BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" III NUMERO SPECIALE 2020 - Amazon AWS

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BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" III NUMERO SPECIALE 2020 - Amazon AWS
III NUMERO SPECIALE 2020

CAMERA PENALE VENEZIANA
   “ANTONIO POGNICI”

 BOLLETTINO
CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”

 CONVEGNO IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE
              CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

      “HATE SPEECH E QUESTIONE FEMMINILE. DALLA
         VIOLENZA VERBALE ALLA VIOLENZA AGITA”

               Lunedì 25 novembre 2019 ore 15.00-19.00.
            Venezia – Aula Magna Cazzavillan, San Giobbe

AVV. ANNAMARIA MARIN – Presidente Camera Penale Veneziana
Buon pomeriggio e benvenuti a tutte e a tutti. Buon 25 novembre.
Secondo me dobbiamo oramai avere familiarità anche con questa data che
ha assunto un’importanza nel corso degli anni che va riempita di significati
e che è di assoluto rilievo nella nostra società. Riempita di significati e di
contenuti e non poteva esserci iniziativa migliore del convegno di oggi
pomeriggio. Un seminario di approfondimento che, per il quarto anno, mi
consente di essere presente il 25 novembre con un’iniziativa che tocca temi
collegati a questa giornata, con una prospettazione che ogni anno si è
voluta diversa. E’ uno degli obiettivi che nella mia Presidenza della
Camera Penale ho voluto porre come obiettivo da raggiungere: i primi due

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anni in collaborazione stretta con il Comitato “Pari Opportunità” del
Consiglio    dell’Ordine    degli   Avvocati     di   Venezia,   poi   con   la
successivamente      costituita     Commissione       “Diritti   fondamentali,
immigrazioni e questioni di genere” della Camera Penale Veneziana che ha
raccolto il testimone e che, tanto nel 2018 quanto nel 2019, ha proposto e
propone ai colleghi dei momenti di approfondimento di assoluta qualità.
La mia Presidenza volge al termine, sto facendo praticamente il conto alla
rovescia, ma sono convinta che l’interesse che queste iniziative hanno
riscontrato tra i colleghi significa che siamo ad un punto di non ritorno e
che, quindi, su questi temi bisogna andare avanti, perché i colleghi ce lo
chiedono, perché la società ce lo chiede, perché il nostro impegno anche
civile, oltre che professionale, ce lo chiede.
Ringrazio quindi soprattutto i colleghi e le colleghe della Commissione
“Diritti fondamentali, immigrazione e questioni di genere” della Camera
Penale Veneziana per aver passo dopo passo costruito questo evento, che
non avrebbe potuto essere realizzato in un posto più bello di questo, per il
quale dobbiamo ringraziare la Prof.ssa Monica Billio, Direttrice del
Dipartimento di Economia dell’Università di Ca’ Foscari, che oggi è
all’estero per impegni professionali e non può essere con noi, che però ci
ha consentito di fare questa bella iniziativa in questo posto che è così
importante per la storia di Venezia e per l’attualità di una Venezia che vede
nell’Università un’anima pulsante di idee e di approfondimenti sui temi
quali quelli che oggi caratterizzeranno il nostro seminario.
Io non ho molto altro da aggiungere e mi permetto di leggervi una cosa,
spero di non averla troppo maltrattata con dei tagli che mi sono permessa di
fare, ma ve la voglio leggere così com’è:
“Quando nel 2013 il Parlamento italiano ratificò la Convenzione di
Istanbul si impegnò non solo a riconoscere che le violenze di genere

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rappresentano un problema strutturale della nostra società, ma anche a
portare avanti una triplice strategia: punire i colpevoli, proteggere le
vittime, prevenire le violenze. Poi però la politica si è accontentata di
mettere a punto un arsenale giuridico repressivo, senza preoccuparsi né
della protezione delle vittime né della prevenzione della violenza. Nessun
governo si è preoccupato di varare un serio piano nazionale di
prevenzione. Fino a quando non si educheranno i più giovani al rispetto
reciproco e all’accettazione delle differenze non si riuscirà nemmeno a
contenere la violenza di genere. Com’è possibile che la politica non si
renda conto che viviamo in una società in cui si immagina che il rispetto lo
si debba conquistare o meritare, mentre è semplicemente dovuto a ogni
persona in quanto tale? Com’è possibile che sia la stessa politica a
valorizzare un linguaggio fatto di prevaricazione e manipolazione, invece
di trasmettere i valori dell’ascolto e del reciproco riconoscimento? Fino a
quando non si capirà che l’educazione e la cultura sono essenziali per
conoscere e riconoscere se stessi e gli altri, e la politica non punterà
quindi sulla prevenzione, non si riuscirà mai a contrastare davvero la
terribile piaga delle violenze di genere”
Questo è quanto ha scritto Michela Marzano, saggista, politica, filosofa,
accademica. Ho rubato le sue parole perché mi sembravano scritte molto
bene e questo è il senso ed il motivo dell’incontro di oggi. Ringrazio tutti
quanti si sono iscritti e comunque sono presenti e hanno inteso con la loro
presenza sottolineare l’importanza di questa giornata.
Grazie a tutti e buon lavoro!
Per i saluti istituzionali, adesso do la parola all’Avvocato Renato Alberini.

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AVV. RENATO ALBERINI – Presidente Fondazione Feliciano
Benvenuti.
Grazie, Annamaria, grazie alla Camera Penale per aver avuto anche
quest’anno la sensibilità di organizzare questo convegno così importante.
Porto i saluti del Presidente Giuseppe Sacco, Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, che per concomitanti impegni non è
potuto essere presente qui quest’oggi e mi ha dato incarico di portare i suoi
saluti, l’apprezzamento del Consiglio dell’Ordine e quindi di tutto il Foro
veneziano. Così come porto il saluto del Consiglio di Amministrazione
della Fondazione Feliciano Benvenuti, di cui sono Presidente, che
ugualmente ha condiviso questo progetto.
Il mio non vuole essere soltanto un indirizzo di saluto abbastanza scontato
e, per certi aspetti, banale, ma proprio perché oggi partecipiamo a un
evento, a un convegno di così straordinaria importanza, desidero fare
qualche spunto di riflessione sui temi che poi saranno oggetto di questo
convegno.
I temi che verranno trattati quest’oggi sono di attualità, di una disarmante
attualità possiamo dire, basti pensare all’ennesimo femminicidio che
abbiamo sentito nei giorni scorsi relativo a quella povera ragazza
assassinata perché aveva detto al suo amante che era incinta e ha reagito nel
modo che abbiamo visto. Sono impegnativi e meritevoli di approfondite
riflessioni e approfondimenti.
L’anno scorso abbiamo avuto 142 donne uccise da uomini. L’altro giorno
guardavo con mia moglie “Quarto Grado” e c’era questo numero “142” su
un bollino attaccato a tutti i vestiti dei vari interpreti di questa trasmissione,
di tutti quelli che sono entrati a farne parte, che seguono quotidianamente
questi delitti dal punto di vista della persona offesa. E’ una prospettiva
diversa che deve essere tenuta in considerazione, tenuto conto che 142,

