVII secolo La Fontaine e un riferimento alla sua favola Le statuaire
et la statue de Jupiter, nella quale uno scultore, dopo essersi chiesto
se trasformare un bellissimo pezzo di marmo in “lapide, o vaso, o
statua”, opta per la statua del dio e finisce col tremare davanti alla
sua propria creazione.

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[…] La Fontaine biasima il suo scultore per il fatto di credere
nell’opera delle sue proprie mani, un atteggiamento che egli paragona
al gioco con le bambole e alla passione degli uomini per i sogni e le
menzogne: “L’homme est de glace aux vérités / Il est de feu pour les
mensognes”.
[Image to Destroy, Indestructible Image, in Bruno Latour, Peter
Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 88-135: 112.]

[302] JOHN TRESCH – Il filosofo e uomo politico del XVII secolo Sir
Francis Bacon (1561-1626) fu uno dei primi e più energici iconoclasti
al servizio della scienza moderna. Ha dato inizio alla campagna di
identificazione e di estirpazione delle cause di “errori, indolenza e
ignoranza”: gli “idoli” che influenzano le concezioni dell’uomo […].
Distruggere un’icona crea un vuoto che deve essere riempito. Bacone
stabilì un insieme di metodi con i quali “sarà raccolta e ordinata una
vera e copiosa storia della natura”, basati su semplici “istanze” e
“particolari”; queste formano la base di una nuova “statua della
filosofia”. Per trovare un simbolo, o un cosmogramma,
onnicomprensivo tale da ospitare questi nuovi fatti e la società che li
avrebbe organizzati, Bacone si rivolge a un’antica fonte: la Scrittura e,
in particolare, l’Esodo. […]
[Nel suo romanzo utopico, la Nuova Atlantide] I riti e i simboli di
quest’ordine immaginario hanno le loro radici nell’immaginario
biblico. Ecco la descrizione di Bacone dell’arrivo del governatore
dalla Casa di Salomone:
“Avanzava su una ricca portantina costruita a guisa di lettiga
sostenuta e tirata da due cavalli riccamente bardati di velluto azzurro
intessuto di ricami … La portantina costruita in legno di cedro, dorata
… sul davanti v’era un piccolo cherubino d’oro ad ali spiegate”.
La processione richiama direttamente i materiali per il Tabernacolo,
dettato con grande precisione da Dio sul Monte Sinai e costruito in
seguito da Mosè e dagli Israeliti, in una scena immediatamente
successiva a quella della distruzione del vitello d’oro. Questo tempio
portatile conteneva l’Arca dell’Alleanza, con tendaggi tessuti di
“tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto”; l’arca era coronata da
un cherubino. L’intera struttura poteva essere smontata, assemblata
con stanghe di acacia e, come la lettiga del governatore, trasportata
nel deserto. […] Possiamo vedere Bacone come un nuovo Mosè. Egli
ha distrutto il vitello d’oro dell’illusione filosofica e stabilito il piano
per un tabernacolo legittimo.
[Did Francis Bacon Eat Pork? A Note on the Tabernacle in New
Atlantis, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp.
231-232.]

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[302] MOSHE HALBERTAL – Per terminare il conflitto israeliano-
palestinese, si deve rispondere a una serie di questioni, difficili ma
legittime. I palestinesi sono seri nel loro desiderio di pace? Quali
sono le esigenze di difesa degli israeliani e come si accordano con un
territorio sovrano rispettabile per i palestinesi? È possibile uno stato
ebraico democratico con una prospettiva demografica quale quella
attuale?
E poi abbiamo il legame degli ebrei con il Monte del Tempio, che è in
relazione con la questione sensibile che i palestinesi riconoscano i
diritti nazionali e storici del popolo ebraico e garantiscano l’accesso ai
loro luoghi sacri. Il dibattito su questi problemi è importante e
legittimo, ma quelli che insistono nel coinvolgere la questione della
sovranità sui luoghi sacri stanno solo violando ciò che è sacro.
[God Doesn’t Live There Anymore, in Bruno Latour, Peter Weibel
(eds.), Iconoclash, cit., pp. 60-62: 62.]

[306 nota 48] PIERRE CENTLIVRES – Il 15 marzo 2001, il mullah Omar
ordinò il sacrificio di cento vacche in tutto il paese, di cui dodici
nell’ex palazzo presidenziale. Nel rispetto di precetti religiosi, la carne
venne destinata ai poveri. Quanto ai frammenti dei Buddha ai piedi
della parete rocciosa di Bāmiyān, alcuni dei quali erano ancora
identificabili, il mullah ne proibì la vendita prevista in Pakistan, sulla
base del fatto che ciò avrebbe reso il sacrificio illegittimo. Alcuni
mercanti d’arte di Peshawar hanno affermato, tuttavia, che il divieto
non venne osservato.
[Life, Death, and Eternity of the Buddhas in Afghanistan, cit., p. 75.]

