La Copertina d'Artista - Italian Design
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La Copertina d’Artista – Italian Design Un volto conturbante ci osserva dalla copertina del numero di marzo, la sua faccia è divisa in due simmetriche metà, una colorata, variopinta, iridescente, vivida espressione della migliore tradizione Pop, l’altra piatta, monocromatica, geometrica, che sembra a tutti gli effetti il bozzetto di un disegno
industriale, di design appunto. Ma, benché le due metà siano così difformi, si armonizzano in un viso contraddistinto da una forte
personalità; tuttavia non è questa caratteristica ad incuriosirci, non è questo che riesce a catturare e trattenere il nostro sguardo. Allora che cosa è? Cosa ha questo volto che allo stesso tempo ci attrae così irresistibilmente e ci trasmette un certo senso di inquietudine? Il titolo scelto dall’artista, al secolo Laura Calafiore, “Addaura”, non ci aiuta molto: i più attenti e curiosi fra i nostri lettori forse ricorderanno che si tratta di un borgo marinaro di Palermo, salito alle cronache il 21 giugno 1989 per uno sventato attentato al giudice Giovanni Falcone ordito da Cosa Nostra, ed il cui toponimo deriverebbe dalla parola siciliana “addàuru”, cioè “alloro”. U n a p e r f o r m a n c e d e l l ’ artista Laura Calafiore. L’ambientazione “siciliana”, però, non sembra casuale, qualcosa in quest’opera ci ricorda questa meravigliosa isola che vide il confluire, lo scontrarsi e il confondersi di diverse culture, greca, romana, araba, normanna; sì, decisamente più guardiamo questa figura più ci convinciamo che la Sicilia c’entri qualcosa. Alla fine un’intuizione illumina i nostri pensieri, forse quest’opera rappresenta il famoso “Testa di Moro”, un oggetto iconico della tradizione siciliana, una sorta di coloratissimo vaso a forma di testa di Moro, appunto, o di una giovane donna bellissima, entrambe adornate da una splendida corona, che arricchiscono e decorano i balconi di questa splendida terra. Detti anche “graste”, questi oggetti del design siciliano hanno una storia antichissima che narra di gesta d’amore, di gelosia e vendetta che lasciamo scoprire ai nostri lettori.
M a t a H a r i Quindi nell’opera della Calafiore non solo confluiscono le tradizioni e le suggestioni di una cultura millenaria che ancora ci affascina ed avvince, ma la natura multiforme dell’opera, quel suo essere pittura, disegno e progetto insieme sono forse l’inno più puro ed autentico all’argomento mensile del nostro magazine. Sì, Laura Calafiore ci spiega, con un’opera arguta e tradizionale, che il vero segreto del successo del design italiano sta nel suo reinterpretare e riscrivere in maniere sempre nuove, diverse e creative la storia millenaria in cui il nostro Paese è immerso. Perché se non sappiamo da dove veniamo, quali sono le nostre radici, sembra dirci l’artista, è impossibile che le nostre azioni, i nostri progetti, le nostre opere possano disegnare e delineare un qualche tipo di futuro. L’opera “Addaura” che l’artista ha realizzato per la nostra copertina di marzo è anche un vero e proprio oggetto di design, un tagliere, creato e realizzato da Gabriele D’Angelo del brand Trame Siciliane.
M a d r e T e r e s a Classe 1981, nata a Roma ma di origini siciliane, Laura Calafiore è la prima donna fast-painter in Italia. Il suo spettacolo porta in scena la pittura Pop Art a ritmo di musica, un intrattenimento pittorico-musicale unico nel suo genere. Nel 1999 entra a far parte della rinomata Accademia Nazionale Francese di Arte, l’E.n.s.a.d. (Ecole Nationale Superieure des Art Decoratifs) e successivamente si laurea allo IED con il massimo dei voti in illustrazione fotografica, prendendo poi la strada della pittura a 360 gradi ed ideando il suo spettacolo che le fa girare tutta l’Italia e non solo. Fast-painter per eventi ed aziende, si è esibita in importanti trasmissioni nazionali: ■ Partecipazione come coach alla trasmissione: Si può fare, RAI 1 (anno 2014); ■ Partecipazione a Tu si Que Vales, Canale 5 in semifinale (Anno 2014); ■ Partecipazione a Domenica In (Anno 2015); ■ Partecipazione alla trasmissione Senza parole, Rai 1 (Anno 2015); ■ Partecipazione alla trasmissione Ah Ah Car, Rai 4 (Anno 2017); ■ Partecipazione a Tv 2000 (Anno 2017); ■ Partecipazione ai Soliti Ignoti, Rai 1 (Anno 2018); ■ Interport art artist presso Costa Crociere; ■ Personale Donne nel Mondo presso galleria Mondrian Suite Roma. (Marzo 2017). Per informazioni e per contattare l’artista Laura Calafiore: www.lauracalafiore.it info@lauracalafiore.it
Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi alla selezione della quinta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed inviando un portfolio alla nostra redazione: redazione@smarknews.it Italian design – L’editoriale di Ivan Zorico Se c’è una qualità che viene riconosciuta a noi italiani è certamente quella relativa alla nostra capacità di intendere ed interpretare il bello. Bello da non banalizzare come una mera rappresentazione estetica ma come portatore di tutta una serie di altre caratteristiche: stile, eccellenza, modo di vivere, storia, ingegno e maestria. Chi si occupa di marketing e comunicazione semplificherebbe questo concetto con un’unica parola: Brand. Per approfondire: ■ Questione di branding Brand da intendersi appunto non semplicemente come marca ma come un insieme di percezioni e valori. Il brand è un insieme di percezioni nella mente dei consumatori. Colin Bates Questo nostro brand – il Made in Italy – ha radici forti, robuste e profonde. Nei secoli ci siamo distinti nell’arte, nella letteratura, nell’architettura, nella musica, nel cibo, nella moda, nella manifattura e, in buona sostanza, in tutti quei campi caratterizzati dal bello.
