Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei

Pagina creata da Stefano Leoni
 
CONTINUA A LEGGERE
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Le Metamorfosi
  Publio Ovidio Nasone

             8 d.C
      Principato Augusteo
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Il Capolavoro Ovidiano
Opera di argomento epico-mitologico scritta in esametri,
con cui Ovidio abbandona momentaneamente i distici
elegiaci di carattere amoroso. Pubblicata nell’8 d.C., poco
prima della relegazione.

Lo scopo dell’autore è quello di ripercorrere la
storia umana attraverso i miti più importanti
della cultura greca e romana. Progetto alquanto
ambizioso, che vede il tutto incentrato su una
tematica fondamentale: la metamorfosi, data
anche dal titolo stesso. Per la maggior parte,
infatti, sono miti di trasformazione, che vedono
come elemento centrale della fabula il
mutamento di uno dei protagonisti.
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Il modello Alessandrino
Ovidio, nella composizione dell’opera, dovette confrontarsi con un’imponente
tradizione mitologica, caratteristica soprattutto della cultura greca. Infatti, un modello
in particolare è stata la poesia alessandrina, che si è occupata in maniera accurata anche
della mitologia. Dagli Alessandrini Ovidio ha ripreso:
•   la brevitas: basti pensare al fatto che l’opera sia composta da 15 libri, di certo un
    numero esiguo se confrontato con tutti i miti che ci sono pervenuti sia dalla
    tradizione culturale greca che romana.
•   il carattere eziologico: in molti casi diversi miti ovidiani, nella loro narrazione,
    concorrono a spiegare il significato di una pianta, di un animale o una celebrazione
    rituale dal punto di vista etimologico. Il modello, in questo, è rinvenibile in
    un’importante opera di Callimaco: gli Aitia, per l’appunto di carattere eziologico.
Una delle caratteritiche fondamentali dell’opera è anche l’intertestualità ovidiana, con la
quale l’autore fa riferimento diretto a sue opere precedentemente composte e anche alle
stesse fonti che hanno costituito un modello. Infatti, per il poeta, citare le fonti non è
una deminutio, bensì una prova maggiore della sua grandezza, dal momento che è
riuscito a destreggiarsi con opere di un valore così elevato e, sulla base di queste, ne ha
elaborato una del tutto autentica.
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
La politica culturale di Augusto

                                                                       È importante ricordare che Ovidio è un autore vissuto durante il
                                                                       principato Augusteo. Periodo in cui, il princeps, Ottaviano
                                                                       Augusto, definito come il salvatore della repubblica, portò avanti
                                                                       una politica culturale basata sul recupero dell’integrità morale
                                                                       del popolo romano. Infatti, nel corso della storia romana, ciò che
                                                                       ha sempre reso grandiosa una civiltà così potente è stata la loro
                                                                       rigidità nell’attenersi alle norme etiche del Mos Maiorum. Con il
                                                                       passare del tempo tutto era andato perso, portando a maturare
                                                                       nei Romani una concezione molto più individualistica: non
                                                                       veniva più glorificato il cittadino che sacrificava se stesso nel
                                                                       nome del bene comune, per la propria patria. Questo è stato
                                                                       dunque l’elemento segnante che ha portato i Romani a mettersi
                                                                       l’uno contro l’altro, dando inizio alle guerre civili, l’avvio al
                                                                       declino della Res Publica. Ciò spiega una politica così reazionaria
                                                                       da parte di Augusto; è da ricordare che tesi del genere sono
                                                                       rinvenibili anche nelle opere di Sallustio e di Cicerone.

Vercingetorige getta le armi ai piedi di Cesare, Lioner Royer, 1899,
Puy-En-Velay Auvergne, Francia
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
La celebrazione della romanitas
                                                                                      Ovidio dunque, con l’opera, decide di comporre
                                                                                      qualcosa che possa essere compatibile con la
                                                                                      politica di Augusto, rispetto ai precedenti distici
                                                                                      elegiaci di carattere amoroso. Non a caso la parte
                                                                                      finale delle Metamorfosi è dedicata alla storia
                                                                                      romana, partendo proprio dalla mitica
                                                                                      fondazione grazie allo sbarco di Enea sulle coste
                                                                                      italiche, in seguito alla fuga da Troia. Tutto è
                                                                                      volto a celebrare la romanitas, la grandezza del
                                                                                      popolo romano nella storia che l’ha reso un
                                                                                      popolo di dominatori. Nell’opera sono
                                                                                      rinvenibili anche sottili riferimenti ad Augusto,
                                                                                      che elogiano la salvezza della repubblica e la sua
                                                                                      magnanimità.

Virgilio legge l’Eneide ad Augusto ed Ottavia, Pelagio Palagi, 1806, collezioni d’arte, Bologna
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Ovidio e Virgilio
                                                                      Per quanto riguarda la narrazione
È possibile evidenziare delle differenze tra le Metamorfosi di        delle imprese di Enea, sembra
Ovidio e il poema di Virgilio:                                        alquanto ovvio che Ovidio abbia
 i libri, a differenza di quelli dell’Eneide, non sono               ritrovato un importante punto di
  caratterizzati da un’organicità. Molte narrazioni che iniziano      riferimento nell'Eneide di Virgilio.
  in un determinato libro possono concludersi anche in quello
  successivo, una sorta di stratagemma dell’autore per suscitare
  la curiosità del lettore e invogliarlo alla lettura di più versi.
 Il mito nelle Metamorfosi non ha carattere sacrale, a differenza
  del poema di Virgilio, dove la narrazione epico-mitologica
  concorre a elogiare e a divinizzare la gens Iulia, stirpe
  dell’imperatore Ottaviano.
 Nelle Metamorfosi vi è la presenza di una pluralità di
  narratori, a volte lo stesso Ovidio, in altri casi gli stessi
  personaggi delle narrazione, basti pensare, ad esempio, ai
  miti di Orfeo.
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Pluralità di tematiche - l’originalità di Ovidio
 Particolare attenzione merita il tema amoroso, che assume
  connotazioni decisamente diverse e più serie rispetto alle opere
  erotiche giovanili. Infatti, il poeta con quest’opera vuole essere
  funzionale al programma politico di Augusto: non avendolo fatto con
  le opere precedenti, ora cerca di creare delle condizioni che possano
  risalire alla romanità. Il motore della trasformazione è sempre l’amore,
  inteso come il desiderio di colmare una distanza. Tipico degli amori è
  l’abbandono di ogni visione oggettiva del reale, che rende folli gli
  innamorati (l’insania) e li fa bruciare di una violenta passione
  (il furor), senza che, talora, essi ne abbiano percezione; di conseguenza,        Venere e Adone, Hendrick Goltzius, 1614, Alta Pinacoteca, Monaco

