LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli - LA DONNA ABITATA
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli LA DONNA ABITATA di Gioconda Belli ed. e/o Cos’ è una Donna abitata? Il titolo di questo romanzo ci pone già da solo tante domande; poi la primissima frase, breve e misteriosa: All’albeggiare emersi Non è facile agganciare un lettore con solamente sei parole, eppure Gioconda Belli ci riesce benissimo: immediatamente ci cattura e ci trasporta in un mondo lontano ferito da invasioni e dittature. La donna abitata è un romanzo a due voci, con due protagoniste nate e cresciute in epoche diverse ma accomunate dal vivere un’appassionante storia d’amore e dal combattere contro l’oppressione. Gioconda Belli ci parla d’amore e ribellione come facce della stessa medaglia, una medaglia che in qualunque modo cada, è simbolo di passioni forti. Le pagine scorrono sotto i nostri occhi con un crescendo
inesorabile; le fluide frasi della Belli ci descrivono la donna albero che ricorda, vigila e penetra con il succo delle sue arance e il profumo delle zagare, un’altra donna che emerge dal limbo dorato dov’era sempre vissuta. Il Nicaragua è un Paese i cui abitanti sono quasi avvezzi alla violenza, ma che la violenza non accettano. Per quanto si eviti di vedere la violenza, la violenza viene a cercarti. Qui ne abbiamo tutti una dose assicurata per diritto di nazionalità. Uno o la subisce o la fa. O comunque, se a te non fanno niente, la fanno ad altri, ed è lì che interviene la coscienza. Perché se uno permette che la facciano ad altri diventa, dichiaratamente o no, complice. I contrasti di questa nazione che balzano agli occhi sono netti e duri e accentuano il realismo che permane lo stile di questo romanzo. Di quando in quando però, parentesi magiche ne fanno un vero gioiello della letteratura sudamericana. Un fatto curioso mi è successo mentre leggevo le prime frasi di questo libro: mi sono resa conto che pochissimi giorni fa avevo letto e qui recensito, L’isola degli alberi scomparsi, anche qui una delle voci narranti è rappresentata da un albero, in questo caso una pianta di fico. Tra i libri c’è sempre un legame che unisce le storie, più o meno visibile. La donna abitata è un libro poco conosciuto, da condividere e da leggere a voce alta.
SINOSSI Itzà è una guerriera india che rivive come linfa di un albero di arance che cresce nel giardino di Lavinia, donna moderna di nobili origini che si ritrova a combattere contro il regime dittatoriale sandinista. Sullo sfondo di un Paese pieno zeppo di contrasti, sfruttato da feroci conquistatori e dilaniato da guerre civili, si snodano due appassionanti, ma non scontate, storie d’amore. La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti Piccolo saggio della collana Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo Editore Viviamo sommersi di parole, circondati da notizie, bersagliati da informazioni e leggere il saggio La voce delle case
abbandonate di Mario Ferraguti è un viaggio nel silenzio e nelle storie nascoste tra le mura delle case abbandonate. Chi non si è mai chiesto, passando accanto ad una casa in rovina, che fine abbiano fatte le persone che la vivevano, dove siano finite quelle storie, quali ricordi siano legati a quelle mura? Mario Ferraguti ci prende per mano e ci porta ad ascoltare la voce delle case abbandonate, il vento che parla passando attraverso le fessure, le porte spalancate, le finestre aperte, i tetti crollati, dove anche i colori parlano perché lentamente si trasformano e, da vividi e svegli, sembrano addormentarsi e addomesticarsi alla natura prendendo, giorno dopo giorno, i colori della terra, le sfumature tra il rosso e il marrone fino a diventare briciole di passato, fino a tornare alla polvere.