Oggi questa nostra capacità può essere declinata in tanti modi. Quello sul quale abbiamo deciso di puntare il nostro sguardo è il design. Non a caso la nostra immane creatività ha partorito – Italian Design – quale titolo di questo numero. Sì, lo sappiamo, non era facile fare di meglio ma no, non fateci troppi complimenti…ci piace rimanere umili J . Quanto vale il settore del design in Italia: numeri e opportunità Il mondo del design italiano può contare sia su eccellenze nel campo della formazione e sia su una rete di realtà istituzionali e del mondo del lavoro. Mi riferisco a realtà come il Politecnico di Milano che può vantare di essere, prima tra le università pubbliche, nella top 10 mondiale del QS World University Rankings by Subject nell’area Design, grazie ai suoi 4.000 studenti iscritti di cui un terzo provenienti da oltre confine. E mi riferisco anche a quei distretti industriali e soggetti istituzionali capaci con il loro lavoro di creare le condizioni per diffondere la cultura del design. Non è infatti un caso che quello del design sia un settore in qualche modo in controtendenza rispetto al panorama nazionale. Siamo infatti abituati ad ascoltare storie di fuga dei (nostri) cervelli all’estero mentre il mondo del design italiano è capace di attirare i migliori talenti italiani e stranieri senza distinzione di sorta. Questo mondo fa in qualche modo capolino nella città di Milano, vero centro del design italiano. A Milano troviamo un quarto delle imprese del settore ed una delle più alte concentrazioni di scuole di design al mondo che attira, come detto, anche forti interessi internazionali. È il caso del gruppo londinese Galileo Global Education, già azionista dell’Istituto Marangoni e che nel 2017 ha acquisito il 100% di NABA e DOMUS Academy (parliamo di un polo della formazione della moda, delle arti e del design da 100 milioni di euro di ricavi), o la Raffles (gruppo di Singapore con 26 centri di formazione in tutta l’Asia) che ha aperto a Milano, sempre nel 2017, la sua prima scuola europea. Non a caso a Milano si tiene ormai un appuntamento attesissimo dal tutto il mondo del design: Il Salone del Mobile, giunto ormai alla sua 58sima edizione. Ecco qualche numero: oltre 370.000 visitatori specializzati ogni anno, provenienti da più di 188 Paesi, più di 5.000 giornalisti della stampa nazionale e estera e circa 27.500 persone nel fine settimana.
M i l a n o c a p i t a l e d e l d e s i g n i taliano. Ma l’Italian Design fatto di manifattura, designer, artigiani, associazioni e imprese, non si ferma di certo a Milano. Lungo tutto lo stivale abbiamo eccellenze di prim’ordine: Sassuolo “fa rima” con ceramica, Vicenza con l’oreficeria, Fermo con le calzature, Torino e l’Emilia Romagna con l’automotive, Napoli con l’abbigliamento da uomo, Firenze con la pelletteria, Pisa con la robotica e la Puglia con l’aerospaziale. Facendo parlare i numeri, questa geografia del design italiano ci consegna, nel 2017, oltre 30.000 imprese del settore e un livello occupazionale composto da oltre 50.226 lavoratori. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Sono numeri in crescita rispetto agli anni precedenti ma che se confrontati con altri Paesi europei non ci fanno però sorridere. Il fatturato del design italiano vale 3,8 miliardi di euro, quello tedesco 4,2 miliardi e quello inglese 6,2 miliardi. Segno questo che c’è ancora tanto lavoro. Lo scotto che paghiamo risiede in qualche modo nella nostra stessa unicità; il nostro tipico tessuto
produttivo fatto di piccole (spesso piccolissime) e medio imprese: il 45% delle imprese che operano nel disegn infatti sono composte da due persone. Accanto a questo dato va anche detto che tra il 2011 e il 2017 le imprese con almeno 50 addetti hanno visto aumentare la loro quota di mercato, sia per numero di lavoratori (dal 6,6% all’8,8%), che per fatturato (dal 15,1% al 20,7%). Fonte dati: Design Economy 2019 Quindi se è vero che il nostro Made in Italy è riconosciuto in tutto il mondo e se è vero che siamo quelli che facciamo ed esportiamo il bello probabilmente quello che manca è un sistema di politiche di sostegno che aiuti le piccole e medie imprese italiane nei processi di innovazione e internazionalizzazione. Un discorso questo che può andar bene per il design ma anche per altri settori. Inserire questi temi all’interno del dibattito pubblico accrescerebbe sicuramente il valore e la competitività del nostro paese, e di tutti noi. Ivan Zorico Italian design – L’editoriale di Raffaello Castellano La voce “Design” dell’Enciclopedia Treccani recita: design ‹di∫àin› s. ingl. [propr. «disegno, progetto», dal fr. dessein, che a sua volta è dall’ital. disegno] (pl. designs ‹di∫àin∫›), usato in ital. al masch. – Nella produzione industriale, progettazione (detta più precisamente industrial design ‹indḁ′striël …›) che mira a conciliare i requisiti tecnici, funzionali ed economici degli oggetti prodotti in serie, così che la forma che ne risulta è la sintesi di tale attività progettuale. Quindi, nella sua essenza, alla sua origine, il design è un disegno ed un progetto. Ed è molto interessante che queste due parole siano così importanti non solo per chi scrive e chi legge questo magazine, ma per tutti i professionisti del marketing, della comunicazione e del web che quotidianamente si cimentano con problemi complessi che, per la loro soluzione, richiedono strategie efficaci e semplici. La strategia di un esperto di marketing ha molte cose in comune con un oggetto di design. Non ci credete? Allora facciamo un esempio. Prendiamo un architetto che stia progettando una sedia, il suo design dovrà tener conto di diversi aspetti: la sedia dovrà essere comoda, facilmente
realizzabile e con pochi componenti per costare poco, dovrà essere bella e se possibile originale per affermarsi nel mercato “inflazionato” delle sedie che ha prodotto un’infinità di modelli. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Adesso poniamo il caso di un esperto di strategie di marketing chiamato a realizzare la campagna promozionale di un nuovo modello di smartphone, anche questo professionista dovrà pensare in termini di disegno e progetto, la sua strategia dovrà essere chiara, semplice e d’impatto; il nostro esperto di marketing dovrà scegliere fra diverse possibilità. Meglio una campagna pubblicitaria sui mezzi classici o una sul web, meglio un marketing tradizionale, il direct-marketing o il guerrilla marketing? Insomma, sia per disegnare (e progettare) una sedia che per disegnare (e progettare) una strategia di marketing dobbiamo pensare a conciliare (come recita la definizione Treccani) i requisiti tecnici, funzionali ed economici degli oggetti prodotti in serie, così che la forma che ne risulta è la sintesi di tale attività progettuale. L ’ i n g r e s s o a l Salone del Mobile di Milano. Abbiamo voluto dedicare questo numero di Smart Marketing al Design, in concomitanza con il “Salone del Mobile” di Milano (dal 22 marzo al 14 aprile), che da anni detta l’agenda dei gusti, delle tendenze e delle innovazioni dell’interior design non solo in Italia ma nel mondo, e che è diventata la kermesse di riferimento del settore per brand, produttori e firme. Noi ne parleremo sempre alla nostra maniera, cercando attraverso i nostri articoli di raccontare quelle storie di idee, genialità ed innovazione di cui è pieno questo settore. Prima di lasciarvi alla lettura di questo numero vi voglio incuriosire con una storia di design particolare, anche se non italiana.