  essi agiscono rovesciando le loro abituali maniere di comportamento.
  Le passioni amorose hanno un loro scenario naturale: si tratta in
  prevalenza di luoghi ombrosi in cui la frescura offrirà un insperato
  ristoro agli stanchi e accaldati protagonisti.
 Oltre ai rapporti d’amore, vengono trattati anche rapporti d’empietà, storie di
  guerre, rapporti genealogici fra i personaggi, catastrofi cosmiche, o
  ancora, torbide passioni incestuose.
                                                                               Amore e Psiche,   Francesco Scaramuzza, 1833, Palazzo della Pilotta, Parma
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
Altre tecniche utilizzate
 Un altro aspetto innovativo delle Metamorfosi è dato dalla pluralità dei narratori. In assenza di un
  protagonista, il vero elemento stabile e unificatore è costituito proprio dalla figura del narratore,
  che quando s’identifica col poeta stesso, assiste con atteggiamento divertito alla narrazione. Si
  tratta quindi di un narratore onnisciente, che talvolta interviene aggiungendo pareri personali, con
  interventi meta-narrativi, altre volte si riferisce direttamente ai personaggi.
 Sulle scelte di Ovidio ha influito molto la sua formazione retorica: notevole, soprattutto, è stato
  l’influsso delle controversie (tipico prodotto delle scuole di retorica) sui monologhi, in particolare
  quando il protagonista è posto di fronte ad una scelta drammatica fra due valori antitetici. I versi,
  inoltre, appaiono celati da una certa ironia.
Ricorrendo alla tecnica dell’ekphrasis, Ovidio inserisce un mito nell’altro, seguendo in particolare i
seguenti criteri di presentazione:
 successione cronologica: collega un mito ad un altro in ordine genealogico
 successione geografica: associa vari miti avvenuti nel medesimo luogo
 successione tematica: lega più miti che presentano affinità dal punto di vista del tema
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
La struttura del poema
Le Metamorfosi Publio Ovidio Nasone - 8 d.C Principato Augusteo - "Ernesto Pascal" Pompei
La riflessione filosofica
                                            Nell’ultimo libro del poema, Ovidio espone la teoria
                                            pitagorica della metempsicosi ed enuncia il principio
                                            in base al quale avviene la trasmigrazione di ogni
                                            forma di vita in forme nuove, sicché nulla perisce e
                                            tutto si ricrea. Tali principi pitagorici trovano piena
                                            corrispondenza nella concezione ovidiana, secondo
                                            cui i mutamenti non annullano l’identità di coloro che
                                            li subiscono, perché immortale è lo spiritus che
                                            trasmigra da un posto all’altro. È tuttavia eccessivo
                                            sostenere che i principi pitagorici costituiscano la
                                            base speculativa per una serie interminabile di storie,
                                            in cui la metamorfosi è vista nel suo aspetto
                                            spettacolare e prodigioso.

Busto di Pitagora, musei capitolini, Roma
Sala dei giganti, dettaglio della cupola, Giulio Romano, 1532-34, Palazzo Te, Mantova

Le Metamorfosi e l'arte
                                                                        È come se l’autore fosse in grado, attraverso il solo utilizzo
                                                                        dei versi, di dipingere un affresco nella mente del lettore,
                                                                        grazie alle particolareggiate descrizioni che vengono
                                                                        impiegate. Basti pensare agli affreschi delle domus
                                                                        pompeiane di argomento mitologico oppure ad opere
                                                                        risalenti al 1600 di artisti barocchi con gli stessi soggetti
 Ovidio è sempre stato definito nel corso dei secoli                    rappresentati. Fra le raffigurazioni si può notare
 come uno dei più grandi ispiratori per i diversi artisti,              sicuramente una somiglianza, di certo non giustificata dal
 grazie alla straordinaria capacità espressiva                          fatto che gli artisti seicenteschi si siano ispirati agli
 manifestata nei versi.                                                 affreschi pompeiani, che sono stati rinvenuti il secolo
                                                                        successivo. Ciò significa che, per entrambe le tipologie di
                                                                        rappresentazione, l'ispirazione deve essere stata letteraria.
Tra tanti altri, particolarmente significativi risultano i seguenti miti

  Apollo e Dafne                  Narciso                   Diana e Atteone
«Fer, pater, opem mutando     «si se non noverit»     «Actaeon ego sum: dominum cognoscite
perde figuram, qua ninium                             vestrum!»
placui»
Il mito di Narciso
«ISTE EGO SUM! SENSI, NEC ME MEA FALLIT IMAGO»

     Nicolas Poussin, Narciso, 1628, Museo del Louvre, Parigi
La trama                                       Il fiume Cefiso, innamorato della ninfa Liriope,
                                                            rinchiude l’amata in un antro, avvolgendola nelle
                                                            sue onde e nelle sue correnti, possedendola: da
                                                            questa violenza nasce Narciso. Il giovane era così
                                                            bello che tutti, uomini e donne si innamoravano
                                                            di lui; egli però, incurante, era profondamente
                                                            superbo tanto che respingeva tutti coloro che
                                                            erano attratti da lui. La hybris di Narciso, tuttavia,
                                                            non rimane impunita: sarà maledetto da uno dei
                                                            tanti amanti delusi e dalla dea della vendetta
                                                            divina, Nemesi, che si incarica di fargli scontare la
                                                            sua superbia. Narciso sarà destinato ad
                                                            innamorarsi di se stesso, dopo aver contemplato la
                                                            propria immagine riflessa in una sorgente.
                                                            Progressivamente si rende conto che l’immagine
                                                            che vede non è niente altro che il riflesso del
                                                            proprio aspetto, dunque si invaghisce di sé,
                                                            attratto dalla perfetta simmetria che nota con
                                                            l’avvenente immagine. È particolarmente descritto
                                                            l’innamoramento dal punto di vista psicologico,
                                                            che si può suddividere in quattro fasi.
                                                            Infine Narciso morirà travolto da un amore per il
Gerard Van Kuijl, Narcissus, 1969, Museum of Art, Florida   suo corpo, amore struggente che lo annienta.
La situazione originaria
                           ORDINE

      «Enixa est utero pulcherrima pleno
      Infantem nymphe, iam tunc qui posset amari,
      Narcissumque vocat»

     Narciso era un giovane cacciatore caratterizzato
     da una bellezza tanto raffinata che tutte le
     persone che lo rimiravano, sia uomini che donne,
     se ne innamoravano perdutamente. Egli era solito
     soffermarsi in luoghi verdi per riprendersi dalla
     calura e dalla fatica della caccia.

15
               Franz Caucig, Narciso, 1810, Slovenia
Atto di trasgressione
                                                                                                DISORDINE

                                                                               « Sic hanc, sic alias undis aut montibus ortas
                                                                               luserat hic nymphas, sic coetus ante viriles»

                                                                               Narciso rifuggiva qualsiasi legame amoroso: la
                                                                               sua superbia lo portò a disprezzare chiunque si
                                                                               innamorasse di lui, rifiutando persino le ninfe.
                                                                               Si tratta dunque di un atto di hybris volontario,
                                                                               quella tracotanza che lo faceva sentire al pari
                                                                               degli Dei. Si dice che per la sua vanità, regalò
                                                                               una spada ad Aminia, un suo spasimante,
                                                                               perché si suicidasse arrendendosi per l’amore
                                                                               non corrisposto.
Francesco Curradi, Narciso, 1622, Galleria Palatina e Palazzo Pitti, Firenze
La metamorfosi                                Narciso rimase a lungo presso la fonte
                                                      cercando di afferrare quell’immagine senza
                                                      accorgersi che il tempo trascorresse
            IL RIPRISTINO DELL’ORDINE                 inesorabile, dimenticando di mangiare e
                                                      bere. Alla fine egli morì e quando le Naiadi
«Iamque rogum quassasque faces feretrumque parabat:   e le Driadi andarono a prendere il suo corpo
nusquam corpus erat; croceum pro corpore florem       per collocarlo sulla pira funebre, al suo
inveniunt folliis medium cingemtibus albis»           posto fu trovato uno splendido fiore color
                                                      di croco che da lui prese il nome di narciso.
Il commento del poeta
Si individuano in particolare degli interventi da parte di Ovidio in funzione di narratore:

 al v. 432 «Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?» si individua un’apostrofe con la
  quale il poeta si riferisce direttamente a Narciso con l’intento di risvegliarlo, perché prenda
  coscienza che l’immagine che vede nella fonte, in realtà è il suo riflesso. Il commento
  assume una sfumatura ironica e allo stesso tempo polemica, tipico dei contesti patetici.

