L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza

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L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza
Dipartimento di Scienze Politiche
              Cattedra di Giornalismo politico-economico

L’obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza

           Analisi e riflessioni su disinformazione, Coronavirus

                     e la salvaguardia della democrazia

  Prof. Fabio Carducci Artenisio                Domiziana Flaviani
         RELATORE                                 CANDIDATO

                          Anno accademico 2020/2021

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L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza
Indice

INTRODUZIONE ............................................................................................................. 3

1) Oggettività e obiettività: cosa sono? ............................................................................ 5
 1.1) Il caso italiano .......................................................................................................... 6
 1.2) Il dibattito in Italia ................................................................................................. 12
 1.3) La deontologia del giornalista ................................................................................ 13

2) Informazione, disinformazione e fake news.............................................................. 15
 2.1) Un’informazione di qualità ........................................................................................
 2.2) Le sfide da “infodemia” ......................................................................................... 16
 2.3) Il racconto della Pandemia ..................................................................................... 18

3) L’obiettività giornalistica guardiana della democrazia .......................................... 23
 3.1) L’etica del giornalismo ..............................................................................................
 3.2) Informazione libera e responsabile nella digitalizzazione ..................................... 25
 3.3) Il giornalista, guardiano del diritto di sapere ......................................................... 29
 3.4) La libertà di stampa, sintomo di democrazia ......................................................... 30

CONCLUSIONI................................................................................................................................. 34

 BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................. 37

 SITOGRAFIA ................................................................................................................................... 39

                                                                     2
L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza
Introduzione
L’obiettività è solo uno dei valori su cui poggia il giornalismo, che peraltro si dimostra, ogni giorno di più,
impastato di emozioni, di pressioni politiche, di buono e cattivo gusto, di esigenze commerciali e di molto
altro. È un argomento ampiamente discusso: Obiettività nel giornalismo? È un’aspirazione legittima e
praticabile? È una bella utopia? È solo una mistificazione ideologica? È un argomento al quale vale la pena di
dedicare più di cinque minuti al bar? Di sicuro è un valore in crisi. Tra le cause della crisi dell’obiettività nel
giornalismo di certo ci sono l’inflazione e l’autoreferenzialità dei messaggi, la moltiplicazione dei media, la
confusione tra comunicazione e informazioni ma anche gli stessi meccanismi della professione giornalistica.
Ma sull’importanza di questo tema non si può cedere: è centrale, ne va della credibilità del giornalismo e,
dunque, del futuro della professione.
           L’obiettività non deriva dal riportare diligentemente quanto dicono le fonti ma deriva dalla visione
critica, esplicita, tramite cui si interpretano le fonti. Se ad esempio, si riporta unicamente ciò che affermano le
fonti, le “mezze bugie” entrano in circolo, distorcendo l’informazione; se invece si sottopone a verifica ciò
che dicono le fonti, si tengono a bada quelle “mezze” bugie trasformandole in un argomento da approfondire.
Altrimenti si perde l’essenza del ruolo del giornalista che finisce con mettere in crisi il suo mestiere e la sua
credibilità. Il giornalista può e deve verificare la coerenza tra fatti e parole, non si tratta di cercare la verità
assoluta, ma di scavare e approfondire un argomento.
           La professione giornalistica è caratterizzata da due regole d’oro. In primo luogo, i fatti sono sacri, le
opinioni sono libere: comment is free, but facts are sacred1. Nel giornalismo è necessaria una chiara distinzione
tra notizie e opinioni. Le notizie sono informazioni, fatti e dati, e le opinioni sono espressione di pensiero, di
idee, di convincimenti o giudizi di valore da parte dei mezzi di comunicazione sociale, degli editori e dei
giornalisti. In secondo luogo, ogni informazione o notizia, per essere definita tale, deve rispondere ai seguenti
quesiti: who, what, where, when, why, how. Nella pratica giornalistica anglosassone, questa è la cosiddetta
regola d’oro delle cinque W, cui si è aggiunto How. Tradotto in italiano: chi, cosa, dove, quando, perché e
come (anche se il perché, secondo gli standards giornalistici, si usa quando si vuole approfondire). In principio
era la regola aurea della buona scrittura, racchiusa negli interrogativi con cui il giornalismo anglosassone
definiva i cosiddetti elementi identificativi di un fatto e insieme l’attacco di un pezzo. Le cinque W sono
espressione del realismo anglosassone, per cui il contenuto del giornalismo è niente più che i fatti, separati
dalle opinioni e rappresentabili in una pretesa oggettività2.
           Le risposte a quattro di queste cinque domande non pongono, di solito, speciali problemi di ordine
morale, non mettono particolarmente in gioco l’obiettività. La risposta al «what», invece, si dimostra più
problematica: cosa è successo? Se si parla di rialzi e cadute in Borsa, non è particolarmente difficile. Se