La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti edito da Ediciclo Editore
E poi ci sono gli oggetti. Tutti quei piccoli oggetti dimenticati e lasciati lì, che hanno atteso per lungo tempo il ritorno dei proprietari per poi rassegnarsi al loro destino e confondersi con le pareti, con la natura, con le voci della casa. Gli oggetti parlano, del loro passato, delle storie che li hanno resi protagonisti, che li hanno visti al centro di un interesse per poi trovarsi riversi sul pavimento per decenni, dimenticati ma non privi di memoria. La voce delle case abbandonate è un libro piccolo per dimensioni ma intenso per lo stile e la purezza dei sentimenti che ci regala e per la capacità di riportarci, come un violento pugno allo stomaco, a come tutto ciò che ci circonda sia destinato, in modo naturale, al declino, alla fine, alla morte. Ci sono stanze che si trasformano in isole nel vuoto, luoghi che restano sospesi al nulla, frequentati soltanto da chi sa volare. È proprio nelle pareti, le ultime a disfarsi e sbriciolarsi, che restano per un tempo più lungo, i ricordi e la voce di chi tra quelle mura è stato felice, ha riso, scherzato, è nato ed è morto. I muri delle case abbandonate meritano rispetto perché raccontano gli ultimi respiri di chi ci ha preceduto e, esattamente come tutti noi, è stato felice, ha sofferto e ora è parte del passato. Vivere per passare oltre, verso quella natura implacabile e bellissima che ci ricorda quanto sia semplicemente meravigliosa la vita. Le case abbandonate spesso sorridono; danno come una sensazione di bellezza perché loro e tutto quello che c’è attorno a loro sembra che siano diventati vecchi insieme. I sassi, i legni, i vetri, il ferro che hanno addosso si sono trasformati proprio in quelli giusti e finalmente stanno bene, hanno dimenticato ferite e amputazioni di seghe, martelli, fori di chiodi e sono sereni, si lasciano andare al
tempo che vuol dire consumarsi adagio. La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti Edito da Ediciclo Editore LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari La morte della luna di Silvia Zaccari tratto dall’antologia Voci Nuove 6 a cura di Daniele Falcioni edito da Rapsodia edizioni “Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”. Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel
volto rigido un’espressione terrificante. Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali. Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna. A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero. “Perché?” rispose lei. “Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”. Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto. “Non può fare niente, signora. È così ogni volta”. “Ogni volta?” “Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.
“Lui chi?” “Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida. Carla si guardò intorno. “Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”. Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa. “Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”. “E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero. Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista. “Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”. Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre. “Pronto?” “Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo,
ma dice che non si fermerà!” “Che stai dicendo, Carla? Calmati!” “Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!” “Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?” “Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!” Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere. “Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata. “Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla. “Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò. “Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare. Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede. L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio. Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.
“Signora, tutto bene?” La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su. “Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?” Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna. “Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero. Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano. “Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto. Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino. Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse. “Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé. Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi. “Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!” Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta. Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno
aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto. Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce. Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare. “Mi scusi, dovrei scendere!” disse. L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia. “Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta. Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.
“Avanti, Gabriele, muoviti!” “Mamma, non riesco a passare!” “Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!” “C’è una signora”. Il bambino si spostò, guardando la madre. “Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?” Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi. L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio. “Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?” Carla non rispose. “Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista. Carla lo guardò senza dire una parola. “Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”. Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito. “Come ti chiami?” le chiese il bambino. Carla sgranò gli occhi. “Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome. La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise
a sedere. Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino? Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi. Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea. “Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista. Carla fece di no con la testa. “Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?” Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino. La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò. “Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista. All’esterno non c’era alcun segno di movimento. “Dovrebbe scendere, signora”. L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la
chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore. “Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”. L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura. Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami. “Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo. Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle. “Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava. All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa. Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve. “Sei tu?” disse. Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un
insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani. Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno. Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire. Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino. Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia. “Finalmente!” disse una voce baritonale. Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei. “Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura. “Tutti?” disse Carla. “Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.
“Scegliere? Chi? Per cosa?” La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto. “Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”. L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro. “Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello. Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo. “Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga. Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi. “Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato. “Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla. “Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo. Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse
il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia. “Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero. Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna. “Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero. Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola. Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.
L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI di Elif Shafak L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI di Elif Shafak Ed. Rizzoli Il tempo umano è lineare, un continuum uniforme tra un passato teoricamente finito e concluso e un futuro che si ritiene intatto, immacolato. Il tempo arboreo è ciclico, ricorrente, perenne; passato e futuro respirano in un unico istante, e il futuro non scorre per forza in un’unica direzione… Sono incompatibili, il tempo umano e il tempo vegetale. L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak è una bella lettura; la copertina mi aveva colpito mentre spulciavo in una libreria del quartiere romano del Testaccio. Lì per lì non l’ho acquistato, ma mi è rimasto dentro; poche settimane dopo l’ho ritrovato a casa di una cara amica, preso in prestito e letto, subito, tutto d’un fiato.