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come numero, donne uccise assassinate dai loro ex compagni, dai loro
mariti, fidanzati e quant’altro, è un dato che purtroppo si sta confermando
anche in questi primi dieci mesi del 2019, dove si registra un femminicidio
ogni tre giorni. Sappiamo bene che poi il femminicidio rappresenta l’ultimo
anello di una escalation di vessazioni e violenze che la presenza di
un’efficace rete di supporto potrebbe invece riuscire ad arginare. Basti
pensare all’orrore che, quotidianamente, si vede nei pronto soccorsi degli
ospedali; le donne spesso non hanno il coraggio di parlare e denunciare, ma
i corpi e le lesioni parlano per loro e rivelano vertigini di orrore quotidiano
ad opera, come dicevo, di mariti, ex mariti, compagni, fidanzati e
quant’altro.
E’ lo scenario di una guerra nascosta nelle mura di casa che non sempre i
numeri riescono a comunicare e raccontare, e sappiamo che questa
escalation e questo orrore è l’anticamera del femminicidio. E’ un quadro
allarmante che dura da moltissimi anni, per cui parlare di emergenza è
improprio, non ha alcun significato, emergenza è un qualcosa che emerge
all’improvviso, cui si deve far fronte, ma un’emergenza che dura da anni e
che rimane e addirittura si aggrava negli anni non può più ritenuta tale.
Le istituzioni devono affrontare in maniera strutturale, come diceva prima
Annamaria Marin, un fenomeno che è soprattutto di carattere sociale e
culturale. Un fenomeno cui dobbiamo dare delle risposte, perché di fronte a
questo abisso, a questo orrore quotidiano, dobbiamo per prima cosa
accendere una luce nel buio profondo in cui le vittime di questi reati si
trovano. Siamo tutti noi colpevoli se restiamo in silenzio e non mettiamo in
atto delle politiche efficaci.
Oggi è la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne. Al di là dei
proclami e delle buone intenzioni, delle nuove promesse che poi non
verranno mantenute, basterebbe soltanto raccogliere, e dico soltanto per

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modo di dire perché è estremamente difficile poi darne attuazione pratica
da parte delle istituzioni, basterebbe, dicevo, raccogliere l’appello che
arriva da tutte le associazioni di volontariato e dei centri antiviolenza, che
accolgono le donne in difficoltà e in pericolo e danno loro assistenza
medica, psicologica, legale, il cui lavoro quotidiano va riconosciuto,
garantito e valorizzato.
Spesso è un problema di carattere economico, perché sappiamo bene che i
soldi ai centri antiviolenza, se arrivano, arrivano pochi, spesso non arrivano
e non sono certamente adeguati alle esigenze che sono tante.
Ma, dicevo, non è solamente una questione di fondi. In questi anni di
populismo penale che ha fatto credere che tutti i problemi possano essere
risolti soltanto con nuove leggi istitutive di nuovi reati, con l’aggravamento
di pene o quant’altro, sappiamo che tutto questo non è possibile risolverlo
solo ed esclusivamente con l’inasprimento delle pene. I dati quotidiani che
si ripetono nel tempo dimostrano ancora una volta il contrario.
Non è solo un fatto di inefficacia, perché questo tentativo del legislatore di
dare una risposta in termini di nuove normative, di inasprimento di pena, è
soltanto un problema che sposta l’attenzione dalla vera sfida a questo tipo
di violenza, perché a mio avviso questo tipo di violenza, questo tipo di
mentalità, di cultura sbagliata, deve, in particolare, partire dalla famiglia,
dalle scuole, dalla società, dove bisogna cercare di ripensare al rapporto
uomo/donna.
Le difficoltà sono palesi e i dati dei vari rapporti che quotidianamente
ascoltiamo, compreso quello dell’Eures e quello anche della Polizia di
questi giorni, ci danno la triste conferma.
Le nuove disposizioni del cosiddetto “Codice Rosso” hanno certamente
innovato e modificato in positivo la disciplina penale, corredandola, come
al solito, di inasprimenti di sanzione e, come dicevo, sappiamo benissimo,

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chi fa il penale, la loro inutilità, basti pensare alle leggi sulla corruzione che
non hanno risolto nulla perché la corruzione continua ad essere una
costante del nostro Paese.
Resta comunque la difficoltà pratica di gestire l’alto numero di
segnalazioni, di estrapolare i casi più gravi.
Recentemente il Procuratore Capo di Milano, Francesco Greco,
rappresentava questa difficoltà a seguito dell’uccisione di una donna da
parte del marito denunciato quattro giorni prima per aggressione. Ma,
dicevo, anche il Codice Rosso è nato dietro la logica punitiva. Alcune
norme possono essere valide, ma la cultura di fondo è sempre quella che
porta lo Stato a pensare soltanto all’inasprimento di pena, e possiamo dire
tranquillamente che è inutile punire dopo, quando la donna è già stata
ammazzata. Aiutiamo chi fa prevenzione e chi, giorno dopo giorno, aiuta
concretamente le donne in difficoltà.
La violenza domestica non ha passaporto, non ha classe sociale né razza,
colpisce in maniera indiscriminata e colpisce tutti. In questo senso è
talmente democratica che non guarda in faccia nessuno. La violenza può
esserci in qualsiasi tipo di società, in qualsiasi tipo di famiglia, a
prescindere dalla capacità economica, reddituale e lavorativa.
In questo contesto, prendendo uno dei temi di questo convegno di oggi si
inseriscono i cosiddetti “discorsi di incitamento all’odio”, intesi come
comprensivi di tutte le forme di espressione miranti a diffondere,
fomentare, promuovere o giustificare l’odio razziale, la xenofobia,
l’antisemitismo e altre forme di odio fondate sull’intolleranza, la
discriminazione, l’ostilità, la violenza nei confronti delle minoranze e
purtroppo anche delle donne. Sappiamo bene che le donne sono prime nel
barometro dell’odio, anche questa è una costante. Combattere il discorso
d’odio è possibile ma non è facile. Perché, vedete, il discorso dell’odio

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molto spesso viene anche banalizzato e reso normale soprattutto quando
reso online; rapidità di reazione, di impulsività, l’anonimato, rendono
particolarmente aggressivo e qualche volta virale il contenuto delle offese
dirette quasi sempre verso i più fragili. E’ necessario diffondere, soprattutto
tra i più giovani, una nuova cultura sui pericoli dell’odio. Bisogna creare un
circuito vizioso di azione contro l’odio in tutte le sue forme. Qualcuno ha
opportunamente sottolineato che, per chi è in rete, l’odio è virtuale, ma per
chi lo riceve, invece, è reale e ha un effetto a volte devastante nella vita
quotidiana. Questa è la differenza tra chi scrive e chi riceve. Notevole è
anche il ruolo dei social media, corsia preferenziale di incitamento
all’intolleranza e al disprezzo nei confronti di gruppi minoritari e
socialmente più deboli. Il numero esiguo di caratteri che compone un tweet,
un post, infatti consente e addirittura favorisce la diffusione e la
condivisione di pensieri e atteggiamenti idiosincratici, a maggior ragione
se garantiti dall’anonimato. Dobbiamo riuscire a sanare gli haters, i
cosiddetti “leoni da tastiera”, che si nascondono dietro l’anonimato di nomi
di fantasia.
Quale può essere una chiave per reagire? La contronarrazione, che significa
rispondere, argomentare, non lasciare che il linguaggio violento, volgare,
scurrile, dei tweet d’odio non abbia risposta.
Concludo dicendo che non possiamo e non dobbiamo mai accettare un
linguaggio d’odio, perché il linguaggio d’odio è tossico e purtroppo
contagioso.
Auguro a tutti un buon lavoro, agli illustri Relatori in particolare.