[308] MARIE-JOSÉ MONDZAIN – La concezione retorica dell’economia
iconofila fa appello alla relazione ternaria del sacro, della natura e
della ragione. È un “modo di parlare” che è esistenzialmente legato al
carattere vivente della parola e a ciò che essa investe dell’effettività
stessa di ciò di cui si parla così come agli effetti che si propone
d’ottenere. È pertanto una scienza degli effetti nel senso più radicale
del genere. Ma, in quanto concetto che sussume il modo d’emergenza
della verità, è molto di più la causa e la condizione di possibilità della
sua manifestazione per tutti. È la scienza dell’avvocato convinto della
giustezza della causa che difende e della consapevolezza
dell’avversario che attacca. Non è pertanto la scienza retorica del
sofista, sempre pronto a provare una cosa e il suo contrario,
indifferentemente. La retorica è l’uso del discorso persuasivo il cui
motore non è il cinismo o il dubbio quanto all’esistenza della verità,
ma la messa in conto dell’ascoltatore e della possibilità d’una
comunicazione sul terreno mobile della realtà quotidiana. È una

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téchne adattiva e finalizzata, come ogni vera e propria téchne. La
grande novità dell’economia patristica è d’avere abbandonato il
vocabolo “retorica”, che non designa più per i Padri se non una specie
d’un genere infinitamente più ampio: la manifestazione della verità
nella vita. La retorica non si riduce più alle figure del ragionamento e
ai tropi del discorso: divenuta economia, concerne i tropi della nostra
relazione con il Logos di Dio, che resta il suo modello. Perché
l’economia è innanzitutto l’arte di Dio per convincere e salvare gli
uomini. È perché l’economia è un’arte, e perché non v’è in alcun
modo arte immune da astuzia e che non risulta da un pensiero
mimetico, che colui che ne è il padrone ci invita alla sua imitazione.
La retorica è un effetto secondario dell’economia, e non l’inverso.
[Immagine icona economia. Le origini bizantine dell’immaginario
contemporaneo (1996), tr. it. di A. Granata, Jaca Book, Milano 2006,
pp. 28-29.]

[310] MICHAEL TAUSSIG – Di tutte le icone, poche sono così potenti
come la bandiera nazionale, specialmente la Old Glory, amata e
oltraggiata nel mondo intero. Quante volte abbiamo visto fotografie
di persone nell’atto di bruciare quella bandiera in alcuni paesi
sfruttati del terzo mondo e accusare gli USA per le loro colpe!
Tuttavia negli USA, quando i liberals ottennero un’esigua
maggioranza nella corte suprema nel 1989, fu stabilito che, quando
venne bruciata la bandiera in forma di protesta al convegno nazionale
del partito repubblicano del 1984 a Dallas, non si era trattato di un
crimine, prendendo così una decisione contraria a quella della corte
d’appello del Texas, che ritenne che si era giunti a una “profanazione
di un venerato oggetto”.
Cinque giudici su nove dichiararono che sfregiare la bandiera
significava esercitare simbolica-mente la libertà di parola garantita
dalla costituzione. La bandiera non è che un simbolo di qualcosa di
ben più importante, che comprende il diritto di bruciarla come parte
dell’esercizio della libertà di parola. In effetti, che cosa potrebbe
esserci di più espressivo di quel diritto? Però, per il presidente della
corte Rhenquist, la bandiera non poteva essere separata così
facilmente da ciò che significa. Per lui, sfregiare la bandiera è un atto
criminale. Per alcuni, questo è servito meramente ad accrescere il
paradosso: ciò che simboleggia la costituzione, cioè la bandiera, non è
di per sé protetto dalla costituzione. In risposta, il presidente George
H.W. Bush, cercò, senza riuscirci, di aggiungere un altro
emendamento alla costituzione per proteggere la bandiera.
[Old Glory, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp.
82-83: 83.]