L’immagine rappresenta una pianta di fico, nata e cresciuta a Cipro, al sole, al caldo, tra amori, guerre, felicità e disperazione. La pianta viene trapiantata in Inghilterra, rappresenta un filo che mantiene unite persone e ricordi di una terra lontana; il freddo e la nebbia non le hanno impedito di continuare a vivere, silenziosa testimone di dolori e gioie, nascite e morti. Elif Shafak ci racconta le storie di famiglie, di amanti e di amici a Cipro, nella sua capitale Nicosia: l’unica città al mondo ancora divisa in due da una guerra che non ha riportato vittorie, ma solo sconfitti. Due sono le voci narranti in questa storia: inizia Ada figlia di un amore che non conosce confini, etnie e religioni. Poi segue la pianta di fico, che fa da filo conduttore, osserva e vede tutto, ricorda. Un velo di mistero circonda questa pianta che sembra avere un’anima umana. L’amore è una spavalda affermazione di speranza, e quando comandano morte e distruzione non si abbraccia la speranza. Non si indossa il vestito più bello e non ci si infila un fiore tra i capelli quando si è circondati da schegge e rovine. Non si regala il cuore quando ogni cuore deve restare sigillato, e soprattutto non a quelli che non credono nella nostra religione, non parlano la nostra lingua, non sono del nostro sangue. L’isola degli alberi scomparsi è scritto in modo liscio, non stucchevole né tantomeno lamentoso.
Ci immerge in vite segnate, a volte mortalmente, da un conflitto senza ragioni, perché la guerra non ne ha mai. Elif Shafak ci fa commuovere, sperare e anche assaporare usi e costumi di popoli in effetti neanche troppo lontani; in questa bella storia, non ci sono né greci, né turchi, ma solo isolani, ciprioti. Dopo il primo breve capitolo che fa da introduzione e anche quasi da riassunto, ci ritroviamo in una classe di un liceo, a fine 2010, a Londra: Ada, una delle due voci narranti, 16 anni all’improvviso emerge dal suo silenzio, e urla. Un urlo che sconvolge chi ha intorno, un urlo che chiede verità, perché solo la verità potrà permettere ad Ada di superare la perdita e guardare fiduciosa verso il suo futuro. Ho riflettuto molto sul titolo di questo romanzo, perché a Cipro non sono scomparsi gli alberi, a Cipro sono scomparse le persone. SINOSSI Siamo a Londra, e qui vive Ada, figlia sedicenne di Kostas, esule greco fuggito da Cipro durante la guerra. Nella loro casa c’è una pianta di fico, sopravvissuta grazie ad una talea, trasportata nella stiva di un aereo e trapiantata a Londra; unico legame con quella terra dilaniata dal conflitto, e con quelle famiglie divisa da usi e religione. A casa di Ada e Kostas arriverà improvvisamente Meryem, sorella di Dafne la madre turca cipriota di Ada, morta da pochi mesi.
Grazie alla zia, inizialmente quasi odiata, Ada prenderà consapevolezza delle sue origini e acquisterà quella coscienza di sé che gli era stata inibita da anni di silenzi. FUORI PORTA – Il cibo visto da vicino, a Sezze la mostra fotografica di Alessandro Di Norma Sarà inaugurata domani 17 dicembre 2021, alle ore 18.00 presso il Museo Archeologico di Sezze – Sala del Mosaico – la mostra fotografica di Alessandro Di Norma: “Il cibo visto da vicino”. Si tratta di una selezione di 20 fotografie inerenti il cibo della “Terra del mito”, cioè quel comprensorio che ricade nei territori delle città arcaiche dell’Agro Pontino: Anxur, Circeii, Cora, Norba, Setia, Privernum. Si tratta di una ricerca fotografica cominciata nel 2016 ed in parte pubblicata nel libro di Roberto Campagna che ha proprio come titolo: A tavola nella terra del mito (Ponte Sisto, 2018). Questa ricerca ha l’obiettivo di catturare i cibi meno conosciuti e più caratteristici di tale territorio e lo fa utilizzando una luce tutta particolare: le foto, infatti, possiedono tagli di luce “caravaggeschi” volutamente ricercati dall’autore. Tecnica utilizzata per mettere in risalto l’essenza e la storia del cibo stesso. “Il cibo – dice Alessandro Di Norma – è storia, cultura, tradizione, fatica, ricchezza, miseria, orgoglio, benessere.
