David di Donatello 2019: i verdetti

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David di Donatello 2019: i verdetti
David di Donatello 2019: i verdetti
Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di
Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e
leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar
italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e
presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti.

Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David
vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura
originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel,
montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo
Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da
applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale,
continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto
insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di
tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande
schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza
sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante
invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più
grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre
più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei
cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a
scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero
aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
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cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.»

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations,
conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi
porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David
Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il
miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente
trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso
attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano
Cucchi:

Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca
Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
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Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo
Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa
Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi.
L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero
emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata.
Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il
provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A
Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a
trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie
davvero, non me lo aspettavo.»

Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il
miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte
Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della
speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio
«alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a
Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello
Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di
Gabriele Muccino.
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zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9
e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il
miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo
Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso
Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David
per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla
Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo,
accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che
riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto
emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani
come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è
come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha
poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto
Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E
per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei
più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo
ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
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meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar.

Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli
altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla
grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi
con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima
statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza
standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David,
dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica:
«Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho
mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno
solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì,
ma troppo tardi».

Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente
previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film,
Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì
sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato
negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più
consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla
gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
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David di Donatello 2019: le candidature
La 64esima edizione dei cosiddetti “Oscar italiani”, ovvero quella dei David di Donatello, è
ormai imminente: si terrà infatti mercoledì 27 marzo in diretta su Rai Uno, dove la cerimonia
torna, dopo le parentesi mediocri su Sky. La conduzione della serata di gala sarà affidata all’esperto
Carlo Conti: una sicurezza, nonché un marchio di fabbrica di mamma Rai. L’edizione di quest’anno
ha visto l’introduzione di una serie di cambiamenti, tra cui la nomina di una nuova giuria, nuove
regole di ammissione dei film e la nascita del David di Donatello dello Spettatore. Il premio sarà
assegnato al film uscito entro il 31 dicembre 2018 che avrà ottenuto il maggior numero di spettatori.

Il direttore artistico Piera Detassis, al momento dell’annuncio alla stampa delle nominations, ha
enunciato tutte le novità di un’edizione che si preannuncia innovativa, progressista, anche più
internazionale se possibile. I gloriosi David alla Carriera, quelli più prestigiosi e importanti
saranno assegnati al visionario e sognatore regista americano Tim Burton e al nostro Dario
Argento, maestro mondiale dell’horror movie. Come per i David speciali alla carriera, anche altri
premi sono stati già svelati: il David dello spettatore, assegnato al film che ha registrato più incassi
al botteghino, è andato al film A casa tutti bene, opera corale di Gabriele Muccino, già vincitore
del Nastro d’argento speciale a tutto il cast; il David al miglior film straniero, va a Roma di
Alfonso Cuaròn, già vincitore degli Oscar come miglior film e migliore regia; il David al miglior
cortometraggio, infine, è stato assegnato a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Tutti gli altri numerosi premi, verranno svelati la sera del 27 marzo, a fronte di una giuria numerosa
che si è già pronunciata in merito. Ovviamente l’attenzione è quasi tutta concentrata sui premi
principali, ovvero quelli al miglior film e alla migliore regia e ai quattro dedicati agli attori (miglior
attore e miglior attrice, categorie protagonista e non protagonista). Quattro film sono presenti sia
nella categoria “miglior film” che in quella dedicata alla “miglior regia”: Chiamami col tuo
nome, di Luca Guadagnino; Dogman, di Matteo Garrone; Euforia, di Valeria Golino; Lazzaro
felice di Alice Rohrwacher. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è invece presente soltanto nella
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categoria “miglior film”, così come Capri-revolution, di Mario Martone è presente soltanto in
quella alla “miglior regia”. L’impressione, come spesso accade, è che il premio al miglior film e alla
miglior regia, andranno a combaciare nel giudizio insindacabile della giuria.

Per la categoria “miglior attrice protagonista”, favoritissima la splendida Elena Sofia Ricci, per
la superba interpretazione di Veronica Lario nel film Loro, di Paolo Sorrentino, già vincitrice del
Nastro d’argento nella medesima categoria. Sue rivali Marianna Fontana per Capri-Revolution,
Pina Turco per Il vizio della speranza, Alba Rohrwacher per Troppa grazia, Anna Foglietta
per Un giorno all’improvviso. Cinquina fenomenale ed incerta anche quella al “miglior attore
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protagonista”: Marcello Fonte – Dogman, Riccardo Scamarcio – Euforia, Luca Marinelli –
Fabrizio De André: Principe libero, Toni Servillo – Loro, Alessandro Borghi - (quest’ultimo
favoritissimo). Particolare la cinquina della categoria al “miglior attore non protagonista”: dal
favorito Massimo Ghini per A casa tutti bene, ad Edoardo Pesce per Dogman, passando per
l’onnipresente Valerio Mastandrea (Euforia), collezionista di premi e nominations ai David, fino al
compianto Ennio Fantastichini per Fabrizio De André: Principe libero, e Fabrizio Bentivoglio
per Loro. Nella stessa categoria al femminile troviamo le seguenti candidature: Donatella
Finocchiaro – Capri-Revolution, Marina Confalone – Il vizio della speranza, Nicoletta Braschi –
Lazzaro felice, Kasia Smutniak – Loro, Jasmine Trinca – Sulla mia pelle.

Considerato anche i numerosi premi minori, precisando quel termine “minori”, come impatto
mediatico e non certo per l’impegno o per le professionalità delle competenze messe in atto, a fare la
parte del leone è Dogman con 15 nomination, seguito da Capri-Revolution con 13 e Chiamami
col tuo nome e Loro con 12 nomination ciascuno. Tutto è pronto dunque per quella che ogni
anno, tra critiche e polemiche di ogni tipo, è la serata di gala del cinema italiano, checché se ne dica,
sempre vivo e pieno di fresche novità.