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[312] BRIGITTE DERLON – Se un melanesiano della Nuova Irlanda
visitasse il museo della Vieille Charité 1, sarebbe stupito di trovare
esposte sculture malanggan. Quello che probabilmente lo lascerebbe
maggiormente sconcertato sarebbe vedere, in primo luogo, che noi
abbiamo conservato con cura sculture che il suo popolo normalmente
eliminerebbe o brucerebbe solo poche ore dopo averle intagliate.
In secondo luogo, sarebbe colpito anche perché abbiamo esposto i
malanggan come nella Nuova Irlanda, ma per un tempo più lungo di
tre giorni e in un posto diverso da quello di un luogo di sepoltura,
senza escludere le donne dalla mostra e perciò in totale
contraddizione rispetto alle regole della Nuova Irlanda. Nel loro
paese natale, i malanggan erano prodotti, esposti e distrutti sul
luogo di sepoltura, fuori dalla vista delle donne, come parte della
cerimonia di conclusione di ogni rito funebre di uno o più individui.
La loro vita non eccedeva mai i tre giorni, il periodo massimo nel
quale erano esposti in una piccola capanna aperta o contro una
recinzione – l’equivalente, in un certo senso, del piedistallo di un
museo o di una vetrina. E qui siamo noi occidentali a essere a nostra
volta perplessi.
Qual è il significato dell’esposizione di oggetti in una cultura che
tradizionalmente non ha alcuna conoscenza dei musei e che è parte di
quei popoli, in precedenza descritti come primitivi, di cui si è spesso
detto che non avevano idea di che cosa sia la contemplazione
estetica?
Inoltre, perché i melanesiani impiegano tanti mesi nel fare sculture
molto elaborate in un materiale non deperibile (legno), per poi
distruggerle così velocemente, bruciandole o lasciandole
intenzionalmente a deteriorarsi sotto gli effetti combinati del tempo,
dei vermi e degli insetti? Perché farli per distruggerli?
[From New Ireland to a Museum: Opposing Views of the
Malanggan, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit.,
pp. 139-142: 139.]

[312] Z. S. STROTHER – I nkishikishi sono oggetti che operano prodigi.
Eppure, proprio per questa ragione, devono essere periodicamente
distrutti, per proteggere la società dal loro potere. Ironicamente,
perché il mercato internazionale dell’arte non può tollerare che
alcunché venga distrutto, il processo di decadimento è spesso
arrestato. Le statuette […] sono state strappate dalle fauci delle
termiti, lasciando i loro collezionisti esposti al rischio di vivere con

1   Marsiglia.

                                  12
spiriti tenuti in gabbia il cui vincolo avrebbe dovuto terminare tempo
fa.
[Iconoclasm by Proxy, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.),
Iconoclash, cit., pp. 458-459: 459.]

[319] PETER GALISON – Che ne è della presunta battaglia tra
iconoclastia e iconofilia? Campo dopo campo, dalla geometria alla
meccanica quantistica, dall’astrofisica alla microfisica, la ricchezza
dell’immagine e l’austerità del numerico stanno sempre cadendo
l’una nell’altra. Ci si chiede come mai questo stato di instabilità venga
spesso a essere visto come una battaglia di posizioni fisse. Viene in
mente un po’ di fisica. La relatività generale dà una descrizione
affascinante di un oggetto che cade dentro un buco nero. Come
l’oggetto si avvicina all’orizzonte dell’evento – il punto di non ritorno
– un osservatore esterno vede quell’oggetto rallentare via via che si
avvicina, la sua immagine spostarsi verso il rosso. Alla fine la scena
dell’oggetto cadente si congela in un rosso attenuato nell’istante
esatto in cui passa oltre il visibile. Questa scena sembra la nostra.
Proprio quando l’immagine scientifica muove verso l’astrazione,
siamo lasciati con l’ultimo barlume di un’immagine congelata e
ignoriamo che cosa accada dopo. Nel momento esatto in cui
l’astratto-logico diviene raffigurazione, questa viene dimenticata per
celebrare il ricordo di quell’ultimo momento di non-immagine. È fin
troppo facile dimenticare il traffico incessante avanti e indietro tra i
desideri scientifico-artistici di afferrare con occhi aperti e chiusi.
[Images scatter into Data, Data gather into Images, in Bruno
Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 300-322: 322.]