AVV. ANNAMARIA MARIN – Presidente Camera Penale Veneziana
Grazie all’Avvocato Alberini.

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La parola alla Prof.ssa Ivana Padoan, direttrice del Cestudir, Centro Studi
per i Diritti Umani dell’Università di Venezia, oramai una presenza quasi
costante alle nostre iniziative e quindi per questa perseveranza
particolarmente gradita, perché ci ha abituati a dei contenuti sempre molto
stimolanti.

PROF.SSA IVANA PADOAN – Direttrice Cestudir
Grazie, Presidente. Grazie a tutte e a tutti voi, perché ormai è diventato di
prassi citare anche il femminile, non solo il maschile, nei saluti. Anzi noi
abbiamo una nostra collega che addirittura se mi scappa una volta un
maschile o un neutro mi taglia le unghie! A parte che non le ho, mi taglierà
un dito!
Contenta sempre di essere qui. Oramai io veramente devo essere grata agli
Avvocati, all’Ordine degli Avvocati e anche alle Camere Penali per tutte le
iniziative che fanno, proprio perché non è che tutti gli Ordini o comunque i
professionisti riescano a fare iniziative del genere.
Prendo un derivato dal discorso che è stato fatto prima dall’Avvocato: noi
non siamo vaccinati alla violenza e nemmeno a quella di genere, io direi a
quella DEI generi. Per questo io porto i saluti della mia Università, in
particolare del mio Rettore che malgrado sia un informatico, un tecnico, da
sempre si è speso per le problematiche di genere, di tutti i generi, tanto che
lunedì 16 dicembre promoviamo il bilancio di genere all’Università, e se
avete voglia ci fa piacere che veniate per vedere anche com’è stato fatto un
bilancio di genere all’Università, tenendo presente che ci sono solo tre
donne Rettrici in tutta Italia e quindi ha un significato importante questo,
forse non è per voi perché molte sono le figure femminili che vedo in
questa professione. Non solo questo, ha promosso un percorso di

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insegnamenti rivolto a tutti i dipartimenti, integrativo fra tutti i
dipartimenti, che si chiama Minor, sul genere, che tratta tutte le tematiche
di genere: dal diritto, alla pedagogia, alla disuguaglianza, visto che molti
dei percorsi che noi facciamo, ne faccio anch’io di genere, a quanto pare
sono troppo all’interno dei singoli dipartimenti, di pochissimi dipartimenti,
più quelli umanistici. L’ho voluto proprio trasversale a tutti i dipartimenti.
Inoltre ha promosso con la nostra collega Giusti un Mooc destinato al
linguaggio e alle stereotipie linguistiche e dei media, altrettanto
fondamentale, che troverete all’Università, nel sito universitario, che è
gratuito per tutti, ma è molto interessante, perché dà a tutti noi degli
insegnamenti anche rispetto all’uso del linguaggio che facciamo tutti i
giorni, praticamente, certi errori che magari sembrano delle abitudini ma
sono degli errori di significato, semantici fondamentali per noi. E poi
abbiamo voluto, e su questo siamo anche implicate noi dell’Università, un
Master in Gender Study and Social Change, proprio per promuovere la
parità di genere e contro tutte le disuguaglianze. E’ una tematica
fondamentale, perché se noi facciamo una specie di attraversamento delle
tematiche di genere possiamo vedere il primo periodo dei diritti, il secondo
periodo della trasformazione sociale e politica e il terzo periodo attuale che
è proprio la parità anche a livello economico di riconoscimento e
soprattutto, come si dice, la lotta contro tutte le tipologie di violenza.
Come avete scritto voi, soprattutto come ha voluto scrivere Monica, che
ringrazio sempre perché lei persevera in questa iniziativa, quindi se c’è
qualche colpevole andate da lei, e quindi dalle parole alle azioni vere e
proprie, perché basta una parola stupida detta dal marito o dal fidanzato alla
compagna perché questa sia già una violenza psichica.
E poi voglio portare i saluti nostri, siamo qui io e Sara De Vido del
Cestudir che è un organismo, c’è anche un ex Presidente, Lauso Zagato, e

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altri colleghi. E’ un centro che si occupa in particolare di diritti umani, ma
il tema di genere è un tema che fin da sempre noi abbiamo tematizzato,
scritto, fatto convegni, promosso, esercitato, perché abbiamo fatto anche
all’Università del Volontariato destinata anche al genere e a percorsi di
genere.
Fatti tutti i saluti, il Rettore doveva venire ma ha un pre Senato, un pre
CDA, un pre tutto, e ho chiesto proprio l’orario perché se riesce a finire per
le 18.30 ha detto che fa un salto.
Va bene. Tre temi che però voglio sottolineare, velocissima, tre punti.
Il primo punto che voglio sottolineare è che la questione di genere, lo ha
detto prima sia la Presidente che l’Avvocato, è una questione
profondamente educativa dalla nascita: il vestitino rosa contro il vestitino
blu, il robot contro la bambolettina, quindi le cure che di conseguenza
bisogna far maturare nella donna. La questione di genere è una questione
educativa, di istruzione, i nostri libri sono scritti tutti al maschile e con
contenuti maschili, quante sono le filosofe donne scritte nei testi non lo so,
quante sono le Avvocatesse donne scritte nei saggi giuridici non lo so, e via
di conseguenza. E formazione professionale, perché trattare soprattutto voi
le relazioni con donne o con uomini è diverso, e quindi è una questione che
ci tocca dalla base, siamo tutti implicati, anche qui non abbiamo
vaccinazioni rispetto all’educazione.
Secondo punto: è una questione oggi più che mai psichica. I social oggi
stanno attraversando a tappeto, attraverso le parole d’odio, la nostra vita. E’
qualcosa di vergognoso e di disastroso che non ci siano delle barriere, non
come il Mose, delle barriere vere che in qualche modo frenino questa
prospettiva. E le barriere chi le fa? Le fanno già molti, enti e istituzioni, ma
troppo pochi. Molte istituzioni pubbliche non fanno nessuna barriera,
compresa l’Università e anche enti e associazioni. Non so quanta barriera

