LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli - LA DONNA ABITATA

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LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli - LA DONNA ABITATA
LA DONNA ABITATA di Gioconda
Belli
LA DONNA ABITATA

di Gioconda Belli

ed. e/o

Cos’ è una Donna abitata? Il titolo di questo romanzo ci pone
già da solo tante domande; poi la primissima frase, breve e
misteriosa:

                    All’albeggiare emersi

Non è facile agganciare un lettore con solamente sei parole,
eppure Gioconda Belli ci riesce benissimo: immediatamente ci
cattura e ci trasporta in un mondo lontano ferito da invasioni
e dittature.

La donna abitata è un romanzo a due voci, con due protagoniste
nate e cresciute in epoche diverse ma accomunate dal vivere
un’appassionante storia d’amore e dal combattere contro
l’oppressione.

Gioconda Belli ci parla d’amore e ribellione come facce della
stessa medaglia, una medaglia che in qualunque modo cada, è
simbolo di passioni forti.

Le pagine scorrono sotto i nostri occhi con un crescendo
LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli - LA DONNA ABITATA
inesorabile; le fluide frasi della Belli ci descrivono la
donna albero che ricorda, vigila e penetra con il succo delle
sue arance e il profumo delle zagare, un’altra donna che
emerge dal limbo dorato dov’era sempre vissuta.

Il Nicaragua è un Paese i cui abitanti sono quasi avvezzi alla
violenza, ma che la violenza non accettano.

Per quanto si eviti di vedere la violenza, la violenza viene a
                          cercarti.

   Qui ne abbiamo tutti una dose assicurata per diritto di
                         nazionalità.

                  Uno o la subisce o la fa.

O comunque, se a te non fanno niente, la fanno ad altri, ed è
               lì che interviene la coscienza.

   Perché se uno permette che la facciano ad altri diventa,
               dichiaratamente o no, complice.

I contrasti di questa nazione che balzano agli occhi sono
netti e duri e accentuano il realismo che permane lo stile di
questo romanzo. Di quando in quando però, parentesi magiche
ne fanno un vero gioiello della letteratura sudamericana.

Un fatto curioso mi è successo mentre leggevo le prime frasi
di questo libro: mi sono resa conto che pochissimi giorni fa
avevo letto e qui recensito, L’isola degli alberi scomparsi,
anche qui una delle voci narranti è rappresentata da un
albero, in questo caso una pianta di fico. Tra i libri c’è
sempre un legame che unisce le storie, più o meno visibile.

La donna abitata è un libro poco conosciuto, da condividere e
da leggere a voce alta.
LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli - LA DONNA ABITATA
SINOSSI

Itzà è una guerriera india che rivive come linfa di un albero
di arance che cresce nel giardino di Lavinia, donna moderna di
nobili origini che si ritrova a combattere contro il regime
dittatoriale sandinista.

Sullo sfondo di un Paese pieno zeppo di contrasti, sfruttato
da feroci conquistatori e dilaniato da guerre civili, si
snodano due appassionanti, ma non scontate, storie d’amore.

La    voce                      delle              case
abbandonate                       di              Mario
Ferraguti

Piccolo   saggio della  collana
Piccola filosofia di viaggio di
Ediciclo Editore

Viviamo sommersi di parole, circondati da notizie, bersagliati
da informazioni e leggere il saggio La voce delle case
abbandonate di Mario Ferraguti è un viaggio nel silenzio e
nelle storie nascoste tra le mura delle case abbandonate.

Chi non si è mai chiesto, passando accanto ad una casa in
rovina, che fine abbiano fatte le persone che la vivevano,
dove siano finite quelle storie, quali ricordi siano legati a
quelle mura?

Mario Ferraguti ci prende per mano e ci porta ad ascoltare la
voce delle case abbandonate, il vento che parla passando
attraverso le fessure, le porte spalancate, le finestre
aperte, i tetti crollati, dove anche i colori parlano perché
lentamente si trasformano e, da vividi e svegli, sembrano
addormentarsi e addomesticarsi alla natura prendendo, giorno
dopo giorno, i colori della terra, le sfumature tra il rosso e
il marrone fino a diventare briciole di passato, fino a
tornare alla polvere.
La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti edito da
Ediciclo Editore
E poi ci sono gli oggetti. Tutti quei piccoli oggetti
dimenticati e lasciati lì, che hanno atteso per lungo tempo il
ritorno dei proprietari per poi rassegnarsi al loro destino e
confondersi con le pareti, con la natura, con le voci della
casa. Gli oggetti parlano, del loro passato, delle storie che
li hanno resi protagonisti, che li hanno visti al centro di un
interesse per poi trovarsi riversi sul pavimento per decenni,
dimenticati ma non privi di memoria.