[321] MICHEL JAFFRENNOU – Ma dovete essere fuori di testa! Mi
chiedete che cosa pensi su iconoclastia e iconofilia? Chi credete che
sia? Uno di quei vecchi artisti del ventesimo secolo?! In che tempi
pensate che viviamo? Nel ventunesimo secolo, nel caso non ve ne
siate accorti…
Lo status dell’immagine è stato totalmente modificato. Esse non
possono più essere fatte a pezzi o diffamate o adorate o venerate,
perché non esistono – o sono state trasformate, metamorfizzate,
mutate, tramutate oltre ogni riconoscibilità. Primo, ogni immagine
ora è fatta di bit e di pezzetti distribuiti per il web. Guardate: volete
rendere lo splendore di un velluto, l’ombra di una barba appena
accennata, la torsione della luce attraverso un bicchiere; non sapete
come si fa. Beh, potete navigare sul web fino a che non trovate un
componente aggiuntivo, inventato da qualcuno in qualche luogo
lontano, e lo piratate, ne contrattate il prezzo o lo acquistate, ma alla

                                   13
fine è sul vostro schermo, eccolo. Guardate, ora sono capace di
aggiungere quest’ombra alla mia immagine. Ma di chi è
quest’immagine? Competenze per realizzare immagini fatte di bit –
perché è questo ciò che un componente aggiuntivo è – stanno
scorrendo in tutto il mondo in un grandioso vortice senza fine, sul
quale potete navigare cogliendo bit e pezzetti. Come potete essere
iconoclasti? L’immagine è già a pezzi, fatta di bit e byte.
[Ceci n’est plus une image!, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.),
Iconoclash, cit., pp. 479-482: 479.]

                                14
Iconografia e iconologia: introduzione a Panofsky

ERWIN PANOFSKY – L’iconologia è quel ramo della storia dell’arte che
si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte contrapposto a
quelli che sono i valori formali.
[Iconografia e iconologia. Introduzione allo studio dell’arte del
Rinascimento (1939, 1955²), in Il significato nelle arti visive (1955),
tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1962, pp. 29-57: 31]

ERWIN PANOFSKY – In un’opera d’arte la “forma” non può essere
disgiunta dal “contenuto”: la disposizione delle linee e del colore,
della luce e dell’ombra, dei volumi e dei piani, per quanto incantevole
come spettacolo, dev’essere anche intesa come portatrice di un
significato che va al di là del valore visivo.
[L’“allegoria della prudenza” di Tiziano: poscritto (1926), in Il
significato nelle arti visive, cit., pp. 147-168: 168.]

Primo livello: Soggetto primario (fattuale o espressivo) – ERWIN
PANOFSKY – Il fatto che i segni raffigurativi contino per me come la
rappresentazione di un uomo oppure invece di un uomo “bello” o
“brutto”, “triste” o “allegro”, “interessante” o “sordido” comporta una
notevole differenza.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa (1932), in La prospettiva come “forma
simbolica” e altri scritti, tr. it. di E. Filippini, Feltrinelli, Milano
1999¹³, pp. 215-232: 217-218.]

Primo livello: Analisi pseudoformale – ERWIN PANOFSKY – Una
descrizione che fosse davvero puramente formale non potrebbe
usare nemmeno espressioni come “sasso”, “uomo” o “rocce”; si
dovrebbe bensì limitare, di principio, a connettere tra loro i colori che
si distinguono l’un l’altro attraverso svariate sfumature e che
tuttalpiù possono essere messi in relazione con complessi formali
quasi ornamentali e quasi tettonici, dovrebbe limitarsi a descriverli
quali elementi compositivi completamente privi di senso ed equivoci
persino dal punto di vista spaziale. Già se noi designiamo l’oscura
superficie che sta in alto come un “cielo notturno”, oppure le figure
sacre curiosamente differenziate che stanno al centro come “corpi
umani”, e a maggior ragione se noi dicessimo che questo corpo sta
“davanti” al cielo notturno, mettiamo in riferimento qualcosa che
raffigura e qualcosa che è raffigurato, un dato formale spazialmente

                                   15
plurivalente e un preciso contenuto tridimensionale della
rappresentazione.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., pp. 216-217.]

Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN
PANOFSKY – Quando io designo quel complesso di colori chiari che sta
al centro come un “uomo che si innalza nell’aria, con mani e piedi
forati”, io travalico, come abbiamo già detto, i limiti di una mera
descrizione formale, ma permango ancora in una regione di
rappresentazioni di senso, che allo spettatore sono familiarmente
accessibili in base alla sua intuizione ottica, alla sua percezione tattile
e dinamica, in breve: in base alla sua immediata esperienza
esistenziale.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 217.]

Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN
PANOFSKY – Per quanto possiamo avere a disposizione tutte le
rappresentazioni che possono permetterci di scoprire il senso
fenomenico, non sempre ci è senz’altro possibile applicarle a una
data opera d’arte; in termini banali: non sempre è possibile
“riconoscere” ciò che il quadro raffigura.
Noi tutti sappiamo che cos’è un mandrillo; ma per “riconoscerlo” in
questo quadro dobbiamo essere “atteggiati”, come si usa dire,
secondo i principi della raffigurazione espressionistica che qui
dominano l’opera d’arte.
L’esperienza ci insegna che questo mandrillo, che oggi ci appare del
tutto innocuo, all’epoca del suo acquisto, non veniva affatto
riconosciuto (il pubblico cercava di individuarne i baffi per venire a
capo in qualche modo dell’intera figura), perché 15 anni or sono il
modulo formale espressionistico era ancora troppo nuovo.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 219.]

Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN
PANOFSKY – Ma come facciamo ad accorgerci che il Cristo “è sospeso
a mezz’aria”?
Una risposta precipitosa potrebbe essere: “perché egli si trova nello
spazio vuoto e non poggia su una superficie”. Questa risposta è
perfettamente adeguata (perché anche senza la curva obliqua del
movimento del corpo, e anche senza la stoffa che si muove a spirale
verso l’alto e che accentua poderosamente la dinamica del processo

                                    16
dell’innalzarsi di tutta la figura, la situazione del Cristo non sarebbe
minimamente dubbia); tuttavia occorre rilevare che questa
considerazione, la quale è giusta in questo caso, sarebbe del tutto
fuorviante in altri casi.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 219.]

Primo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – La
possibilità di una messa in relazione persino delle più usuali
rappresentazioni dell’esperienza con i dati della raffigurazione – e
perciò la possibilità di una descrizione veramente adeguata – dipende
dalla familiarità con i principi generali della raffigurazione che
determinano la configurazione del quadro, cioè da una conoscenza
dello stile, la quale […] può essere attinta soltanto attraverso una
penetrazione della situazione storica.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., pp. 219-220.]

Primo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Ci
accorgiamo così, con qualche meraviglia, che con la proposizione,
apparentemente così semplice: “un uomo si innalza dalla tomba”
abbiamo già risolto difficili problemi di ordine generale, come quelli
del rapporto tra superficie e profondità, tra corpo e spazio, tra
staticità e dinamismo – in breve: che abbiamo già considerato l’opera
d’arte dal punto di vista di quei “problemi artistici fondamentali”, le
cui particolari modalità di soluzione costituiscono lo “stile”.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., pp. 219-220.]

Secondo livello: Soggetto secondario (convenzionale) – ERWIN
PANOFSKY – Lo si apprende riconoscendo che una figura virile con un
coltello rappresenta san Bartolomeo, che una figura femminile con
una pesca in mano è una personificazione della Verità, che un gruppo
di figure sedute a una tavola apparecchiata in un certo ordine e in
certi atteggiamenti rappresenta l’Ultima Cena, oppure che due figure
rappresentate in atto di lottare in un certo modo rappresentano la
Lotta della Virtù e del Vizio.
[Iconografia e iconologia, cit., pp. 33-34.]

Secondo livello: Soggetto secondario (immagini, storie, allegorie) –
ERWIN PANOFSKY – Le immagini che sono veicolo di un’idea non di
persone o oggetti individui e concreti (san Bartolomeo, Venere, Mrs
Jones o il castello di Windsor), ma di nozioni astratte e generali come

                                  17
la Fede, la Lussuria, la Saggezza ecc. sono chiamate “personificazioni”
o “simboli” […].
Così le allegorie, in quanto contrapposte alle storie, possono definirsi
combinazioni di personificazioni o simboli. Ci sono naturalmente
molte possibilità intermedie.
[Iconografia e iconologia, cit., p. 34 nota 1.]

Secondo livello: Conoscenza delle fonti letterarie – ERWIN PANOFSKY
– L’analisi iconografica […] presuppone naturalmente molto di più
che la semplice familiarità con gli oggetti e gli eventi che si acquista
attraverso l’esperienza pratica: presuppone una familiarità con temi
specifici o concetti trasmessi dalle fonti letterarie ed acquisiti sia
attraverso letture ad hoc che attraverso la tradizione orale.
Il nostro boscimane australiano non sarebbe capace di riconoscere il
soggetto di un’Ultima Cena; in lui evocherebbe solo l’idea di un
pranzo movimentato. Per comprendere il significato iconografico del
quadro dovrebbe familiarizzarsi con il contenuto dei Vangeli.
Di fronte a rappresentazioni di temi diversi da quelli della Bibbia o di
scene che escono da quel tanto di storia e mitologia che è conosciuto
dalla media “persona colta”, siamo tutti dei boscimani australiani.
In casi del genere anche noi dobbiamo cercare di familiarizzarci con
quello che gli autori di quelle rappresentazioni hanno letto o
conosciuto per altra via.
[Iconografia e iconologia, cit., pp. 39-40.]

Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Come nel
caso della scoperta del senso del fenomeno, anche per la scoperta del
senso del significato dovrà in qualche modo darsi una istanza
superiore davanti al cui foro dovrà giustificarsi la messa in relazione
della rappresentazione extra-artistica (in questo caso un contenuto
tramandato per via letteraria) con un certo fenomeno contenuto nel
quadro. Questa “istanza superiore”, che per la scoperta del senso del
fenomeno era la conoscenza dello stile, è, per la scoperta del senso
del significato, la teoria dei tipi, ove per “tipo” s’intende una
raffigurazione in cui un senso fenomenico determinato si è così
saldamente fuso con un determinato senso del significato, da
diventare tradizionalmente il veicolo di quest’ultimo.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 222.]

Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – La spada
nel quadro del Maffei sarebbe appropriata in quanto Giuditta
decapitò lei stessa Oloferne, ma il bacile non si accorderebbe con il

                                  18
tema di Giuditta in quanto il testo dice esplicitamente che la testa di
Oloferne fu messa in un sacco. Abbiamo cioè due fonti letterarie che
possono essere riferite al nostro quadro con eguale diritto e eguale
incoerenza. Se dovessimo interpretarlo come un’immagine di Salomè
il testo spiegherebbe il bacile, ma non la spada; interpretandolo come
una Giuditta spiegherebbe la spada ma non il bacile. Saremmo a un
punto morto se dovessimo basarci solo sulle fonti letterarie.
Fortunatamente non è così.
[Iconografia e iconologia, cit., p. 41.]
Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Qualche
chiarezza ci è fornita invece dal significato della storia dei tipi: essa
non conosce nessun caso in cui Salomè si impadronisca della spada
eroica di Giuditta, mentre, inversamente, e proprio nell’ambito
dell’arte dell’Italia settentrionale, essa mostra un numero
relativamente grande di casi in cui (per via di quell’“analogia”, che
nell’arte più antica ha svolto un ruolo molto più rilevante che non il
lavoro diretto sulle fonti testuali) è avvenuta una trasposizione del
“piatto con la testa di Giovanni” nella rappresentazione di Giuditta
[…].
La storia dei tipi – e soltanto essa – ci autorizza perciò a considerare
il dipinto di Maffei come una “Giuditta con la testa di Oloferne”.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 223.]

Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Possiamo
anche chiederci perché gli artisti si siano sentiti autorizzati a
trasferire il motivo del bacile da Salomè a Giuditta e non invece
quello della spada da Giuditta a Salomè. Alla domanda si può
rispondere ricorrendo di nuovo alla storia dei tipi, dalla quale si
possono trarre due ragioni. Una è che la spada era attributo stabile e
onorifico di Giuditta, di molti martiri e di certe virtù, come la
Giustizia, la Fortezza, ecc.; per questo non poteva essere esteso, senza
che risultasse fuor di luogo, a una fanciulla viziosa. L’altra è che nel
corso dei secoli XIV e XV il bacile con la testa del Battista era
divenuto un’immagine devozionale a sé stante (Andachtsbild), molto
popolare nei paesi settentrionali e nell’Italia del Nord […].
L’esistenza di questa immagine devozionale determinò il costituirsi di
una associazione d’idee costante tra la testa d’uomo decapitato e il
bacile, e così il motivo del bacile poté sostituirsi a quello del sacco, in
una raffigurazione di Giuditta, più facilmente di quanto il motivo
della spada non abbia potuto introdursi nella raffigurazione di
Salomè.
[Iconografia e iconologia, cit., pp. 41-42.]

                                    19
Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Questo
caso, di cui in sé era abbastanza facile venire a capo (perché rivela in
tutta chiarezza il significato di una raffigurazione per “analogia”
indipendente dai testi) mostra da un lato come, persino
nell’interpretazione di simili scene, le cui fonti storiche non sono tra
quelle che “occorre sbloccare” bensì tra quelle che sono ancora vive
nella coscienza del tempo, si possa andare incontro, se non si
considera la storia dei tipi, a notevoli errori; dall’altro mostra però
quanto essenziale sia l’elemento “iconografico” anche per la
comprensione dei valori puramente estetici.

Perché chi concepisce il quadro di Maffei come la rappresentazione di
una ragazza dedita ai piaceri con in mano la testa di un santo, dovrà
giudicare anche esteticamente in modo diverso da quello secondo cui
giudicherà colui che vede nella ragazza un’eroina protetta da Dio con
in mano la testa di un sacrilego.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 223.]