È tutto ciò che produce legami sociali; è ricordo, speranza, amore, dolore e fotografarlo vuol dire assumersi la responsabilità di raccontare tutto questo. Vuol dire sporcarsi con la stessa terra arata dal contadino; impolverarsi con la stessa farina del fornaio; avere le mani appiccicose che conosce solo chi ha appena raccolto un grappolo d’uva; soffrire lo stesso sonno dei pastori; la stessa sete dei raccoglitori di pomodori. Avere la capacità di centellinare l’alcol per ricavarne profumati liquori o la pazienza per staccare gli stimmi dei crochi per farne il prezioso zafferano. Sentire addosso le incertezze dei pescatori; provare il senso di impotenza dopo una grandinata che ha distrutto un raccolto… Dietro l’obbiettivo della macchina fotografica tutto questo si ferma. La luce trasforma l’attimo in soggetto e il momento in storia raccontata”. La mostra rientra nelle attività previste per il Natale Setino 2021/2022 ed ha il patrocinio del Comune di Sezze e della Compagnia dei Lepini, resterà aperta fino al 25 febbraio 2022, orario mercoledì, giovedì, domenica ore 9.00/13.00- venerdì e sabato: 9.00/13.00 – 15.00/19.00 Presentazione di “Fuori dall’ombra e al chiarore delle parole”
Antologia opere vincitrici XXVIII edizione Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia Presentazione di “Fuori dell’ombra e al chiarore delle parole”, Quaderno N. 1 del Centro Studi Sisyphus del Comune di Pomezia, antologia delle opere vincitrici della XXVIII edizione del Premio letterario internazionale Città di Pomezia. Sabato 18 dicembre alle ore 17.00 presso il Museo Città di Pomezia Laboratorio del Novecento. Interverranno la vice Sindaco Simona Morcellini, la direttrice del Centro Studi Sisyphus Fiorenza Castaldi, lo storico e critico letterario Massimiliano Pecora e il poeta e musicista Giorgio Mattei. La cittadinanza tutta è invitata a partecipare. Ingresso libero fino a esaurimento posti. Obbligo di green pass rafforzato.
Natività di Gesù: le immagini più antiche A quando risale la prima rappresentazione della natività di Gesù? Le più antiche testimonianze le troviamo nelle Catacombe di Priscilla, sull’antica via Salaria, a Roma. Esse risalgono a un periodo tra il II e il III secolo dopo Cristo. Eccole a voi: una è l’Adorazione dei Magi, l’altra è la Madonna col Bambino e il profeta Balaam che addita una stella, ricordandoci la sua profezia: “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17). Quest’ultima è anche la più antica immagine di Maria che ci sia pervenuta! Immagine dal web: romafelix.it
Immagine dal web: ilmattino.it Le catacombe di Priscilla sono tra le più antiche di Roma e si dipanano su vari livelli per circa 13 chilometri. Ci troviamo a circa 20 metri sotto terra, tra i cunicoli e le interminabili gallerie realizzate a partire dal II secolo utilizzando ambienti preesistenti, come l’ipogeo con le tombe degli Acili Glabrioni. La Gens degli Acili Glabrioni era la famiglia di Priscilla, colei che concesse l’area per la realizzazione del cimitero cristiano. Romana, moglie di un senatore, Priscilla protesse i primi cristiani dalle persecuzioni e ne accolse i corpi in queste cave di tufo di sua proprietà. Molte furono le donne patrizie o comunque di alta estrazione
sociale, che nell’antica Roma imperiale furono profondamente toccate dall’annuncio evangelico del Cristo e si profusero in donazioni e forme varie di partecipazione e sostegno alla nuova religione dal richiamo escatologico, che prometteva una vita di gioia e di ricompensa oltre il travaglio della vita terrena. Una seconda tappa di questo ideale viaggio romano alla ricerca delle più antiche immagini del Natale ci porta alla basilica paleocristiana di S. Maria Maggiore. Nell’anno 431 il Concilio di Efeso proclama Maria definendola con l’appellativo di “Theotòkos”, cioè Madre di Dio. Il papa Sisto III ricostruisce immediatamente l’antica basilica già iniziata da Papa Liberio nel 352, dedicandola proprio a Maria e rivestendola di splendidi mosaici d’oro. Nella navata centrale scorrono, in splendidi mosaici del V secolo, le storie dell’Antico Testamento. Gli episodi evangelici sono rappresentati nell’arco trionfale, con colori vivaci e una grande vitalità, realizzati sempre nel V secolo. Il mosaico dell’abside risale invece alla fine del XIII secolo, a opera di Jacopo Torriti, esponente della scuola pre- giottesca romana. Qui ammiriamo gli episodi più importanti della vita di Maria e dell’infanzia di Gesù, culminanti nell’Incoronazione della Vergine. Ma ecco il nostro punto di attenzione: sotto il catino absidale compare la scena della Natività.