La voce delle case abbandonate è un libro piccolo per
dimensioni ma intenso per lo stile e la purezza dei sentimenti
che ci regala e per la capacità di riportarci, come un
violento pugno allo stomaco, a come tutto ciò che ci circonda
sia destinato, in modo naturale, al declino, alla fine, alla
morte.

  Ci sono stanze che si trasformano in isole nel vuoto, luoghi
  che restano sospesi al nulla, frequentati soltanto da chi sa
                            volare.

È proprio nelle pareti, le ultime a disfarsi e sbriciolarsi,
che restano per un tempo più lungo, i ricordi e la voce di chi
tra quelle mura è stato felice, ha riso, scherzato, è nato ed
è morto. I muri delle case abbandonate meritano rispetto
perché raccontano gli ultimi respiri di chi ci ha preceduto e,
esattamente come tutti noi, è stato felice, ha sofferto e ora
è parte del passato. Vivere per passare oltre, verso quella
natura implacabile e bellissima che ci ricorda quanto sia
semplicemente meravigliosa la vita.

      Le case abbandonate spesso sorridono; danno come una
   sensazione di bellezza perché loro e tutto quello che c’è
  attorno a loro sembra che siano diventati vecchi insieme. I
  sassi, i legni, i vetri, il ferro che hanno addosso si sono
    trasformati proprio in quelli giusti e finalmente stanno
     bene, hanno dimenticato ferite e amputazioni di seghe,
 martelli, fori di chiodi e sono sereni, si lasciano andare al
tempo che vuol dire consumarsi adagio.

La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti
Edito da Ediciclo Editore

LA MORTE DELLA LUNA di Silvia
Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la
bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo
scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi,
così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato,
poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel
volto rigido un’espressione terrificante.

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito
usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre.
Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede
peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che
avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa
sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in
scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò
il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a
un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un
cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di
velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò
Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che
stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta:
“Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse
l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può
fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina
compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il
posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però
che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di
scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.
“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto
di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo
soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché,
ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello
che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci
fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il
cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso
la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si
riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada.
Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il
volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere
l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire
ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla
cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante
sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo
indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca
della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla
aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo,
ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non
si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non
dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande
ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero
era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di
scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui”
disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli
segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e
suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!”
disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi
spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo,
mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla
contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli
occhi chiusi per il dolore.
“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al
posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia
color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi
al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese
subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima”
disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva
capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a
rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non
aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le
passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si
rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a
capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove
era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni
e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci
della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno
aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata
accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano
cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso
ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto
sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a
fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i
loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra
i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e
guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo”
disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano
tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con
suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si
alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per
bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La
massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come
prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il
cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò
all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la
capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna
risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare
le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare
ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla
indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la
testa con le braccia, come per proteggersi.
“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a
te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non
voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per
un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero,
posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a
sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il
bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe
rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise
a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione:
le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando
aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato
le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase
sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere,
perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse
l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna
parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il
finestrino.

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno,
si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun
caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad
illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio
numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci,
altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non
possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la
chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una
dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio,
almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado
a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di
guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non
si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla
non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La
sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più
fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza
delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a
salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però,
riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per
mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e
l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni
lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra,
battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò
carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani
tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un
insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su
qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le
mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia.
Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore
acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un
polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto
più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le
sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano
le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di
più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana
creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come
risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore
nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva
ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola
luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla
roccia che la separava da quella fiammella e si diede una
spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra
di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più
venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.
“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello
nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere
già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna.
E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie
spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea
le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino.
La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse
da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il
cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce
si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e
brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la
sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e
lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un
turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e
una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli
occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo
ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese
Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse
il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore
cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di
loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube
era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero.
Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante.
Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano
intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!”
disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio
della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si
avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare:
la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo
indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei.
La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della
notte e fu buio per sempre.
L’ISOLA     DEGLI    ALBERI
SCOMPARSI di Elif Shafak
L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI

di Elif Shafak

Ed. Rizzoli

Il tempo umano è lineare, un continuum uniforme tra un passato
  teoricamente finito e concluso e un futuro che si ritiene
                     intatto, immacolato.