 Al v. 447 «tantus tenet error amantem»: secondo alcuni critici si tratta di un commento dello
  stesso Narciso che ha compreso totalmente la sua degradazione; secondo altri, seguendo
  l’ingegnosa tesi del critico E. J. Kenney, questo intervento dovrebbe essere attribuito ad
  Ovidio, che interromperebbe in questo modo il monologo di Narciso. D’altra parte, l’uso di
  «error» presume una coscienza sulla propria «insania» che solo più avanti affiora in Narciso.
  Quindi, quest’affermazione sarebbe poco arguta rispetto all’apostrofe precedente, di
  carattere fortemente polemico.
Prima fase
Narciso che vede la sua immagine riflessa nell’acqua della fonte,
e brucia di un amore passionale, che lo porta a volersi
congiungere a tutti costi con l’amato.

Il poeta descrive l’ingenuità del fanciullo, che ancora
non si rende conto di essersi innamorato di un’illusione,
di qualcosa che non è corporeo e non potrebbe mai
ricambiare il suo sentimento. Viene rappresentato
questo amore che progressivamente investe Narciso,
offuscandogli la ragione e facendogli vedere, nel
comportamento riflessivo dell’acqua, un amato che
ricambia le sue gesta amorose. Il poeta scende nel
dettaglio della raffigurazione della bellezza efebica del
fanciullo, che è ciò che lo rende degno di ammirazione,
e che, di conseguenza, lo ha portato a bruciare per sé
stesso.

 Narciso alla fonte, I sec d.C. Scavi di Pompei, Casa di Lucrezio Frontone (V 4, II)
Testo latino e traduzione
Adstupet ipse sibi vultuque immotus eodem              Prova meraviglia per se stesso e resta con il
                                                       volto immobile, simile ad una statua forgiata
haeret, ut e Pario formatum marmore signum;            nel marmo di Pario; contempla, steso a terra,
spectat humi positus geminum, sua lumina, sidus        un duplice astro, i suoi occhi, i capelli degni
et dignos Baccho, dignos et Apolline crines            sia di Bacco che di Apollo, le guance imberbi,
                                                       il collo d’avorio, la grazia del viso e il rossore
inpubesque genas et eburnea colla decusque             misto al candore nevoso; e tutto quello che
oris et in niveo mixtum candore ruborem,               ammira è ciò a causa del quale lui stesso è
cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse:          degno di ammirazione: desidera se stesso,
                                                       imprudente, e lui stesso che ammira, è
se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur,      ammirato, e mentre cerca, è cercato, allo
dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet.   stesso modo si accende e arde.
Seconda Fase
Narciso si rende conto che c’è qualcosa che non va, ma
ancora non comprende del tutto e, ancora illuso, spera di
potersi unire all’amato.

A questo punto il fanciullo capisce che c’è qualcosa
che ostacola il suo amore, ma non ha compreso ancora
del tutto la natura dell’amato e pensa sia ancora un
altro fanciullo, un altro corpo in grado di
contraccambiare al suo amore. Narciso arriva all’apice
della sua disperazione, perché non ha idea di cosa gli
stia accadendo. Il dolore viene al meglio rappresentato
attraverso il discorso diretto, in cui Narciso si rivolge
alla selva circostante e spiega che la sua sofferenza è
data dall’apparenza che ciò che rende impossibile il
loro amore sia qualcosa di esiguo e facilmente
valicabile, un semplice velo d’acqua.

     Jan Cossiers, Narciso alla fonte, 1636-38, Museo del Prado, Madrid
Testo latino e traduzione
 [...] Et placet et video; sed quod videoque placetque,          [...] E mi piace e lo vedo; ma ciò che vedo e mi
                                                                piace non riesco a trovare»- un errore così
non tamen invenio» - tantus tenet error amantem -               grande possiede colui che ama- «provo ancora
«quoque magis doleam, nec nos mare separat ingens               più dolore, non ci separa un mare immenso,
nec via nec montes nec clausis moenia portis;                   né una strada, né dei monti, né delle mura di
                                                                cinta chiuse; per poca acqua siamo lontani!
exigua prohibemur aqua! Cupit ipse teneri:
                                                                Lui stesso desidera essere tenuto: infatti
nam quotiens liquidis porreximus oscula lymphis,                quante volte abbiamo dato baci alle acque
hic totiens ad me resupino nititur ore.                         limpide, tante volte costui si è proteso verso di
Posse putes tangi: minimum est, quod amantibus obstat [...] .   me con il viso rivolto verso l’alto. Penseresti
                                                                che si possa toccare: è minimo, ciò che
                                                                ostacola gli amanti [...] .
Terza fase
    Viene finalmente analizzata la presa di consapevolezza
    da parte del fanciullo, che comprende di aver rivolto
    questo amore vanamente alla sua immagine riflessa.

     Questo momento corrisponde alla massima
     concretizzazione della tragicità del mito. Narciso,
     meravigliato, capisce di aver bruciato inutilmente per
     se stesso, per la sua immagine riflessa nell’acqua,
     qualcosa che non avrebbe mai potuto ricambiare
     un’emozione così intensa. È, però, ancora incredulo,
     non sa come agire ed è come se nel suo cuore si
     celasse ancora la minima speranza di poter dare
     sfogo a questo desiderio. Non a caso, nel discorso
     diretto, si rivolge ancora alla sua immagine riflessa
     utilizzando i verbi alla prima persona plurale, quasi
     come se fosse un altro individuo, quasi come se fosse
     avvenuta una sorta di scissione.

Caravaggio, Narciso, 1597-99, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma
Testo latino e traduzione
Iste ego sum! Sensi, nec me mea fallit imago;        Costui sono io! L’ho capito, e la mia
                                                     immagine non mi inganna più; brucio a
uror amor mei: flammas moveoque feroque.
                                                     causa del mio amore: allo stesso tempo
Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo?   suscito e subisco le fiamme. Cosa dovrei
Quod cupio mecum est: inopem me copia fecit.         fare? Dovrei chiedere o essere richiesto? Che
O utinam a nostro secedere corpore possem!           cosa poi dovrei chiedere? Ciò che desidero è
                                                     con me: l’abbondanza mi ha reso indigente.
Votum in amante novum: vellem quod amamus abesset.   Oh volesse il cielo che ci si possa separare
Iamque dolor vires adimit, nec tempora vitae         dal nostro corpo! Un nuovo desiderio
longa mea superant, primoque extinguor in aevo.      nell’amante: vorrei che ciò che amiamo fosse
                                                     lontano. E ormai il dolore mi priva delle
                                                     forze, e non resta molto tempo alla mia vita,
                                                     cadrò nel fiore della mia giovinezza.
Jules Cyrille Cave, Narcissus, 1890, collezione privata

