Testi integrativi al modulo monografico - Zenodo
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Corso di estetica – Università degli Studi di Cagliari, A.A. 2020/2021 Testi integrativi al modulo monografico Iconic turn HORST BREDEKAMP – In ogni immagine dei mass-media, delle scienze naturali e delle arti figurative agisce una gravitazione iconica, che fornisce le chiavi per evitare di essere sottomessi al ‘flusso’ strabordante, continuamente scongiurato, delle immagini, alla loro ‘velocità’ sopraffacente e al loro ‘potere’ inafferrabile. L’iconic turn è stato proclamato con l’esigenza non solo di accompagnare gli attuali campi del visivo, ma anche di analizzarli nel senso di una “logica delle immagini” da elaborare pazientemente. [Drehmomente – Merkmale und Ansprüche des iconic turn, in C. Maar, H. Burda (Hrsg.), Iconic turn. Die neue Macht der Bilder, DuMont, Köln 2005, pp. 15-26: 23.] EMANUELE CRESCIMANNO – La contemporaneità è stata più volte definita in maniera semplicistica e con intento denigratorio come la civiltà delle immagini senza tuttavia valutare la portata reale di tale affermazione; le immagini sono state ritenute una forma gerarchicamente inferiore rispetto alla parola scritta per veicolare conoscenza e sapere, esse sono state considerate evanescenti e incapaci di raggiungere la profondità di significato della scrittura. [La fotogenia. Verità e potenza dell’immagine fotografica, «Aesthetica Preprint», n. 88, 2010, p. 15.] MARTINE JOLY – [...] L’ingiustizia della grande paura provocata dalla «proliferazione dell’immagine» o dalla «civiltà dell’immagine», che comporterebbero la scomparsa della «civiltà dello scritto», o addirittura del linguaggio verbale nel suo complesso. [Introduzione all’analisi dell’immagine (1994), tr. it., Lindau, Torino 1999, 2008², p. 137.] HORST BREDEKAMP – L’iconic turn è stato proclamato con l’esigenza non solo di accompagnare gli attuali campi del visivo, ma anche di analizzarli nel senso di una “logica delle immagini” da elaborare pazientemente. [Drehmomente, cit., p. 23.] 1
WILLIBALD SAUERLÄNDER – Abbiamo bisogno di una iconoclastia critica […] della percezione visiva, fondata non solo sulla storia dell’arte e sull’estetica, ma ancor più sulla sfera civile e pubblica. […] Una discussione sui nuovi media non può limitarsi ad analisi ancorché così brillanti dei procedimenti e delle innovazioni, perché la circolazione in gran numero delle immagini nella società dei media è divenuto un problema che riguarda la sfera pubblica. […] Perciò non si può parlare del pictorial o dell’iconic turn solo in modo descrittivo, ma bisogna parlarne anche dal punto di vista etico e civile. I teorici francesi parlano di una ‘écologie des images’, una ecologia delle immagini. [Iconic turn? Eine Bitte um Ikonoklasmus, in C. Maar, H. Burda (Hrsg.), Iconic turn, cit., pp. 407-426: 422 e 425.] ANDREA PINOTTI, ANTONIO SOMAINI – L’iconic turn si è proposto di reagire a questa invadenza pan-linguistica: le immagini non sono parole, non si comportano come parole, non sono strutturate (né semanticamente né sintatticamente) come il linguaggio, fanno venire all’essere mondi radicalmente diversi da quelli che emergono nel proferimento di una parola. [Introduzione a Teorie dell’immagine, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 9-35: 17.] 2
Bruno Latour, Che cos’è Iconoclash? [293] JEAN-MARC LÉVY-LEBLOND – Il dito fu devotamente prelevato dallo studioso Antonio Gori, e ci si potrebbe domandare perché non abbia rimosso il dito indice, cioè quello con cui, certamente, Galileo indicava il cielo. Con i suoi libri ancora all’indice, sarebbe stata un’ironia allettante, ma forse rischiosa. Infine il dito, naturalmente sistemato in modo da puntare verso l’alto, venne montato in uno scrigno elaborato, piuttosto simile a quelli che contengono vari frammenti e pezzi di così tanti santi nelle chiese vicine. E che cos’è in effetti questo reperto se non un santo reliquiario? Questi oggetti mostrano involontariamente come la figura di Galileo venisse vista in un contesto dominato dalle forme artistiche e dalle rappresentazioni mentali della cultura cattolica. Persino per coloro i quali, nel diciottesimo secolo, fecero assurgere il carattere di Galileo allo status di un eroe della ragione (scientifica) contro l’oscurantismo (religioso), gli schemi della venerazione fissati dalla chiesa furono inevitabili. E si giungerebbe a un fraintendimento completo se uno interpretasse queste icone come elementi arcaici, vestigia di un’epoca che volgeva al termine. Il reliquiario e l’ostensorio di Galileo sono simultaneamente oggetti religiosi e scientifici. Le sue idee dovevano lottare contro il dogma della chiesa, ma si trattava di una lotta all’interno del contesto culturale e sociale del tempo. [Galileo’s Finger, in B. Latour, P. Weibel (eds.), Iconoclash, ZKM, Karlsruhe – MIT Press, Cambridge 2002, pp. 146-147: 147.] [293] JEAN-MARC LÉVY-LEBLOND – Se ora il nostro sguardo vaga attorno al sepolcro, vediamo, sulla parete contro la quale è collocato, i resti di un affresco del Quattrocento dedicato a Santa Maria Maddalena. La maggior parte delle pitture sono coperte dal cenotafio, tuttavia sulla sinistra, a fianco del monumento, sopravvive un’incantevole figura femminile con i capelli lunghi e biondi. È la Maddalena in persona, che ancora prega inginocchiata, ma in adorazione non più del Figlio di Dio, bensì… del Padre della Scienza. C’è un ben noto detto, attribuito alla saggezza cinese tradizionale: “Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. La messa in mostra del dito di Galileo e delle altre reliquie non prova che, quando si tratta di scienza, facciamo tutti la figura dello stolto? [Galileo’s Finger, cit., p. 147.] 3