  Il tempo arboreo è ciclico, ricorrente, perenne; passato e
 futuro respirano in un unico istante, e il futuro non scorre
               per forza in un’unica direzione…

   Sono incompatibili, il tempo umano e il tempo vegetale.

L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak è una bella
lettura; la copertina mi aveva colpito mentre spulciavo in una
libreria del quartiere romano del Testaccio. Lì per lì non
l’ho acquistato, ma mi è rimasto dentro; poche settimane dopo
l’ho ritrovato a casa di una cara amica, preso in prestito e
letto, subito, tutto d’un fiato.
L’immagine rappresenta una pianta di fico, nata e cresciuta a
Cipro, al sole, al caldo, tra amori, guerre, felicità e
disperazione.

La pianta viene trapiantata in Inghilterra, rappresenta un
filo che mantiene unite persone e ricordi di una terra
lontana; il freddo e la nebbia non le hanno impedito di
continuare a vivere, silenziosa testimone di dolori e gioie,
nascite e morti.

Elif Shafak ci racconta le storie di famiglie, di amanti e di
amici a Cipro, nella sua capitale Nicosia: l’unica città al
mondo ancora divisa in due da una guerra che non ha riportato
vittorie, ma solo sconfitti.

Due sono le voci narranti in questa storia: inizia Ada figlia
di un amore che non conosce confini, etnie e religioni. Poi
segue la pianta di fico, che fa da filo conduttore, osserva e
vede tutto, ricorda. Un velo di mistero circonda questa pianta
che sembra avere un’anima umana.

  L’amore è una spavalda affermazione di speranza, e quando
 comandano morte e distruzione non si abbraccia la speranza.

  Non si indossa il vestito più bello e non ci si infila un
   fiore tra i capelli quando si è circondati da schegge e
                           rovine.

    Non si regala il cuore quando ogni cuore deve restare
 sigillato, e soprattutto non a quelli che non credono nella
 nostra religione, non parlano la nostra lingua, non sono del
                        nostro sangue.

L’isola degli alberi scomparsi è scritto in modo liscio, non
stucchevole né tantomeno lamentoso.
Ci immerge in vite segnate, a volte mortalmente, da un
conflitto senza ragioni, perché la guerra non ne ha mai.

Elif Shafak ci fa commuovere, sperare e anche assaporare usi e
costumi di popoli in effetti neanche troppo lontani; in questa
bella storia, non ci sono né greci, né turchi, ma solo
isolani, ciprioti.

Dopo il primo breve capitolo che fa da introduzione e anche
quasi da riassunto, ci ritroviamo in una classe di un liceo, a
fine 2010, a Londra: Ada, una delle due voci narranti, 16 anni
all’improvviso emerge dal suo silenzio, e urla.

Un urlo che sconvolge chi ha intorno, un urlo che chiede
verità, perché solo la verità potrà permettere ad Ada di
superare la perdita e guardare fiduciosa verso il suo futuro.

Ho riflettuto molto sul titolo di questo romanzo, perché a
Cipro non sono scomparsi gli alberi, a Cipro sono scomparse le
persone.

SINOSSI

Siamo a Londra, e qui vive Ada, figlia sedicenne di Kostas,
esule greco fuggito da Cipro durante la guerra.

Nella loro casa c’è una pianta di fico, sopravvissuta grazie
ad una talea, trasportata nella stiva di un aereo e
trapiantata a Londra; unico legame con quella terra dilaniata
dal conflitto, e con quelle famiglie divisa da usi e
religione.

A casa di Ada e Kostas arriverà improvvisamente Meryem,
sorella di Dafne la madre turca cipriota di Ada, morta da
pochi mesi.
Grazie alla zia, inizialmente quasi odiata, Ada prenderà
consapevolezza delle sue origini e acquisterà quella coscienza
di sé che gli era stata inibita da anni di silenzi.

FUORI PORTA – Il cibo visto
da vicino, a Sezze la mostra
fotografica di Alessandro Di
Norma
Sarà inaugurata domani 17 dicembre 2021, alle ore 18.00 presso
il Museo Archeologico di Sezze – Sala del Mosaico – la mostra
fotografica di Alessandro Di Norma: “Il cibo visto da vicino”.

Si tratta di una selezione di 20 fotografie inerenti il cibo
della “Terra del mito”, cioè quel comprensorio che ricade nei
territori delle città arcaiche dell’Agro Pontino: Anxur,
Circeii, Cora, Norba, Setia, Privernum. Si tratta di una
ricerca fotografica cominciata nel 2016 ed in parte pubblicata
nel libro di Roberto Campagna che ha proprio come titolo: A
tavola nella terra del mito (Ponte Sisto, 2018). Questa
ricerca ha l’obiettivo di catturare i cibi meno conosciuti e
più caratteristici di tale territorio e lo fa utilizzando una
luce tutta particolare: le foto, infatti, possiedono tagli di
luce “caravaggeschi” volutamente ricercati dall’autore.
Tecnica utilizzata per mettere in risalto l’essenza e la
storia del cibo stesso.