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faccia il mio Ordine degli Psicologi, non so a queste performances... perché
poi a noi arrivano i casi dei giovani pieni di odio, impregnati di odio,
arrivano casi di persone adulte che hanno lo stesso problema, e casi anche
di anziani. Quindi noi dobbiamo lavorare costruendo, non tanto una
barriera quando arriva la parola d’odio, ma una prevenzione, diceva prima
la Presidente. Intendo barriere in termini metaforici, proprio per far sì che
le parole d’odio diano il senso del significato profondo che hanno, ma
soprattutto di quella traccia corporea di cui si è parlato prima, perché l’odio
come l’amore lascia tracce corporee, non solo parole al volo, sono tracce
corporee che ci fanno crescere in un certo modo.
Terzo punto, e chiudo, è la questione che per me è la più importante, il mio
tema: la cura delle relazioni. Noi dobbiamo parlare oggi non solo della cura
del sé, io scrivo di queste cose ma è insufficienze la cura del sé, cosa vuol
dire la cura del sé? Il sé esiste nella relazione, perché il sé puro è un proto-
sé. Non ha sesso il sé puro se non perché è stato formattato. Ma il sé
emerge dalle relazioni e noi attraverso la relazione, che sia di gesto, di
comportamento, di accoglienza, di parole, di abbigliamento, dimostra la
nostra capacità relazionale. E quindi non possiamo lavorare, voi che siete in
primis a lavorare nei conflitti, io veramente mi pongo il problema come
fate a ragionare sulle relazioni, perché è difficilissimo ragionare sulle
relazioni, a volte noi lavoriamo per opportunismo, per chi fa meno danni,
per chi magari arriva prima, per chi paga di più. La stessa cosa è la scuola,
la stessa cosa anche la gerarchia scolastica. Ma il lavoro sulle relazioni e un
lavoro educativo, un lavoro formativo, un lavoro pesantissimo, e quindi è la
cura delle relazioni che noi dobbiamo promuovere. Non voglio dire
conciliazione, condivisione, sono parole che poi sono tematizzate rispetto a
certe aree, ma è la cura delle relazioni che è la più importante per la nostra
esistenza, è la più importante per l’esistenza di tutti noi. Grazie.

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AVV. ANNAMARIA MARIN – Presidente Camera Penale Veneziana
Grazie alla Prof.ssa Padoan per il saluto affettuoso e convinto che ha voluto
dare a questa iniziativa, ma non avevamo dubbi.
Adesso chiamo la moderatrice dell’incontro di oggi, l’Avvocato Monica
Gazzola, che è la responsabile della Commissione “Diritti fondamentali,
immigrazione e questioni di genere” della Camera Penale Veneziana, e
chiedo che Monica prenda posto con i nostri Relatori i quali poi ci
illustreranno i temi che sono stati indicati nella convocazione. Propongo di
fare un applauso a tutta la Commissione “Diritti fondamentali”.

- Applausi.

Perché ascolteremo i Relatori, ma senza la Commissione questo incontro
non ci sarebbe stato.
Grazie.

AVV. MONICA GAZZOLA
Buonasera a tutti.
Grazie per le parole affettuose rivolte alla Commissione. Ringrazio anch’io
questa bella Commissione, perché è una Commissione fatta di amiche e di
amici, di avvocate e avvocati impegnati non solo nella nostra professione,
nella convinzione che sia necessario portare l’Avvocatura ad aprirsi anche
alle tematiche extragiuridiche.

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Questa iniziativa nasce da un indirizzo, che abbiamo fatto un po’ nostro,
che è quello di una visione multidisciplinare per affrontare temi importanti,
scottanti, gravi, attuali, come quello dell’hate speech in tutte le sue
declinazioni, oggi in questa giornata in relazione all’identità di genere e in
particolare nei confronti delle donne.
E’stato ricordato prima dall’Avvocato Alberini quale sia oggi il dato
tremendo dei numeri dei femminicidi. Avevo scritto due righe la settimana
scorsa, ero arrivata a 94, ahimè in una settimana ho dovuto aggiornarlo a
96. Ma il femminicidio è la punta dell’iceberg di un mare di violenze
fisiche, verbali, vessazioni, un mare profondo, un mare spesso silenzioso.
Leggevo ieri un articolo su un nostro quotidiano locale che informava di
come a Mestre e Venezia – una realtà di 200 mila abitanti, perché siamo
una piccola città tutto sommato - ben 253 donne si sono recate al Pronto
Soccorso nel 2018 per violenze subite. Sono numeri raccapriccianti. La
violenza agita nei confronti di una donna rappresenta l’apice della piramide
dell’odio.
Di piramide dell’odio parla la relazione finale di un bellissimo lavoro che è
stato fatto dalla Commissione parlamentare Jo Cox sull’intolleranza, sulla
xenofobia, sul razzismo e sui fenomeni di odio, che è stata istituita nel
maggio 2016, e che ha preso il nome da una parlamentare che è stata uccisa
poco dopo nel Regno Unito. La Commissione ha lavorato per un anno e
mezzo presentando nel 2017 una relazione finale. Ha effettuato una ricerca
approfondita sul nesso tra i discorsi d’odio e la violenza perpetrata, in
relazione a delle grandi categorie vulnerabili - stranieri, extracomunitari, e
in particolare in relazione alle donne – e individua questa piramide
dell’odio in una stratificazione significativa: alla base ci sono gli stereotipi,
le false rappresentazioni; poi abbiamo un livello appena superiore che è
dato dalle discriminazioni, cioè sulla base delle false rappresentazioni,

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degli stereotipi di genere, arriviamo alle discriminazioni nel posto di
lavoro, negli studi; poi arriviamo al linguaggio d’odio, e dopo vedremo
come viene definito, come si può definire; infine, da qui si arriva ai crimini
d’odio, cioè la violenza perpetrata.
Conclude testualmente la Commissione: “Esiste un nesso tra i discorsi
d’odio e i crimini d’odio, così come tra il discorso d’odio e la
discriminazione. Infatti da una parte il discorso d’odio è una forma
estrema di intolleranza che se non contrastata può contribuire a creare un
ambiente favorevole al verificarsi di crimini d’odio, dall’altra essa segnala
il più delle volte il radicamento di vere e proprie forme di discriminazione
nei confronti dei soggetti colpiti”.
Questo è un po’ il senso dell’incontro di oggi, ossia cercare di capire, di
conoscere, di approfondire di che cosa stiamo parlando quando parliamo di
hate speech, di discorsi d’odio, se ci sono strumenti normativi e culturali
per contrastarlo e poi cosa si può fare in concreto.
Piccola parentesi: ho citato il lavoro di questa splendida Commissione e
immediatamente leggendo questo report non ho avuto fare a meno di
pensare a quella Commissione abortita di recente che doveva avere lo
stesso oggetto, che era stata affidata alla Senatrice Liliana Segre. Credo che
la vicenda di questa Commissione abortita sia la prova della gravità della
situazione oggetto del nostro convegno, nel senso che una commissione
nata per contrastare i discorsi d’odio, tutte le forme di disuguaglianza, di
xenofobia, di razzismo, di antisemitismo, di omofobia, eccetera, è stata
affondata. Non solo, ma la sua promotrice, la Senatrice Segre, è stata
oggetto di una violenza nei social inaudita tanto che, come sapete tutti, le
hanno assegnato una scorta. Questo credo che non abbia bisogno neppure
di commento e costituisca la cartina di tornasole di quanto sia grave la