I l P u z z l e c a r t i n a g e o g r afica inventato da John Spilsbury. Alzi la mano chi non ha mai giocato con i puzzle: ebbene, questo gioco che non conosce crisi, neanche nell’era del digitale, nasce per scopi pedagogici ed educativi nel 1766, quando un tale John Spilsbury, incisore e fabbricante di cartine geografiche di Londra, decise di incollare una sua cartina su una tavola di legno e di ritagliare la stessa lungo i confini delle nazioni. I bambini avrebbero dovuto ricomporre la stessa cartina imparando la geografia. Un’idea semplice e geniale che utilizziamo ancora oggi. Buona lettura. Raffaello Castellano L’interior design in ottica social: hotel e luoghi di consumo sempre più instagrammabili. Che siate amanti dei neologismi o meno, di certo comprenderete subito il significato della parola “Instagrammabile”. Alcuni di voi, i puristi della lingua italiana, staranno inorridendo alla sola
lettura… altri, forse, sorridendo o annuendo, perché se è vero che questo aggettivo non suona ancora benissimo alle nostre orecchie, è anche vero che è intuitivo per chi vive nel nostro tempo; esprime chiaramente e velocemente un concetto che altrimenti dovremmo spiegare con giri di parole. Cosa vuol dire instagrammabile? Significa qualcosa di ideale da fotografare e pubblicare su Instagram, qualcosa di particolare, che ci piace, che attira la nostra attenzione e che attirerebbe quella di chi ci segue, scatenando possibilmente una pioggia di like. Pare che nella versione aggiornata del dizionario Merriam-Webster sia stato inserito sia il verbo Instagrammare che l’aggettivo instagrammabile (oltre a una serie di altri neologismi provenienti dal web e dai social media come googlare, retwittare e tante altre parole simili). Ma non è solo la lingua italiana ad adattarsi alle nuove abitudini e a subire l’influenza delle nostre consuetudini digitali e dell’ansia da performance online. Se 10 anni fa ci avessero detto che i social network avrebbero avuto il potere di influenzare persino il design e l’arredamento di luoghi come hotel, ristoranti, negozi e così via non ci avremmo creduto….e invece benvenuti nell’era di Instagram! Anche se non lo ammettiamo o non ce ne rendiamo conto, il potere dei like e delle condivisioni ci influenza nelle scelte e in varie situazioni, come ad esempio quando programmiamo le nostre vacanze. Secondo una ricerca di Booking, il 70% dei viaggiatori sceglie la struttura da prenotare in base al design. Fin qui nulla di strano, chi non resta affascinato da strutture curate e ben studiate? Quando si tratta di Millennials, però, entra in scena anche l’instagrammabilità della struttura. Parliamo di Instagram perché è il social network in cui le foto regnano sovrane, ma l’aggettivo è da intendersi in senso ampio; indica la pubblicazione anche su altri social network che permettono la condivisione di foto, come Facebook. Una volta avremmo detto suggestivo, particolare, curato, innovativo, oggi diciamo instagrammabile o “perfetto per instagram”, e anche se non lo diciamo…lo pensiamo, e decidiamo di andare in quel luogo, che ci permetterà di scattare delle foto particolari anche un po’ per arricchire le nostre bacheche, oltre che per deliziare i nostri occhi, visto che si tratta sempre di luoghi molto belli e particolari. Basta fare una ricerca su Google per renderci conto che i classici articoli intitolati “i 10 luoghi da non perdere a… Londra/Parigi/Milano/Torino” sono stati presto rimpiazzati con titoli come “I 10 luoghi più instagrammabili di…” o “guida ai locali più instagrammabili a…” e così via. Vogue UK ha persino pubblicato un articolo che raccoglie un elenco dei bagni più belli dei locali di Londra, intitolato appunto The most instagrammable bathrooms in London. La conseguenza? Luoghi di consumo come caffè e ristoranti, cocktail bar, strutture turistiche, puntano
sempre più all’interior design in ottica social, cioè a rendere i propri spazi belli da fotografare, rivolgendosi all’aspirante influencer che è in noi. Ogni foto, con relativo tag o geolocalizzazione, potrebbe portare nuovi clienti, desiderosi di fare scatti simili. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Quali sono gli elementi che rendono un luogo instagrammabile? Colori, arredi, quadri, accessori particolari, luci o il richiamo di trend che spopolano al momento. Un esempio su tutti: l’unicorno mania. In occasione della Design Week, a Milano, verrà ad esempio inaugurata (e resa disponibile solo per 3 giorni) la Unicorn House, una casa a tema unicorno con arredamento nuvoloso, stelle alle pareti, colori rigorosamente pastello e vari arcobaleni. Una location che offre una piccola esperienza da favola, con ogni dettaglio che sembra pensato apposta per Instagram. Persino la biancheria e le delizie sul cesto di benvenuto sono ispirate agli unicorni. Impossibile non farsi tentare da almeno una foto da pubblicare sui social. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Roche Bobois Padova (@rocheboboispadova) in data: Mar 25, 2019 at 11:01 PDT Lo scorso anno il sito Hotel.com, dopo i risultati della ricerca Mobile Travel Tracker, che evidenziava che una persona su sei sceglie la meta delle proprie vacanze sui social network, ha pubblicato addirittura una Top 10 degli alberghi più belli da fotografare. Il primo è il St. Pancras Renaissance Hotel di Londra con le sue scale particolarmente fotogeniche, in cui è anche stato girato il video Wannabe delle Spice Girls; al secondo posto c’è l’Hotel Plaza Athenee di Parigi e la