                                                                                Narciso, ormai, capisce che un amore del genere non lo

                    Quarta fase                                                 avrebbe rivolto più verso nessun mortale e comprende la
                                                                                vanità della sua esistenza. Per questo, ormai ammaliato
                                                                                disperatamente dalla sua immagine riflessa, decide di
                                                                                lasciarsi pian piano morire, non rivolgendo più nessuna
                                                                                attenzione alla cura di se stesso, fino a quando, con le forze
Momento della morte di Narciso, tragicamente compianto dalle sorelle            ormai esaurite, cade lentamente nell’acqua annegando. Il
ninfe, le Driadi e le Naiadi, e addirittura dalla stessa Eco, che un tempo il   carattere tragico della narrazione è particolarmente
fanciullo aveva brutalmente rifiutato. Proprio nell’attimo in cui ci si         enfatizzato dalla descrizione del poeta, che spiega il lento
accingeva a preparare il rituale funebre, il corpo di Narciso viene
sostituito da un bellissimo fiore color croco: ecco il carattere eziologico,    deterioramento del fanciullo, che lo priva di tutte quelle
che spiega il perché il fiore del narciso abbia questo nome.                    caratteristiche fisiche che un tempo lo avevano reso
                                                                                amabile.
Testo latino e traduzione
  Et neque iam color est mixto candore rubori,                                    E non c’è più il rossore misto al candore
                                                                                  niveo, né il vigore, né le forze, né tutte le cose
  nec vigor et vires et quae modo visa placebant,
                                                                                  che, viste poco prima, lo attraggono, né il
  nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.                                 corpo rimane, che una volta aveva amato Eco.
  [...]                                                                           [...]
  Ultima vox solitam fuit haec spectantis in                  undam:              Furono queste le sue ultime parole mentre si
  «Heu frustra dilecte puer!» totidemque remisit                                  specchiava nelle solite acque: «Oh, fanciullo
  verba locus, dictoque «Vale», «Vale» inquit et Echo.                            inutilmente amato!» e altrettante parole
                                                                                  rimandò il luogo, e detto «Addio», «Addio»
                                                                                  disse anche Eco.

Di particolare rilevanza è il costrutto retorico dictoque «Vale» «Vale» inquit et Echo, che corrisponde ad un chiasmo, incrocio simmetrico di
elementi sintattici. Con tale espressione vengono rese le ultime parole del fanciullo, che esaltano la dimensione tragica e danno al lettore
l’immagine di un corpo che lentamente svanisce.
Narciso e la morte
                                                                                     Il sonno, la morte e la rinascita

                                                                         Nel mito di Ovidio il narciso è il fiore che nasce dalla morte
                                                                        dell’omonimo giovane; in questo senso esso è legato all’idea di
                                                                        perpetua rinascita che fa parte della filosofia di fondo delle
                                                                        Metamorfosi: omnia mutantur, nihil interit. L’elemento che permette
                                                                        il passaggio dalla vita alla morte è l’acqua, che nel mito ha un ruolo
                                                                        di primo piano perché è da lì che Narciso nasce (suo padre Cefiso
                                                                        era un fiume) ed è lì che si inganna e muore.
                                                                        Inoltre, il nome «Narciso» deriva dal greco «narké» che significa
                                                                        torpore, ossia il sonno che gradualmente è un preludio alla morte.
                                                                        Infine, il legame del fiore con la morte è dato anche dall’uccisione
                                                                        di Aminia, uno dei tanti spasimanti, morto suicida, istigato dallo
                                                                        stesso Narciso che gli inviò la spada con cui trafiggersi. Per queste
                                                                        ragioni, oggi il narciso è il fiore più utilizzato per i riti funebri.

Gyula Benczúr, Narcissus, 1844-1920, Magyar Nemzeti Galeria, Budapest
Mito di Narciso e fabula di Tiresia
  La figura del vate Tiresia è utilizzata da Ovidio per
  introdurre il mito di Narciso. Accecato da Giunone,
  Tiresia riceve da Giove il dono della divinazione come
  compenso alla perdita della vista. È proprio per
  dimostrare la veridicità di una sua profezia, che viene
  raccontata la storia di Narciso. Alla domanda di Liriope,
  madre di Narciso, che chiede se il figlio avrebbe vissuto
  abbastanza a lungo da vedere la vecchiaia, Tiresia
  rispose «si se non noverit»: quindi il giovane non avrebbe
  dovuto mai conoscere se stesso. Tale profezia si avverò:
  Narciso restò per sempre adolescente, mantenendo
  intatta la sua bellezza che risvegliava i più teneri
  sentimenti delle ninfe che si avvicinavano.
  Ma si innamorò perdutamente di se stesso e morì
  travolto da un amore per il suo corpo.

Giulio Carpioni, Tiresia predice l’avvenire di Narciso, 1653, Museo d’Arte Medioevale e
                                    Moderna, Padova
Mito di Narciso e fabula di Eco
                             Ovidio lega il mito di Narciso alla fabula di Eco
Eco era solita intrattenere Giunone con le
sue     chiacchierate,    impedendole       di
sorprendere Giove durante i suoi
tradimenti. Scoperto l’inganno, la dea la
punisce facendo in modo che ella non
avesse più la possibilità di parlare, ma solo
di ripetere le parole degli altri, diventando,
dunque, eco.
Eco è una delle innumerevoli spasimanti di
Narciso, attratta a prima vista dal giovane
dotato di una grazia e di una bellezza
indescrivibili. Rifiutata da Narciso, Eco si
lascia completamente morire e di lei rimane
                                                     John William Waterhouse, Eco e Narciso, 1903, Walker Art Gallery, Liverpool
solo la sua voce.
Le varianti del mito

Placido Costanzi, Narciso ed Eco, 1735-40, collezione privata
La ricezione del mito

Nicolas-Bernardt Lepicié, Narcisse, 1771, Musée national di Château, Versailles

       Come il mito è stato reinterpretato a seconda del
       periodo storico.
Il mito come motivo iconografico
                                                            Nell’opera di Tintoretto è rappresentata al meglio la
                                                            fattezza classica di Narciso; particolare inoltre risulta la
                                                            costruzione dello spazio in profondità, grazie al
                                                            movimento alternato delle colline e del ruscello.
                                                            L’artista resta fedele alla fonte            ovidiana della
                                                            rappresentazione della natura che si fonde con i
                                                            personaggi raffigurati. La fanciulla in lontananza è Eco, la
                                                            quale, non avendo la facoltà di parlare e dichiarare il suo
                                                            amore, cerca di abbracciare il giovane.
                                                            Così Tintoretto ci mostra due scene: quella in primo piano,
                                                            nella quale Narciso si innamora di sé specchiandosi nella
                                                            fonte, e quella in lontananza, in cui la Ninfa dimostra il suo
                                                            amore, che sarà successivamente rifiutato.
 Tintoretto, Narciso alla fonte, 1550-1560, olio su tela    Secondo alcuni critici, la rappresentazione in primo piano
                                                            corrisponderebbe alla scena in cui Narciso, una volta
                                                            raggiunto l’Inferno, si specchia nelle acque dello Stige,
«postquam est inferna sede receptus, in stygia              condannato per sempre a vedere la sua immagine riflessa,
spectabat aqua».                                            la stessa immagine che lo aveva ingannato.
Affresco degli scavi di Pompei
 In questo quadro è possibile notare Narciso con il
 consueto mantello, tipico di chi va a caccia.
 Egli è seminudo e osserva se stesso nell’acqua.
 Non sembra ancora aver compreso che l’immagine è lui
 stesso: infatti non vi è alcuno segno di sorpresa.
 La mano sinistra poggia sulla riva del fiume, mentre
 quella destra, alzata sulla testa, accentua l’equilibrio della
 forma del corpo.
 Al di sotto delle sue mani vi sono due lance, usate per
 cacciare; è fedele dunque al modello ovidiano, in quanto
 egli sembra riposarsi dopo una battuta di caccia.
 A sinistra vi è Eco, rappresentata come una ragazza e
 dunque con fattezze fisiche e sessuali precise; tale dato è
 assente nelle Metamorfosi ovidiane.
 Ella mantiene e porge una ghirlanda di narcisi rossi.
 Viene meno dunque l’eziologia ovidiana, in quanto il
 narciso sembrerebbe esistere prima della morte dello
 stesso personaggio, da cui prende il nome.
 Sull’altra riva del fiume vi è Eros, con fattezze
 fanciullesche che è totalmente assente nella versione
 letterale.
          Narciso ed Eco, I sec. d.C., collocato al Museo Archeologico di Napoli,
                                   proveniente da Pompei
Il mito di Apollo e Dafne
                 REMANET NITOR UNUS IN ILLA