[293] LORRAINE DALSTON, PETER GALISON – [Nel tardo XIX secolo] un tipo di immagine meccanica, la fotografia, divenne l’emblema di tutti gli aspetti di oggettività non-interventista […]. Questo non perché la fotografia era necessariamente più vicina alla verità della natura rispetto alle immagini fatte a mano – molte illustrazioni erano portatrici di una maggiore somiglianza al loro soggetto rispetto alle prime fotografie, se non altro perché usavano il colore – ma piuttosto perché la macchina fotografica, apparentemente, eliminava l’intervento umano. Il non intervento, la non verosimiglianza, costituiva il nucleo dell’oggettività meccanica, e questo perché le immagini prodotte meccanicamente catturavano meglio il loro messaggio. Le immagini erano sempre state considerate più dirette delle parole, e le immagini meccaniche, che potevano essere spacciate come autoritratti della natura, erano ancora più immediate. Così queste non erano solo il prodotto dell’oggettività meccanica; erano anche il loro esemplare più importante. [The Image of Objectivity, in «Representations», n. 40, 1992, pp. 81- 128: 127.] [295] JAN ASSMANN – Con l’espressione “distinzione mosaica” intendo l’introduzio-ne della distinzione tra vero e falso in ambito religioso. Prima di allora la religione si era basata sulla distinzione fra puro e impuro o tra sacro e profano, e non lasciava spazio alcuno all’idea di falsi dèi, all’idea di dèi proibiti, che non era consentito adorare, o all’idea di dèi che non esistono – quest’ultima fu la forma più radicale della suddetta distinzione. Prima che si arrivasse alla distinzione mosaica, era dunque assolutamente impensabile immaginarsi qualcosa del genere. [da un’intervista al programma TV “Alpha”, cit. in Erich Zenger, Qual è il prezzo del monoteismo? (2001), in J. Assmann, La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo (2003), tr. it. di A. Vigliani, Adelphi ebook, Milano 2019.] [296] MOHAMMED OMAR – O queste statue sono legate a credenze idolatriche, o non si tratta che di semplici pietre; nel primo caso, l’islam comanda di distruggerle, nel secondo, che importa se le si fa a pezzi? [cit. in Pierre Centlivres, Les Bouddhas d’Afghanistan, Favre, Lausanne 2001, p. 141, cit. in Bruno Latour, Iconoclash, cit., p. 326 nota 22.] 4
[296] MOHAMMED OMAR – Se fossero oggetti del culto di una minoranza afgana, dovremmo rispettare le loro credenze e i loro oggetti, ma non abbiamo neanche un buddista in Afganistan, quindi perché salvaguardare falsi idoli? E se non hanno carattere religioso, perché essere così turbati? Si tratta solo di rompere pietre. [cit. in Pierre Centlivres, Life, Death, and Eternity of the Buddhas in Afghanistan, tr. ingl. di L. Libbrecht, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 75-77: 75.] [297] JÖRG HUBER – Se ammettiamo che le immagini rappresentano o esibiscono qualcosa o rendono presente qualcosa, sia “fuori” sia dentro l’immagine, la domanda è: A che cosa si riferiscono le immagini e che cosa rendono visibile? Se ci aspettiamo, in particolare dalle immagini scientifiche, che mostrino qualcosa di concreto, che “esiste” o “accade” nella realtà, allora uno sguardo alla loro origine e al loro uso dirigerà la nostra attenzione in un’altra direzione. In termini di luce, l’evento da “osservare” accade all’interno di un campo di onde che sono più piccole della lunghezza delle onde del campo visivo. I sensori dei rilevatori registrano l’evento per mezzo di misurazioni elettroniche; i dati vengono in seguito analizzati e visualizzati dal computer. Questa è l’“arte” dell’esperimento: pensare con l’occhio. [On the Credibility of World-Pictures, in B. Latour, P. Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 520-522: 520.] [297] JÖRG HUBER – La fase decisiva nella comprensione scientifica avviene solo per mezzo di immagini, in quanto le immagini permettono una riduzione della complessità, una condensazione nella rappresentazione, e producono chiarezza visiva: un’immagine dice più di mille parole. È ovvio che le immagini sono l’effetto di una manipolazione “manuale” degli scienziati, i quali selezionano, modificano e interpretano i dati; nella produzione di immagini si fa in modo che esse somiglino ad altre immagini già esistenti, immaginarie o reali che siano. Idee di immagini convenzionali e criteri estetici hanno un ruolo in tutto questo. Le strutture formali, le organizzazioni spaziali e l’effetto multicolore ottenuto attraverso un’attribuzione convenzionale, e perciò contingente, del colore producono l’attrazione estetica specifica delle rappresentazioni visive. Associazioni con il repertorio culturale delle immagini – come, in questi casi, a mappe del traffico urbano, fuochi d’artificio o i quadri di Joan Miró – sostengono queste immagini. Nonostante la loro artificialità, le immagini ricevono la loro validità e credibilità tramite 5
la loro precisione tecnologica: sono immagini perfette, perché sono state prodotte da macchine. […] Rimane tuttavia aperta la questione se e in che rispetto queste immagini abbiano qualcosa a che fare col mondo. Come mostra la loro origine, le immagini scientifiche si riferiscono a dati e agli algoritmi per il cui tramite sono state generate. Il loro livello di referenzialità è sì la realtà – però non la realtà della realtà fenomenica, come di solito si ritiene, ma quella della loro costruzione mediale. Per capire le immagini, dobbiamo trovare nuovi criteri di orientamento: esse non si riferiscono (più) a un mondo “dietro” o “sotto” l’immagine. […] L’immagine si relaziona ad altre immagini; come rappresentazione si riferisce ad altre forme e media di rappresentazione. […] Le immagini sono modelli teorici realizzati visivamente; non mostrano il mondo, bensì pensano sul mondo. Visualizzano concezioni del mondo. […] Si riferiscono alla realtà – sebbene non direttamente al fattuale, ma alla sua possibile rappresentazione. […] Il pensare con l’occhio non auspica un’evidenza visiva, né promette una fede nel mondo, ma avviene discorsivamente. Le immagini scientifiche, in particolare, che rivendicano una credibilità in senso tradizionale, mostrano che non puoi credere a loro, ma solo comprenderle. Questo è il loro intrinseco iconoclash prodotto culturalmente. [On the Credibility of World-Pictures, cit., pp. 520 e 522.] [298] ANDREA PINOTTI, ANTONIO SOMAINI – Intorno agli […] anni Cinquanta Christian Metz, semiologo e teorico del cinema francese, conia un termine destinato a grande fortuna nel vocabolario degli studi di cultura visuale: «regime scopico» (régime scopique). Nella riflessione metziana l’espressione è impiegata nello specifico per caratterizzare il «voyeurismo allo stato puro» del cinema in quanto sguardo desiderante che pone l’oggetto del desiderio come costitutiva-mente inaccessibile. [Cultura visuale, Einaudi, Torino 2016, p. 130.] [301] BRUNO LATOUR – La parola “feticcio” e la parola “fatto” hanno la stessa etimologia ambigua […]. Ma ognuna delle due parole insiste sulla sfumatura contraria dell’altra. La parola “fatto” sembra rinviare alla realtà esterna, la parola “feticcio” alle folli credenze del soggetto. Entrambi dissimulano, nella profondità della loro radice latina, il lavoro intenso di costruzione che permette la verità dei fatti come quella 6