I film italiani in sala a febbraio 2019
Nel mese di febbraio le uscite italiane nelle sale cinematografiche nazionali supereranno quelle
americane, e questa è la novità più rilevante degli ultimi anni, sintomo di una rinnovata freschezza e
di una rinnovata fiducia nei nostri prodotti. Quota 18 a fronte di 10 prodotti hollywoodiani, un
incremento rispetto al gennaio scorso di ben 8 film, il che vuol dire anche che le case di
distribuzione hanno deciso di puntare maggiormente sull’ultimo dei mesi invernali, quello che si
affaccia alla primavera senza però esserlo. Ovviamente i film di maggiore visibilità sono quelli legati
a case di distribuzioni importanti e con registi e attori popolari, brillanti e di grande verve.

Nominiamo per primo allora 10 giorni senza mamma, distribuito dalla Medusa in ben 410 cinema,
commedia brillante, sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato
momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in
sala con Ti presento Sofia, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà
divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il
sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli,
anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma”(Valentina Lodovini, bellissima) decide
di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente,
per lavoro e per pigrizia: guai a catena. E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si
presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle
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vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte
malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che
non comprende a pieno il ruolo di una madre full time. Si nota la forte volontà di portare sul grande
schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il
difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui
è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore
(finalmente) contemporaneo.

Sullo stile fantasy-eroico, altro film destinato al successo è Copperman, ancora una volta distribuito
massicciamente in giro per lo stivale (quasi 200 sale) e ancora una volta dipendente, quasi in
maniera integrale, dal suo popolare protagonista, ovvero Luca Argentero. Copperman ovvero
Anselmo è un uomo che viaggia nel mondo con l’innocenza di un            bambino e il cuore di
un leone. Anselmo è un bambino molto particolare. Dotato di grandissima fantasia e sensibilità,
affronta la quotidianità da solo con la madre in maniera tutta sua: ha sviluppato un’ossessione per i
colori, per le forme circolari e soprattutto per i supereroi. Desidera tanto possedere anche lui dei
superpoteri per poter salvare il mondo come il padre, che in realtà lo ha abbandonato subito dopo la
sua nascita. Questo desiderio cresce dopo aver conosciuto Titti, una bambina molto stravagante, che
però viene costretta ad allontanarsi presto da lui.

  PER APPROFONDIRE:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Anselmo cresce ma non smette di guardare il mondo in maniera infantile tanto che, grazie all’aiuto
di un caro amico di famiglia, si trasforma in Copperman, l’uomo di rame, che di notte aiuta a ripulire
il proprio paese dalle ingiustizie. Le responsabilità di Copperman diventeranno più grandi quando
finalmente Titti tornerà a casa. Un cinema d’altri tempi, non solo per le atmosfere vintage date da
una (curatissima) scenografia che riporta direttamente indietro ad altri anni, ma soprattutto per
l’approccio genuino e fresco con cui si avvicina a certe tematiche. L’espediente supereroistico qui
non ha infatti nulla di ultraterreno, ma diventa una semplice fantasia infantile per affrontare dei
traumi, delle problematiche intrinseche nei personaggi. Senza pietismo ed al tempo stesso senza
superficialità, si mettono in campo le classiche dicotomie tra buoni e cattivi filtrate dagli occhi di un
bambino che non è mai cresciuto.

Vengono alla mente alcune opere di Jean-Pierre Jeunet in cui non ci si interfaccia solo con il racconto
di un personaggio, ma il suo mondo diventa visivamente anche quello dello spettatore. Ed è quello
che prova a fare Puglielli con il proprio film e quello che riescono a ricreare anche i bambini (non)
cresciuti interpretati perfettamente da Luca Argentero e Antonia Truppo.

E in questo mese ritorna in sala Fausto Brizzi, ormai riabilitato pienamente dalle accuse di
“molestie sessuali”, con una commedia comica delle sue, trascinante e dilagante, dal titolo Modalità
aereo, e lo fa servendosi di Paolo Ruffini, di Violante Placido, di Dino Abbrescia, ma soprattutto
di Pasquale Petrolo in arte Lillo, qui privo di Greg, ma che ha verve, simpatia e magnetismo
attrattivo, alla stregua dei più grandi comici del cinema italiano. Il classico cliché della commedia
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degli equivoci è utilizzato sapientemente, da chi (Brizzi) sa come si creano commedie di successo.
Sociologicamente il film è una commedia all’italiana a tutti gli effetti, con spunti di situazioni che
rimandano ai nostri maestri più celebrati e si basa su una semplice domanda: cosa succederebbe se
un uomo importante (imprenditore, influencer, uomo d’affari) in viaggio di lavoro in Australia,
dimenticasse il proprio telefonino nei bagni dell’aeroporto e questo finisse in mano a due poveracci
desiderosi di godersi la vita? Pensateci: contocorrente, post-pay, social network…il punto della
questione del film è questo, tutta la nostra vita è nei nostri cellulari.

Se, anni fa Perfetti sconosciuti aveva sdoganato l’importanza dei nostri smartphone dal punto di
vista sentimentale, con annesse possibili relazioni extraconiugali, ora Brizzi lo fa guardando un
punto di vista meno intimista, più pubblico e più lavorativo, in ossequio all’apparenza che sembra,
ahimè, il vero motore per fare soldi nella società di oggi, dove la stessa apparenza vale più della
realtà: specchio di tutto watshapp, facebook, instagram e prodotti similari.