1
    La frase, del chimico diventato giornalista C.P. Scott, apparve per la prima volta sul «Manchester Guardian» il 26 maggio 1926.
2
    Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.73.
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L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza
s’intende invece riportare azioni umane – argomento più frequente sui giornali – allora la questione si
complica: c’è stato un incidente oppure un omicidio?3.
        Ecco perché la tecnica delle cinque W non regge alla prova della modernità e dell’accresciuta
complessità dei fenomeni che il giornalismo è chiamato a rappresentare.
        Nel primo capitolo dell’elaborato ci soffermeremo sulla distinzione tra obiettività ed oggettività
dell’informazione, concentrandoci sul caso italiano e sul dibattito ampiamente discusso su questo concetto,
approfondendo i valori del giornalista. In Italia, parlando di giornalismo si tende a sottolineare l’aspetto “etico”
della professione, quasi considerandolo come una missione, una vocazione o uno stile di vita, e non un lavoro
dotato di una propria deontologia da fondarsi su un metodo “scientifico”. La professione giornalistica deve
essere un mestiere metodologicamente segnato dal dubbio costante, dall’umiltà ispirata al “so di non sapere”
di Socrate, un motto che esprime la consapevolezza di non conoscere a fondo le cose: l’unica regola è il dovere
di “ripensarci”, di scavare.
        Nel secondo capitolo vedremo come in questo periodo di emergenza sanitaria da Coronavirus sia
presente una condizione di sostanziale immersione 24 ore su 24 nelle notizie, definita “Infodemia”
dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Mai come in questi giorni le parole sono state importanti. E
continuano ad esserlo. Nel periodo di emergenza, le parole sono state spesso quelle sbagliate, fuorvianti, che
confermano e poi smentiscono senza spiegare il perché, che insinuano tarli e ti lasciano lì, come se fosse
arrivata una tempesta di vento e tu non avessi avuto neanche il tempo di capire da dove e perché4. È il fenomeno
della disinformazione, delle fake news, che in questo periodo così complicato rappresentano dei grandi scogli
per chi cerca di informarsi correttamente, soprattutto nel web. Oggi sappiamo che l’egemonia delle nuove
tecnologie dell’informazione ha un effetto bifronte. Da una parte favorisce un’evoluzione virtuosa della
democrazia, dall’altra parte può radicalizzare le convinzioni dei consumatori di notizie, riflettendo la crescita
dell’antipolitica e l’esaltazione della società civile contro lo Stato.
        Nel terzo capitolo vedremo come l’obiettività giornalistica sia proprio la guardiana della democrazia.
Tra diritti e democrazia e tra giornalismo e società, c’è una correlazione. I diritti sono il carburante della
democrazia. E il giornalista è il guardiano di quello che possiamo definire il “diritto di sapere”. In definitiva,
l’elemento che più identifica il tratto etico e professionale del giornalista è quello della non appartenenza: i
giornalisti non sono supinamente dalla parte del potere, ma non sono neanche acriticamente dalla parte della
società, di cui coraggiosamente smascherano i pregiudizi. Sono i professionisti di un sapere del dubbio del
quale, oggi più di ieri, c’è tanto bisogno5. Alla fine di questo elaborato vedremo come l’obiettività totale non
potrà mai essere raggiunta, ma i giornalisti debbano aspirarvi: un po’ come, per fare un paragone, le grandi
religioni aspirano alla perfezione umana. Dobbiamo puntare alla coerenza delle parole e, laddove sia possibile,

3
   Gonzàles Gaitano, Norberto. “Obiettiva, imparziale, neutrale e veritiera. L'informazione giornalistica tra modello e
realtà.” Problemi dell'informazione 29.3 (2004): 405-413.
4
  Maccarone Cristina, “Dove sono finiti l’obiettività e l’etica nel giornalismo?”, art. in flacoedizioni.com.
5
  Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.286.
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L'obiettività giornalistica, la professione della non appartenenza
all’empirica corrispondenza tra parole e fatti, affinché il giornalismo abbia un senso come professione e possa
svolgere quella funzione democratica che gli viene attribuita.