degli spiriti. È questa verità che dobbiamo liberare, senza credere né alle elucubrazioni di un soggetto psicologico saturo di sogni, né all’esistenza esteriore degli oggetti freddi astorici che cadrebbero nei laboratori come dal Cielo. Senza credere più alla credenza ingenua. Unendo le due fonti etimologiche, noi chiamiamo fatticcio la robusta certezza che permette alla pratica di passare all’azione senza mai credere alla differenza tra costruzione e raccoglimento, immanenza e trascendenza. [Il culto moderno dei fatticci (1996), tr. it. di C. Pacciolla, Meltemi, Milano 2017 (ebook).] [301] BRUNO LATOUR – Qui occorre aggiungere l’artefatto – in un senso preso in prestito dall’inglese – e che nei laboratori designa un parassita erroneamente creduto nuovo – come quando Tin Tin (a dispetto delle leggi dell’ottica!) prende un ragno che passeggia sul telescopio dell’osservatorio per la stella che minaccia la Terra. Al contrario del fatto, l’artefatto sorprende perché si scopre l’azione umana dove non ce la si aspetterebbe. La parola assicura dunque la transizione tra la sorpresa dei fatti e quella dei feticci. Non ci sono più ragioni per privarsi della parola “feticcio” quanto della parola “fatto”, con il pretesto che i moderni hanno creduto alla credenza e voluto dequalificare gli uni per tenersi gli altri. In pratica, nessuno ha mai creduto ai feticci, ognuno si è sempre astutamente preoccupato dei fatti. Le due parole restano dunque intatte. Siccome la differenza tra i fonemi “fé” e “fait” non è sempre udibile, si potrebbe preferire “factiche” anche se meno elegante (factish in inglese). [Il culto moderno dei fatticci, cit., nota 22.] [302, nota 38] JEAN DE LA FONTAINE VI - Lo Scultore e la Statua di Giove – Lapide, o vaso, o statua, – uno scultor diceva allo scalpello, – traggi da questo bello blocco di marmo candido. Lapide o vaso...? All’opera immortale sia tema il dio, che stringe in man la folgore agli uomini fatale; ecco che il ciglio ei muove, temete, o vivi, l’apparir di Giove. Sì ben trasse l’artefice l’immagine del Nume che l’accende, 7
che ognuno che la mira esclama: – Essa respira! –. E tanta meraviglia egli ne prende, che quasi esterrefatto teme di ciò che ha fatto. Come costui per opra di scalpello non men provò sgomento il poeta quel dì che in suo cervello previde lo spavento e l’odio e degli dèi l’amor, lo zelo da lui creati e collocati in cielo. Temer per un nonnulla è dei poeti e non è men dei semplici fanciulli, sempre in ansia ed in affanno che s’infranga il gioiel che li trastulla. È fantasia che il cor tragge all’inganno, onde le tante favole che per il mondo vanno. Di qui nacque degli idoli il culto, a cui si strinsero siccome a cose salde i ciechi popoli. E ciò mi spiega, o Pigmalion, siccome tu divenissi adorator di quella, che uscì dalla tua man Venere bella. Ciascun i sogni suoi di colorir procura, per la menzogna si diventa eroi e il vero fa paura. [Lo scultore e la statua di Giove, in Favole, libro IX (1679), tr. it. di E. De Marchi, Intratext - Eulogos 2007: http://www.intratext.com.] [302 nota 38] DARIO GAMBONI – Nella mia ipotesi, uno dei motivi del titolo Fountain è un gioco di parole con il nome del poeta francese del XVII secolo La Fontaine e un riferimento alla sua favola Le statuaire et la statue de Jupiter, nella quale uno scultore, dopo essersi chiesto se trasformare un bellissimo pezzo di marmo in “lapide, o vaso, o statua”, opta per la statua del dio e finisce col tremare davanti alla sua propria creazione. 8
[…] La Fontaine biasima il suo scultore per il fatto di credere nell’opera delle sue proprie mani, un atteggiamento che egli paragona al gioco con le bambole e alla passione degli uomini per i sogni e le menzogne: “L’homme est de glace aux vérités / Il est de feu pour les mensognes”. [Image to Destroy, Indestructible Image, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 88-135: 112.] [302] JOHN TRESCH – Il filosofo e uomo politico del XVII secolo Sir Francis Bacon (1561-1626) fu uno dei primi e più energici iconoclasti al servizio della scienza moderna. Ha dato inizio alla campagna di identificazione e di estirpazione delle cause di “errori, indolenza e ignoranza”: gli “idoli” che influenzano le concezioni dell’uomo […]. Distruggere un’icona crea un vuoto che deve essere riempito. Bacone stabilì un insieme di metodi con i quali “sarà raccolta e ordinata una vera e copiosa storia della natura”, basati su semplici “istanze” e “particolari”; queste formano la base di una nuova “statua della filosofia”. Per trovare un simbolo, o un cosmogramma, onnicomprensivo tale da ospitare questi nuovi fatti e la società che li avrebbe organizzati, Bacone si rivolge a un’antica fonte: la Scrittura e, in particolare, l’Esodo. […] [Nel suo romanzo utopico, la Nuova Atlantide] I riti e i simboli di quest’ordine immaginario hanno le loro radici nell’immaginario biblico. Ecco la descrizione di Bacone dell’arrivo del governatore dalla Casa di Salomone: “Avanzava su una ricca portantina costruita a guisa di lettiga sostenuta e tirata da due cavalli riccamente bardati di velluto azzurro intessuto di ricami … La portantina costruita in legno di cedro, dorata … sul davanti v’era un piccolo cherubino d’oro ad ali spiegate”. La processione richiama direttamente i materiali per il Tabernacolo, dettato con grande precisione da Dio sul Monte Sinai e costruito in seguito da Mosè e dagli Israeliti, in una scena immediatamente successiva a quella della distruzione del vitello d’oro. Questo tempio portatile conteneva l’Arca dell’Alleanza, con tendaggi tessuti di “tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto”; l’arca era coronata da un cherubino. L’intera struttura poteva essere smontata, assemblata con stanghe di acacia e, come la lettiga del governatore, trasportata nel deserto. […] Possiamo vedere Bacone come un nuovo Mosè. Egli ha distrutto il vitello d’oro dell’illusione filosofica e stabilito il piano per un tabernacolo legittimo. [Did Francis Bacon Eat Pork? A Note on the Tabernacle in New Atlantis, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 231-232.] 9