Giovanni Battista Tiepolo, Apollo e Dafne, 1755-60, National Gallery, Washington
La trama
                                                                 Cupido, dio dell’amore, imbestialito a causa dell’arroganza di Apollo,
                                                                 imbracciò il suo arco e scagliò una freccia dorata nel suo cuore,
                                                                 facendolo innamorare perdutamente della bellissima ninfa Dafne.
                                                                 Una seconda freccia di piombo, che rende insensibile all’amore, fu
                                                                 invece destinata alla fanciulla, figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre
                                                                 della Terra, e del dio fluviale Peneo, facendole provare una sorta di
                                                                 ribrezzo ingiustificato nei confronti del dio. Apollo partì dunque alla
                                                                 disperata ricerca della ninfa e, dopo averla trovata, cercò, senza
                                                                 alcuna esitazione, di possederla e di conquistare il suo cuore. La
                                                                 fanciulla, sotto l’effetto della freccia scagliata da Eros, si rifiutò e nulla
                                                                 valse a farle cambiare idea. Fuggì via per cercare di schivare la corte
                                                                 spietata del dio ormai innamorato di lei, ma lui la rincorse, deciso ad
                                                                 averla tutta per sé. Dafne, ormai stremata e in preda alla
                                                                 disperazione, chiese aiuto al padre, che intercedendo presso la
                                                                 potentissima Madre Terra, decise di aiutare la figlia a ritrovare la
                                                                 tranquillità ormai perduta. La ragazza venne trasformata in una
                                                                 pianta di alloro: il suo dolce volto svanì sotto gli occhi increduli del
                                                                 suo innamorato che, giunto proprio in quel momento, la avvolgeva in
                                                                 un abbraccio disperato. Da quel giorno l’alloro divenne la pianta
                                                                 sacra di Apollo, che ne portò una corona sempre intorno al suo capo.

Gian Battista Tiepolo, Apollo e Dafne, 1743-44, Louvre, Parigi
Le passioni divine
Il mito di Apollo e Dafne è concepito come un racconto naturalistico
che spiega l’origine dell’alloro, ma in gran parte tratta dei sentimenti
degli dei che, pur essendo immortali, si comportano come gli umani,
essendo vulnerabili alle loro stesse passioni.

Dal punto di vista interpretativo, il mito può essere visto
come una lotta eterna tra castità (Dafne) e pulsione
sessuale (Apollo). La metamorfosi è l’unica soluzione
possibile per la fanciulla per restare vergine per sempre.
Il tutto ruota attorno all’origine dell’uso della pianta di
alloro, polarizzandosi verso il tema dell’amore, fonte, in
questo caso, di dolore per entrambi i protagonisti: il dio
rifiutato e innamorato, e Dafne, offesa e disgustata dalle
offerte del dio, al punto di preferire la natura di pianta a
un sentimento che ripudia.

     Jean Etienne Liotard, Apollo e Dafne, 1736, Rijks Museum, Amsterdam
Situazione originaria
Filius huic Veneris «figat tuus omnia, Phoebe, te
meus arcus»

Apollo, dio delle arti, riesce a sconfiggere il
temibile serpente Pitone, un mostro nato dalla
terra e che infestava le pianure di Delfi
saccheggiando e compiendo atti gravissimi.
Apollo riuscì a eliminarlo scagliandogli contro più
di mille frecce e ottenendo così il controllo sul
famigerato santuario di Delfi, che da quel
momento in poi divenne un luogo a lui dedicato;
si vanta, perciò, della sua impresa. Egli afferma di
essere il migliore a destreggiarsi con l’arco,
causando l’invidia e l’ira d Cupido, dio
dell’amore.

      Paul Rubens, Apollo e il pitone, 1636, Museo del Prato, Madrid
Apollo e Dafne, Scuola veneta del XVII secolo, collezione privata

           Disordine                           Nella narrazione il disordine trionfa nel momento della
                                               fuga estenuante iniziata da Dafne, per sfuggire alla
                                               bestialità della pulsione amorosa che si era impossessata di
                                               Apollo, a causa della freccia che l’aveva trafitto.
                                               Il caos domina sui due personaggi, in particolare su quello
«Plura locuturum timido Peneia cursu           della ninfa, che in un gesto così estremo e disperato, colpita
                                               dal vento, mostra al dio tutta la sua spontanea bellezza,
fugit cumque ipso verba imperfecta reliquit»   facendolo ardere più intensamente.
La metamorfosi
IL RIPRISTINO DELL’ORDINE

L’ordine si ripristina quando finalmente
Dafne viene trasformata in una pianta di
alloro dal padre impietosito. Piuttosto che
lasciarsi toccare da Apollo, la ragazza
preferisce una nuova veste, anche se ciò
comporta la fine della sua vita.
La descrizione di Ovidio è ancora
estremamente dettagliata, soprattutto nella
raffigurazione delle diverse parti del corpo
della fanciulla che progressivamente si
tramutano nelle parti di una pianta: i suoi
capelli e le sue braccia che diventano rami
ricchi di foglie, il suo corpo che si ricopre di
corteccia, i suoi piedi, una volta tanto veloci,
che assumono la forma di solide radici.

  «in frondem crines, in ramos bracchia crescent,
  pes modo tam velox pigris radicibus haeret.»      Paolo Veronese, Apollo e Dafne, 1570-75, Arts Gallery, San Diego (California)
L’intervento dell’autore
                 Latino                                                                            Italiano
 Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo                                    Come quando il cane gallico vede la lepre nel
 vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem                              campo vuoto, e questo correndo cerca la
                                                                                preda, quella la salvezza (l’uno simile a colui
 (alter inhaesuro similis iam iamque tenere                                     che sta per brandire la preda, spera di
 sperat et extento stringit vestigia rostro,                                    possederla quanto prima e le stringe i passi
 alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis                              con il muso proteso; l’altra è incerta, se sia
                                                                                stata presa, e si sottrae agli stessi morsi e si
 morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit):                                 allontana dalla bocca che vuole toccarla): così
 sic deus et virgo; est hic spe celer, illa timore.                             il dio e la vergine; questo veloce a causa della
                                                                                speranza, l’altra a causa del timore.

Il poeta, con questa significativa similitudine, descrive il comportamento e la situazione dei due personaggi. Apollo viene paragonato
ad un cane gallico, predatore, che sta inseguendo con tutte le sue forze una lepre, sua preda, per potersene nutrire e saziare la sua
fame. Dafne, invece, fuggiasca, viene paragonata alla stessa preda, che si getta in una corsa esasperata ed estenuante, per poter mettere
in salvo la sua vita. L’uno è veloce a causa della speranza di poter catturare l’altra, l’altra a causa del timore della morte.
Antonio Sarnelli, Apollo e Dafne, collezione Saverio di Giaimo, Napoli