sua vista mozzafiato sulla Torre Eiffel e poi il Conrad Maldives Rangali Island con il suo stupendo ristorante sott’acqua. Tuttavia non parliamo di sole strutture alberghiere, tanti gli esempi tra caffè e ristoranti, molti dei quali a Milano. Il bar Luce: la caffetteria di Fondazione Prada a Milano, ricrea l’atmosfera di un tipico caffè della vecchia Milano e sembra un po’ un set cinematografico. E’ infatti stato progettato dal regista Wes Anderson, conosciuto per film come Grand Budapest Hotel. Uno spazio che permette di fare un salto nel tempo e che difficilmente non ci farà venir voglia di attivare la fotocamera. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Fondazione Prada (@fondazioneprada) in data: Apr 25, 2018 at 3:14 PDT L’Elan cafè di Londra: chiaramente pensato per le donne Millennials: un caffè total pink con le pareti interamente ricoperte di rose, un menù che segue le tendenze assolute del momento come l’avocado toast o il matcha latte…e persino una linea di prodotti beauty realizzata a partire da ingredienti come il caffè, che viene riciclato e utilizzato per la creazione di scrub e prodotti vari.
Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da EL&N London (@elan_cafe) in data: Nov 13, 2018 at 11:56 PST Il ristorante Temakiho di Milano Magenta: un mix di cucina giapponese e brasiliana, in una location coloratissima, piena di elementi che riportano alla cultura brasiliana, con figure alle pareti , angoli studiati ad arte, fenicotteri che sembrano osservarti durante il pasto, lampadari particolari. Tutto ispira felicità e buonumore. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Temakinho (@temakinho) in data: Apr 12, 2018 at 8:50 PDT Parliamo di location che ricordano in qualche modo luoghi come il Rainforest Cafè o i ristoranti a tema dei maggiori parchi di divertimento come Disneyland, con una differenza: il target non sono i
bambini o le famiglie con bambini, ma i nuovi adulti, che si lasciano affascinare da queste tendenze come se il tempo non fosse mai passato. D’altronde la generazione dei Millennials non è una generazione che si distingue per la sua voglia di crescere. Il business del riciclo: nuove forme di design. Nell’antichità l’arte era la scienza del bello. Per reputare valevole un’opera, doveva rispettare precisi canoni e rigorose proporzioni. Solo con l’arrivo della modernità questi criteri millenari sono stati stralciati elevando al grado artistico oggetti comuni fino a rivalutare i rifiuti come materiale privilegiato. Ecco quindi che il business del riciclo assume non solo una valenza green ma anche di tendenza. In molti altri ambiti, dalla bigiotteria, all’arredamento, dall’oggetistica al design il riuso dei materiali ha scatenato la creatività diventando un fenomeno per molti e un mercato proficuo. L’economia circolare in Italia, secondo uno studio di Ambiente Italia commissionato da CONAI e Consorzi di filiera, impiega 575.000 addetti e vale 88 miliardi di fatturato. A questo si somma un micro business altrettanto redditizio fatto di attività di riciclo destinate alla vendita al minuto con numeri in crescita costante. Dalla carta dell’hobbista per iniziare a commercializzare le proprie creazioni nei mercatini locali, si passa all’e-commerce e ai blog per promuoversi e ampliare il giro d’affari, culminando nella creazione di imprese, con tanto di dipendenti, fondate sul riciclo. Per gli amanti del DIY (Do It Yourself), il settore del bricolage, secondo l’osservatorio Findomestic 2018, ha una crescita di circa l’1%, con una richiesta marcata di utensili e attrezzi per la casa e gli hobby. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo del design) Per quanto attiene le proposte di design i filoni si sdoppiano. C’è chi preferisce impiegare in modo creativo materiali poveri e chi invece preferisce dare all’oggetto nella sua materialità un nuovo scopo. In entrambi i casi l’estetica è fondamentale. I big dell’illuminotecnica come Artemide hanno proposto delle lampade in plastica riciclata derivate dalle bottiglie; Saletti ha utilizzato i cartoni delle uova per le sue creazioni. Ma non mancano marchi del fashion come H&M e Bruschi che puntato a ridurre la plastica e rendere il riciclo un elemento di coolness e differenziazione. Ikea, che ha fatto del design a basso costo la propria bandiera, ha impiegato bottiglie di plastica per creare la
cucina Kungsbacka ed entro il 2020 eliminerà tutta la plastica dal settore food. Soluzioni bizzarre? Ecco le borse di OOD Italy che utilizzano fibre in carta riciclata e lamine di legno trattate al laser per ricreare l’effetto pelle. Oppure la posto dell’impiegatissimo MDF per creare i mobili sono state utilizzate le bucce di patata, bambù e luppolo creando pannelli di Chip [s] Board. Dalla Germania arriva un progetto per scarpe ecologiche che per ricreare l’effetto marrone scamosciato sfruttano gli scarti del caffè. La società di ingegneria di Taipei Miniwiz e l’azienda Pentatonic che produce articoli per la casa, hanno proposto a Milano l’abitazione show room “House of Trash” interamente realizzata con rifiuti e scarti. La spazzatura è usata per creare arredi e ogni oggetto all’interno dei 4200 metri quadrati dello stabile. Un modo per mostrarsi green e proporre idee per il futuro del riciclo. A generare introiti ci sono anche