[302] MOSHE HALBERTAL – Per terminare il conflitto israeliano- palestinese, si deve rispondere a una serie di questioni, difficili ma legittime. I palestinesi sono seri nel loro desiderio di pace? Quali sono le esigenze di difesa degli israeliani e come si accordano con un territorio sovrano rispettabile per i palestinesi? È possibile uno stato ebraico democratico con una prospettiva demografica quale quella attuale? E poi abbiamo il legame degli ebrei con il Monte del Tempio, che è in relazione con la questione sensibile che i palestinesi riconoscano i diritti nazionali e storici del popolo ebraico e garantiscano l’accesso ai loro luoghi sacri. Il dibattito su questi problemi è importante e legittimo, ma quelli che insistono nel coinvolgere la questione della sovranità sui luoghi sacri stanno solo violando ciò che è sacro. [God Doesn’t Live There Anymore, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 60-62: 62.] [306 nota 48] PIERRE CENTLIVRES – Il 15 marzo 2001, il mullah Omar ordinò il sacrificio di cento vacche in tutto il paese, di cui dodici nell’ex palazzo presidenziale. Nel rispetto di precetti religiosi, la carne venne destinata ai poveri. Quanto ai frammenti dei Buddha ai piedi della parete rocciosa di Bāmiyān, alcuni dei quali erano ancora identificabili, il mullah ne proibì la vendita prevista in Pakistan, sulla base del fatto che ciò avrebbe reso il sacrificio illegittimo. Alcuni mercanti d’arte di Peshawar hanno affermato, tuttavia, che il divieto non venne osservato. [Life, Death, and Eternity of the Buddhas in Afghanistan, cit., p. 75.] [308] MARIE-JOSÉ MONDZAIN – La concezione retorica dell’economia iconofila fa appello alla relazione ternaria del sacro, della natura e della ragione. È un “modo di parlare” che è esistenzialmente legato al carattere vivente della parola e a ciò che essa investe dell’effettività stessa di ciò di cui si parla così come agli effetti che si propone d’ottenere. È pertanto una scienza degli effetti nel senso più radicale del genere. Ma, in quanto concetto che sussume il modo d’emergenza della verità, è molto di più la causa e la condizione di possibilità della sua manifestazione per tutti. È la scienza dell’avvocato convinto della giustezza della causa che difende e della consapevolezza dell’avversario che attacca. Non è pertanto la scienza retorica del sofista, sempre pronto a provare una cosa e il suo contrario, indifferentemente. La retorica è l’uso del discorso persuasivo il cui motore non è il cinismo o il dubbio quanto all’esistenza della verità, ma la messa in conto dell’ascoltatore e della possibilità d’una comunicazione sul terreno mobile della realtà quotidiana. È una 10
téchne adattiva e finalizzata, come ogni vera e propria téchne. La grande novità dell’economia patristica è d’avere abbandonato il vocabolo “retorica”, che non designa più per i Padri se non una specie d’un genere infinitamente più ampio: la manifestazione della verità nella vita. La retorica non si riduce più alle figure del ragionamento e ai tropi del discorso: divenuta economia, concerne i tropi della nostra relazione con il Logos di Dio, che resta il suo modello. Perché l’economia è innanzitutto l’arte di Dio per convincere e salvare gli uomini. È perché l’economia è un’arte, e perché non v’è in alcun modo arte immune da astuzia e che non risulta da un pensiero mimetico, che colui che ne è il padrone ci invita alla sua imitazione. La retorica è un effetto secondario dell’economia, e non l’inverso. [Immagine icona economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo (1996), tr. it. di A. Granata, Jaca Book, Milano 2006, pp. 28-29.] [310] MICHAEL TAUSSIG – Di tutte le icone, poche sono così potenti come la bandiera nazionale, specialmente la Old Glory, amata e oltraggiata nel mondo intero. Quante volte abbiamo visto fotografie di persone nell’atto di bruciare quella bandiera in alcuni paesi sfruttati del terzo mondo e accusare gli USA per le loro colpe! Tuttavia negli USA, quando i liberals ottennero un’esigua maggioranza nella corte suprema nel 1989, fu stabilito che, quando venne bruciata la bandiera in forma di protesta al convegno nazionale del partito repubblicano del 1984 a Dallas, non si era trattato di un crimine, prendendo così una decisione contraria a quella della corte d’appello del Texas, che ritenne che si era giunti a una “profanazione di un venerato oggetto”. Cinque giudici su nove dichiararono che sfregiare la bandiera significava esercitare simbolica-mente la libertà di parola garantita dalla costituzione. La bandiera non è che un simbolo di qualcosa di ben più importante, che comprende il diritto di bruciarla come parte dell’esercizio della libertà di parola. In effetti, che cosa potrebbe esserci di più espressivo di quel diritto? Però, per il presidente della corte Rhenquist, la bandiera non poteva essere separata così facilmente da ciò che significa. Per lui, sfregiare la bandiera è un atto criminale. Per alcuni, questo è servito meramente ad accrescere il paradosso: ciò che simboleggia la costituzione, cioè la bandiera, non è di per sé protetto dalla costituzione. In risposta, il presidente George H.W. Bush, cercò, senza riuscirci, di aggiungere un altro emendamento alla costituzione per proteggere la bandiera. [Old Glory, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 82-83: 83.] 11
[312] BRIGITTE DERLON – Se un melanesiano della Nuova Irlanda visitasse il museo della Vieille Charité 1, sarebbe stupito di trovare esposte sculture malanggan. Quello che probabilmente lo lascerebbe maggiormente sconcertato sarebbe vedere, in primo luogo, che noi abbiamo conservato con cura sculture che il suo popolo normalmente eliminerebbe o brucerebbe solo poche ore dopo averle intagliate. In secondo luogo, sarebbe colpito anche perché abbiamo esposto i malanggan come nella Nuova Irlanda, ma per un tempo più lungo di tre giorni e in un posto diverso da quello di un luogo di sepoltura, senza escludere le donne dalla mostra e perciò in totale contraddizione rispetto alle regole della Nuova Irlanda. Nel loro paese natale, i malanggan erano prodotti, esposti e distrutti sul luogo di sepoltura, fuori dalla vista delle donne, come parte della cerimonia di conclusione di ogni rito funebre di uno o più individui. La loro vita non eccedeva mai i tre giorni, il periodo massimo nel quale erano esposti in una piccola capanna aperta o contro una recinzione – l’equivalente, in un certo senso, del piedistallo di un museo o di una vetrina. E qui siamo noi occidentali a essere a nostra volta perplessi. Qual è il significato dell’esposizione di oggetti in una cultura che tradizionalmente non ha alcuna conoscenza dei musei e che è parte di quei popoli, in precedenza