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situazione, anche perché, anziché essere gestita e combattuta dalle
istituzioni e forze politiche, viene fomentata da alcuni esponenti politici.
Prima di dare la parola al Prof. Faloppa che farà, com’è il suo stile,
un’introduzione approfondita e completa, sia sotto il profilo linguistico che
sotto il profilo della realtà quotidiana, molto brevemente cerchiamo di dare
una definizione dei discorsi d’odio, in particolare i discorsi d’odio e
relazione identità di genere. Non vi è una nozione universalmente
riconosciuta, credo che tutti e tutte possiamo convenire che forse la più
completa oggi, anche se non è vincolante giuridicamente, è quella che è
stata data dalla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza
del Consiglio d’Europa del 21 marzo 2016, una raccomandazione quindi,
una soft law. Il discorso d’odio viene definito come: “L’istigazione e la
promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione
nei confronti di una persona o di un gruppo di persone o il fatto di
sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazioni
o minacce tale persona o gruppo e comprende la giustificazione di queste
varie forme di espressione fondata su una serie di motivi quali la razza, il
colore, la lingua, la religione, le convinzioni, la nazionalità, l’origine
nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso,
l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o
situazione personale”. C’è anche una definizione molto completa che è
stata data dal Garante delle Telecomunicazioni a maggio di quest’anno,
dopo lotte intestine piuttosto pesanti. Ne parlerò poi quando sentiremo il
nostro Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Amadori.
Dò subito la parola al Prof. Faloppa. Il Prof. Federico Faloppa insegna
Linguistica all’Università di Reading in Inghilterra e si occupa da molti
anni di rappresentazione delle diversità nel linguaggio e nei massmedia,
nonché di migrazioni e politiche linguistiche. Ha pubblicato numerosi

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saggi, l’ultimo - che sta avendo un grande successo editoriale e che a mio
avviso dovrebbe essere adottato come libro di testo nelle scuole – si intitola
“Brevi lezioni sul linguaggio”. E’ partner di numerosi progetti dell’Unione
Europea di ricerca sui fenomeni d’odio fondati sul linguaggio ed è
coordinatore del Tavolo Nazionale di Contrasto al Linguaggio d’Odio di
Amnesty International Italia.
Lascio a lui la parola con la relazione “Uomini che odiano le donne, cattive
pratiche (linguistiche) tra informazione e social media”.
Prego, Federico.

PROF. FEDERICO FALOPPA
Grazie, ringrazio moltissimo chi mi ha invitato qui oggi ad essere con voi, a
discutere di questi temi. Ringrazio moltissimo voi, che siete così numerosi
qui oggi con noi.
Proverò, nel tempo che mi è dato, a tracciare alcune linee che sono già state
in qualche modo ricordate e a cui si è fatto cenno nelle relazioni precedenti,
ma che potranno, spero, essere anche d’aiuto per la discussione successiva.
Io mi occupo da vent’anni, effettivamente è così, ahimè, di razzismo
linguistico e di discorsi d’odio, anche se vent’anni fa non si chiamavano
ancora così, ma quello che voglio proporvi oggi è un percorso che va dal
linguaggio all’informazione ad alcune questioni che secondo me sono
ancora poco studiate e poco approfondite quando parliamo di questi
argomenti.
Inizio in modo un po’ brutale, mi perdonerete, ma c’è un perché. Posso
anche leggere alcune di queste cose, vi invito a leggerle, non le leggo io,
ma potete leggerle voi, posso leggerne un paio solo per farvi sentire il
tenore e la cattiveria di queste affermazioni. Queste sono frasi vere, reali.

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Quelle che vedete all’inizio sono le iniziali di chi le ha scritte, e sono state
scritte all’indirizzo di una sola persona, qualcuno di voi avrà già
indovinato, sono alcune delle frasi e delle espressioni rivolte a questa
persona e questa persona è Laura Boldrini.
Perché ho iniziato in questo modo un po’ brutale? Perché una delle
caratteristiche del linguaggio d’odio è sì la formulazione scritta, lessicale,
tutto quello che cercheremo di toccare tra poco, ma anche il peso e la fatica
di ricevere queste frasi, questi insulti, queste ingiurie, da parte di chi riceve.
Io non le ho lette apposta, ma voi le avete immaginate, le avete lette nella
vostra mente, potremmo leggerle e se le leggessimo trovereste veramente il
peso, la violenza di queste frasi. Violenza che in qualche modo poi Laura
Boldrini ha deciso di denunciare, questo è un famoso.. Tra l’altro non l’ho
preso a caso, tre anni fa esattamente in questa data, il 25 novembre, Laura
Boldrini dice: “Nella Giornata contro la Violenza sulle Donne vorrei
sottoporre alla vostra attenzione un fenomeno sempre più frequente e
inaccettabile: l’utilizzo nei social network di volgarità, di espressioni
violente, di minacce nella quasi totalità a sfondo sessuale”. E poi lei mette
con nome e cognome queste frasi, le pubblica sulla sua pagina Facebook.
Interessante, perché in quel momento incomincia, e lo dice anche un libro
che è stato scritto da poco, Flavio Alivernini “La grande nemica”,
pubblicato da People, che ricostruisce questa storia, cioè le ingiurie rivolte
alla Presidente della Camera e poi dopo anche quando lei non aveva più
quella carica, e anche la storia, i tanti anni in cui sono state raccolte queste
ingiurie, e alla fine lei ha deciso di agire, ha deciso di agire anche per
smascherare le persone che si erano rese responsabili di quelle frasi. Infatti
molte di queste persone, una volta smascherate con nome e cognome, si
sono espresse, come vedete sulla destra della diapositiva in quel modo,
cioè: “Mi dispiace, non lo sapevo, pensavo che non avrebbe fatto nessun