le fiere: dal Global DIY Summit, ad Abilmente, gli amanti del design a basso costo possono sbizzarirsi e trarre ispirazione. Non mancano i mercatini del riciclo, le domeniche del baratto e le bancarelle nei rioni dove si possono scambiare prodotti o con un tocco creativo, ridare loro nuova linfa. Per approfondire: ■ Social Events (un numero interamente dedicato al mondo degli eventi) Ma ben più che produrre, desta interesse il word of mouth, il passaparola, il vociare attorno al riciclo di design. Così le conversazioni moderne passano attraverso community e social. Pinterest offre un’interessante vetrina e motore di ricerca per blog e e-commerce. Facebook, con la sezione dedicata al Marketplace propone una valida alternativa alla sola promozione. Instagram sta testando un’interfaccia “Checkout on Instagram” che permetterebbe di completare l’acquisto di quanto è stato visto. Per ora questa opzione è ancora in fase sperimentale negli States per alcuni grandi marchi, ma se dovesse andare in porto, il giro d’affari anche per le piccole imprese sarebbe ingente. Nuovi business che nascono dagli scarti, ma alla fine, seppur con un fine nobile e un’ottica green si punta sempre al guadagno, con le stesse regole economiche e di marketing di ogni altro settore. Chissà se riusciremo ad applicare queste regole anche alla tecnologia, dai cellulari al PC, resistendo a comprare l’ultimo modello e prepensionando i device che diventano rifiuti dopo solo pochi mesi.
David di Donatello 2019: i verdetti Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti. Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel, montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale, continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.» Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations, conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano Cucchi: Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens. Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi. L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata. Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie davvero, non me lo aspettavo.» Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio «alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di Gabriele Muccino.
D e b a c l e t o t a l e p e r L a z zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9 e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio. Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo, accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar. Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David, dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica: «Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì, ma troppo tardi». Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film, Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
L’insostenibile design del sostenibile Con il diffondersi della cultura della sostenibilità cambia lentamente anche l’aspetto del costruito. Sarà che l’architettura sostenibile e le tecnologie per uno sviluppo sostenibili si stanno diffondendo per una maggiore sensibilità verso l’ambiente, o per moda, o molto più probabilmente perché cominciano ad essere un ottimo business, ma la sostanza è che il processo produttivo, la forma del manufatto edilizio ed il suo contesto stanno cambiando. Lo sviluppo sostenibile, vero o distorto che sia, sta offrendo alla nostra vista un nuovo alfabeto di forme spesso riconducibili agli elementi costruttivi generati dalla logica di questa nuova era: pannelli solari che trasformano tetti e piantagioni in distese di vetro squamato, torri eoliche piantate tra le colline come ombrelloni nelle dune di una spiaggia libera nel giorno di ferragosto, grumi di led luminosi che luccicano come le biglie di un ragazzino, isole verdi sui solai esterni degli edifici come dei mini vivai, canalette di scolo per il recupero delle acque piovane che proliferano come ragnatele , batterie di bidoni colorati per il riciclo dei rifiuti allineati come birilli, ed altro ancora… Ma questi elementi, o forse sarebbe meglio chiamarli prodotti, raramente sono frutto di un design ricercato, e ancor più raramente sono utilizzati come forme per arricchire il linguaggio comune dell’architettura contemporanea. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Pochi sono gli studi di progettazione che li utilizzano anche come elementi compositivi. Eppure essi, sempre più, si trovano casualmente a partecipare al cambiamento dell’aspetto dell’ambiente costruito. Del resto, riferendoci al panorama italiano, non poteva che essere così. A differenza della maggior parte delle città europee, dove il patrimonio immobiliare è stato aggiornato, provvedendo a ristrutturare radicalmente o costruendo ex novo, le città italiane, dopo la costruzione massiccia del dopoguerra, sono ancora sostanzialmente ferme. Gli interventi attuali che rientrano nella logica dell’eco-sostenibilità si sovrappongono all’immagine del costruito esistente creando spesso accostamenti stridenti. Ed è difficile trasformare le nostre città in città sostenibili pensando di congelare tutto l’esistente. Sostituire vecchi edifici, purché senza valore storico, con nuove costruzioni è il modo migliore per sperimentare un nuovo linguaggio architettonico attento ai problemi dell’ambiente, oltre che necessario per raggiungere gli obbiettivi di sostenibilità fissati dalla comunità europea.