 Il discorso diretto di Dafne                           In seguito alla corsa estenuante, Dafne, al limite
                                                        delle sue forze, scorgendo le acque del fiume
                                                        Peneo, ripone la sua ultima speranza in una
                                                        preghiera alla stessa divinità fluviale, che non è
Ultima azione disperata della fanciulla, che ha         altro che il padre. Nel passo ovidiano il tutto viene
ormai perso le forze e capisce di non poter più         reso attraverso un discorso diretto della fanciulla
nulla contro il furore di Apollo.                       stessa, che enfatizza il carattere drammatico della
                                                        narrazione.
Testo latino e traduzione
«Fer, pater,» inquit «opem! si flumina numen habetis,   Dice : «Portate aiuto, padre! Se voi fiumi avete
                                                        ancora potere, fatemi perdere la bellezza per
qua nimium placui, mutando perde figuram!»
                                                        cui piacqui troppo!». Appena finita la
Vix prece finita torpor gravis occupat artus,           preghiera, un grave torpore occupa le
mollia cinguntur tenui praecordia libro,                membra, il petto molle è cinto da una tenue
                                                        corteccia, i capelli crescono in foglie, le braccia
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt,
                                                        in rami, i piedi una volta tanto veloci si
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,             fissano in radici statiche, una cima possiede il
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.          volto: in lei rimane soltanto lo splendore. Febo
                                                        la ama anche così, posta la mano destra sul
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra    tronco, sente ancora il petto trepidare sotto la
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus          nuova corteccia; avvinghiati con le braccia i
conplexusque suis ramos ut membra lacertis              rami come membra, dà baci al legno, il legno
                                                        tuttavia li rifiuta.
oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum.
Francesco Albani, Apollo e Dafne, 1660, Louvre, Parigi

      Il carattere politico                                     Questo velato riferimento ad Augusto si ritrova
                                                                nella parte finale della narrazione, in cui vengono
                                                                spiegati i diversi elementi della cultura romana
                                                                collegati alla simbologia dell’alloro, dove si ritrova,
Si fa riferimento ai rami di alloro che decoravano i battenti   dunque, l’eziologia ovidiana. Ciò ci permette di
dell’ingresso del palazzo di Augusto sul Palatino; appesa
alla porta spiccava la corona civica di quercia che il senato   ricordare lo scopo politico dell’opera, in cui viene
decretò in onore del princeps nel 28 a.C.                       celebrata la grandezza di Ottaviano.
Testo latino e traduzione
Cui deus «at, quoniam coniunx mea non potes esse,     E il dio disse a lei: «Ma, visto che non
arbor eris certe» dixit «mea! semper habebunt         potrai essere mia moglie, sarai almeno il
                                                      mio albero! Avranno sempre te le chiome,
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae;   le cetre, le nostre faretre, o Lauro; tu
tu ducibus Latiis aderis, cum laeta Triumphum         accompagnerai i comandanti Romani,
vox canet et visent longas Capitolia pompas;          quando una voce lieta canterà il trionfo e il
                                                      Capitolino vedrà i lunghi cortei; tu stesso,
postibus Augustis eadem fidissima custos
                                                      fedelissimo custode, starai davanti ai
ante fores stabis mediamque tuebere quercum,          battenti e proteggerai la quercia mediana; e
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,      così come il mio capo resta giovane per i
                                                      capelli intonsi, anche tu porterai sempre gli
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores!»
                                                      onori perpetui delle fronde!»
La cultura dell’alloro
L’alloro, Laurus nobilis o Lauro è una delle piante più
utilizzate nel campo simbolico, in arte, in poesia e nella
pittura.
L’albero di alloro è un sempreverde ed è proprio per
questa sua imperturbabilità rispetto alle stagioni che gli
antichi la consideravano prodigiosa ed era considerata
simbolo di immortalità, in particolare di “gloria
immortale”. Nell’antichità, come testimonia Aulo
Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa) ne Le notti attiche,
con le corone di alloro, prima del passaggio all’uso di
manufatti d’oro, veniva incoronato il comandante
dell’esercito dopo la vittoria, o l’imperatore.

             Apollo, XVII, Scuola italiana, Louvre, Parigi
Il mito come spunto iconografico
Commissionata dal cardinale Scipione Borghese, "Apollo e Dafne" è
una delle opere giovanili del Bernini.
La pelle perfettamente levigata dei personaggi rende la scultura molto
realistica, insieme agli elementi che ne rendono il movimento.
Infatti, il dio in corsa è rappresentato con la gamba sinistra sollevata,
nel suo ultimo slancio verso Dafne; con i capelli spostati indietro dal
vento e il mantello gonfio per la corsa,Apollo affonda già la mano
sinistra nel fianco della ninfa.
La spalla dell'innamorato sembra, però, non naturalmente volta
all'indietro, a differenza del resto del corpo, come per mostrare
sorpresa che non viene, invece, fatta trasparire nel viso pensieroso e
concentrato.
La fanciulla, invece, vercando di liberarsi dalla presa del dio, gira il
proprio corpo su se' stesso, nel tentativo di continuare la fuga.
Il movimento è scandito dalla parte superiore della figura:il busto e i
capelli che ruotano al vento.
La parte inferiore, invece, è come se non rispondesse alla sua volontà;
il piede sinistro ormai divenuto radice e ancorato al terreno e quello
destro leggermente sollevato.

       Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625, Roma, Galleria Borghese
Dettagli artistici
La testa rivolta verso il dio non permette a Dafne di
vedere le punte dei capelli e delle dita trasformate, ormai,
trasformate in foglie di alloro mentre il corpo ruotato
mostra il desiderio di sfuggire al dio alle sue spalle.
Il volto della fanciulla trasmette la paura di essere
raggiunta ma anche il sollievo della sua prossima
trasformazione; ella, infatti, si è probabilmente accorta del
gesto di pietà del padre Peneo.
La presenza di questo quadro apertamente pagano nella
residenza di un cardinale fu giustificata da un distico a
carattere moralistico di Maffeo Barberini:“Quisquis amans
sequitur fugitivae gaudia formae/ fronde manus implet
baccas seu carpit amaras//” che tradotto è:“Chi amando
segue le fuggenti forme dei divertimenti,/ alla fine si
riempie la mano di fronde e coglie bacche amare//”.

    Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-1625, Roma, Galleria Borghese
Affresco degli scavi di Pompei
   La raffigurazione, di esempio molto probabilmente
   ovidiano, rappresenterebbe il mito di Apollo e Dafne ed in
   particolare la fuga della Ninfa dal dio.
   La figura di Apollo è raffigurata con un mantello legato al
   collo e due lunghe lancie da cacciatore fra le mani; egli è in
   movimento verso sinistra: il mantello è gonfiato dal vento
   durante la corsa.
   Dafne è, invece, seminuda, in corsa e con la mano destra
   intenta a tenere un lembo del suo vestito per non perderlo;
   con la mano sinistra ella, invece, tenta di scacciare il dio e
   rifiutare le sue richieste.
   E' possibile che la fanciulla abbia tra i capelli principi di
   ramoscelli che riportano al mito ovidiano in cui ella si
   trasforma in pianta di alloro.

Apollo e Dafne, anonimo pittore pompeiano del I sec. d.C., 63-68 d.C., Pompei, Casa dei Vetti
Il mito di Diana e Atteone
«ACTAEON EGO SUM: DOMINUM COGNOSCITE VESTRUM!»

    Pier Francesco Cittadini, Diana e Atteone, 1600, collezione privata
La trama
Un giovane cacciatore di nome Atteone, si trovava nei boschi
accompagnato dai suoi fedeli cani per condurre una battuta di caccia.
Mentre vagava nei boschi, giunse a una radura con una grotta e un
laghetto dall’acqua cristallina mentre la dea Diana stava facendo il bagno
insieme a un gruppo di ninfe. Atteone, invece di andare via e lasciare le
donne alla loro intimità, non poté resistere e così indugiò, nascosto dietro
a un albero, posando lo sguardo sulle nudità della dea e contemplandone
la bellezza. Diana, accortasi della sua presenza e adirata per essere stata
furtivamente osservata, spruzzò dell’acqua sul volto dell’uomo.
Immediatamente il povero Atteone venne tramutato in un cervo, così non
avrebbe mai potuto raccontare ciò che aveva visto. Atteone fuggì
impaurito, ma non si accorse della trasformazione fin quando non giunse
a una fonte, dove poté specchiarsi nell’acqua. L’uomo era stato tramutato
proprio nella creatura cui lui e i suoi cani stavano dando la caccia poco
prima. Così, il cacciatore divenne preda dei suoi cani che, incapaci di
riconoscerlo, lo sbranarono. Poco dopo gli animali, compiuto lo scempio,
si misero alla ricerca del loro padrone, riempiendo la foresta di dolorosi
latrati.