 “Il cibo – dice Alessandro Di Norma – è storia, cultura,
 tradizione, fatica, ricchezza, miseria, orgoglio, benessere.
È tutto ciò che produce legami sociali; è ricordo, speranza,
 amore, dolore e fotografarlo vuol dire assumersi la
 responsabilità di raccontare tutto questo. Vuol dire
 sporcarsi con la stessa terra arata dal contadino;
 impolverarsi con la stessa farina del fornaio; avere le mani
 appiccicose che conosce solo chi ha appena raccolto un
 grappolo d’uva; soffrire lo stesso sonno dei pastori; la
 stessa sete dei raccoglitori di pomodori. Avere la capacità
 di centellinare l’alcol per ricavarne profumati liquori o la
 pazienza per staccare gli stimmi dei crochi per farne il
 prezioso zafferano. Sentire addosso le incertezze dei
 pescatori; provare il senso di impotenza dopo una grandinata
 che ha distrutto un raccolto… Dietro l’obbiettivo della
 macchina fotografica tutto questo si ferma. La luce trasforma
 l’attimo in soggetto e il momento in storia raccontata”.

La mostra rientra nelle attività previste per il Natale Setino
2021/2022 ed ha il patrocinio del Comune di Sezze e della
Compagnia dei Lepini, resterà aperta fino al 25 febbraio 2022,
orario mercoledì, giovedì, domenica ore 9.00/13.00- venerdì e
sabato: 9.00/13.00 – 15.00/19.00

Presentazione                       di  “Fuori
dall’ombra e                       al chiarore
delle parole”
Antologia opere vincitrici XXVIII
edizione     Premio    Letterario
Internazionale Città di Pomezia

Presentazione di “Fuori dell’ombra e al chiarore delle
parole”, Quaderno N. 1 del Centro Studi Sisyphus del Comune di
Pomezia, antologia delle opere vincitrici della XXVIII
edizione del Premio letterario internazionale Città di
Pomezia.

Sabato 18 dicembre alle ore 17.00 presso il Museo Città di
Pomezia Laboratorio del Novecento. Interverranno la vice
Sindaco Simona Morcellini, la direttrice del Centro Studi
Sisyphus Fiorenza Castaldi, lo storico e critico letterario
Massimiliano Pecora e il poeta e musicista Giorgio Mattei.

La cittadinanza tutta è invitata a partecipare.

Ingresso libero fino a esaurimento posti. Obbligo di green
pass rafforzato.
Natività di Gesù: le immagini
più antiche
A quando risale la prima rappresentazione della natività di
Gesù?

Le più antiche testimonianze le troviamo nelle Catacombe di
Priscilla, sull’antica via Salaria, a Roma. Esse risalgono a
un periodo tra il II e il III secolo dopo Cristo.

Eccole a voi: una è l’Adorazione dei Magi, l’altra è la
Madonna col Bambino e il profeta Balaam che addita una stella,
ricordandoci la sua profezia: “una stella spunta da Giacobbe e
uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17).

Quest’ultima è anche la più antica immagine di Maria che ci
sia pervenuta!

Immagine dal web: romafelix.it
Immagine dal web: ilmattino.it

Le catacombe di Priscilla sono tra le più antiche di Roma e si
dipanano su vari livelli per circa 13 chilometri.

Ci troviamo a circa 20 metri sotto terra, tra i cunicoli e le
interminabili gallerie realizzate a partire dal II secolo
utilizzando ambienti preesistenti, come l’ipogeo con le tombe
degli Acili Glabrioni.

La Gens degli Acili Glabrioni era la famiglia di Priscilla,
colei che concesse l’area per la realizzazione del cimitero
cristiano.

Romana, moglie di un senatore, Priscilla protesse i primi
cristiani dalle persecuzioni e ne accolse i corpi in queste
cave di tufo di sua proprietà.

Molte furono le donne patrizie o comunque di alta estrazione
sociale, che nell’antica Roma imperiale furono profondamente
toccate dall’annuncio evangelico del Cristo e si profusero in
donazioni e forme varie di partecipazione e sostegno alla
nuova religione dal richiamo escatologico, che prometteva una
vita di gioia e di ricompensa oltre il travaglio della vita
terrena.