Tra gli altri film in sala a febbraio, posto d’onore merita senz’altro Domani è un altro giorno, con
la supercoppia d’autore composta da Marco Giallini e Valerio Mastandrea remake dell’argentino
Truman – Un vero amico è per sempre. La storia è quella di due grandi amici che si ritrovano per
quattro giorni: uno dei due è malato, l’altro lo raggiunge dal Canada, dove vive e lavora. Sono tante
le cose da dirsi e da sistemare, tra cui un cane, che nell’originale si chiamava appunto Truman, in
questo Pato, e avrà uno spazio importante all’interno della storia. Una bella storia di amicizia al
maschile in cui vengono fuori tante cose, tra cui il fatto che se si è amici nella vita lo si è per sempre
e ci si ama soprattutto perché si è diversi.

I personaggi sono volutamente agli antipodi: da una parte un carattere molto estroverso, dall’altro
uno più chiuso e riflessivo. Se uno vive in Canada, al freddo, l’altro ha una sua vita a Roma. La
conoscenza tra i due diventa una sorta di partita a tennis, in quello che si configura come un
dramma privato: “Continuiamo ad evitare di pensare alla morte ma è bello che il cinema lo racconti:
dopo l’ondata delle commedie, anche un po’ scadute, degli ultimi tempi sentivo il bisogno di far
realizzare un film drammatico. Sarà una riflessione sui rapporti e sull’esistenza, che farà anche
sorridere lo spettatore”. Non a caso il titolo è diverso dall’originale: “Rinvia all’idea dell’accettazione
della morte, per cui poi le cose vanno avanti: chi fa cinema deve sempre pensare che domani è un
altro giorno, lo dico anche in riferimento alla scomparsa del mio caro amico Carlo Vanzina”.
(Maurizio Tedesco, produttore del film in un’intervista rilasciata per l’Ortigia Film Festival).

Lo stesso giorno del precedente film, il 28 febbraio, esce nella sale anche Croce e delizia, una
commedia familiare di stampo romantico interpretata da Alessandro Gassman e Jasmine Trinca;
mentre chicca del mese è la presenza in sala di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista del
maestro Vittorio De Sica, restaurato e riportato allo splendore delle origini.

Per il resto scarse distribuzioni, per scarsa visibilità: purtroppo i grandi nomi sono i veri trascinatori
di una pellicola, da sempre è così, ad Hollywood quanto a Cinecittà. Non c’è che da prenderne atto e
sperare che un giorno il cinema indipendente in Italia, possa avere un regolamentazione capace di
farlo emergere e dare piena dignità a tutto quel sottobosco cinematografico che lavora in silenzio e
spesso crea dal nulla, capolavori che poi rimangono nel cassetto.
I film italiani in sala a gennaio 2019
La programmazione per quanto riguarda i film italiani nelle sale cinematografiche nazionali per il
primo mese del nuovo anno, è parecchio variegata, seppur limitata quantitativamente. Il numero dei
film in sala, infatti, non supera le 10 unità, con almeno 3 di essi che non superano le 5 sale in
programmazione (DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE, MIA MARTINI-IO SONO MIA). Nel
complesso il mese sarà dominato dalle classiche commedie commerciali, supportate dai più
importanti nomi del panorama comico-brillante nazionale, non sempre però adeguatamente
accompagnate da trame accattivanti.

Fuori da questa critica negativa, si eleva NON CI RESTA CHE IL CRIMINE, uscito in quasi 400
sale (la potenza del produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), con un trio di protagonisti
davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, affiancati da
un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della famigerata Banda
della Magliana. NON CI RESTA CHE IL CRIMINE è un mix volutamente dichiarato tra NON CI
RESTA CHE PIANGERE e SMETTO QUANDO VOGLIO. Il titolo è un omaggio all’ironia del primo
leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di uno sfaccendato trio di amici che mostra
ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati,
tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto
nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare.

Risaputo e abusato fin troppo come tema, nello stesso periodo sarà in sala anche COMPROMESSI
SPOSI, una sorta di remake sessant’anni dopo de I PREPOTENTI, con Nino Taranto e Aldo Fabrizi, o
ancora di TOTO’, FABRIZI E I GIOVANI D’OGGI. La classica storia di due ragazzi innamorati, lei del
sud, lui del nord, divisi dall’insostenibile campanilismo dei propri padri che si odiano e che faranno
di tutto per dividerli. Ma ovviamente l’happy-end finale trionferà. Per carità, Vincenzo Salemme e
Diego Abatantuono sono bravissimi ed espertissimi, e nel film si ride pure, ma il confronto con i
mostri sacri sopra citati non regge assolutamente.

  PER APPROFONDIRE:

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Non va meglio con ATTENTI AL GORILLA, farsaccia surreale con Frank Matano, uomo di
spettacolo, ma non di cinema, in cui si salva soltanto Lillo Petrolo, per una volta senza il fido Greg,
nei panni dell’amico mammone Jimmy, che vive con il protagonista, lasciato da moglie e figli, e con
un curioso gorilla che ha la voce di Claudio Bisio. Terrificante!!!

Più centrato, sia pur nell’ambito di un film di puro godimento esilarante, L’AGENZIA DEI
BUGIARDI, una commedia surreale che vede come protagonisti Giampaolo Morelli, Luigi
Luciano e Paolo Ruffini, titolari di una strana, diabolica e geniale agenzia che fornisce alibi ai
propri clienti e il cui motto è ” Meglio una bella bugia che una brutta verità”. La storia si complica
quando Fred alias Morelli, si innamora della figlia di un suo cliente avvezzo alle scappatelle extra-
matrimoniali. Ci sarà da ridere, soprattutto grazie a Morelli, che con gli anni diventa sempre più
bravo e sempre più primo-attore, tra un ispettore Coliandro e una commedia brillante, è l’attore
italiano più utilizzato degli ultimi due anni da produzioni televisive e cinematografiche.