     Francesco Albani, Diana e Atteone con le ninfe, prima metà del sec. XVII, Dublino
La situazione originaria
                               ORDINE

              «cuius in extremo est antrum nemorale recessu

              arte laboratum nulla: simulaverat artem

              ingenio natura suo»

Atteone era figlio di Aristeo e di Antinoe, famoso come eroe e
come cacciatore. Alla caccia lo aveva addestrato il centauro
Chirone. In un giorno di caccia, inseguendo un cinghiale, si
trovò nei pressi di una laghetto, dove Artemide e le ninfe
facevano il bagno.

   Giuseppe Cesari, Diana e Atteone (particolare), 1603, Szepmuveszeti Muzeum, Budapest
Giacomo Ceruti, Diana e le ninfe sorprese da Atteone, 1744, Museo d’Arte Sorlini, Brescia

Atto di trasgressione                               Atteone, mosso da una smodata curiosità, osserva ciò che dovrebbe
                                                    rimanere nascosto agli occhi umani: il bagno di una dea che voleva
               DISORDINE                            mantenere intatta la propria verginità. A questo tentativo di
                                                    ribellione sconsiderata, si aggiunge anche il carattere fortemente
                                                    irrequieto di Diana. Ella era amante della solitudine, infatti era solita
«ecce nepos Cadmi dilata parte laborum              addentrarsi in luoghi isolati; era contraria agli stravizi e alle
per nemus ignotum non certis passibus errans        trasgressioni. Atteone aveva partecipato volontariamente a un
                                                    genere di visione proibita ai mortali: aveva penetrato l’essenza senza
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant»
                                                    ombre della Natura.
La trasformazione
                     RIPRISTINO DELL’ORDINE

      «me miserum!» dicturus erat: vox nulla secuta est!

  La metamorfosi, come dice Umberto Curi, può essere
  interpretata secondo due livelli. In primo luogo essa
  consiste nella trasformazione in qualcosa di completamente
  diverso: Atteone, che è un cacciatore(umano), si trasforma
  in cervo(animale) e preda. In secondo luogo la metamorfosi
  è come se fosse il palesamento di un’essenza rimasta
  nascosta nel soggetto trasformato: è come se Atteone,
  proprio perché sempre a contatto con l’animalità e il mondo
  della natura, fosse lui stesso un animale.
  Atteone passa dall’essere cacciatore a preda stessa, da
  padrone dei suoi cani a loro nemico. Se prima i cani
  provavano un rapporto di fides (fedeltà) verso il loro
  padrone, a metamorfosi avvenuta il rispetto reciproco si
  tramuta in un odium incondizionato e involontario.

Parmigianino, Stufetta di Diana e Atteone (particolare), 1542, Rocca Sanvitale, Fontanellato
Il commento del poeta
Ovidio nel mito non dà un proprio parere personale, ma si
limita a riportare quelli degli altri, enfatizzandone la
contraddittorietà. Ovidio afferma che per alcuni la dea fu
troppo crudele, altri invece la lodano poiché la considerano
degna della sua verginità austera. Tuttavia, il poeta adduce      «Rumor in ambiguo est; aliis violentior aequo
                                                                  visa dea est, alii laudant dignamque severa
tra tutte l’opinione di Giunone, che esulta per la sciagura che   virginitate vocant: pars invenit utraque causas.
ha colpito il casato di Agenore, rivale fenicia. Il commento di   sola Iovis coniunx non tam, culpetne probetne,
Ovidio è di fondamentale importanza per introdurre il mito        eloquitur, quam clade domus ab Agenore ductae
                                                                  gaudet et a Tyria collectum paelice transfert
successivo della nascita di Bacco tra Giove e Semele. Il nome     in generis socios odium»
di Semele compare sempre legato al mito di Diana e Atteone
ma secondo un’interpretazione completamente nuova. Si
direbbe infatti che la punizione di Atteone provenne da Zeus,
perché il giovane aveva cercato di insidiare la sua stessa
figlia.
La ricezione del mito
Il mito di Diana e Atteone ci fa riflettere sull’impossibilità di superare certi limiti nella conoscenza della
Natura, perché c’è il rischio di provocare un rovesciamento nell’opposto: dalla umanità alla bestiale e
inauspicata naturalità. Il dramma di Atteone sta nella presa di coscienza della propria degradazione, cui
fa seguito la scelta di morire restando a vagare tra i boschi, preda inevitabile dei suoi stessi cani.

«…ond’ella ebbe vergogna; et per farne vendetta, o              «… s’andava in quella guisa che scolpita / o dipinta è Diana
per celarse, l’acqua nel viso co le man’ mi sparse»             ne la fonte, / che getta l’acqua ad Ateone in fronte.»
Petrarca, sonetto LII                                           Ariosto, Orlando Furioso, canto XI, ottava 58

«...mi ritrovai di quel mantel coperto / che gli altri usciti    «da’ rimorsi della propria coscienza per la
dello ardente agone; / e vidimi alla bella donna offerto, / e    religion violata…»
di cervio mutato in creatura / umana e razionale esser per       Vico, I Principi di Scienza Nuova
certo.»
Boccaccio, La caccia di Diana, vv. 10-12
Giulio Bonasone, Diana e Atteone, 1576, collezione privata

         Atteone e la valle                                        Alla fons di Narciso si contrappone per parallelismo la vallis di Diana.
                                                                   Tuttavia, Ovidio nel mito citato ci presenta il nome della valle. Dallo
                                                                   sfondo generale si passa al particolare della grotta, caratterizzata da un
                                                                   arco spontaneo, e di una fonte. La fonte è un "chiaro nel bosco", come
                                                                   l'avrebbero chiamata Martin Heidegger e Maria Zambrano (il chiaro del
                                                                   bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva
                                                                   dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a
Il mito ha inizio con una descrizione (ekphrasis) iniziale della   compiere tale passo; è un altro regno che un'anima abita e custodisce).
valle, chiamata Gargafia, arte incontaminata prodotta dalla        La dea Diana era solita giacere e riposarsi, per la fatica della caccia
natura stessa. È dunque un locus amoenus, simbolo di pace e        (analogia sempre con Narciso). Sulle rive stavano sdraiate delle belle e
prosperità, come la fonte di Narciso; non è un caso infatti che    nude Ninfe (personificazioni delle forze della natura, dai nomi gioiosi:
l'incipit per entrambi gli sfondi dello scenario sia simile.       Crocale, Nefele, Iale, Ranide, Psecade e Fiale), che aiutano la Dea a
                                                                   svestirsi. Il luogo ha una descrizione connotativa.
Testo latino e traduzione
Vallis erat piceis et acuta densa cupressu,
nomine Gargaphie succinctae sacra Dianae,
                                                               Era una valle coperta di pini e sottili cipressi,
                                                               chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte,
cuius in extremo est antrum nemorale recessu                   nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro
arte laboratum nulla: simulaverat artem                        incontaminato dall’uomo: la natura col suo estro
ingenio natura suo; nam pumice vivo                            l’aveva reso simile a un’opera d’arte: con pomice
                                                               viva e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale.
et levibus tofis nativum duxerat arcum;
                                                               Sulla destra in mille riflessi frusciava una fonte
fons sonat a dextra tenui perlucidus unda,                     d’acque limpide, col taglio della sua fessura
margine gramineo patulos incinctus hiatus.                     incorniciato di margini erbosi. Qui veniva, quand’era
hic dea silvarum venatu fessa solebat                          stanca di cacciare, la dea delle selve per rinfrescare il
                                                               suo corpo di vergine in acque sorgive. E qui giunta,
virgineos artus liquido perfundere rore.
                                                               alla ninfa che le fa da scudiera consegna il
quo postquam subiit, nympharum tradidit uni                    giavellotto, la faretra e il suo arco allentato; si sfila la
armigerae iaculum pharetramque arcusque retentos,              veste che un’altra prende sulle braccia; due le
altera depositae subiecit bracchia pallae,                     tolgono i sandali dai piedi, e la figlia di Ismeno,
                                                               Cròcale, più esperta di queste, in un nodo le
vincla duae pedibus demunt; nam doctior illis
                                                               raccoglie i capelli sparsi sul collo, che lei al solito
Ismenis Crocale sparsos per colla capillos                     portava sciolti. Nèfele, Iale, Ranis, Psecas e Fiale
colligit in nodum, quamvis erat ipsa solutis.                  attingono acqua con anfore capaci e gliela versano
excipiunt laticem Nepheleque Hyaleque Rhanisque                sul corpo.
et Psecas et Phiale funduntque capacibus urnis.
Luca Penni, Diana e Atteone, Museo Civico, Pistoia