Una seconda tappa di questo ideale viaggio romano alla ricerca
delle più antiche immagini del Natale ci porta alla basilica
paleocristiana di S. Maria Maggiore.

Nell’anno 431 il Concilio di Efeso proclama Maria definendola
con l’appellativo di “Theotòkos”, cioè Madre di Dio.

Il papa Sisto III ricostruisce immediatamente l’antica
basilica già iniziata da Papa Liberio nel 352, dedicandola
proprio a Maria e rivestendola di splendidi mosaici d’oro.

Nella navata centrale scorrono, in splendidi mosaici del V
secolo, le storie dell’Antico Testamento.

Gli episodi evangelici sono rappresentati nell’arco trionfale,
con colori vivaci e una grande vitalità, realizzati sempre nel
V secolo.

Il mosaico dell’abside risale invece alla fine del XIII
secolo, a opera di Jacopo Torriti, esponente della scuola pre-
giottesca romana.

Qui ammiriamo gli episodi più importanti della vita di Maria e
dell’infanzia di Gesù, culminanti nell’Incoronazione della
Vergine.

Ma ecco il nostro punto di attenzione: sotto il catino
absidale compare la scena della Natività.
Immagine dal web: Hypotheses.org

Ai più attenti di voi non sfuggirà l’assoluta innovazione di
questa rappresentazione, cui spetta il primato         per   la
realizzazione di un “Presepe” vero e proprio.

Il Bambino, la mangiatoia gemmata, le bianche vesti, i quattro
angeli, la stella, i Magi in abiti preziosi. Tutto è simbolico
e allo stesso tempo vivo e concreto.

Maria è semi-sdraiata, come è naturale per una donna che ha
appena partorito, ma nello stesso tempo appare circonfusa di
umana regalità.

Giuseppe, seduto in basso, è rappresentato come sovrastato
dalla potenza divina di quanto sta avvenendo…

Ecco affermarsi in questa iconografia il senso del compimento:
si compie una promessa che potremmo laicamente definire
apocalittica, ovvero di rivelazione:
“Un bambino è nato per noi, sulle sue spalle è il segno della
 sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente,
   Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo
            dominio sul trono di Davide” (Is.9,5-6).

di Maria Cristina Zitelli

Gli invisibili                         di       Pajtim
Statovci

Guerra e disperazione. Solitudine e
odio. Amore e passione.

Gli invisibili di Pajtim Statovci narra la storia di due
giovani ragazzi degli anni ’90. Il caso li fa incontrare al
tavolino di un bar di Pristina e tra loro scatta il classico
colpo di fulmine che li porta a vivere una grande e intensa
storia d’amore ma anche ad essere costretti ad essere
invisibili agli occhi di tutti perché Arsim e Miloš non solo
sono due uomini ma il primo è albanese mentre l’altro è serbo.

Invisibili perché uomini e invisibili perché nemici, eppure la
passione e i sogni che uniscono Arsim e Miloš sono semplici e
puliti e contrastano con la violenza che alimenta l’odio tra
le due culture e la ferocia delle tradizioni che non offre mai
una via d’uscita.

Arsim studia per diventare cardiochirurgo mentre Miloš,
sposato e con figli, insegue il sogno di diventare scrittore.
Si amano dietro la porta del piccolo appartamento di Miloš che
diventa così quel luogo magico, fuori dal mondo, dove
immaginare quel futuro impossibile.

  Non andiamo mai da nessuna parte, nemmeno a fare due passi,
    non nutriamo speranze di una vita al di fuori di queste
         quattro mura perché semplicemente non esiste.

Gli invisibili è un romanzo duro, schietto, che lascia
intendere come non sia possibile alcun lieto fine laddove i
limiti e quello stato di invisibilità nasca dai limiti stessi
degli esseri umani. Il genere umano che marchia, per sempre e
da sempre, altri esseri umani rendendo di fatto impossibile
qualsiasi, se non rara, possibilità di riscatto.

Nel romanzo, ad un certo punto, i due uomini si lasciano per
seguire percorsi diversi. Arsim resta a Pristina mentre Miloš,
con la famiglia, si rifugia all’estero in un paese non
identificato. E anche in questo paese, europeo e “civilizzato”
si ritrova la stortura dell’uomo di lasciare nell’invisibilità
altri esseri umani perché considerati stranieri, diversi e,
quindi, pericolosi.

Ajshe, la moglie di Miloš, nell’affrontare le insegnanti dei
figli, reclama con forza la violenza che viene fatta loro di
marchiare i normali disagi adolescenziali nascondendoli in una
forma di razzismo.