Ma a gennaio è uscito anche un bel film d’autore, SUSPIRIA un horror per la precisione, in cui
Luca Guadagnino omaggia il maestro del genere, Dario Argento con un film personale, riflessivo,
originale nello stile visivo e coraggioso nella messa in scena. Ovviamente, come di solito, nella
carriera del fortunato autore italIano, il film è una produzione maggioritaria statunitense. Questo
perché il suo è un cinema coraggioso, fuori dagli schemi e soprattutto dalle richieste del nostro
sistema nazionale cinematografico. Per cui la ricerca di fondi, di trame complesse, strutturate, mal si
adeguano a ciò che i produttori nazionali intendono commercializzare e far fruttare in Italia. Il dio
denaro comanda anche il cinema, da sempre, e allora meglio lavorare in uno Stato, dove la cultura
cinematografica del pubblico, è molto più avanti e radicata che da noi. Ricordate CHIAMAMI COL
TUO NOME, tratto dal romanzo omonimo di Andrè Aciman, passato pressocchè inosservato da noi,
ma vincitore nel 2017 del Premio Oscar per la miglior sceneggiatura.

E nell’ottica di una visibilità negata, perché la popolarità dell’attore rimane sempre il motore vero e
reale di un film, passeranno inosservati o quasi, film dalla scarsissima distribuzione come SEX
COWBOYS, MIA MARTINI-IO SONO MIA, DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE e IL PRIMO
RE, dove almeno c’è Alessandro Borghi, reduce dal film biografico sulla morte “sospetta” di
Stefano Cucchi. E a proposito sapete che questo film, SULLA MIA PELLE, osannato dalla critica, è
stato un flop colossale nelle sale italiane, fermandosi a neanche 500.000 euro di incassi?

L’elenco dei film italiani in sala a gennaio 2019 è questo: 4 commedie, 3 film drammatici, 2
documentari e 1 horror. Ce n’è per tutti i gusti, sperando che anche i meno distribuiti, possano
guadagnarsi un proprio spazio nei cuori del pubblico, perché il cinema è fatto soprattutto dal
sottobosco indipendente che cerca di emergere e che meriterebbe un’attenzione maggiore da parti
dei legislatori e soprattutto un’autorevolezza che qui da noi viene negata, e in cui per emergere devi
essere legato più a case di produzioni potenti, quindi a legami di “conoscenza”, che al puro talento.
In Francia funziona diversamente, già, proprio in Francia dove sanno cosa vuol dire la parola
“rivoluzione”. In tutti i sensi.

I film italiani in sala nel Natale 2018:
commedie, film d’azione e graditi ritorni
Come da tradizione, il periodo di Natale, quello che cinematograficamente va dal 15 novembre al 15
gennaio, è il periodo in cui escono in sala i film potenzialmente di maggior incasso: una vera boccata
di ossigeno sia per gli esercenti che per i produttori cinematografici. Storicamente questi 60 giorni
sono i più prolifici in termini di presenze a meno di qualche exploit particolare di singoli e specifici
film in altri periodi dell’anno. Un Natale che sarà dominato dagli innumerevoli film hollywoodiani,
citiamo su tutti “Il ritorno di Mary Poppins”, una rivisitazione dell’originale film della supertata,
con Emily Blunt e Meryl Streep. Ma anche il nostro cinema ha un po’ di frecce al suo arco, con
gustose commedie, film d’azione e anche alcuni graditi ritorni.