    1. Oggettività e obiettività: cosa sono?
I termini oggettività e obiettività, in particolare nel contesto informativo, sono da distinguere. A causa dell’uso
e dell’abuso di questi concetti, si è creata una distorsione riguardante la loro distinta accezione. “Un insieme
di informazioni sono oggettive se sono pubblicamente controllabili in base a fatti e quindi passibili di smentita
o conferma. In altri termini, una proposizione, una notizia o un’informazione è oggettiva se noi abbiamo i
mezzi per poterla controllare. Questo è esattamente il significato epistemologico del termine oggettività”.6
         Quando parliamo di obiettività ci riferiamo a una dote della persona, del giornalista: una dote di onestà
non riferibile alla notizia, ma alle intenzioni di chi l’ha scritta. È una dote che si manifesta già nella scelta delle
notizie da pubblicare, nel loro ordine di importanza, nello stesso modo di scrivere, di aggiungere dettagli o di
ometterli consapevolmente. E, infine, l’obiettività di un giornalista sta nel seguire le regole del metodo
scientifico, fornendo al pubblico un’informazione di qualità, parziale ma non faziosa, incompleta ma non
manipolata.
         L’obiettività dell’informazione è un concetto da sempre centrale nella professione giornalistica. È
caratterizzante nel delineare il discrimine di ideale tra “buona” e “cattiva informazione”. L’idea di un
giornalismo obiettivo riassume l’esigenza che il sistema dell’informazione sia libero di condizionamenti, non
diventi uno strumento di manipolazione al servizio del potere o delle idee personali del singolo giornalista.
         L’obiettività nel giornalismo ha lo scopo di aiutare il pubblico a decidere da solo su una storia, fornendo
solo i fatti e lasciando che il pubblico li interpreti da sé. Per adempiere all’obiettività nel giornalismo, i
giornalisti dovrebbero mostrare i fatti all'infuori dal fatto che siano d’accordo o meno con tali fatti. Il reporting
oggettivo è pensato per ritrarre problemi ed eventi in modo neutrale e imparziale, indipendentemente
dall’opinione degli scrittori o dalle convinzioni personali. Per rispettare il criterio dell’obiettività, è richiesto
dalla deontologia del giornalista di non esprimere la propria opinione in merito ad un argomento.
         Il giornalista deve riportare unicamente i fatti e non un pensiero personale nei confronti dei fatti. Ma
non si tratta solo di un criterio per stabilire la qualità di un prodotto.
         Philip Meyer, giornalista statunitense, paragona il lavoro del giornalista a quello dello scienziato
sociale. «Il nuovo giornalismo di precisione è un giornalismo scientifico. Ciò significa trattare il giornalismo
come fosse una scienza, adottando il metodo scientifico, l’oggettività scientifica e gli ideali scientifici per
l’intero processo della comunicazione di massa».7Il filosofo Massimo Baldini osserva: «Ma, se il giornalista
è sulla stessa barca dello scienziato e dello storico, del detective e del clinico, allora egli dovrebbe possedere

6
  D. Antiseri, Leggere la realtà, cit., da M. Baldini, Obiettività e oggettività, due realtà distinte, in D. Antiseri, G. Santambrogio (a
cura di), Giornali. L’informazione dov’è? Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, p.54.
7
  P. Meyer, Giornalismo e metodo scientifico ovvero il metodo di precisione, op. cit. p.7.
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delle competenze epistemologiche, in quanto proprio dall’epistemologia è possibile trarre alcune riflessioni
che sono particolarmente utili per la sua professione»8.
        Il concetto di oggettività, confermiamo dunque, va distinto da quello dell’obiettività. Innanzi tutto,
l’obiettività è un attributo predicabile di una persona onesta, perbene, non dedita all’inganno. Solo che essere
onesti non equivale ad essere oggettivi: si può essere onesti e vivere nell’errore – errore che magari viene poi
ampiamente accettato come verità proprio perché difeso da una persona perbene, credibile. L’oggettività è
cosa diversa dall’obiettività. L’oggettività, infatti è un attributo predicabile di un asserto o di un insieme di
proposizioni: oggettività equivale a pubblica controllabilità di una asserzione (descrittiva, esplicativa o
previsiva). In altri termini, una notizia, una proposizione o un’informazione è oggettiva se è controllabile,
pubblicamente controllabile. Da qui, la necessità nella ricerca scientifica.
        L’oggettività del giornalismo sta, dunque, nel seguire le regole del metodo scientifico, fornendo al
pubblico un’informazione parziale (cioè prospettica) ma non faziosa, falsificabile ma non ancora falsificata
nonostante i controlli più severi.