 Tracotanza e trasfomazione                                                La dea sfida Atteone a raccontare di averla vista senza veli,
                                                                           rivolgendosi direttamente a lui attraverso una vera e propria
                                                                           minaccia. Arriva la metamorfosi: Ovidio descrive
                                                                           minuziosamente tutti i particolari del corpo soggetti a tale
                                                                           trasformazione, passando dal capo, alle mani, fino ad arrivare
Alla vista dell’uomo, le donne si percossero il petto e corsero, tra       ai piedi. Si riferisce nuovamente al personaggio senza mai
stridule grida, a coprire la dea. Il tentativo però è vano, in quanto la   citare il nome: lo chiama heros, secondo una sfumatura
dea era di statura superiore. Non avendo a disposizione le frecce,         pressoché ironica, e «Autonoeius», ossia figlio di Autònoe,
poiché precedentemente svestita, gettò l'acqua in faccia a Atteone.        patronimico.
Testo latino e traduzione
Quae, quamquam comitum turba est stipata suarum,   Benché attorniata dalla ressa delle sue
in latus obliquum tamen adstitit oraque retro      compagne, pure si pose di traverso e volse il
                                                   volto indietro. Non avendo a presa di mano le
flexit et, ut vellet promptas habuisse sagittas,
                                                   frecce, come avrebbe voluto, attinse l’acqua
quas habuit sic hausit aquas vultumque virilem     che aveva ai piedi e la gettò in faccia all’uomo,
perfudit spargensque comas ultricibus undis        inzuppandogli i capelli con quel diluvio di
addidit haec cladis praenuntia verba futurae:      vendetta, e a predire l’imminente sventura,
                                                   aggiunse: «Ed ora racconta d’avermi vista
'nunc tibi me posito visam velamine narres,
                                                   senza veli, se sei in grado di farlo!». Senza
sit poteris narrare, licet!' nec plura minata      altre minacce, sul suo capo gocciolante impose
dat sparso capiti vivacis cornua cervi,            corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli
dat spatium collo summasque cacuminat aures        appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani
cum pedibusque manus, cum longis bracchia mutat    in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli
                                                   ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli
cruribus et velat maculoso vellere corpus;         infuse in più la timidezza. Via fuggì l’eroe,
additus et pavor est: fugit Autonoeius heros       figlio di Autònoe.
La graduale presa di coscienza
 Egli comincia a comprendere la sua nuova natura dalla sua
 velocità di corsa (riferimento alla velocità di Apollo e Dafne per
 motivi differenti). Egli si avvicinò ad uno specchio d’acqua e vide
 il proprio volto con le corna. L’espressione «me miserum», in
 chiara analogia con l’«iste ego sum» di Narciso, è esempio della
 presa di coscienza della sua degradazione. Tuttavia,
 differentemente da Narciso, i lamenti rimangono interni, in
 quanto è stato privato della sua voce. Ciò che rimane ad Atteone
 è solo un gemito. Ovidio inserisce poi una serie di domande
 dirette, concentrandosi su ciò che avrebbe pensato Atteone in
 quel momento: tornare a casa o addentrarsi nella foresta? Il
 «Quid faciat» riprende il «quid faciam» nel mito di Narciso. Il
 parallelismo tra pudor e timor accresce l'impossibilità per Atteone
 di prendere una decisione in quel momento; la vergogna (pudor)
 per esser visto e il timore (timor) di morire nel bosco. I suoi cani lo
 avvistarono.(...) Segue poi un erudito elenco con i nomi dei 27
 cani di Atteone, provenienti tutti dall’Arcadia (...). Comincia la
 corsa di questa grande mandria contro Atteone; i primi corrono
 per divorare la preda, l’altro per la speranza di vivere(«heu»,
 espressione simile nell’abbandono del corpo di Narciso).
 Conosciamo il nome del cacciatore solo quando viene
 pronunciato da lui stesso (iste ego sum - Actaeon ego sum, cfr.
 Narciso). Egli vorrebbe dire queste parole, ma queste non escono
 dal suo animo.

Parmigianino, Stufetta di Diana e Atteone (particolare), 1542, Rocca Sanvitale, Fontanellato
Testo latino e traduzione
«et se tam celerem cursu miratur in ipso.                         «Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l’eroe, figlio di
ut vero vultus et cornua vidit in unda, «me miserum!»             Autònoe, e mentre fuggiva si stupì d’essere così veloce.
                                                                  Quando poi vide in uno specchio d'acqua il proprio
dicturus erat: vox nulla secuta est!                              aspetto con le corna,
ingemuit: vox illa fuit, lacrimaeque per ora                      «Povero me!» stava per dire: nemmeno un fil di voce gli
                                                                  uscì.
non sua fluxerunt; mens tantum pristina mansit.
                                                                  Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli
quid faciat? repetatne domum et regalia tecta                     scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un
an lateat silvis? pudor hoc, timor inpedit illud                  tempo gli rimase. Che fare? Tornare a casa, nella reggia,
                                                                  o nascondersi nei boschi? Quello glielo impediva la
Dum dubitat, videre canes, primique Melampus»                     vergogna, questo il timore. Mentre si arrovellava, lo
                                                                  avvistarono i cani. Melampo e Icnòbate.»

«(...) quosque referre mora est: ea turba cupidine praedae
per rupes scopulosque adituque carentia saxa,                     «(...) Lui fugge, per quei luoghi dove un tempo li aveva
                                                                  seguiti,
quaque est difficilis quaque est via nulla, sequuntur.
                                                                  ahimè lui fugge i suoi stessi fedeli. Vorrebbe gridare:
ille fugit per quae fuerat loca saepe secutus,                    «Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro
                                                                  padrone?».
heu! famulos fugit ipse suos. clamare libebat:
                                                                  Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo è pieno di
«Actaeon ego sum: dominum cognoscite vestrum!»                    latrati.»
verba animo desunt; resonat latratibus aether.»
Puoi anche leggere