Quest’anno ad aprire la sfida natalizia ci ha pensato il redivivo Leonardo Pieraccioni, che dopo tre
anni dalla sua ultima fatica (il mediocre Il professor Cenerentolo), torna in sala con un film, “Se son
rose…”, che lo riporta quasi alla felice vervè di un tempo. Se son rose… è un film azzeccato, poetico
e inusualmente anche un po’ amaro, un punto di nuovo inizio nella carriera pluriventennale
dell’attore toscano. Non più giovane, scanzonato donnaiolo, un po’ bambino; ma cinquantenne che si
trova a fare i conti con il proprio passato e in fondo anche con il proprio presente. Leonardo è un
uomo di mezz’età ostinatamente single che fa il giornalista di successo sul web occupandosi di alte
tecnologie e ha una figlia di 15 anni, Yolanda, lascito di un matrimonio naufragato. Yolanda è stanca
di vedere il padre nutrirsi di involtini primavera surgelati e crogiolarsi nel suo infantilismo
regressivo, e pensa che la chiave di volta possa essere una relazione stabile. Per metterlo di fronte ai
suoi innumerevoli fallimenti in materia sentimentale Yolanda decide di mandare a tutte le ex di
Leonardo un sms che dice: “Sono cambiato. Riproviamoci!”. E le sue ex rispondono, ognuna secondo
la propria modalità. Come premessa comica è curiosa, e ha il potenziale per una di quelle farse alla
francese cui il cinema d’oltralpe ci ha abituati negli ultimi anni; eppure Pieraccioni sceglie la strada
malinconica unita alla crescita interiore di un personaggio, che forse alla fine sceglie l’amore, quello
nuovo, perché tornare indietro “è soltanto una minestra riscaldata”. Tra i punti di forza del film,
oltre ad una serie di belle e brave attrici (Claudia Pandolfi, Micaela Andreozzi, Gabriella Pession), la
ritrovata vervè vernacolare di Pieraccioni, vero punto di forza del comico. E apre a quella vena
malinconica che, in un paio di occasioni (l’incontro con la fidanzatina del liceo, il dialogo finale con
l’ex moglie), lascia intravedere qualche sprazzo di autenticità autobiografica e un principio di vera
autocritica. La domanda centrale della storia, ovvero “Quando e perché finiscono gli amori?”,
nasconde uno strazio sincero, soprattutto nei confronti di un’unione matrimoniale terminata
nonostante una figlia molto amata. Considerato che il suo nume tutelare dichiarato è Monicelli,
Pieraccioni fa bene ad esplorare il lato amaro del proprio personaggio, smarcandosi dalla melassa,
tipica del suo cinema. Se son rose è la riflessione di un Peter Pan sulle proprie responsabilità nei
fallimenti sentimentali collezionati nel tempo, ma anche sulla fragilità strutturale di una generazione
maschile autocompiaciuta e programmaticamente immatura. Con un po’ di coraggio in più
Pieraccioni potrebbe uscire dalla dimensione fintamente fanciullesca ed entrare con successo in
quella cinico-romantica alla Bill Murray, versione toscana. La strada è tracciata, e non solo la critica,
ma anche il pubblico, dopo anni di mugugni, ha dimostrato gradire questa deriva malinconica e
amara del “nuovo” e cinquantenne Pieraccioni, che piaccia o no, uno dei mostri cinematografici
italiani più importanti degli ultimi trent’anni.
E in tema di ritorni, questo sembra un Natale cinematografico vecchio stile, come se si tornasse
indietro di 13 anni diciamo, a quel 2005 quando la sfida cinematografica natalizia era tra Ti amo in
tutte le lingue del mondo (Pieraccioni) e Natale a Miami (ultimo film insieme della coppia De Sica-
Boldi, prima della chiacchierata rottura). Già perché la notizia cinematograficamente più rilevante
dell’annata venne data a metà giugno: il Corriere della Sera titolò “a dicembre tornano insieme Boldi
e De Sica, dopo 13 anni di lontananza”. Un colpo ad effetto e nostalgico della Medusa del Cavalier
Berlusconi, di sicuro e prevedibile successo. Il ritorno del “vero” cinepanettone si parlò. E invece il
film “Amici come prima”, non è un cinepanettone, sembra più una pochade alla francese, con De
Sica quasi sempre travestito da donna, che deve accudire il suo vecchio amico (Boldi) e proprietario
dell’hotel di cui era direttore, e lo aiuterà a salvare il patrimonio di famiglia. Che l’intenzione di
Amici come prima sia metacinematografica è esplicitamente dichiarato dall’inquadratura finale, una
carrellata all’indietro che denuncia la finzione filmica, con tanto di blooper finali. E non è un caso
che quei blooper documentino il rapporto di amicizia ritrovata fra Massimo Boldi e Christian De Sica
che dà il titolo a questa commedia. Amici come prima porta infatti in dote il loro sodalizio ventennale
e il consolidato contrasto fra la milanesità dell’uno e la romanità dell’altro. Dentro a questa storia c’è
l’affetto che il pubblico ha tributato per decenni al duo, ci sono l’aspettativa per le linguacce di Boldi
e le reazioni fulminee di De Sica (due o tre qui da antologia), c’è la trivialità scatologica e infantile
cui ci hanno abituati decine di cinepanettoni, ci sono i botta-e-risposta dal ritmo comico ben rodato.
E c’è anche una riflessione autobiografica e dolorosa sulla vecchiaia e la paura di essere rottamati.
Non chiamatelo però cinepanettone. Christian De Sica, qui nelle vesti anche di regista e
sceneggiatore, ci tiene infatti a precisare che il film non sarà una serie di gag giustapposte l’una
all’altra, ma le risate saranno al servizio di una trama ben solida, ispirata alla lunga tradizione della
commedia all’italiana. All’inizio il soggetto sarebbe dovuto essere al contrario un film drammatico
ma, un po’ per le richieste della produzione, un po’ per il volere dell’attore di lavorare ancora con
l’amico, il progetto è virato verso un prodotto leggero natalizio.

Il 10 gennaio, infine, prodotto dal vecchio e leggendario Fulvio Lucisano, uscirà l’attesissimo “Non
ci resta che il crimine”, un mix davvero strepitoso, tra Non ci resta che piangere e Smetto quando
voglio. Il titolo è un omaggio all’ironia di Non ci resta che piangere, il crimine invece fa parte del
plot. Alla sua sesta prova dietro la macchina da presa, a due anni da Beata Ignoranza e quattro da
Gli ultimi saranno ultimi, ritroviamo il regista romano Massimiliano Bruno, classe 1970, che negli
anni ci ha abituato a commedie ridanciane con un bel graffio sull’attualità. Come da usanza, nei
grandi film italiani degli ultimi anni, anche Non ci resta che il crimine, si serve di un cast corale di
mattatori di altissimo livello: dal trio Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, a
Edoardo Leo e Ilenia Pastorelli. “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci
resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo” racconta Giallini,
ospite dell’Ortigia Film Festival. “Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i
luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno
usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo catapultati in mezzo alla banda vera, esattamente
nel 1982 (Edoardo Leo interpreterà De Pedis, ndr) in un salto temporale curioso da oggi a quegli
anni lì. Ci sarà parecchio da ridere, ma anche da riflettere”. Un film, insomma, che promette risate e
azione stile Smetto quando voglio, ma anche il fascino misterioso dei viaggi nel tempo in grado di
attirare l’attenzione del pubblico. Un film destinato a rimanere negli annali: c’è da scommetterci!
Addio a Bernardo Bertolucci, il Maestro
del cinema della trasgressione
“Così italiano e così internazionale. Così sofisticato e così nazional-popolare. Così letterario e così
visuale”. Con Bertolucci, scompare l’ultimo grande Maestro crepuscolare del nostro cinema. Titoli
epici come Ultimo tango a Parigi, Novecento e Il tè nel deserto, sono quasi dei poemi omerici, per la
cura maniacale, per l’attenzione alla colonna sonora, per il genio di uno degli artisti italiani più
incisivi della storia culturale nazionale del ‘900. Bertolucci proveniva da una famiglia già
ampiamente addentrata nel significato profondo di “cultura”: il padre Attilio era un famoso poeta.