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danno, pensavo che sarebbe rimasto lì tra noi, pensavo che”, eccetera
eccetera eccetera. Questo la dice lunga sui linguaggi d’odio e non soltanto
sulla violenza del linguaggio d’odio, in particolare in questo caso contro le
donne, ma anche sulla incapacità di comprendere, da parte di chi poi li
esprime, tutta la violenza che possono esercitare.
Da lì si sono fatti diversi passi in avanti, voi conoscete questa campagna
“Odiare ti costa”, l'Avvocato Cathy La Torre e altri a Bologna, nel luglio di
quest’anno, hanno lanciato questa campagna molto efficace sul piano
comunicativo ma anche molto efficace perché in poche settimane hanno
raccolto 70 mila segnalazioni. Stanno portando avanti, mi diceva Cathy,
500 cause contemporaneamente; non sappiamo che esito avranno, ma
intanto c’è un punto, un’associazione in Italia che raccoglie le denunce e
che cerca di rispondere con il diritto, e lascerò poi questa materia ai
colleghi che parleranno dopo di me.
Guardate quello che dice Cathy La Torre: “Il diritto di critica e la libertà
di opinione”, eccetera, “sono diritti inviolabili ma la diffamazione,
l’ingiuria, la calunnia, l’offesa, la minaccia non lo sono”. Queste sono le
categorie che cerca in qualche modo di analizzare Cathy La Torre col suo
team di Avvocati. Ritorneremo su questo.
Questa è una cosa un po’ leggera che ho messo: Cathy La Torre si basa
nelle sue cause sull’ingiuria e sulle ingiurie codificate nel diritto italiano.
C’è un dizionario giuridico degli insulti, queste sono ingiurie, 1200 circa,
che dal dopoguerra in poi sono state codificate come tali. Allora se
rientrano in questa messe di ingiurie, probabilmente si possono utilizzare
oggi per fare delle istruttorie, per fare appunto causa a chi utilizza queste
parole. E’ una slide leggera, ma adesso andiamo in una materia un po’ più
complessa.

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Siamo andati avanti nella denuncia, nella raccolta di questo linguaggio
d’odio nei confronti delle donne, e non solo, e ci sono delle azioni
finalmente oggi che stanno avendo anche un buon esito, vedremo poi se sul
piano civile avranno lo stesso esito, alcuni dicono che non bisognerebbe
usare solo quello strumento, ma intanto c’è questo strumento e vediamo
cosa raccoglieremo e raccoglieranno. Ma, com’è stato già detto poco fa, il
linguaggio d’odio è un problema, è un problema innanzitutto di
definizione; ci sono tante definizioni, non c’è una definizione condivisa a
livello europeo dal punto di vista giuridico. Le giurisprudenze dei Paesi
europei, lo diranno dopo i colleghi che parleranno, hanno definizioni
diverse, alcuni non le hanno affatto.
In Italia il linguaggio d’odio non è codificato sul piano giuridico, ma
certamente ci sono delle definizioni operative che possiamo tentare di
utilizzare, una è già stata ricordata da Monica ed è forse quella più
interessante, quella più utilizzabile, anche se si parla di “advocacy
promotion and sentiment della denigrazione”, l’odio, la vilificazione o il
vilipendio della persona o di un gruppo di persone. Qui è interessante: “una
persona o un gruppo di persone”, si inserisce questo elemento che prima
nelle altre definizioni precedenti a questa non c’era. Chiaramente si parla di
espressioni anche se sul piano linguistico non c’è una definizione precisa,
quali espressioni linguistiche? L’ingiuria? Vedremo dopo che l’ingiuria è
una delle forme del linguaggio d’odio, non è l’unica e non è
necessariamente la più pericolosa. E poi certo abbiamo un problema:
linguaggio d’odio e poi abbiamo i crimini d’odio, che sono codificati sul
piano giuridico da molte giurisprudenze europee, e questo ci porta a dire
che le domande aperte e le questioni aperte sono una di questo tipo qui:
dove finisce la libertà di espressione, dove inizia invece il linguaggio
d’odio. Questa è la domanda centrale nel dibattito probabilmente non solo

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giuridico ma anche nell’informazione, nel dibattito di chi cerca di fare
attivismo anche su questi temi, al punto che alcune giurisprudenze stanno
cercando di equilibrare questi due poli e trovare delle soluzioni. Lo
vedremo dopo meglio.
In Italia lo strumento più importante che abbiamo sul piano penale è la
Legge Mancino del ’93, in generale sui linguaggi d’odio, non sto parlando
d’odio contro le donne; voi la conoscete, potete leggere di che cosa si tratta,
non devo ripeterla, ma questa legge però include quattro categorie:
discriminazione su base nazionale, razziale, etnica, religiosa. Ne lascia
fuori altre, e questa è una questione aperta, sul piano penale non abbiamo
strumenti, per esempio, per tutelare le persone LGBT, se dobbiamo
utilizzare uno strumento di questo tipo, non ce l’abbiamo. Infatti nella
giurisprudenza italiana, ma anche nel dibattito parlamentare italiano, nella
scorsa legislatura si è avanzata una proposta, la Rete Lenford di
Avvocatura LGBT aveva proposto di estendere la Legge Mancino anche ad
altre categorie o ad altre persone che erano colpite dal linguaggio d’odio;
non si è avuto né in tempo né il coraggio di portare avanti questa
discussione nella legislatura scorsa e, come vi dicevo, appunto, ci sono
delle categorie che non sono coperte.
Anche il linguaggio d’odio contro le donne effettivamente non rientra in
una definizione, nel penale abbiamo – Cathy La Torre lo dice – altri
strumenti: l’ingiuria, la diffamazione, e certamente questi sono gli
strumenti che vengono utilizzati. Lascio questa materia a chi ne sa più di
me.
Sul piano linguistico ci sono delle questioni aperte altrettanto importanti. Il
linguaggio d’odio è una forma complessa di linguaggio. Qui ho raccolto un
po’ ti spunti. Ci sono responsabilità legali individuali, certamente, ma se a
esercitare il linguaggio d’odio è un gruppo e non si riesce a individuare il

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responsabile sul piano giuridico? Se c’è un linguaggio d’odio utilizzato
anche come industria, diciamo così, non solo dell’informazione, della
propaganda, se c’è un personaggio politico che usa il linguaggio d’odio per
fare propaganda come si può intervenire? Nella giurisprudenza statunitense
è molto dibattuto questo elemento oggi, perché Donald Trump usa il
linguaggio d’odio, non solo per fare propaganda ma per governare un
intero Paese. Ma come si può intervenire? La giurisprudenza statunitense,
tra l’altro, con il primo emendamento dice che la libertà di espressione
vince quasi sempre su tutto il resto. Ma anche qui devo fare dei salti.
Poi certamente ci sono degli elementi, attinenti alla giornata di oggi, che
mettono in relazione il linguaggio d’odio sia con le cause e sia con gli
effetti. Attenzione però: un problema, e continua a essere un problema, è
che non dobbiamo illuderci che possiamo fare facilmente un profiling
dell’odiatore. Spesso nei dibattiti si dice: lo hater o la hater è fatto così, ha
queste caratteristiche. No, Cathy La Torre utilizzando il materiale che ha
raccolto in questi mesi mi raccontava un mese fa che le persone contro le
quali ha sporto denuncia oggi sono quasi tutte inattese, inaspettate, non
fanno parte del classico profilo dell’hater frustrato, l’ultimo degli ultimi che
se la prende con penultimo, eccetera eccetera; no, dice Cathy La Torre che
le 500 denunce che lei sta portando avanti sono contro persone che stanno
bene, tra i 40 e 60 anni e che vivono in zone dove non ci sono quasi
problemi da un punto di vista sociale della gestione del conflitto.
Interessante. Dobbiamo rivedere l’idea anche di hater, e infatti in
linguistica, ma non solo, si pensa che sia meglio parlare di atteggiamenti di
odio, non di odiatori, cioè chiunque può incappare in questo tipo di
formulazione di espressioni. Poi, certamente, ci sono degli effetti, sono stati
studiati anche dai neuroscienziati, e non solo, dagli psicologi, dai
cognitivisti: chi riceve il linguaggio d’odio ha degli effetti di breve durata