Immagine dal web: Hypotheses.org Ai più attenti di voi non sfuggirà l’assoluta innovazione di questa rappresentazione, cui spetta il primato per la realizzazione di un “Presepe” vero e proprio. Il Bambino, la mangiatoia gemmata, le bianche vesti, i quattro angeli, la stella, i Magi in abiti preziosi. Tutto è simbolico e allo stesso tempo vivo e concreto. Maria è semi-sdraiata, come è naturale per una donna che ha appena partorito, ma nello stesso tempo appare circonfusa di umana regalità. Giuseppe, seduto in basso, è rappresentato come sovrastato dalla potenza divina di quanto sta avvenendo… Ecco affermarsi in questa iconografia il senso del compimento: si compie una promessa che potremmo laicamente definire apocalittica, ovvero di rivelazione:
“Un bambino è nato per noi, sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo dominio sul trono di Davide” (Is.9,5-6). di Maria Cristina Zitelli Gli invisibili di Pajtim Statovci Guerra e disperazione. Solitudine e odio. Amore e passione. Gli invisibili di Pajtim Statovci narra la storia di due giovani ragazzi degli anni ’90. Il caso li fa incontrare al tavolino di un bar di Pristina e tra loro scatta il classico colpo di fulmine che li porta a vivere una grande e intensa storia d’amore ma anche ad essere costretti ad essere invisibili agli occhi di tutti perché Arsim e Miloš non solo sono due uomini ma il primo è albanese mentre l’altro è serbo. Invisibili perché uomini e invisibili perché nemici, eppure la passione e i sogni che uniscono Arsim e Miloš sono semplici e
puliti e contrastano con la violenza che alimenta l’odio tra le due culture e la ferocia delle tradizioni che non offre mai una via d’uscita. Arsim studia per diventare cardiochirurgo mentre Miloš, sposato e con figli, insegue il sogno di diventare scrittore. Si amano dietro la porta del piccolo appartamento di Miloš che diventa così quel luogo magico, fuori dal mondo, dove immaginare quel futuro impossibile. Non andiamo mai da nessuna parte, nemmeno a fare due passi, non nutriamo speranze di una vita al di fuori di queste quattro mura perché semplicemente non esiste. Gli invisibili è un romanzo duro, schietto, che lascia intendere come non sia possibile alcun lieto fine laddove i limiti e quello stato di invisibilità nasca dai limiti stessi degli esseri umani. Il genere umano che marchia, per sempre e da sempre, altri esseri umani rendendo di fatto impossibile qualsiasi, se non rara, possibilità di riscatto. Nel romanzo, ad un certo punto, i due uomini si lasciano per seguire percorsi diversi. Arsim resta a Pristina mentre Miloš, con la famiglia, si rifugia all’estero in un paese non identificato. E anche in questo paese, europeo e “civilizzato” si ritrova la stortura dell’uomo di lasciare nell’invisibilità altri esseri umani perché considerati stranieri, diversi e, quindi, pericolosi. Ajshe, la moglie di Miloš, nell’affrontare le insegnanti dei figli, reclama con forza la violenza che viene fatta loro di marchiare i normali disagi adolescenziali nascondendoli in una forma di razzismo. “Gli insegnanti direbbero che gli insuccessi sono dovuti al bilinguismo se la nostra madrelingua non fosse l’albanese?” Gli invisibili è impostato con le due voci narranti dei