E come se non bastasse il suo esordio cinematografico avviene come aiuto-regia di Pier Paolo
Pasolini e ha intessuto fin da subito amicizie sincere con Alberto Moravia, Elsa Morante e Dacia
Maraini. Insomma, proprio dalla tradizione letteraria e visiva in cui crebbe il giovane Bernardo,
discendono, oltre all’amore per i testi letterari, il gusto per il melodramma, l’amore per le scene
madri, l’approccio mitico e popolare, che fanno del regista parmense un punto di riferimento nel
mondo. Il suo esordio come detto avvenne con Accattone, nel 1961, dove è aiuto-regia di Pier Paolo
Pasolini. E proprio sotto l’egida dell’intellettuale romano La commare secca (1962), sarà il primo
film da regista di Bertolucci. Tematiche ancora lontane dalle sue, molto pasoliniane, dalle quali ben
presto si discosta, per inseguire un’idea personale di cinema basata sostanzialmente
sull’individualità di persone che si trovano di fronte a bruschi cambiamenti del loro mondo e di
quello circostante, a livello esistenziale e politico, senza che essi possano o vogliano cercare una
risposta concisa.

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i, Ugo Tognazzi e Anouk Aimee a Cannes nel 1981.

Tale tematica sarà presente praticamente in tutte le opere di Bertolucci, a partire dal secondo film,
Prima della rivoluzione (1964), dove è esemplificata molto chiaramente nella storia di un giovane
della borghesia agricola medio-alta di Parma, il quale, incapace di reagire al suicidio del suo amico
più caro e incerto su una direzione da prendere, si getta a capofitto in una relazione con una matura
e piacente zia giunta da Milano. Entrambi, però, si rendono conto che quella storia non può durare –
lei è anche in cura da uno psicologo – e alla partenza della donna, al giovane non resta che sposare
la sua precedente fidanzata, che lui non ama, facente parte dell’alta borghesia, matrimonio ben visto
dalla sua famiglia.
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ci al Bifest di Bari nel 2018.

Anche nei film che seguono, Bertolucci continua il suo personale discorso intorno all’ambiguità
esistenziale e politica, ma il suo primo grande film sarà La strategia del ragno (1970), film dallo
scarso successo di pubblico, acclamato però dalla critica. Un puzzle di menzogne e verità, passato e
presente, ispirato al racconto Tema dell’eroe e del traditore, di Borges e alla pittura di De Chirico.
Piccoli assaggi di quello che sarà il trionfo dei film successivi, in cui Bertolucci matura
definitivamente la sua maniera di vivere e raccontare il cinema. Il successo planetario infatti, arriva
due anni dopo con Ultimo tango a Parigi (1972), il film scandalo degli anni ’70. Una pellicola che
esce con un divieto ai minori di 18 anni previo taglio di 8 secondi del primo amplesso tra i due
protagonisti (splendidi Maria Schneider e Marlon Brando), consumato in piedi. Sequestrato, assolto,
nuovamente sequestrato, è condannato alla distruzione del negativo per oscenità dalla Cassazione, il
29 gennaio 1976 (con perdita dei diritti civili per cinque anni per Bertolucci). Il 9 febbraio 1987
viene riabilitato con sentenza di “non oscenità” perché “mutato il comune senso del pudore”, con
conseguente dissequestro del film che nel 1988 passa per la prima volta in tv. Oggi, in tempo di
hard-core di massa, le proverbiali prestazioni erotiche di Brando e della Schneider con il burro non
sconvolgono più nessuno, ma rimane un caposaldo fondamentale del genere erotico d’autore. Ultimo
tango a Parigi è invecchiato bene, ancora capace di parlarci della solitudine e della distanza fra i
sessi nella nostra società. Alcuni connubi risultano azzeccatissimi -la strana, infernale plasticità di
Brando; la luce pastosa del direttore della fotografia Vittorio Storaro; e la musicale mobilità della
macchina da presa di Bertolucci- ne fanno un’opera “indimenticabile” nella storia del cinema
mondiale.

E questo “indimenticabile” riecheggia e si applica perfettamente anche alle successive opere: su
tutte Novecento (1976), un’epica grandiosa e “hollywoodiana”, piena di grandi nomi del cinema
nostro e internazionale, che racconta cinquant’anni di storia padana, a tratti potente e commovente,
a tratti retorica e manieristica , sempre audace per le dimensioni e le ambizioni. Ma
“indimenticabile” è anche La tragedia di un uomo ridicolo (1982), ingiustamente rimasto nell’ombra,
ma che ci consegna un Ugo Tognazzi intenso e drammatico veramente da Oscar, d’altronde si
aggiudica la “Palma d’oro” come migliore attore protagonista al Festival di Cannes.

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N
ovecento.

E “indimenticabile” senza se e senza ma è L’Ultimo Imperatore (1987), un film che fa strappare i
capelli agli americani e che conquista a sorpresa nove Oscar: un’opera veramente monumentale, un
trionfo di diplomazia e creatività, di gusto scenografico italiano e di abilità narrativa. L’aggettivo
“indimenticabile” sarebbe indicato anche per Il tè nel deserto o per The dreamers, che riecheggia
Ultimo tango a Parigi nelle atmosfere, ma è tutta la carriera di Bertolucci a poter essere apostrofata
come “indimenticabile”, come la standing-ovation di 35 minuti che il Bif&st gli ha decretato nella sua
ultima uscita pubblica lo scorso aprile. Il saluto di un grande intellettuale, regista e artista al mondo
del cinema e non solo, un commiato concluso con questa frase, che rimarrà indelebilmente scolpita
negli annali:

                 “Il cinema è la nostalgia di un qualcosa che non abbiamo mai vissuto”

                                           Bernardo Bertolucci
La “nuova” frontiera del cinema italiano:
la commedia corale
Dalla seconda metà degli anni ’90, almeno fino a tutto il primo decennio del nuovo millennio, il
cinema italiano dal punto di vista qualitativo ha affrontato il punto più basso della sua centenaria e
gloriosa storia. Viceversa, è il caso di dirlo, nel secondo decennio degli anni ‘2000, le cose sono
cambiate radicalmente. E non parliamo soltanto per l’assidua opera dei nostri cineasti più illuminati:
Sorrentino, Garrone e pochi altri. Ma parliamo di tutto l’humus artistico e culturale che prende vita
nella pancia media del nostro cinema. In quella sorta di via di mezzo tra il film d’autore e quello più
semplice o ridanciano. E qui ci rifocalizziamo sul genere che ha fatto la fortuna del nostro cinema,
ovvero la commedia.