descritti come primitivi, di cui si è spesso detto che non avevano idea di che cosa sia la contemplazione estetica? Inoltre, perché i melanesiani impiegano tanti mesi nel fare sculture molto elaborate in un materiale non deperibile (legno), per poi distruggerle così velocemente, bruciandole o lasciandole intenzionalmente a deteriorarsi sotto gli effetti combinati del tempo, dei vermi e degli insetti? Perché farli per distruggerli? [From New Ireland to a Museum: Opposing Views of the Malanggan, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 139-142: 139.] [312] Z. S. STROTHER – I nkishikishi sono oggetti che operano prodigi. Eppure, proprio per questa ragione, devono essere periodicamente distrutti, per proteggere la società dal loro potere. Ironicamente, perché il mercato internazionale dell’arte non può tollerare che alcunché venga distrutto, il processo di decadimento è spesso arrestato. Le statuette […] sono state strappate dalle fauci delle termiti, lasciando i loro collezionisti esposti al rischio di vivere con 1 Marsiglia. 12
spiriti tenuti in gabbia il cui vincolo avrebbe dovuto terminare tempo fa. [Iconoclasm by Proxy, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 458-459: 459.] [319] PETER GALISON – Che ne è della presunta battaglia tra iconoclastia e iconofilia? Campo dopo campo, dalla geometria alla meccanica quantistica, dall’astrofisica alla microfisica, la ricchezza dell’immagine e l’austerità del numerico stanno sempre cadendo l’una nell’altra. Ci si chiede come mai questo stato di instabilità venga spesso a essere visto come una battaglia di posizioni fisse. Viene in mente un po’ di fisica. La relatività generale dà una descrizione affascinante di un oggetto che cade dentro un buco nero. Come l’oggetto si avvicina all’orizzonte dell’evento – il punto di non ritorno – un osservatore esterno vede quell’oggetto rallentare via via che si avvicina, la sua immagine spostarsi verso il rosso. Alla fine la scena dell’oggetto cadente si congela in un rosso attenuato nell’istante esatto in cui passa oltre il visibile. Questa scena sembra la nostra. Proprio quando l’immagine scientifica muove verso l’astrazione, siamo lasciati con l’ultimo barlume di un’immagine congelata e ignoriamo che cosa accada dopo. Nel momento esatto in cui l’astratto-logico diviene raffigurazione, questa viene dimenticata per celebrare il ricordo di quell’ultimo momento di non-immagine. È fin troppo facile dimenticare il traffico incessante avanti e indietro tra i desideri scientifico-artistici di afferrare con occhi aperti e chiusi. [Images scatter into Data, Data gather into Images, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 300-322: 322.] [321] MICHEL JAFFRENNOU – Ma dovete essere fuori di testa! Mi chiedete che cosa pensi su iconoclastia e iconofilia? Chi credete che sia? Uno di quei vecchi artisti del ventesimo secolo?! In che tempi pensate che viviamo? Nel ventunesimo secolo, nel caso non ve ne siate accorti… Lo status dell’immagine è stato totalmente modificato. Esse non possono più essere fatte a pezzi o diffamate o adorate o venerate, perché non esistono – o sono state trasformate, metamorfizzate, mutate, tramutate oltre ogni riconoscibilità. Primo, ogni immagine ora è fatta di bit e di pezzetti distribuiti per il web. Guardate: volete rendere lo splendore di un velluto, l’ombra di una barba appena accennata, la torsione della luce attraverso un bicchiere; non sapete come si fa. Beh, potete navigare sul web fino a che non trovate un componente aggiuntivo, inventato da qualcuno in qualche luogo lontano, e lo piratate, ne contrattate il prezzo o lo acquistate, ma alla 13
fine è sul vostro schermo, eccolo. Guardate, ora sono capace di aggiungere quest’ombra alla mia immagine. Ma di chi è quest’immagine? Competenze per realizzare immagini fatte di bit – perché è questo ciò che un componente aggiuntivo è – stanno scorrendo in tutto il mondo in un grandioso vortice senza fine, sul quale potete navigare cogliendo bit e pezzetti. Come potete essere iconoclasti? L’immagine è già a pezzi, fatta di bit e byte. [Ceci n’est plus une image!, in Bruno Latour, Peter Weibel (eds.), Iconoclash, cit., pp. 479-482: 479.] 14
Iconografia e iconologia: introduzione a Panofsky ERWIN PANOFSKY – L’iconologia è quel ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte contrapposto a quelli che sono i valori formali. [Iconografia e iconologia. Introduzione allo studio dell’arte del Rinascimento (1939, 1955²), in Il significato nelle arti visive (1955), tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1962, pp. 29-57: 31] ERWIN PANOFSKY – In un’opera d’arte la “forma” non può essere disgiunta dal “contenuto”: la disposizione delle linee e del colore, della luce e dell’ombra, dei volumi e dei piani, per quanto incantevole come spettacolo, dev’essere anche intesa come portatrice di un significato che va al di là del valore visivo. [L’“allegoria della prudenza” di Tiziano: poscritto (1926), in Il significato nelle arti visive, cit., pp. 147-168: 168.] Primo livello: Soggetto primario (fattuale o espressivo) – ERWIN PANOFSKY – Il fatto che i segni raffigurativi contino per me come la rappresentazione di un uomo oppure invece di un uomo “bello” o “brutto”, “triste” o “allegro”, “interessante” o “sordido” comporta una notevole differenza. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa (1932), in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, tr. it. di E. Filippini, Feltrinelli, Milano 1999¹³, pp. 215-232: 217-218.] Primo livello: Analisi pseudoformale – ERWIN PANOFSKY – Una descrizione che fosse davvero puramente formale non potrebbe usare nemmeno espressioni come “sasso”, “uomo” o “rocce”; si dovrebbe bensì limitare, di principio, a connettere tra loro i colori che si distinguono l’un l’altro attraverso svariate sfumature e che tuttalpiù possono essere messi in relazione con complessi formali quasi ornamentali e quasi tettonici, dovrebbe limitarsi a descriverli quali elementi compositivi completamente privi di senso ed equivoci persino dal punto di vista spaziale. Già se noi designiamo l’oscura superficie che sta in alto come un “cielo notturno”, oppure le figure sacre curiosamente differenziate che stanno al centro come “corpi umani”, e a maggior ragione se noi dicessimo che questo corpo sta “davanti” al cielo notturno, mettiamo in riferimento qualcosa che raffigura e qualcosa che è raffigurato, un dato formale spazialmente 15