protagonisti che si alternano su diversi piani temporali e evidenziate anche da un differente carattere di stampa che sembrano rafforzare ancora di più le distanze. L’incipit richiama subito alla guerra introducendolo come un altro protagonista del romanzo. Una guerra che non usa solo armi da fuoco ma si delinea in una lotta quotidiana e individuale che soffoca, deride, isola e uccide, in una battaglia continua e difficile di chi tenta in tutti i modi di esprimere sé stesso e raggiungere i propri sogni ma resta imbrigliato, prigioniero a vita, di una gabbia costante che rende l’uomo invisibile agli altri. “Ho visto uccidere un uomo, ho visto sulla strada il braccio di un soldato, sembrava un luccio cavato fuori dalla terra, ho visto fratelli separati alla nascita, case bruciate ed edifici crollati, finestre sfasciate, stoviglie rotte e roba rubata, tanta di quella roba che non crederesti a quanta ne rimane quando la vita tutt’attorno è presa a calci, anche gli oggetti muoiono quando vengono sottratti al loro proprietario.” Gli invisibili di Pajtim Statovic Edito da Sellerio Editore – agosto 2021 traduzione di Nicola Rainò
La libertà il tema centrale di Più Libri Più Liberi Prosegue fino all’8 dicembre la XX edizione della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Nel polo congressuale de La Nuvola a Roma si è inaugurata sabato 4 dicembre Più Libri Più Liberi, l’evento editoriale più importante della Capitale, dedicato agli editori indipendenti italiani e organizzato dall’Associazione Italiana Editori AIE. Il tema per questa edizione è la libertà, un concetto insito nel nome stesso della manifestazione che sottolinea la grande forza liberatoria dei libri. Grande affluenza di pubblico durante il fine settimana monitorati da un meticoloso servizio di sicurezza interno per evitare assembramenti sia nell’area ristoro che nell’area espositiva, ma che non è riuscito a dissuadere i tantissimi estimatori di Zerocalcare che non solo hanno acquistato i suoi libri ma hanno preso un numero per ordinarsi in fila e attendere il proprio turno pur di avere una dedica personalizzata. Di sicuro la serie televisiva Strappare lungo i bordi appena uscita su NetFlix ha portato alla ribalta il talentuoso fumettista romano Zerocalcare. E come dichiara la fascetta sul primo volume pubblicato 10 anni fa e ora ristampato dalla casa editrice Bao “Diteglielo, a tutti quelli che credevano che sarei durato sei mesi!” Il successo dei fumetti (o grafic novel usando una anglicismo più di tendenza) e dei manga giapponesi, rivela come il
linguaggio sia in continua evoluzione e come diventi fondamentale, per il mondo della cultura e dell’editoria, riuscire a intercettare ciascun segnale arrivi dalla società capace di creare un canale di comunicazione per veicolare il proprio messaggio. Questo slideshow richiede JavaScript. I libri raccontano. Sempre. Sia che parlino attraverso la prosa, i versi o arricchiti da disegni. Ciascun libro mira a identificare, raccontare e veicolare un messaggio, che sia introspettivo, di formazione o di approfondimento. L’obiettivo primario di eventi culturali come Più Libri Più Liberi è proprio quello di creare un canale connettivo tra prodotto e fruitore, cioè tra casa editrice e lettore. Quale libro sia il migliore in assoluto, per fortuna, non è dato di sapere. La presenza nella letteratura di capolavori indiscutibili non è in discussione sebbene solo l’audacia del giornalista Corrado Augias poteva pensare di parlare del libro dei libri, la Bibbia definendolo “per noi laici un manuale di psicologia. Dice più dell’essere umano che non di Dio” invitando a una lettura, anzi rilettura e conoscenza del passato per meglio comprendere e affrontare il presente.
Davanti all’affollatissima platea dell’Arena Robinson, dialogando con Dario Olivero, responsabile culturale Robinson, Augias non ha perso l’occasione di dichiarare, riguardo la questione dei vaccini, come “Noi siamo un’élite perché siamo qua a seguire due signori che parlano cercando di capirli invece di andare a fare shopping. Noi sappiamo che la Terra è tonda” sottolineando così la necessità di andare oltre la superficie dell’informazione arrivando fino alla conoscenza. Perché le notizie ci informano ma è solo con un’approfondimento distaccato e pacato che possiamo giungere ad una conoscenza ed è la conoscenza a renderci liberi.