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(rabbia, imbarazzo, perdita di autostima, scoraggiamento, eccetera) ma
anche di lunga durata (isolamento, depressione, traumi duraturi). Questo è
stato studiato. Allora la cosa interessante è che il linguaggio non è solo
linguaggio, ma diventa anche azione; se l’esito è lo stesso di ricevere un
pugno perché il trauma si avvicina al trauma generato da un’aggressione
fisica, allora evidentemente il linguaggio non è solo linguaggio. Ma sul
piano della giurisprudenza è un problema, perché spesso si dice: il
linguaggio d’odio e classificabile come tale solo se prelude a un’azione
d’odio, a un crimine d’odio; no, spesso il linguaggio d’odio non ha bisogno
di un’azione d’odio, di un crimine d’odio codificato come tale per essere
violento, e ce lo dicono appunto le ricerche di psicologia sociale.
Allora, se è una forma complessa di linguaggio, immaginiamo che sia
anche un problema di relazione. Io credo che sia una parola chiave quando
parliamo di queste cose, “relazione”, sarà la fine della mia requisitoria
oggi. E’ un problema di relazione, cioè alcuni linguistici dicono sul piano
pragmatico il linguaggio d’odio nasce quando si interrompe un dialogo,
cioè quando chi si contrappone non ha più gli argomenti e gli elementi per
continuare un dialogo, allora se non ho gli elementi cosa faccio? Insulto. Se
ho una povertà di argomentazione che cosa faccio? Insulto. E c’è un
problema enorme in questo Paese, e non solo, di educazione
all’argomentazione. Io lo dico sempre quando vado nelle scuole: va bene
l’educazione civica, ma facciamo educazione all’argomentazione, per
permettere ai nostri studenti e studentesse di individuare un argomento
debole e di poter consolidare invece un argomento forte, solido, sul piano
appunto retorico, che porti una conclusione logica. Questo è un problema.
Allora con Amnesty negli ultimi due anni io ho contribuito a formare
un’equipe di 300 persone che si chiama “Task force contro i discorsi
d’odio” che cerca quotidianamente di intervenire sui social media per

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riattivare quella comunicazione che si era interrotta. Stiamo raccogliendo
dei dati quantitativi per sapere quanto successo ha avuto questa esperienza,
non lo sappiamo ancora, tra sei mesi li avremo. Ma se è efficace
effettivamente intervenire in quel modo, cioè recuperare il dialogo quando
era perso, allora forse abbiamo uno strumento in più, un’arma in più, se lo
riusciamo a dimostrare è un successo. E poi, certo, come riconoscere il
linguaggio d'odio? Ci sono tanti elementi. Io ho parlato di un piano
lessicale, appunto l'ingiuria. Ma questo è uno degli elementi del linguaggio
d'odio ed è anche il più facile da individuare. Possiamo usare strumenti
automatici, per i social, dei filtri lessicali, per esempio, ma non basta. Ci
sono certamente, per esempio, dei livelli, come l'ironia, livelli non letterali,
e anche i livelli delle implicature o delle presupposizioni e i livelli appunto
argomentativi che non sono individuabili facilmente dalle macchine, e ci
pongono un problema: come facciamo intanto ad individuare il linguaggio
d'odio, quando non è espresso soltanto da un elemento lessicale, e poi come
facciamo ad intervenire. E questo appunto è un lavoro che stiamo cercando
di fare e chiaramente qui vado molto veloce perché il tempo scorre,
chiaramente la rete, e questo è stato detto da Giovanni Ziccardi, "L'odio
online" un libro fondamentale del 2017, e ci ha insegnato che la rete
effettivamente ha delle specificità. Il linguaggio d'odio non nasce con la
rete. Io me ne occupo da 20 anni. Il mio primo libro è del 2000 su questi
argomenti, non c'era nulla di tutto quello che noi conosciamo oggi, ma
c'erano già espressioni di linguaggio d'odio evidentemente e ho cercato di
studiarle storicamente nei miei libri. Ma certamente la rete ha aggiunto
degli elementi, li ha aggiunti. Per esempio sul piano appunto della
moltiplicazione del messaggio. Non ripeto cose che sono ormai di senso
comune. Ma anche la facilità di reiterare comportamenti ossessivi,
compulsivi e anche l'esposizione di chi è vittima di questo linguaggio

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d'odio, un pubblico che non si sa bene quale sia, uno, dieci, cento, mille.
Un analfabetismo emotivo è stato detto. La mia amica collega Vera Gheno,
Bruno Mastroianni, lavorano molto su questo in Italia, per educare sul
piano dell'uso del mezzo. Come facciamo se un cinquantenne, un
sessantenne, un settantenne si avvicina per la prima volta ai social e pensa
che sia come mandare un messaggio sul telefono? C'è qualcosa che bisogna
in qualche modo registrare. E poi certamente ci sono degli elementi molto
grossi, molto importanti. Sono stati studiati nella sociologia delle
comunicazioni, ve li lascio scorrere velocemente: il pregiudizio di
conferma, l'effetto priming, l'effetto alone, l'echo chamber, per cui noi ci
circondiamo di persone che più o meno la pensano come noi e quindi di
conseguenza la cosiddetta spirale del silenzio che, guarda caso, oggi, grazie
alle Sardine, in qualche modo si sta spezzando questa spirale del silenzio,
cioè abbiamo pensato che la rete fosse popolata da odiatori dal linguaggio
d'odio ma anche perché chi non la pensava così si poneva in silenzio,
diceva: "Se io penso di essere parte di una minoranza, e quindi di essere
attaccato, me ne sto zitto". Oggi le Sardine ci stanno dimostrando che forse
non è così, cioè che c'è comunque un grossa fetta della popolazione che
vuole essere vocal, che vuole esprimersi, vuole esprimere un'altra opinione,
la spirale del silenzio però ha agito per anni nei social media da questo
punto di vista. Qui sono degli esempi molto violenti di nuovo, una bambina
folgorata da un cavo elettrico in un campo Rom: "Una in meno. Una futura
ladra in meno. Una di meno. Ogni tanto buone notizie" eccetera. Certo c'è
un problema anche cognitivo e lo dicono di noi i neuroscienziati: lo
schermo fa lavorare il nostro cervello in modo diverso. I cosiddetti neuroni
specchio pare si attivino in modo diverso e meno se abbiamo uno schermo
davanti, invece che essere siamo in presenza di un essere umano. Non vi
sto a raccontare la storia dei neuroni specchio; in questo libro mio che ha