Nel nostro paese l’edilizia sostenibile può per ora sperimentare il potenziale formale del linguaggio dell’eco-sostenibilità solo nelle poche periferie cittadine in via di espansione o nelle residenze di nuova costruzione isolate dai centri urbani. Qui il design ecosostenibile, quando voluto, è ancora espresso come la sola attenzione che il progettista deve avere sui materiali, sui processi produttivi, sulla tecnologia e sulla vita del costruito. Certo non è poca cosa, ma da un punto di vista del linguaggio architettonico queste attenzioni sono solo conseguenze dell’atto di progettare e costruire e non un punto di partenza. Alcuni dei grandi architetti stanno lavorando da tempo sull’integrazione delle tecnologie verdi con le necessità compositive del loro linguaggio architettonico; sono loro gli apri pista verso la sperimentazione di nuove forme. Nel 1996 Thomas Herzog, Norman Foster, Renzo Piano e Richard Rogers decisero di promuovere la Carta Europea per l’Energia Solare nell’Architettura e nella Pianificazione Urbanistica, a cui aderirono altri progettisti. Non è un caso che in ambito europeo siano proprio loro i principali esponenti di questa eco-evoluzione dell’architettura e del suo lessico formale. Basti pensare, per esempio, al tetto ondulato costituito da materiali di riciclo della California Academy of Sciences di San Francisco progettato da Renzo Piano, o alla vertiginosa tettoia in legno concepita da Thomas Herzog per l’Expo 2000 di Hannover insieme al SokaBau, l’edificio per uffici ad alta efficienza energetica di Wiesbaden. Non vanno dimenticate le Vivaldi Towers di Norman Foster che svettano nel quartiere energeticamente avanzato di Amsterdam, la sede dell’Assemblea regionale del Galles a Cardiff di Richard Rogers e infine il Terminal 4 dell’aeroporto di Madrid tutto giocato sulla valorizzazione della luce e della ventilazione naturale.
Di fatto la tecnologia del sostenibile sta rinnovando il modo di costruire ma non è ancora diventata segno per l’architettura “di consumo”, per quello che si potrebbe chiamare design condiviso. Costi e cultura non aiutano, del resto è troppo presto per ottenere da questa trasformazione un vero stile. La storia insegna. Ogni stile architettonico con connotazioni formali uniche, spesso scaturisce dall’impegno dei progettisti di un epoca nel far proprio il “segno” generato da una evoluzione della tecnologia di costruzione. Ma questa ricerca richiede tempo. Un esempio. E’ dopo il periodo di sviluppo tecnologico che va dalla prima alla seconda rivoluzione industriale che si iniziano ad usare intensamente i metalli per la produzione seriale di semilavorati o prodotti commerciali. Ferro, ghisa o acciaio, prima di diventare una opportunità di rinnovamento del design, sono stati usati per diversi anni nell’architettura e nella produzione industriale come surrogati del legno e della pietra. Nell’ Art Nouveau le tecnologie industriali si piegano allo stile della produzione artigianale, mentre nell’ International Style ne diventano fonte d’ispirazione, punto di partenza per un’idea progettuale. L’era dello sviluppo sostenibile è appena cominciata, ci troviamo in una fase di passaggio, e le soluzioni che la tecnologia verde propone non hanno ancora mostrato le loro rivoluzionarie potenzialità di innovare la forma del costruito. A livello mondiale sono gli australiani a dimostrarsi più impegnati nell’architettura sostenibile. L’intera nazione ha intrapreso un forte cambiamento puntando molto su uno sviluppo sostenibile. Le politiche energetiche fortemente volute dal governo, i servizi d’ informazione rivolti ai cittadini su come sviluppare uno stile di vita eco-compatibile, gli investimenti a sostegno del turismo sostenibile, un elevato numero di laureati in Scienze Ambientali rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati del mondo, sono solo alcuni dei segnali che confermano il virtuoso impegno australiano in questo ambito. Ed è qui che è possibile rilevare in architettura una più intensa sperimentazione del linguaggio nel segno dell’ecosostenibilità. Un esempio su tutti è il Council House 2 a Melbourne, considerato l’edificio più sostenibile dell’Australia. L’edificio mostra, a chiusura superiore di una delle facciate del fabbricato, delle grandi pale eoliche ad asse verticale. Il lato più esposto è un’unica persiana di veneziane in legno riciclato che automaticamente si apre o si chiude al variare dell’irraggiamento solare. Cinque cilindri cavi posti lungo la facciata sud incanalano l’aria esterna per portarla verso i piani inferiori. All’interno di questi cilindri viene fatta cadere dell’acqua nebulizzata che raffredda l’aria naturalmente. La stessa acqua in caduta, visibile grazie al tessuto trasparente delle superfici delle torri, successivamente viene raccolta in delle vasche di vetro che hanno anche funzione di pensiline per gli accessi all’edificio sul livello stradale. All’interno degli open-space, adibiti ad uffici, controsoffittature ondulate in calcestruzzo generano cavità sotto i solai, utili alla circolazione naturale del’’area. Gli stessi pannelli sono stati prefabbricati congiuntamente alle serpentine metalliche che successivamente sono state collegate all’impianto di raffreddamento ad acqua. Queste sono alcune delle soluzioni ecosostenibili del Council House 2, sfruttate anche come segni di architettura. Criticabili o no sono sicuramente un’ esempio di quel potenziale inespresso che lo