1.1. Il caso italiano
La maggiore o minore centralità che si dà a questo ideale ha portato a distinguere due differenti modelli di fare
informazione: semplificando, quello italiano e quello anglosassone. Quest’ultimo sarebbe il portatore della
concezione più classica di informazione obiettiva: i fatti separati dal commento. Prima i fatti, poi le
interpretazioni. Anche per gli scrittori Alessandro Mazzanti e Giovanni Bechelloni, la questione dell'obiettività
può essere scelta come elemento discriminante ai fini della caratterizzazione dei modelli informativi sorti in
diverse realtà nazionali9. E in Italia? Lungo la storia del giornalismo italiano «la questione dell’obiettività
giornalistica – ha scritto Bechelloni – è una di quelle questioni che, considerata centrale nella nascita e nello
sviluppo del giornalismo moderno, i giornalisti italiani amano riguardare con sufficienza. Quasi che fosse una
questione non solo secondaria ma addirittura fuorviante»10. Nel giornalismo italiano, l’ideale dell’obiettività,
diversamente dal giornalismo anglosassone, non è stato centrale. Alcune peculiarità del giornalismo italiano
vengono assunte come giustificazioni per evitare, se non il dibattito, il confronto aperto con la tematica
dell’obiettività. La dipendenza dalla politica, l’assenza di un’editoria “pura”, cioè senza interessi e proprietà
principali al di fuori delle testate giornalistiche possedute, sono considerate “peccati originali” del nostro
giornalismo, escludendo la possibilità di una definizione chiara del concetto di obiettività. Da un lato, la
frequente affermazione del carattere velleitario e ideologico dell’obiettività da parte degli operatori
istituzionali e professionali dell’informazione, per quanto si fondi su considerazioni corrette dal punto di vista
epistemologico, nasconde talvolta la segreta intenzione di sentirsi liberi da vincoli e da verifiche.

8
  Flaminia Festuccia, L’oggettività dell’informazione, op. cit. p 8.
9
 Mazzanti, Alessandro. “L'obiettività giornalistica: un ideale maltrattato.” Napoli, Liguori (1991).
10
   Massimo Baldini, introduzione a Philip Meyer, Giornalismo e metodo scientifico. Ovvero il giornalismo di precisione (2002),
armando, Roma 2006, p.7.
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Dall’altro lato, il richiamo all’ideale dell’obiettività sembra costituire il risultato di un ritardo storico
della professione giornalistica in Italia che trova quindi difficoltà ad assumere consapevolmente un funzionale
ruolo di informazione al di fuori di condizionamenti. Il ritardo italiano, in questo senso, è anche frutto del
periodo fascista: il duce, giornalista ancor prima che politico, ben capiva l’importanza dell’informazione, di
tutta l’informazione. E quindi, mentre sul cinema i suoi interventi si limitavano a circoscrivere l’invadenza
delle produzioni americane, la stampa era teleguidata tramite le sue celebri “veline”. A leggere i giornali di
allora, emergeva il ritratto di un’Italia perfetta: criminalità azzerata – così come la disoccupazione – l’ordine
regnava sovrano, il popolo era giovane, entusiasta e virile. I mezzi di comunicazione ricevevano precise
disposizioni affinché facessero il più possibile da “cassa di risonanza” dell’ottimismo fascista.
        Diversamente dal giornalismo italiano, quelli erano proprio gli anni in cui il giornalismo statunitense
scendeva a patti con la realtà, elaborando una propria etica professionale incentrata sull’obiettività.
        L’ultimo ventennio di storia nazionale è stato caratterizzato da un tratto specifico nell’offerta
informativa dei media. Esso consiste nell’esistenza di un’agenda setting11 omogenea per la maggioranza di
quotidiani, siti d’informazione, definibile come una coincidenza tanto delle notizie selezionate da ciascun
medium, quanto della loro rilevanza gerarchica all’interno di ciascuna testata. Tale omogeneità si fonda su un
modello di analisi della realtà e di ricerca della notiziabilità condiviso tra tutti gli operatori dell’informazione
e in grado di alimentare una rincorsa emulativa che induce simultaneamente i giornali e gli altri media a un
processo di omologazione circolare.12
        Tale processo si giustifica tramite la cultura professionale dei giornalisti attraverso il valore condiviso
della completezza, il quale finisce per spingere le singole redazioni verso un’agenda setting sempre più
convenzionale e prevedibile. La completezza ha come sua smentita il “buco”, cioè la notizia che un giornale
manca a vantaggio di un altro. Questa smentita è vissuta nelle redazioni dei media italiani come un trauma,
come il sintomo di un errore professionale o di una disfunzione organizzativa. A sua volta il buco fortifica e
attiva la gerarchia e funge da elemento di conservazione degli equilibri interni alla redazione, fornendo un
pretesto per rivestire d’autorità responsabilità organizzative altrimenti deboli. La mitologia del buco poggia su
due diffuse ma discutibili credenze.
        La prima è riferita alla possibile esistenza nella realtà di situazioni configurabili come notizie alle quali
tutti i potenziali fruitori siano interessati, dimenticando che la scelta o la selezione del giornalista sia un
elemento costitutivo della notizia e che, per quanto completo, un giornale e un notiziario riescono a offrire una
porzione infinitesimale di ciò che è raccontabile13.
        La seconda credenza si riferisce alla scala di valori su cui si valutano le informazioni, mutuando
inconsapevolmente scale valutative proprie delle fonti da cui le informazioni provengono, sia la stessa scala
di valori con cui il lettore attribuisce preferenza a questa o a quella notizia. Dunque, con quanto fin qui detto