La commedia all’italiana infatti, era un genere che parlava degli italiani, di noi stessi, dei nostri tanti
vizi e delle nostre poche virtù. Lo si è fatto negli anni ’60 e lo si è riproposto con altri volti e altre
situazioni, negli anni ’80. Oggi, alla luce di tutte le trasformazioni che ha subito il cinema dal 2010
ad oggi, possiamo con certezza dire, che siamo di fronte ad una “terza” commedia all’italiana, basata
sul gioco di squadra, sulla coralità e su una qualità interpretativa davvero considerevole da parte
delle nostre giovani o meno giovani leve.

Negli ultimi anni infatti, una squadra di attori si sta facendo avanti in formazione compatta,
interpretando film dalla struttura corale ben orchestrata. No, non stiamo parlando della manciata di
interpreti, spesso provenienti dalla televisione o dal cabaret (o peggio, dal cabaret televisivo), che
popola da anni le commedie dei “telefoni bianchi”. Parliamo di quel gruppo legato da affinità
artistiche e da un’amicizia decennale che ha trovato la sua vetrina principale negli ultimi film di
Paolo Genovese, di Edoardo Leo, di Rocco Papaleo, di Massimiliano Bruno, di Sydney Sibilia, di
Francesca Archibugi, di Gabriele Muccino e potremmo ancora continuare. Ricordate la banda
Salvatores negli anni Ottanta e Novanta?

Ecco, oggi intorno ad alcuni autori, si è creata una squadra che non solo si interfaccia a livello di
recitazione, ma contribuisce al progetto in fase di sceneggiatura, talvolta partecipando anche alla
produzione, e formando una sorta di factory creativa di quelle che erano a lungo mancate al cinema
italiano. Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Alba Rohrwacher appaiono sia in “The place”, che
in “Perfetti sconosciuti”; ma Marco Giallini è stato anche tra i protagonisti di “Tutta colpa di Freud”,
dove troviamo anche Alessandro Gassman. Lo stesso attore e figlio d’arte interpreta pure “Il nome
del figlio” al fianco di Valeria Golino e Rocco Papaleo, e proprio con quest’ultimo ha intrapreso un
profondo rapporto amicale e lavorativo, da “Basilicata coast to coast” a “Onda su onda”, diretti
entrambi da Papaleo. A cui Gassman ha restituito il favore dirigendolo nel film “Il premio”, in uscita
a fine 2017 e dove si registra anche la presenza del sommo Gigi Proietti.

Poi c’è Edoardo Leo, direttamente dalla saga in tre film di “Smetto quando voglio”, dove troviamo
anche il “grosso” Stefano Fresi, che già aveva lavorato con Edoardo Leo in “Noi e la Giulia”, e che a
novembre è in sala con “La casa di famiglia”, interpretato tra gli altri anche da Lino
Guanciale. In “Noi e la Giulia” oltre a Claudio Amendola c’è anche Anna Foglietta, strepitosa moglie
di Valerio Mastandrea nel film “Perfetti sconosciuti”. E in “Perfetti sconosciuti” c’è anche Giuseppe
Battiston, che già con “Bar sport” aveva sperimentato la commedia corale. E non possiamo non
citare o non ricordare “A casa tutti bene”, l’ultima fatica corale di Gabriele Muccino, in un cast
monstre che annovera attori di consumato talento come Gianmarco Tognazzi, Pierfrancesco Favino e
Stefano Accorsi.

Ma tutt’intorno ci sono anche altri attori, che in maniera più sporadica partecipano al
completamento del genere, sviluppatosi per intuizione o forse solo per mero successo commerciale
negli ultimi sei/sette anni. Ci sono in ordine sparso Barbara Bobulova e Riccardo Scamarcio
per “Una piccola impresa meridionale”; Claudio Amendola per “Noi e la Giulia”; Valeria Golino e
Micaela Ramazzotti per “Il nome del figlio”; Kasia Smutniak per “Perfetti sconosciuti”; Silvio
Muccino e Sabrina Ferilli per “The place”; Pietro Sermonti e Giampaolo Morelli per la saga
di “Smetto quando voglio”; Michele Placido per “Viva l’Italia”; Giovanna Mezzogiorno per “Basilicata
coast to coast”; Gigi Proietti per “Il premio”; Lino Guanciale per “La casa di famiglia”.

Insomma tutti questi attori e autori lavorano in sinergia dentro e fuori dal set e rappresentano ormai
una vera e propria squadra, che alternandosi, si presenta più o meno sempre compatta al giudizio
del pubblico. Che cosa comporta questa tendenza in fase di realizzazione? Comporta una
collaborazione artistica e uno scambio creativo che non si vedeva dai tempi della commedia classica
all’italiana. Certo, non necessariamente raggiungendo gli stessi risultati artistici, ma certamente
aspirando alla stessa sintonia. È un fatto noto che alla scrittura di “Perfetti sconosciuti”, ad esempio,
oltre al team di sceneggiatori, hanno partecipato attivamente gli interpreti, aggiungendo aneddoti e
dettagli per arricchire le loro caratterizzazioni e il flusso del racconto. Ma lo stesso discorso può
essere fatto per “Noi e la Giulia” o per “Smetto quando voglio” e altri film corali dell’attuale periodo.