plurivalente e un preciso contenuto tridimensionale della rappresentazione. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 216-217.] Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN PANOFSKY – Quando io designo quel complesso di colori chiari che sta al centro come un “uomo che si innalza nell’aria, con mani e piedi forati”, io travalico, come abbiamo già detto, i limiti di una mera descrizione formale, ma permango ancora in una regione di rappresentazioni di senso, che allo spettatore sono familiarmente accessibili in base alla sua intuizione ottica, alla sua percezione tattile e dinamica, in breve: in base alla sua immediata esperienza esistenziale. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 217.] Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN PANOFSKY – Per quanto possiamo avere a disposizione tutte le rappresentazioni che possono permetterci di scoprire il senso fenomenico, non sempre ci è senz’altro possibile applicarle a una data opera d’arte; in termini banali: non sempre è possibile “riconoscere” ciò che il quadro raffigura. Noi tutti sappiamo che cos’è un mandrillo; ma per “riconoscerlo” in questo quadro dobbiamo essere “atteggiati”, come si usa dire, secondo i principi della raffigurazione espressionistica che qui dominano l’opera d’arte. L’esperienza ci insegna che questo mandrillo, che oggi ci appare del tutto innocuo, all’epoca del suo acquisto, non veniva affatto riconosciuto (il pubblico cercava di individuarne i baffi per venire a capo in qualche modo dell’intera figura), perché 15 anni or sono il modulo formale espressionistico era ancora troppo nuovo. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 219.] Primo livello: Esperienza pratica (oggetti, eventi) – ERWIN PANOFSKY – Ma come facciamo ad accorgerci che il Cristo “è sospeso a mezz’aria”? Una risposta precipitosa potrebbe essere: “perché egli si trova nello spazio vuoto e non poggia su una superficie”. Questa risposta è perfettamente adeguata (perché anche senza la curva obliqua del movimento del corpo, e anche senza la stoffa che si muove a spirale verso l’alto e che accentua poderosamente la dinamica del processo 16
dell’innalzarsi di tutta la figura, la situazione del Cristo non sarebbe minimamente dubbia); tuttavia occorre rilevare che questa considerazione, la quale è giusta in questo caso, sarebbe del tutto fuorviante in altri casi. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 219.] Primo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – La possibilità di una messa in relazione persino delle più usuali rappresentazioni dell’esperienza con i dati della raffigurazione – e perciò la possibilità di una descrizione veramente adeguata – dipende dalla familiarità con i principi generali della raffigurazione che determinano la configurazione del quadro, cioè da una conoscenza dello stile, la quale […] può essere attinta soltanto attraverso una penetrazione della situazione storica. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 219-220.] Primo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Ci accorgiamo così, con qualche meraviglia, che con la proposizione, apparentemente così semplice: “un uomo si innalza dalla tomba” abbiamo già risolto difficili problemi di ordine generale, come quelli del rapporto tra superficie e profondità, tra corpo e spazio, tra staticità e dinamismo – in breve: che abbiamo già considerato l’opera d’arte dal punto di vista di quei “problemi artistici fondamentali”, le cui particolari modalità di soluzione costituiscono lo “stile”. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 219-220.] Secondo livello: Soggetto secondario (convenzionale) – ERWIN PANOFSKY – Lo si apprende riconoscendo che una figura virile con un coltello rappresenta san Bartolomeo, che una figura femminile con una pesca in mano è una personificazione della Verità, che un gruppo di figure sedute a una tavola apparecchiata in un certo ordine e in certi atteggiamenti rappresenta l’Ultima Cena, oppure che due figure rappresentate in atto di lottare in un certo modo rappresentano la Lotta della Virtù e del Vizio. [Iconografia e iconologia, cit., pp. 33-34.] Secondo livello: Soggetto secondario (immagini, storie, allegorie) – ERWIN PANOFSKY – Le immagini che sono veicolo di un’idea non di persone o oggetti individui e concreti (san Bartolomeo, Venere, Mrs Jones o il castello di Windsor), ma di nozioni astratte e generali come 17
la Fede, la Lussuria, la Saggezza ecc. sono chiamate “personificazioni” o “simboli” […]. Così le allegorie, in quanto contrapposte alle storie, possono definirsi combinazioni di personificazioni o simboli. Ci sono naturalmente molte possibilità intermedie. [Iconografia e iconologia, cit., p. 34 nota 1.] Secondo livello: Conoscenza delle fonti letterarie – ERWIN PANOFSKY – L’analisi iconografica […] presuppone naturalmente molto di più che la semplice familiarità con gli oggetti e gli eventi che si acquista attraverso l’esperienza pratica: presuppone una familiarità con temi specifici o concetti trasmessi dalle fonti letterarie ed acquisiti sia attraverso letture ad hoc che attraverso la tradizione orale. Il nostro boscimane australiano non sarebbe capace di riconoscere il soggetto di un’Ultima Cena; in lui evocherebbe solo l’idea di un pranzo movimentato. Per comprendere il significato iconografico del quadro dovrebbe familiarizzarsi con il contenuto dei Vangeli. Di fronte a rappresentazioni di temi diversi da quelli della Bibbia o di scene che escono da quel tanto di storia e mitologia che è conosciuto dalla media “persona colta”, siamo tutti dei boscimani australiani. In casi del genere anche noi dobbiamo cercare di familiarizzarci con quello che gli autori di quelle rappresentazioni hanno letto o conosciuto per altra via. [Iconografia e iconologia, cit., pp. 39-40.] Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Come nel caso della scoperta del senso del fenomeno, anche per la scoperta del senso del significato dovrà in qualche modo darsi una istanza superiore davanti al cui foro dovrà giustificarsi la messa in relazione della rappresentazione extra-artistica (in questo caso un contenuto tramandato per via letteraria) con un certo fenomeno contenuto nel quadro. Questa “istanza superiore”, che per la scoperta del senso del fenomeno era la conoscenza dello stile, è, per la scoperta del senso del significato, la teoria dei tipi, ove per “tipo” s’intende una raffigurazione in cui un senso fenomenico determinato si è così saldamente fuso con un determinato senso del significato, da diventare tradizionalmente il veicolo di quest’ultimo. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 222.] Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – La spada nel quadro del Maffei sarebbe appropriata in quanto Giuditta decapitò lei stessa Oloferne, ma il bacile non si accorderebbe con il 18