sviluppo sostenibile può dare all’arricchimento del linguaggio formale dell’architettura attuale, un linguaggio formale “sostenibile”. Rivista Architetti Taranto N. 5 Anno 2009 Design ed emozioni: il segreto del negozio fisico di successo. Se c’è chi pensa che la costante crescita dell’ecommerce non lasci spazio ai negozi fisici, deve ricredersi. In Italia sta accadendo tutto il contrario e, anche se l’ecommerce dal 2008 ha registrato una crescita media del 16% annuo, l’impatto reale delle transazioni online è pari solo al 6%. Possiamo quindi dire che, anche se l’ecommerce è il trend del retail, proprio il mondo digitale apre la strada al successo dei negozi fisici tradizionali, che hanno scoperto come puntare su sensorialità, emozioni ed user experience per avere successo. Quello che manca all’esperienza dello shopping online è, per gli italiani, il design e l’esperienza di acquisto in uno spazio unico: una progettazione del negozio che comincia dalle vetrine per poi continuare al suo interno tra strutture, percorsi specifici, scelta di colori e materiali. Si tratta dei caratteri distintivi di ogni retailer. L’importanza del marketing esperienziale e della semiotica Il processo d’acquisto nel negozio fisico si basa su stimoli percettivi, sensoriali ed emozionali ed è il marketing esperienziale il vero campo di battaglia su cui ogni giorno si scontrano retailer tradizionali e gestori di ecommerce. L’arma migliore per il successo è, in questo caso, la semiotica, dato che uno spazio fisico destinato alla vendita è “costruito” ad hoc proprio come un testo. Il trade marketing fino a poco tempo fa si basava sulla natura oggettiva del percorso di vendita, realizzato in base alle caratteristiche tecniche, spaziali e quantitative ovvero corridoi e scaffali. Un’analisi semiotica del punto vendita lascia, invece, spazio alla componente immateriale e si basa sulla user e shopping experience del consumatore, mettendo in relazione qualcosa di presente con qualcosa di assente: si tratta del fenomeno della significazione. Un negozio fisico si basa su colori, profumi e suoni per creare un percorso di vendita coerente. Facciamo un esempio pratico. Il tone of voice grafico e testuale del negozio fisico Proprio avviene nella comunicazione online, anche il negozio fisico ha un suo tone of voice grafico e testuale, che si esprime con le scelte di design: avvolgente, informale, asimmetrico, e così via. Il
designer lavora anche su font, accoglienza del personale, modalità di esposizione dei prodotti e possibilità di interagire con essi grazie ai cinque sensi. Questi sono, però, solo alcuni degli elementi in gioco, ma ogni cosa deve avere un legame con i valori profondi del brand per competere e fare la differenza rispetto all’ecommerce. Due casi di successo da prendere ad esempio Sicuramente quelli appena esposti sono concetti di difficile comprensione se non si vedono nel concreto e, per questo, voglio descrivervi due casi di successo: l’esempio di Rose Bikes in Germania e Adidas Knit for you a Berlino. 1. Rose biker – Bocholt (Germania) È questo il caso di un’azienda di famiglia con 100 anni di storia specializzata nel commercio di biciclette e accessori per biciclette e che ha deciso di puntare sulla customer experience e arricchirla: oggi i clienti possono provare e personalizzare il design dei prodotti, grazie all’integrazione vincente di canali fisici e digitali. La cross-canalità e la personalizzazione sono alla base del percorso d’acquisto costruito per i clienti: online si inizia a configurare la bici ideale per poi continuare a realizzare il design personalizzato in negozio o, viceversa, si inizia in negozio e si termina a casa su PC, tablet o smartphone. Chi entra in negozio trova anche schermi di configurazione collegati ad iPad per vedere la bici creata a grandezza reale. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Inoltre è possibile testare i prodotti in negozio, come pompe, GPS e le luci, in una apposita camera al buio oppure gli occhiali in un tunnel del vento realizzato ad hoc. Sicuramente si tratta di una user experience ben diversa da quella offerta da un ecommerce online! 2. Adidas Knit For You – Berlino La personalizzazione del proprio capo di design è anche alla base di un progetto di open innovation guidato da Adidas per ridurre gli sprechi produttivi e aumentare la soddisfazione dei clienti. Il punto vendita si trova nel centro commerciale Bikini di Berlino, che da subito ha invitato retailer, brand famosi e startup a proporre concept innovativi. Proprio qui Adidas ha proposto Knit for You, per la personalizzazione dei maglioni in lana realizzati al momento dal consumatore e prodotti in sole due ore. Un progetto di Open Innovation realizzato da Storefactory, in cui Adidas ha collaborato con due università tedesche e due società private per testare la produzione flessibile nel processo d’acquisto. Il cliente disegna nel negozio il maglione personalizzato e lo prova grazie a un body scanner innovativo, analizzando con proiezioni dinamiche le reazioni dei disegni al movimento dei clienti. Il processo è davvero coinvolgente e veloce, dato che è assistito in ogni fase del design e produzione
del maglione. Non mancano i vantaggi per l’ambiente: meno inquinamento legato alla logistica e ai trasporti e meno sprechi dovuti a stoccaggio e eccessi di produzione. Conclusioni Gestire con successo un negozio fisico significa tenere a mente 5 trend: personalizzazione, interazione diretta tra il cliente e le nuove tecnologie, uso dell’intelligenza artificiale per migliorare la customer experience, store design e marketing esperienziale, rivoluzione del modello di business tradizionale. In particolare ci attendiamo una nuova nascita e crescita per l’artigianato italiano e tante sono le startup al lavoro per rilanciare il retail offline. Qual è la tua opinione in merito? Design thinking: da un’idea possono prendere forma servizi e soluzioni. Design significa progetto. Progettare significa gettare avanti, dal latino. Pianificare, pensare oltre è vivere il presente ma ancor di più immaginare il futuro e gettarne le basi. Si tratta di tecnica mista ad arte, ad invenzione, a produzione che ruota tutto intorno all’idea, dal progetto alla produzione, alla sua evoluzione, promozione, distribuzione e vendita. Qualcosa di design vuol dire anche di pregio, unico, diverso, da comprendere e da apprezzare semplice e complesso allo stesso tempo, come lo è qualsiasi evoluzione, qualsiasi innovazione. Non è solo intuito ma studio continuo, ricerca infinita del particolare quando le “idee passano direttamente alla testa al braccio” e prendono forma. Se dovessi associare l’idea del design alla comunicazione, all’innovazione è il “design thinking” a venirmi in mente, un modello progettuale utilizzato per risolvere problemi complessi impiegando una visione e una gestione creativa con un approccio capace di far contribuire alle soluzioni finali, di lavorarci in team. Una grande opportunità per avvicinarsi al cliente dove con lui, attraverso tecniche di empatia si sperimenta il Customer Journey co-creando iniziative e soluzioni innovative. Leggi anche: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo)