Insomma ci troviamo di fronte ad un vero e proprio lavoro d’orchestra, che è ben evidente anche
quando le avventure degli interpreti non si svolgono perennemente insieme. Infatti, in “The place”,
nonostante gli interpreti recitino insieme regolarmente, uno alla volta, solo con Valerio Mastandrea,
è evidente che fra di loro si è formato un team e si è instaurata una familiarità che, per lo spettatore,
comincia ad avere il valore di un ritrovo fra amici. E di questo gioco di squadra, di questo lavoro
d’orchestra, come lo avevamo chiamato sopra, ne giova tutto il cinema italiano attuale nel suo
complesso. E il fatto che questa coralità, sia pienamente inserita nel discorso del genere della
commedia, non fa che aumentare i paragoni con il passato e il prestigio dell’attuale lavoro
d’orchestra. Perché se è vero che il passato dei Gassman padre, dei Tognazzi o dei Manfredi è
difficilmente raggiungibile; è pur vero che questo gruppo di attori conferma la propensione italica
alla commedia, dove probabilmente nessuno è stato bravo o è bravo quanto noi. E se l’età anagrafica
di questo gruppo d’attori, più o meno coincide e si attesta sull’età di mezzo, segno inequivocabile di
una certa esperienza lavorativa, nonché di una giovinezza d’animo che tarda a scomparire, quella
che vediamo sul grande schermo è una squadra compatta e coesa, riconoscibile come gruppo
creativo, e non solo come singole professionalità.

Ma è il ping pong fra questi attori abituati a confrontarsi anche fuori dal set a creare quell’onda
d’urto che, al di là della singola riuscita artistica dei film che interpretano, porta pubblico in sala e
crea appuntamento. E non è poco, per il cinema italiano. Ormai dunque, si è creato un nuovo genere,
quello della “commedia corale” e se giocassimo un po’ a cercare un prodromo o una paternità a
questa invenzione cinematografica del secondo decennio degli anni 2000, un capostipite può essere
rintracciabile in “Basilicata coast to coast”, picaresco film diretto da Rocco Papaleo, un po’ “Armata
Brancaleone” e un po’ commedia errante, che rispolverando la vecchia commedia corale ha fatto
capire ai nostri autori, come il gioco di squadra tra attori, può creare sinergia, competenza,
esperienza e quant’altro al servizio di un “nuova” commedia all’italiana, che letteralmente è la
descrizione di noi stessi vista attraverso gli eroi del cinema. E in tal senso, nel cinema italiano
attuale, nessun film descrive i vizi, i segreti e le piccole meschinità dell’italiano medio meglio
di “Perfetti sconosciuti”, de “Il nome del figlio” e di “A casa tutti bene” che nella commedia corale
attuale ne rappresentano i modelli da seguire, in vista di altri futuri capolavori.

Trent’anni di “Compagni di scuola”: il
capolavoro generazionale di Carlo Verdone
Strepitoso spaccato veritiero e agghiacciante dell’Italia degli anni ’80, che si affaccia ai ’90; ma
anche malinconico ritratto, che fa parte dell’esperienza comune di tutti, sulle rimpatriate di ex
liceali. Verdone immagina, quello che in fondo sono le rimpatriate: malinconiche, tristi e amare, in
cui si riaccendono antiche antipatie, si suscitano commiserazioni, si riacutizzano invidie sopite e
anche vecchi amori, si esumano scherzi vetusti, si contano i morti, si constata quanto la vita ci
trasforma e non in meglio. Ma poi ognuno torna alla propria vita, come una parentesi fuori tempo
massimo, come il ricordo di una magia cercata, forse ritrovata per qualche attimo, ma che non torna
più. Ebbene questo è “Compagni di scuola”, il film al quale lo stesso Carlo Verdone è più affezionato;
e in definitiva è il suo capolavoro.
L’idea nacque da uno spunto
autobiografico dello stesso Carlo
Verdone e del suo compagno di
scuola, e futuro cognato, Christian
De Sica, i quali si trovarono invitati
a una rimpatriata dai tristi esiti. La
fenomenologia della rimpatriata
scolastica, chiaro spunto
verdoniano, è immutabile da
sempre e consente a chiunque di
identificarvisi. “Compagni di
scuola”, parla di noi, parla di tutta
una generazione, parla di emozioni
che sono nei nostri cuori, sopiti
magari dagli impegni e dalle
frenesie quotidiane; parla di ricordi
malinconici, parla di nostalgie, di
quello che desideravamo di essere
e forse non lo siamo; parla delle
nostre ansie, delle nostre paure. Si
ride, ma si ride amaro, in pieno
stile da commedia all’italiana, cui
sono chiare le radici, con le sue
virtù (la capacità di osservazione,
la cattiveria) e i suoi vizi (il cinismo
spicciolo, l’adesione alle volgarità
di alcuni personaggi). Maturato
come regista, Verdone è in grado di
tenere sotto tiro per due ore una ventina di personaggi senza dispersione né cadute di ritmo, né
momenti opachi: la mano è sempre leggera, farsa e dramma sono tenuti ugualmente a distanza e le
residue tentazioni pecorecce sono poche.

  Per approfondire:

  ■   68 anni di Carlo Verdone: la grande anima d’Italia dei tempi moderni

Ma quando la compagnia degli ex alunni è finalmente al completo, nella sontuosa villa di Nancy Brilli
mantenuta di lusso, una piccola folla di personaggi comincia a prendere vita. C’è Massimo Ghini
sinistro onorevole, c’è Athina Cenci psicoanalista nevrotica, c’è Christian De Sica showman fallito,
c’è Fabio Traversa zimbello della compagnia, c’è Angelo Bernabucci romanesco greve, c’è Maurizio
Ferrini inguaribile goliardo, c’è Eleonora Giorgi separata inquieta, c’è Isa Gallinelli amica petulante,
c’è Caterina Vincenti la goliarda del gruppo con un peso sul groppone. Su tutti domina,
naturalmente, Verdone detto il Patata, che sarà la vittima principale della crudeltà del gruppo: nel
corso della festa sarà esposto al ludibrio il suo amore segreto di professorino mal maritato per
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