  “Gli insegnanti direbbero che gli insuccessi sono dovuti al
  bilinguismo se la nostra madrelingua non fosse l’albanese?”

Gli invisibili è impostato con le due voci narranti dei
protagonisti che si alternano su diversi piani temporali e
evidenziate anche da un differente carattere di stampa che
sembrano rafforzare ancora di più le distanze.

L’incipit richiama subito alla guerra introducendolo come un
altro protagonista del romanzo. Una guerra che non usa solo
armi da fuoco ma si delinea in una lotta quotidiana e
individuale che soffoca, deride, isola e uccide, in una
battaglia continua e difficile di chi tenta in tutti i modi di
esprimere sé stesso e raggiungere i propri sogni ma resta
imbrigliato, prigioniero a vita, di una gabbia costante che
rende l’uomo invisibile agli altri.

  “Ho visto uccidere un uomo, ho visto sulla strada il braccio
  di un soldato, sembrava un luccio cavato fuori dalla terra,
    ho visto fratelli separati alla nascita, case bruciate ed
  edifici crollati, finestre sfasciate, stoviglie rotte e roba
  rubata, tanta di quella roba che non crederesti a quanta ne
 rimane quando la vita tutt’attorno è presa a calci, anche gli
        oggetti muoiono quando vengono sottratti al loro
                         proprietario.”

Gli invisibili di Pajtim Statovic
Edito da Sellerio Editore – agosto 2021
traduzione di Nicola Rainò
La libertà il tema centrale
di Più Libri Più Liberi
Prosegue fino all’8 dicembre la XX edizione della Fiera
Nazionale della Piccola e Media Editoria

Nel polo congressuale de La Nuvola a Roma si è inaugurata
sabato 4 dicembre Più Libri Più Liberi, l’evento editoriale
più importante della Capitale, dedicato agli editori
indipendenti italiani e organizzato dall’Associazione Italiana
Editori AIE.

Il tema per questa edizione è la libertà, un concetto insito
nel nome stesso della manifestazione che sottolinea la grande
forza liberatoria dei libri.

Grande affluenza di pubblico durante il fine settimana
monitorati da un meticoloso servizio di sicurezza interno per
evitare assembramenti sia nell’area ristoro che nell’area
espositiva, ma che non è riuscito a dissuadere i tantissimi
estimatori di Zerocalcare che non solo hanno acquistato i suoi
libri ma hanno preso un numero per ordinarsi in fila e
attendere il proprio turno pur di avere una dedica
personalizzata.

Di sicuro la serie televisiva Strappare lungo i bordi appena
uscita su NetFlix ha portato alla ribalta il talentuoso
fumettista romano Zerocalcare. E come dichiara la fascetta sul
primo volume pubblicato 10 anni fa e ora ristampato dalla casa
editrice Bao

   “Diteglielo, a tutti quelli che credevano che sarei durato
                           sei mesi!”

Il successo dei fumetti (o grafic novel usando una anglicismo
più di tendenza) e dei manga giapponesi, rivela come il
linguaggio sia in continua evoluzione e come diventi
fondamentale, per il mondo della cultura e dell’editoria,
riuscire a intercettare ciascun segnale arrivi dalla società
capace di creare un canale di comunicazione per veicolare il
proprio messaggio.

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I libri raccontano. Sempre. Sia che parlino attraverso la
prosa, i versi o arricchiti da disegni. Ciascun libro mira a
identificare, raccontare e veicolare un messaggio, che sia
introspettivo, di formazione o di approfondimento.

L’obiettivo primario di eventi culturali come Più Libri Più
Liberi è proprio quello di creare un canale connettivo tra
prodotto e fruitore, cioè tra casa editrice e lettore.

Quale libro sia il migliore in assoluto, per fortuna, non è
dato di sapere.
La presenza nella letteratura di capolavori indiscutibili non
è in discussione sebbene solo l’audacia del giornalista
Corrado Augias poteva pensare di parlare del libro dei libri,
la Bibbia definendolo

 “per noi laici un manuale di psicologia. Dice più dell’essere
                     umano che non di Dio”

invitando a una lettura, anzi rilettura e conoscenza del
passato per meglio comprendere e affrontare il presente.
Davanti all’affollatissima platea dell’Arena Robinson,
dialogando con Dario Olivero, responsabile culturale Robinson,
Augias non ha perso l’occasione di dichiarare, riguardo la
questione dei vaccini, come “Noi siamo un’élite perché siamo
qua a seguire due signori che parlano cercando di capirli
invece di andare a fare shopping. Noi sappiamo che la Terra è
tonda” sottolineando così la necessità di andare oltre la
superficie dell’informazione arrivando fino alla conoscenza.