Secondo livello: Storia della tradizione – ERWIN PANOFSKY – Nel
libro di Heidegger su Kant si trovano alcune interessanti proposizioni
sull’essenza dell’interpretazione – proposizioni che concernono
soltanto l’esplicazione di testi filosofici, ma che in fondo definiscono
il problema di qualsiasi interpretazione.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., p. 225.]

Secondo livello: Storia della tradizione – MARTIN HEIDEGGER – Se
un’interpretazione riferisce soltanto ciò che Kant ha espressamente
detto, essa non è un’esplicazione, in quanto il compito di quest’ultima
resta quello di rendere avvertibile ciò che Kant, al di là della sua
espressa formulazione, ha portato alla luce, nella sua fondazione; era
proprio questo che Kant non era in grado di dire; così come, in
generale, di qualsiasi conoscenza filosofica ciò che conta non è ciò che
essa dice nella proposizione che enuncia, bensì ciò che di non detto
essa propone attraverso ciò che dice… Certo, per strappare a ciò che
le parole dicono ciò che vogliono dire, qualsiasi interpretazione deve
usare necessariamente violenza. […] Ma questa violenza che deve
muovere e guidare l’esplicazione sulla base di un’idea esplicitamente
intuita, non può essere un fuorviante arbitrio.
[Kant e il problema della metafisica (1929), in Erwin Panofsky, Sul
problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di
opere d’arte figurativa, cit., pp. 225-226.]

                                  20
Secondo livello: Storia della tradizione – ERWIN PANOFSKY – Si pone
così la difficile, fatale domanda: chi, o che cosa porrà un limite a
questa violenza?
Naturalmente esiste innanzitutto un limite esterno, cioè la situazione
puramente empirica: una descrizione di un quadro, o
l’interpretazione di un contenuto diventa “falsa” se prende una
macchia d’ombra per un frutto, o un alce per un cervo (due casi che
sono effettivamente avvenuti). […]
Ma oltre questo limite esterno devono esistere limiti all’attività
interpretativa che si pongono dall’interno. […]
Per quel che riguarda il nostro campo d’indagine vale ciò che segue:
la fonte dell’interpretazione (in cui rientra, lo ripetiamo, anche la
mera descrizione) è sempre costituita dalla facoltà conoscitiva e dal
patrimonio conoscitivo del soggetto che compie l’interpretazione
[…].
Ciò che rispetto a queste fonti conoscitive soggettive rappresenta un
correttivo obiettivo – e che appunto così “garantisce” i risultati a cui
esse sono pervenute – non è altro da quanto possiamo chiamare la
“storia della tradizione”, che nel caso del senso fenomenico ci si è
rivelata come la “storia della raffigurazione”, e nel caso del senso del
significato come la “storia dei tipi”.
Questa storia di ciò che ci è stato tramandato ci indica di fatto il
limite fino a cui può giungere il nostro uso della violenza; perché se
noi siamo autorizzati, anzi addirittura tenuti a portare in luce,
rifacendoci soltanto a noi stessi, ciò che nelle cose non è stato
effettivamente detto, la storia di ciò che ci è stato tramandato ci
mostra anche ciò che non avrebbe potuto essere detto, perché sia dal
punto di vista del tempo sia dal punto di vista del luogo, non sarebbe
stato possibile rappresentarlo né raffigurarlo.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., pp. 226-227.]

Terzo livello: Valori simbolici – ERWIN PANOFSKY – Considerando
così le pure forme, i motivi, le immagini, le storie e le allegorie come
manifestazioni di principî di fondo, noi veniamo a dare a tutti questi
elementi il significato di quelli che Ernst Cassirer ha chiamato valori
“simbolici”. Finché ci limitiamo ad affermare che il famoso affresco di
Leonardo da Vinci mostra un gruppo di tredici persone intorno a una
tavola apparecchiata e che questo gruppo di persone rappresenta
l’Ultima Cena, noi consideriamo l’opera d’arte in quanto tale e ne
interpretiamo gli aspetti compositivi e iconografici come sue
proprietà e qualificazioni.

                                  21
Ma quando tentiamo di interpretare l’affresco come un documento
della personalità di Leonardo o della civiltà religiosa del pieno
Rinascimento italiano, o di un particolare atteggiamento religioso,
allora noi consideriamo l’opera d’arte come un sintomo di qualcosa
d’altro che si esprime in infiniti altri sintomi, e interpretiamo i suoi
aspetti compositivi e iconografici come manifestazioni più dettagliate
di questo “qualcosa d’altro”.
La scoperta e l’interpretazione di questi valori “simbolici” (che spesso
sono ignorati dall’artista stesso e possono divergere, magari in
misura vistosa, da quello che l’artista consapevolmente si proponeva
di esprimere) è l’oggetto di quella che possiamo chiamare
“iconologia” in opposizione a “iconografia”.
[Iconografia e iconologia, cit., pp. 35-36.]