Questo slideshow richiede JavaScript. Le occasioni di approfondimento sono molteplici a Più Libri Più Liberi che prosegue il suo ricco calendario fino a mercoledì 8 dicembre. Prima di avventurarsi calamitati dai tantissimi singoli stand e dagli spazi regionali che raggruppano al loro interno ulteriori case editrici, è consigliabile visionare il meticoloso calendario, (lo trovate qui) che riporta presentazioni di libri, dibattiti, incontri culturali e firma copie e segnarsi gli eventi da non perdere. CORNETTI AL SESAMO CON BACON E GRANA “UN MESE, UN PIATTO, UNA STORIA…” DICEMBRE: CORNETTI AL SESAMO CON BACON E GRANA Per questo mese di Feste e, speriamo, di cene e riunioni tra amici e parenti, vi propongo la ricetta di uno stuzzichino, o finger food, o antipasto, oppure anche merenda: i cornetti di sfoglia. Credo che tutti dovremmo avere sempre in frigo un paio di rotoli di pasta sfoglia, rotonda o rettangolare non importa, perché ci aiuta a mettere in tavola in pochissimo tempo qualcosa di buono da mangiare, utilizzando anche qualche
avanzo di affettati o formaggi che si annoia da due tre giorni, in un angolo del frigo. Li ho proposti qualche anno fa in varie occasioni, inutile dirvi che non avanzano mai e che risultano graditissimi a grandi e piccini. Proprio in vista del Natale e dell’Ultimo dell’anno, sicuramente capiterà a casa nostra qualche amico con cui prendere un aperitivo, con i cornetti di sfoglia in pochi minuti, lo renderemo felice. INGREDIENTI per 12 cornetti: 1 rotolo di pasta sfoglia rotonda 1 confezione di bacon a fette un pò di grana padano o parmigiano 1 uovo semi di sesamo PROCEDIMENTO: Srotolate la pasta sfoglia su un piano liscio lasciandola sulla sua carta forno, dividetela in quattro spicchi e poi ogni spicchio in tre. Nella base di ognuno dei 12 triangolini che avrete ottenuto ( se li volete più piccoli in ogni quarto ricavatene 4) appoggiate mezza fettina di bacon arrotolata e un pò di grana. Poi, partendo sempre dalla base, arrotolate delicatamente verso la punta in modo da ottenere facilmente un cornetto cui dovrete solo piegare le estremità per dargli la giusta forma.
Mano mano che li fate, appoggiateli sulla teglia del forno ricoperta di carta, poi spennellateli con l’uovo sbattuto e cospargeteli con i semi di sesamo. Cuocete in forno statico o ventilato a 200° per pochi minuti, saranno pronti quando li vedrete belli gonfi e dorati. Fateli stiepidire e serviteli facendo attenzione ad appropriarvene di uno subito, il vassoio rimarrà vuoto in men che non si dica. Potete variarne la farcitura sostituendo il bacon con del salmone affumicato oppure con un’acciuga sott’olio. Se decidete di prepararli per la merenda, farciteli con della Nutella o marmellata, spennellandoli con del latte e spolverizzandoli a fine cottura con lo zucchero a velo. Se per uno strano caso dovessero avanzare, conservateli in un pò di carta di alluminio in frigo, il giorno successivo scaldateli in forno per pochissimi minuti. RiScatto presenta la seconda edizione del Latina Photo Day L’Associazione Fotografica RiScatto presenta la seconda edizione del Latina Photo Day: questa volta ben 2 giorni dedicati alla fotografia e alla cultura fotografica! Il calendario per i giorni sabato 4 e domenica 5 dicembre è ricco di eventi: mostra fotografica, workshop, letture
portfolio, talk di fotografia sociale e LAB FIAF. Negli spazi dell’Ex Cinema Enal a Latina Scalo verrà allestita la mostra fotografica “R-esistenze, storie di occupazioni” del fotografo Giulio Di Meo il quale sarà presente all’evento anche con il workshop “Phototelling: narrare con le immagini” e con il talk “Il fattore umano: la fotografia sociale”. Massimiliano Tuveri e Claudia Ioan, entrambi fotografi professionisti Certified By Leica e docenti di fotografia della FIAF, saranno disponibili per le letture dei portfolio fotografici, guideranno il LAB di Cult FIAF “Clima, ambiente e