Perché    le   notizie    ci  informano     ma   è  solo con
un’approfondimento distaccato e pacato che possiamo giungere
ad una conoscenza ed è la conoscenza a renderci liberi.
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Le occasioni di approfondimento sono molteplici a Più Libri
Più Liberi che prosegue il suo ricco calendario fino a
mercoledì 8 dicembre.

Prima di avventurarsi calamitati dai tantissimi singoli stand
e dagli spazi regionali che raggruppano al loro interno
ulteriori case editrici, è consigliabile visionare il
meticoloso calendario, (lo trovate qui) che riporta
presentazioni di libri, dibattiti, incontri culturali e firma
copie e segnarsi gli eventi da non perdere.

CORNETTI AL SESAMO CON BACON
E GRANA
“UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…”

DICEMBRE: CORNETTI AL SESAMO CON BACON E GRANA

Per questo mese di Feste e, speriamo, di cene e riunioni tra
amici e parenti, vi propongo la ricetta di uno stuzzichino, o
finger food, o antipasto, oppure anche merenda: i cornetti di
sfoglia.

Credo che tutti dovremmo avere sempre in frigo un paio di
rotoli di pasta sfoglia, rotonda o rettangolare non importa,
perché ci aiuta a mettere in tavola in pochissimo tempo
qualcosa di buono da mangiare, utilizzando anche qualche
avanzo di affettati o formaggi che si annoia da due tre
giorni, in un angolo del frigo.

Li ho proposti qualche anno fa in varie occasioni, inutile
dirvi che non avanzano mai e che risultano graditissimi a
grandi e piccini.

Proprio in vista del Natale e dell’Ultimo dell’anno,
sicuramente capiterà a casa nostra qualche amico con cui
prendere un aperitivo, con i cornetti di sfoglia in pochi
minuti, lo renderemo felice.

INGREDIENTI per 12 cornetti:

1 rotolo di pasta sfoglia rotonda

1 confezione di bacon a fette

un pò di grana padano o parmigiano

1 uovo

semi di sesamo

PROCEDIMENTO:

Srotolate la pasta sfoglia su un piano liscio lasciandola
sulla sua carta forno, dividetela in quattro spicchi e poi
ogni spicchio in tre.

Nella base di ognuno dei 12 triangolini che avrete ottenuto (
se li volete più piccoli in ogni quarto ricavatene 4)
appoggiate mezza fettina di bacon arrotolata e un pò di grana.
Poi, partendo sempre dalla base, arrotolate delicatamente
verso la punta in modo da ottenere facilmente un cornetto cui
dovrete solo piegare le estremità per dargli la giusta forma.
Mano mano che li fate, appoggiateli sulla teglia del forno
ricoperta di carta, poi spennellateli con l’uovo sbattuto e
cospargeteli con i semi di sesamo.

Cuocete in forno statico o ventilato a 200° per pochi minuti,
saranno pronti quando li vedrete belli gonfi e dorati.

Fateli stiepidire e serviteli facendo attenzione ad
appropriarvene di uno subito, il vassoio rimarrà vuoto in men
che non si dica.

Potete variarne la farcitura sostituendo il bacon con del
salmone affumicato oppure con un’acciuga sott’olio.

Se decidete di prepararli per la merenda, farciteli con della
Nutella o marmellata, spennellandoli con del latte          e
spolverizzandoli a fine cottura con lo zucchero a velo.

Se per uno strano caso dovessero avanzare, conservateli in un
pò di carta di alluminio in frigo, il giorno successivo
scaldateli in forno per pochissimi minuti.

RiScatto presenta la seconda
edizione del Latina Photo Day
L’Associazione Fotografica RiScatto presenta la seconda
edizione del Latina Photo Day: questa volta ben 2 giorni
dedicati alla fotografia e alla cultura fotografica!
Il calendario per i giorni sabato 4 e domenica 5 dicembre è
ricco di eventi: mostra fotografica, workshop, letture
portfolio, talk di fotografia sociale e LAB FIAF.
Negli spazi dell’Ex Cinema Enal a Latina Scalo verrà allestita
la mostra fotografica “R-esistenze, storie di occupazioni” del
fotografo Giulio Di Meo il quale sarà presente all’evento
anche con il workshop “Phototelling: narrare con le immagini”
e con il talk “Il fattore umano: la fotografia sociale”.
Massimiliano Tuveri e Claudia Ioan, entrambi fotografi
professionisti Certified By Leica e docenti di fotografia
della FIAF, saranno disponibili per le letture dei portfolio
fotografici, guideranno il LAB di Cult FIAF “Clima, ambiente e
futuro”, e terranno il talk “Obiettivo uomo: la fotografia
sociale contemporanea”.
L’evento, gratuito e aperto a tutti, è organizzato in
collaborazione con “Insieme per Latina Scalo” e patrocinato
dal Comune di Latina e FIAF.