Terzo livello: Valori simbolici – ERWIN PANOFSKY – Alla base delle
manifestazioni dell’arte, al di là del loro senso fenomenico e del loro
senso di significato, si dispone un contenuto ultimo e essenziale:
l’involontaria e inconscia autorivelazione di un atteggiamento di
fondo verso il mondo, che è caratteristico, in egual misura, del
creatore come individuo, della singola epoca, di un singolo popolo, di
una singola comunità culturale; e se la grandezza di una creazione
artistica dipende in ultima analisi dalla quantità di “energia di quella
concezione del mondo” che si è introdotta in quella materia plasmata
e da quello che di essa irradia sullo spettatore (in questo senso una
natura morta di Cézanne è non soltanto “bella” quanto una Madonna
di Raffaello, ma anche altrettanto “ricca di contenuto”), – il compito
più alto dell’interpretazione è quello di penetrare nello strato ultimo
del “senso essenziale”.
[Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto
di opere d’arte figurativa, cit., pp. 227-228.]

Terzo livello: Intuizione sintetica – ERWIN PANOFSKY –
L’interpretazione iconologica […] richiede qualcosa di più della
familiarità con temi e concetti specifici quali sono trasmessi dalle
fonti letterarie. […]
Ci occorre una facoltà mentale paragonabile a quella del diagnostico,
una facoltà che non possiamo indicare meglio che col termine, sia
pure piuttosto screditato, di “intuizione sintetica”, e che può essere
più sviluppata in un profano di talento che in un erudito specialista.
[…] Ogni accostamento intuitivo sarà […] condizionato dalla
psicologia e dalla Weltanschauung dell’interprete.
[Iconografia e iconologia, cit., p. 42.]

                                  22
Terzo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Tuttavia,
quanto più soggettiva e irrazionale è questa fonte d’interpretazione
[…], tanto più necessario sarà l’intervento di quei correttivi e di quei
controlli che si sono rivelati indispensabili quando si trattava
semplicemente dell’analisi iconografica e della descrizione
preiconografica.
Se perfino la nostra esperienza pratica e la nostra conoscenza delle
fonti letterarie possono fuorviarci, qualora siano applicate senza
discriminazione alle opere d’arte, tanto più pericoloso sarà fidarsi
della semplice intuizione! […] La nostra intuizione sintetica deve
essere corretta da uno studio del modo in cui, mutando le condizioni
storiche, muta anche la maniera in cui le tendenze generali ed
essenziali dello spirito umano sono espresse attraverso temi e
concetti specifici.
Questo altro non è, poi, che quello che può chiamarsi una storia dei
sintomi culturali o genericamente “simboli”, nel significato che Ernst
Cassirer ha dato al termine. Lo storico dell’arte dovrà definire quel
che egli crede essere il significato intrinseco dell’opera, o gruppo di
opere, cui dedica la sua attenzione, di contro a quel che egli crede
essere il significato intrinseco del maggior numero possibile di altri
documenti di cultura storicamente riferiti a quell’opera o gruppo di
opere: documenti che illuminino sulle tendenze politiche, poetiche,
religiose, filosofiche e sociali della personalità, del periodo, del paese
che si studiano. Inutile dire che, per converso, lo storico della vita
politica, della poesia, della religione, della filosofia e delle situazioni
sociali dovrà fare un uso analogo delle opere d’arte.
È nella ricerca degli intrinseci significati, o contenuto che le varie
discipline umanistiche vengono a incontrarsi su un piano comune
anziché fare da ancella l’una all’altra.
[Iconografia e iconologia, cit., pp. 42-43.]

Passaggio dai motivi al contenuto – ERWIN PANOFSKY – L’iconologia
dunque è un metodo d’interpretazione che si fonda sulla sintesi più
che sull’analisi. E come la corretta identificazione dei motivi è la
condizione preliminare della loro corretta analisi iconografica, così la
corretta analisi delle immagini, storie e allegorie è la condizione
preliminare per una corretta interpretazione iconologica di esse: a
meno che non si tratti di opere d’arte in cui tutto il mondo dei
contenuti secondari, o convenzionali, è eliminato e si verifica un
passaggio diretto dai motivi al contenuto, come avviene nella pittura
europea di paesaggio, di natura morta e di genere, per non parlare
dell’arte “non oggettiva”.
[Iconografia e iconologia, cit., p. 37.]

                                    23
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