tema di Giuditta in quanto il testo dice esplicitamente che la testa di Oloferne fu messa in un sacco. Abbiamo cioè due fonti letterarie che possono essere riferite al nostro quadro con eguale diritto e eguale incoerenza. Se dovessimo interpretarlo come un’immagine di Salomè il testo spiegherebbe il bacile, ma non la spada; interpretandolo come una Giuditta spiegherebbe la spada ma non il bacile. Saremmo a un punto morto se dovessimo basarci solo sulle fonti letterarie. Fortunatamente non è così. [Iconografia e iconologia, cit., p. 41.] Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Qualche chiarezza ci è fornita invece dal significato della storia dei tipi: essa non conosce nessun caso in cui Salomè si impadronisca della spada eroica di Giuditta, mentre, inversamente, e proprio nell’ambito dell’arte dell’Italia settentrionale, essa mostra un numero relativamente grande di casi in cui (per via di quell’“analogia”, che nell’arte più antica ha svolto un ruolo molto più rilevante che non il lavoro diretto sulle fonti testuali) è avvenuta una trasposizione del “piatto con la testa di Giovanni” nella rappresentazione di Giuditta […]. La storia dei tipi – e soltanto essa – ci autorizza perciò a considerare il dipinto di Maffei come una “Giuditta con la testa di Oloferne”. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 223.] Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Possiamo anche chiederci perché gli artisti si siano sentiti autorizzati a trasferire il motivo del bacile da Salomè a Giuditta e non invece quello della spada da Giuditta a Salomè. Alla domanda si può rispondere ricorrendo di nuovo alla storia dei tipi, dalla quale si possono trarre due ragioni. Una è che la spada era attributo stabile e onorifico di Giuditta, di molti martiri e di certe virtù, come la Giustizia, la Fortezza, ecc.; per questo non poteva essere esteso, senza che risultasse fuor di luogo, a una fanciulla viziosa. L’altra è che nel corso dei secoli XIV e XV il bacile con la testa del Battista era divenuto un’immagine devozionale a sé stante (Andachtsbild), molto popolare nei paesi settentrionali e nell’Italia del Nord […]. L’esistenza di questa immagine devozionale determinò il costituirsi di una associazione d’idee costante tra la testa d’uomo decapitato e il bacile, e così il motivo del bacile poté sostituirsi a quello del sacco, in una raffigurazione di Giuditta, più facilmente di quanto il motivo della spada non abbia potuto introdursi nella raffigurazione di Salomè. [Iconografia e iconologia, cit., pp. 41-42.] 19
Secondo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Questo caso, di cui in sé era abbastanza facile venire a capo (perché rivela in tutta chiarezza il significato di una raffigurazione per “analogia” indipendente dai testi) mostra da un lato come, persino nell’interpretazione di simili scene, le cui fonti storiche non sono tra quelle che “occorre sbloccare” bensì tra quelle che sono ancora vive nella coscienza del tempo, si possa andare incontro, se non si considera la storia dei tipi, a notevoli errori; dall’altro mostra però quanto essenziale sia l’elemento “iconografico” anche per la comprensione dei valori puramente estetici. Perché chi concepisce il quadro di Maffei come la rappresentazione di una ragazza dedita ai piaceri con in mano la testa di un santo, dovrà giudicare anche esteticamente in modo diverso da quello secondo cui giudicherà colui che vede nella ragazza un’eroina protetta da Dio con in mano la testa di un sacrilego. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 223.] Secondo livello: Storia della tradizione – ERWIN PANOFSKY – Nel libro di Heidegger su Kant si trovano alcune interessanti proposizioni sull’essenza dell’interpretazione – proposizioni che concernono soltanto l’esplicazione di testi filosofici, ma che in fondo definiscono il problema di qualsiasi interpretazione. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., p. 225.] Secondo livello: Storia della tradizione – MARTIN HEIDEGGER – Se un’interpretazione riferisce soltanto ciò che Kant ha espressamente detto, essa non è un’esplicazione, in quanto il compito di quest’ultima resta quello di rendere avvertibile ciò che Kant, al di là della sua espressa formulazione, ha portato alla luce, nella sua fondazione; era proprio questo che Kant non era in grado di dire; così come, in generale, di qualsiasi conoscenza filosofica ciò che conta non è ciò che essa dice nella proposizione che enuncia, bensì ciò che di non detto essa propone attraverso ciò che dice… Certo, per strappare a ciò che le parole dicono ciò che vogliono dire, qualsiasi interpretazione deve usare necessariamente violenza. […] Ma questa violenza che deve muovere e guidare l’esplicazione sulla base di un’idea esplicitamente intuita, non può essere un fuorviante arbitrio. [Kant e il problema della metafisica (1929), in Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 225-226.] 20
Secondo livello: Storia della tradizione – ERWIN PANOFSKY – Si pone così la difficile, fatale domanda: chi, o che cosa porrà un limite a questa violenza? Naturalmente esiste innanzitutto un limite esterno, cioè la situazione puramente empirica: una descrizione di un quadro, o l’interpretazione di un contenuto diventa “falsa” se prende una macchia d’ombra per un frutto, o un alce per un cervo (due casi che sono effettivamente avvenuti). […] Ma oltre questo limite esterno devono esistere limiti all’attività interpretativa che si pongono dall’interno. […] Per quel che riguarda il nostro campo d’indagine vale ciò che segue: la fonte dell’interpretazione (in cui rientra, lo ripetiamo, anche la mera descrizione) è sempre costituita dalla facoltà conoscitiva e dal patrimonio conoscitivo del soggetto che compie l’interpretazione […]. Ciò che rispetto a queste fonti conoscitive soggettive rappresenta un correttivo obiettivo – e che appunto così “garantisce” i risultati a cui esse sono pervenute – non è altro da quanto possiamo chiamare la “storia della tradizione”, che nel caso del senso fenomenico ci si è rivelata come la “storia della raffigurazione”, e nel caso del senso del significato come la “storia dei tipi”. Questa storia di ciò che ci è stato tramandato ci indica di fatto il limite fino a cui può giungere il nostro uso della violenza; perché se noi siamo autorizzati, anzi addirittura tenuti a portare in luce, rifacendoci soltanto a noi stessi, ciò che nelle cose non è stato effettivamente detto, la storia di ciò che ci è stato tramandato ci mostra anche ciò che non avrebbe potuto essere detto, perché sia dal punto di vista del tempo sia dal punto di vista del luogo, non sarebbe stato possibile rappresentarlo né raffigurarlo. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 226-227.] Terzo livello: Valori simbolici – ERWIN PANOFSKY – Considerando così le pure forme, i motivi, le immagini, le storie e le allegorie come manifestazioni di principî di fondo, noi veniamo a dare a tutti questi elementi il significato di quelli che Ernst Cassirer ha chiamato valori “simbolici”. Finché ci limitiamo ad affermare che il famoso affresco di Leonardo da Vinci mostra un gruppo di tredici persone intorno a una tavola apparecchiata e che questo gruppo di persone rappresenta l’Ultima Cena, noi consideriamo l’opera d’arte in quanto tale e ne interpretiamo gli aspetti compositivi e iconografici come sue proprietà e qualificazioni. 21
Ma quando tentiamo di interpretare l’affresco come un documento della personalità di Leonardo o della civiltà religiosa del pieno Rinascimento italiano, o di un particolare atteggiamento religioso, allora noi consideriamo l’opera d’arte come un sintomo di qualcosa d’altro che si esprime in infiniti altri sintomi, e interpretiamo i suoi aspetti compositivi e iconografici come manifestazioni più dettagliate di questo “qualcosa d’altro”. La scoperta e l’interpretazione di questi valori “simbolici” (che spesso sono ignorati dall’artista stesso e possono divergere, magari in misura vistosa, da quello che l’artista consapevolmente si proponeva di esprimere) è l’oggetto di quella che possiamo chiamare “iconologia” in opposizione a “iconografia”. [Iconografia e iconologia, cit., pp. 35-36.] Terzo livello: Valori simbolici – ERWIN PANOFSKY – Alla base delle manifestazioni dell’arte, al di là del loro senso fenomenico e del loro senso di significato, si dispone un contenuto ultimo e essenziale: l’involontaria e inconscia autorivelazione di un atteggiamento di fondo verso il mondo, che è caratteristico, in egual misura, del creatore come individuo, della singola epoca, di un singolo popolo, di una singola comunità culturale; e se la grandezza di una creazione artistica dipende in ultima analisi dalla quantità di “energia di quella concezione del mondo” che si è introdotta in quella materia plasmata e da quello che di essa irradia sullo spettatore (in questo senso una natura morta di Cézanne è non soltanto “bella” quanto una Madonna di Raffaello, ma anche altrettanto “ricca di contenuto”), – il compito più alto dell’interpretazione è quello di penetrare nello strato ultimo del “senso essenziale”. [Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, cit., pp. 227-228.] Terzo livello: Intuizione sintetica – ERWIN PANOFSKY – L’interpretazione iconologica […] richiede qualcosa di più della familiarità con temi e concetti specifici quali sono trasmessi dalle fonti letterarie. […] Ci occorre una facoltà mentale paragonabile a quella del diagnostico, una facoltà che non possiamo indicare meglio che col termine, sia pure piuttosto screditato, di “intuizione sintetica”, e che può essere più sviluppata in un profano di talento che in un erudito specialista. […] Ogni accostamento intuitivo sarà […] condizionato dalla psicologia e dalla Weltanschauung dell’interprete. [Iconografia e iconologia, cit., p. 42.] 22
Terzo livello: Principio correttivo – ERWIN PANOFSKY – Tuttavia, quanto più soggettiva e irrazionale è questa fonte d’interpretazione […], tanto più necessario sarà l’intervento di quei correttivi e di quei controlli che si sono rivelati indispensabili quando si trattava semplicemente dell’analisi iconografica e della descrizione preiconografica. Se perfino la nostra esperienza pratica e la nostra conoscenza delle fonti letterarie possono fuorviarci, qualora siano applicate senza discriminazione alle opere d’arte, tanto più pericoloso sarà fidarsi della semplice intuizione! […] La nostra intuizione sintetica deve essere corretta da uno studio del modo in cui, mutando le condizioni storiche, muta anche la maniera in cui le tendenze generali ed essenziali dello spirito umano sono espresse attraverso temi e concetti specifici. Questo altro non è, poi, che quello che può chiamarsi una storia dei sintomi culturali o genericamente “simboli”, nel significato che Ernst Cassirer ha dato al termine. Lo storico dell’arte dovrà definire quel che egli crede essere il significato intrinseco dell’opera, o gruppo di opere, cui dedica la sua attenzione, di contro a quel che egli crede essere il significato intrinseco del maggior numero possibile di altri documenti di cultura storicamente riferiti a quell’opera o gruppo di opere: documenti che illuminino sulle tendenze politiche, poetiche, religiose, filosofiche e sociali della personalità, del periodo, del paese che si studiano. Inutile dire che, per converso, lo storico della vita politica, della poesia, della religione, della filosofia e delle situazioni sociali dovrà fare un uso analogo delle opere d’arte. È nella ricerca degli intrinseci significati, o contenuto che le varie discipline umanistiche vengono a incontrarsi su un piano comune anziché fare da ancella l’una all’altra. [Iconografia e iconologia, cit., pp. 42-43.] Passaggio dai motivi al contenuto – ERWIN PANOFSKY – L’iconologia dunque è un metodo d’interpretazione che si fonda sulla sintesi più che sull’analisi. E come la corretta identificazione dei motivi è la condizione preliminare della loro corretta analisi iconografica, così la corretta analisi delle immagini, storie e allegorie è la condizione preliminare per una corretta interpretazione iconologica di esse: a meno che non si tratti di opere d’arte in cui tutto il mondo dei contenuti secondari, o convenzionali, è eliminato e si verifica un passaggio diretto dai motivi al contenuto, come avviene nella pittura europea di paesaggio, di natura morta e di genere, per non parlare dell’arte “non oggettiva”. [Iconografia e iconologia, cit., p. 37.] 23
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