Le attività saranno ospitate negli spazi dell’Ex Cinema Enal
in via della Stazione a Latina Scalo (accanto alle Poste), e
l’evento è inserito all’interno del progetto Officine di Città
promosso dal Comune di Latina.
Ricordiamo che è OBBLIGATORIO IL GREEN PASS, che sarà
controllato all’ingresso, così come la mascherina e il
distanziamento.

IL   GHETTO   INTERIORE                                  di
Santiago H. Amigorena
IL GHETTO INTERIORE

di Santiago H. Amigorena
Ed. Neri Pozza

C’è una cosa che veramente mi piace fare: rovistare e
curiosare nelle bancarelle del mercato che vendono libri,
usati. Grazie ad una mia carissima amica, ho ripreso da poco
tempo questa sana abitudine e, come posso, vado alla ricerca.
Di cosa? Vi chiederete. Beh, chi rovista tra i volumi, aspetta
il richiamo di quel titolo, o di quella copertina, o di
quell’incipit particolare. Appena lo trova, lo agguanta e lo
tiene ben stretto, per paura che qualcun altro, appassionato
come lui, o lei, glielo sottragga.

Questo mi è recentemente successo con il libro che vi propongo
questa settimana, Il ghetto interiore ha catturato la mia
attenzione soprattutto per la casa editrice: Neri Pozza è una
delle mie preferite. Poi anche per la frase in quarta di
copertina:

                “Una delle cose più terribili

             dell’antisemitismo è non permettere

                 a certi uomini e certe donne

             di smettere di pensarsi come ebrei,

            è confinarli al di là del loro volere

                in quell’identità, è decidere,

                 definitivamente, chi sono”.

In questo romanzo si vive la tragedia dell’ Olocausto da
lontano: Vicente emigra in Argentina da ragazzo quando il
sentore della tragedia era ancora molto flebile. Si sposa,
inizia un’attività commerciale, esce con gli amici, fa la
bella vita, è libero. Prova, senza molta convinzione, a farsi
raggiungere dai suoi familiari, ma il ricongiungimento non
avviene, non avverrà mai.

La corrispondenza con sua madre si affievolisce sempre più,
finchè un giorno, all’inizio del 1940, Vicente riceve da lei
una lettera drammatica. L’odio razziale in Polonia e nel resto
dell’Europa è esploso, gli ebrei iniziano ad essere
perseguitati, poi affamati, deportati e uccisi.

Il parallelismo tra il momento in cui il protagonista esce a
cena con gli amici e nello stesso tempo i generali delle SS
ideano il piano per sbarazzarsi di un milione di ebrei, è
sconvolgente.

Le lettere sono sempre più sporadiche e devastanti, Vicente
torna ad essere Wincenty; non più il marito, il dandy, il
padre, ma solo Wincenty l’ebreo polacco.

Oltreoceano non si voleva vedere, o si faceva finta di non
vedere ciò che stava succedendo in Europa, i fuggitivi
superstiti portavano notizie talmente terribili alle quali gli
americani stentavano a credere.

Ho letto tanti romanzi sulla deportazione e sull’ Olocausto,
ma in queste righe c’è un valore aggiunto alla sofferenza: il
senso di impotenza di Wincenty che lo condurrà poco a poco al
mutismo e all’isolamento dagli altri, sfinito dal non essere
in grado di fare qualcosa.

             “Il ghetto è come un sacco di semi.

I tedeschi, di tanto in tanto, mettono la mano nel sacco e ne
                      traggono un pugno.
I semi che sfuggono tra le dita, hanno un po’ di respiro”.

SINOSSI

Vicente Rosenberg arriva in Argentina nel 1928, con pochi
soldi e una lettera di raccomandazione di suo zio . Si
inserisce benissimo in quella liberà città, fa amicizie, si
sposa, diventa padre e inizia a gestire il negozio del
suocero. Non sa quello che invece sta succedendo in Polonia e
non immagina minimamente ciò che di terribile succederà a sua
madre e alla sua gente. Finché un giorno iniziano ad
arrivargli delle lettere drammatiche proprio da sua madre, e
il suo essere un ebreo polacco riaffiorerà e lo costringerà in
un suo ghetto interiore.
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