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citato Monica cerco di ragionarci, in queste brevi lezioni sul linguaggio, ma
è interessante perché evidentemente se il nostro cervello biologicamente
processa l'informazione in modo diverso e quindi non si cura dell'effetto
che il nostro messaggio può avere sull'altro, perché lo schermo glielo
impedisce, un effetto empatico inferiore rispetto alla presenza dell'altro,
ebbene c'è un elemento grosso importante da tenere in conto. E questo è
stato introdotto di nuovo anche nei social media. C'è un altro elemento a
cui ho fatto cenno, la sovrapposizione tra discorsi d'odio e crimini d'odio.
Le mappe dell'intolleranza di Vox Diritti stanno cercando di cartografare
l'Italia ormai da cinque anni e cioè stanno raccogliendo milioni di tweet in
alcuni periodi specifici dell'anno per capire se c'è una sovrapposizione tra
la produzione di tweet e quello che succede nell'offline, ovvero un milione
di tweet a Milano contro le donne? Perché? C'è una relazione tra qualcosa
che è successo prima o qualcosa che deve succedere? Tra il crimine d'odio
magari? Tra un femminicidio o no? Stanno cercando di correlare questi
dati. Non abbiamo una risposta definitiva, non è semplice, ma le mappe,
che vi consiglio di sfogliare online, danno molti elementi da questo punto
di vista e questi sono dati che lo hanno raccolto. Quindi abbiamo
quantitativamente dei dati che possiamo utilizzare per spiegare questo
fenomeno e però sappiamo anche che in alcuni casi sì ci sono stati dei
picchi di tweet, quindi di linguaggio d'odio online, in corrispondenza con
alcuni eventi: 150 mila tweet analizzati nel 2019, marzo-maggio, da Vox
Diritti; 40 mila sono contro le donne, 40 mila tweet su 150 mila analizzati
sono contro le donne, una percentuale molto alta. Crescono i tweet contro
le donne quando ci sono casi di femminicidio o durante il family day,
quindi casi in cui l'informazione evidentemente parla della donna e della
famiglia in un certo modo. Allora c'è uno sciame d'odio che si esercita. Ma
non è più una impressione. Ecco, abbiamo lavorato per tanti anni a livello

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impressionistico, oggi per fortuna abbiamo dei dati che ci confermano delle
tendenze che ci interrogano in modo più completo su questi fenomeni. E
una cosa a cui ho partecipato io come curatore e anche ho scritto una parte
del rapporto, il barometro dell'odio di Amnesty 2019 in cui invece si è
lavorato su Facebook, lavorando su tutti i contenuti prodotti dai candidati
alle elezioni europee e anche sui primi 500 commenti dei loro followers per
ogni contenuto, per capire se c'era una relazione tra il loro linguaggio
d'odio e quello poi esercitato dai followers. Anche qui stiamo producendo
dei dati interessanti. Ebbene, le donne sono uno dei più importanti, tra
virgolette, target di odio, questo lo sapevamo già, ma di nuovo abbiamo dei
dati, e la cosa interessante è che, se noi andiamo a scorporare i dati che
abbiamo trovato, vi faccio vedere questi, le donne sono nel mirino e sono
bersaglio dei commenti degli utenti, non soltanto di altri politici o di altre
persone, ma negli utenti si produce di nuovo.. anche qui si producono dei
picchi interessanti e tra l'altro i commenti negativi in qualche modo a
spirale di nuovo continuano a generare commenti negativi. Cioè è
interessante perché, lo intuivamo, adesso di nuovo abbiamo dei dati per
cercare di capire se ci sono dei punti di partenza e come si allargano queste
spirali d'odio. Vi invito a sfogliare questo rapporto che è assolutamente
accessibile online. Per andare verso una conclusione ancora due cose vorrei
dire. Vi dicevo che stiamo facendo moltissimo lavoro di raccolta dati e di
analisi. Certamente c'è un elemento lessicale che è il primo e più facile da
individuare, ci abbiamo lavorato per tanti anni, con dei filtri automatici,
con una ricerca anche qualitativa, anche i dizionari pre-social, diciamo così,
individuavano alcune parole chiave intorno a cui si esercitava il linguaggio
d'odio, per esempio questo è tradotto dall'inglese, insomma, li leggete
anche voi gli esempi. Io non li leggo e vi dico anche il perché, mi è capitato
di leggere queste parole in un'aula e offendere delle persone e questo ve la

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dice lunga; io lo facevo da scienziato, diciamo così, in modo neutrale,
eppure solo la lettura di quegli insulti, di quelle parole esercitava una
violenza verso alcuni soggetti. Questo per farvi capire che non siamo tutti
vittime allo stesso modo, ci sono dei soggetti verso i quali queste parole qui
esercitano una violenza maggiore, anche per motivi storici, anche per
motivi sociali, e qui appunto gli studi si moltiplicano anche in questo caso.
Una cosa che non ho, scusate, questo non è un esempio legato al genere,
alla violenza sulle donne, bisognerebbe poi lavorare anche sulle cosiddette
collocazioni, qui i linguisti computazionali lo sanno fare molto bene, cioè il
testo non è solo una somma di lemmi, ma la semantica di una parola
cambia a seconda delle parole che stanno a sinistra o a destra di questa
parola. Allora, con grandi corpora di dati, milioni di testi, noi possiamo
individuare delle tendenze. Questa è una tendenza che non riguarda le
donne, ma ve l'ho messa perché viene da una ricerca interessante: dieci anni
di stampa britannica sulle migrazioni, un collega di Oxford, un mio amico
che ha fatto questa ricerca molto ampia e ha scoperto che "migration" che
in isolamento può anche avere un significato neutro, però nella maggior
parte dei casi era associata a dei verbi di reclusione e di contenimento e
allora ecco che la parola singola non necessariamente ci individua qualcosa
sul piano semantico, dobbiamo ragionare sulla semantica estesa del testo e
questo ce la dice lunga anche sul fatto che c'è questo "donna" in termine
neutro, non connotato, ma se nel testo troviamo una aggettivazione di un
certo tipo, dei verbi di un certo tipo, chiaramente anche quella semantica
cambia. Allora un lavoro esteso sul testo e di codifica del testo. Poi c'è un
elemento di framing, qui siamo nella sociologia delle comunicazioni, che è
un po' l'impacchettamento e qui faccio una parentesi sui media appunto. Il
framing, ci viene spiegato, è il primo modo in cui noi recepiamo un
contenuto, per esempio un titolo di giornale o una fotografia su una prima

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