futuro”, e terranno il talk “Obiettivo uomo: la fotografia sociale contemporanea”. L’evento, gratuito e aperto a tutti, è organizzato in collaborazione con “Insieme per Latina Scalo” e patrocinato dal Comune di Latina e FIAF. Le attività saranno ospitate negli spazi dell’Ex Cinema Enal in via della Stazione a Latina Scalo (accanto alle Poste), e l’evento è inserito all’interno del progetto Officine di Città promosso dal Comune di Latina. Ricordiamo che è OBBLIGATORIO IL GREEN PASS, che sarà controllato all’ingresso, così come la mascherina e il distanziamento. IL GHETTO INTERIORE di Santiago H. Amigorena IL GHETTO INTERIORE di Santiago H. Amigorena
Ed. Neri Pozza C’è una cosa che veramente mi piace fare: rovistare e curiosare nelle bancarelle del mercato che vendono libri, usati. Grazie ad una mia carissima amica, ho ripreso da poco tempo questa sana abitudine e, come posso, vado alla ricerca. Di cosa? Vi chiederete. Beh, chi rovista tra i volumi, aspetta il richiamo di quel titolo, o di quella copertina, o di quell’incipit particolare. Appena lo trova, lo agguanta e lo tiene ben stretto, per paura che qualcun altro, appassionato come lui, o lei, glielo sottragga. Questo mi è recentemente successo con il libro che vi propongo questa settimana, Il ghetto interiore ha catturato la mia attenzione soprattutto per la casa editrice: Neri Pozza è una delle mie preferite. Poi anche per la frase in quarta di copertina: “Una delle cose più terribili dell’antisemitismo è non permettere a certi uomini e certe donne di smettere di pensarsi come ebrei, è confinarli al di là del loro volere in quell’identità, è decidere, definitivamente, chi sono”. In questo romanzo si vive la tragedia dell’ Olocausto da
lontano: Vicente emigra in Argentina da ragazzo quando il sentore della tragedia era ancora molto flebile. Si sposa, inizia un’attività commerciale, esce con gli amici, fa la bella vita, è libero. Prova, senza molta convinzione, a farsi raggiungere dai suoi familiari, ma il ricongiungimento non avviene, non avverrà mai. La corrispondenza con sua madre si affievolisce sempre più, finchè un giorno, all’inizio del 1940, Vicente riceve da lei una lettera drammatica. L’odio razziale in Polonia e nel resto dell’Europa è esploso, gli ebrei iniziano ad essere perseguitati, poi affamati, deportati e uccisi. Il parallelismo tra il momento in cui il protagonista esce a cena con gli amici e nello stesso tempo i generali delle SS ideano il piano per sbarazzarsi di un milione di ebrei, è sconvolgente. Le lettere sono sempre più sporadiche e devastanti, Vicente torna ad essere Wincenty; non più il marito, il dandy, il padre, ma solo Wincenty l’ebreo polacco. Oltreoceano non si voleva vedere, o si faceva finta di non vedere ciò che stava succedendo in Europa, i fuggitivi superstiti portavano notizie talmente terribili alle quali gli americani stentavano a credere. Ho letto tanti romanzi sulla deportazione e sull’ Olocausto, ma in queste righe c’è un valore aggiunto alla sofferenza: il senso di impotenza di Wincenty che lo condurrà poco a poco al mutismo e all’isolamento dagli altri, sfinito dal non essere in grado di fare qualcosa. “Il ghetto è come un sacco di semi. I tedeschi, di tanto in tanto, mettono la mano nel sacco e ne traggono un pugno.
I semi che sfuggono tra le dita, hanno un po’ di respiro”. SINOSSI Vicente Rosenberg arriva in Argentina nel 1928, con pochi soldi e una lettera di raccomandazione di suo zio . Si inserisce benissimo in quella liberà città, fa amicizie, si sposa, diventa padre e inizia a gestire il negozio del suocero. Non sa quello che invece sta succedendo in Polonia e non immagina minimamente ciò che di terribile succederà a sua madre e alla sua gente. Finché un giorno iniziano ad arrivargli delle lettere drammatiche proprio da sua madre, e il suo essere un ebreo polacco riaffiorerà e lo costringerà in un suo ghetto interiore.
Puoi anche leggere