Tecniche di brain storming e mappe mentali diventano strumenti utili per favorire la creatività e generare le idee sperimentandole rapidamente attraverso prototipi e realizzandone tangibili opportunità. Si tratta di fasi di lavoro scandite che si susseguono abilmente: ■ La prima fase consiste nell’identificazione del problema e quindi dell’obiettivo. ■ La seconda nell’identificazione del contesto, definendo dati e attori chiave. ■ La terza nell’analisi e ricerca delle opportunità. ■ La quarta nell’ideazione, prototipazione, test e validazione. ■ La quinta nella realizzazione del prodotto/servizio. Si parte con il momento più estroso e creativo di “ispirazione” dove poter trovare utili soluzioni che nel percorso potranno essere enfatizzate, definite, prototipate, testate, realizzate e quelle che sembravano essere spennellate variopinte su di una tavolozza di colori ecco che prendono forma su quadri incorniciati dove, ogni colore occupa il giusto posto e diventa necessario affinché il dipinto sia comprensibile. E’ un po’ il traino della trasformazione digitale e dei processi di innovazione che le aziende stanno cominciando ad applicare utilizzando un cambio di prospettiva che se correttamente utilizzato può far nascere frutti da semi difficili e realizzare la Customer Experience, quella vera, soprattutto se a guidare il processo è lo stesso Customer. Parola d’ordine sperimentazione e non frenare quella folle ispirazione che può portare a fare grandi cose! Rappresentare il progetto nell’era dell’ICT La rappresentazione è il cardine sul quale si basa la strategia di comunicazione delle nostre idee/soluzioni verso coloro che potrebbero finanziare, sostenere o fruire l’oggetto del progetto. La qualità di questa strategia spesso si interseca con la qualità del progetto stesso. Prima dell’era informatica il problema verteva principalmente su quanto esatte erano le rappresentazioni dei volumi e dei vuoti di cui si componeva il progetto, e quanto diffusi erano i simboli e le convenzioni utilizzate nel disegno dello stesso. Rispettare tutte quelle regole della geometria descrittiva applicata al disegno tecnico, e tutte quelle norme grafiche codificate a livello nazionale (UNI) e internazionale (ISO), era sufficiente per rassicurare i progettisti circa il raggiungimento di una buona rappresentazione del progetto. Inoltre la sequenza dei disegni del progetto moderno fa ancora riferimento alle linee guida esposte da Le Corbusier: la pianta, il punto di partenza, poi il volume e poi la definizione delle superfici. E così, sino a qualche decennio fa, squadre, compassi, matite, micro mine, curvilinee, pennini, tavoli da
disegno, gomme pane e ghiaccio, carta lucida e carta cipolla erano unici testimoni della lenta costruzione della trama grafica con la quale il progettista cercava di sostenere le sue idee
progettuali. Ma molto spesso dopo quell’immane lavoro di rigorosità mongeana, una volta presentate piante,
sezioni, prospetti, assonometrie e prospettive al cliente, era probabile sentirsi dire: “Scusate Architetto… ma non riesco ad immaginarmelo”. Ed è qui che gli strumenti dell’ era dell’Information Comunication Tecnology ci sono venuti in aiuto. Non hanno risolto del tutto il problema ma almeno hanno ridotto l’immane lavoro grafico. Prima c’è stato l’avvento del CAD (Computer Aided Drafting, cioè disegno tecnico assistito dall’elaboratore) che ha visto come software della categoria più diffuso AutoCAD, il primogenito della casa Autodesk. Nato nel 1982 per le piattaforme PC, è riuscito a cavalcare la grande diffusione della stessa piattaforma e dei vari sistemi operativi Windows. La veloce diffusione del CAD è da attribuire anche alla grande diffusione dei sistemi CAM nei cicli produttivi industriali (Computer-Aided Manufacturing, che significa fabbricazione assistita da computer). Tornando ad AutoCAD, questo programma attualmente è utilizzato principalmente per produrre disegni bi/tridimensionali in ambito ingegneristico, architettonico, meccanico e della modellistica tessile. Per approfondire: ■ Italian Design (un numero interamente dedicato al mondo design e all’arredo) Il documento prodotto è di tipo vettoriale, ovvero le entità grafiche sono definite come oggetti matematico/geometrici: questo permette, diversamente da quanto succede nei documenti grafici di tipo bitmap, di scalarle ed ingrandirle senza perdere qualità. Ma AutoCAD non ha migliorato la qualità della rappresentazione del progetto, ha più che altro snellito le fasi di produzione del disegno di precisione, la modifica e la realizzazione dei salti di scala. Questo strumento ha spostato l’attenzione di chi deve rappresentare il progetto verso problemi che sono legati alla tempistica e alla quantità degli elaborati necessari. La qualità della rappresentazione rimane una opzione possibile, ma laboriosa, tutta a carico dei progettisti. L’avvento del blocco nel CAD ha snellito le operazioni di disegno più ripetitive, ma ha anche dato il via ad una cattiva abitudine tra i progettisti: la caccia al blocco preconfezionato. L’era del digitale ha permesso la duplicazione e moltiplicazione di ogni genere di risorsa e contenuto prodotto della creatività umana, facilitando così l’operazione di copia. L’appiattimento della rappresentazione per molti casi è frutto della cattiva abitudine del Ctrl+C & Ctrl+V. Il blocco CAD già pronto ha svilito il progetto del dettaglio o ancor più la personalizzazione della rappresentazione del progetto. La quantità di connessioni agli archivi di blocchi CAD disponibili in rete ne sono una conferma. Il secondo programma CAD più diffuso tra i professionisti della nostra categoria è Archicad, nato sempre nel 1982, e pochi mesi prima di Autocad, dall’azienda ungherese Graphisoft, per la piattaforma MAC. La logica di Archicad si discosta da quella di Autocad. Il prodotto permette all’utente di creare un “edificio virtuale” utilizzando elementi strutturali “reali” come muri, solai, tetti, porte, finestre e mobili. Il programma viene fornito con una grande varietà di oggetti personalizzabili pre-confezionati, che l’utente può creare anche autonomamente, sia usando gli elementi primitivi del programma che utilizzando il linguaggio GDL. ArchiCAD permette di lavorare utilizzando sia la rappresentazione 2D che quella 3D. Piante, sezioni, prospetti, liste di materiali e altri elaborati vengono generati direttamente dal programma in base al modello tridimensionale
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