11
   Secondo la teoria dell’agenda setting, i media compongono e organizzano un ordine del giorno, cioè un elenco di questioni e di
notizie da prendere in considerazione, focalizzando i temi, nonché la loro gerarchia di importanza, intorno a cui pensare e
discutere.
12
   Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.142.
13
   Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.144.
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intendiamo sottolineare come la completezza nelle redazioni dei media italiani sia una sorta di valore
autoreferenziale. Essa non può essere rapportata alla totalità di accadimenti naturali e umani che ogni giorno
cadono sotto l’osservazione dei giornalisti e che sono certamente di più di quanti un quotidiano generalista o
lo spazio di un tg possa contenerne. Essa appare piuttosto il frutto di una selezione che viene svolta tenendo
conto dei valori professionali propri delle élites giornalistiche. Ciò avviene tramite un processo di
omologazione che segue quattro tappe-criteri.
           L’intuizione: i giornalisti adeguano le proprie opzioni tematiche e la gerarchia delle singole a quella
che si presume possa essere la scelta compiuta da uno o più media concorrenti, o rivali. Si crea una rete di
controllo preventivo tra le singole testate, attraverso un sistema che si definisce di prevedibilità condivisa delle
scelte dominanti.14
           La sorveglianza: vige un controllo mutuo tra giornalisti, in ogni sede in cui viene svolta la loro attività.
I cronisti spiano tramite un contatto con alcune fonti confidenziali il lavoro dei colleghi. Addetti stampa,
avvocati, magistrati, funzionari delle forze dell’ordine e altre fonti investigative e di intelligence, che coabitano
nella cosiddetta vigilia delle notizie, vengono intervistati non solo per avere qualche ‘dritta’, ma per sapere
maggiormente su quale argomento stia lavorando il collega rivale. Inoltre, si aggiungono i tradizionali cartelli
di collaborazione tra più cronisti, veri e propri patti di non belligeranza, i quali vincolano gli aderenti alla
cessione reciproca delle notizie. Sia pure in misura minore rispetto al passato, questi accordi sono ancora
presenti.15 Infine, scambi di informazioni circa i titoli di prima pagina sono all’ordine del giorno: essi
esprimono la preoccupazione comune di restare «coperti» rispetto alle mosse di altri media considerati più
propriamente rivali.
           L’adeguamento a siti web e telegiornali: l’informazione on line ha in gran parte surrogato quel potere
di indirizzo che i telegiornali hanno svolto per tutti gli anni Novanta e per i primi anni del nuovo secolo rispetto
all’informazione della carta stampata. È sufficiente confrontare le prime pagine dei quotidiani nazionali italiani
con quelle dei siti aggiornati alle ore 21-22 per constatare una tendenza all’omologazione dei primi ai secondi,
con riferimento sia alla gerarchia delle notizie sia al lessico e al segno della titolazione.
           Il controllo a posteriori: la cosiddetta verifica del giorno dopo, cioè la valutazione che si fa nella
riunione del mattino, finisce talvolta per essere l’ultimo e forse il più pregnante elemento di omologazione,
almeno tutte le volte in cui il giudizio sulla qualità della propria offerta informativa non è riferito alla domanda
di informazione dei lettori, ma piuttosto è desunto dal rapporto tra i propri titoli e quelli dei media concorrenti
che, nell’immaginario dei giornalisti, svolgono un ruolo leader.
           Il processo di omologazione ha coinvolto in Italia principalmente la stampa cartacea tra il 1990 e il
primo decennio del nuovo secolo, in concomitanza alle trasformazioni tecnologiche che hanno rivoluzionato
le imprese editoriali e al diffondersi della comunicazione via internet. Almeno in una prima fase, l’impiego
della rete nei processi di formazione della notizia, non sembra aver prodotto un’esaltazione delle differenze

14
     Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.144.
15
     Ibid.
                                                                 8
tra le singole testate, ma piuttosto un appiattimento verso un modello unico, battezzato con l’etichetta dei
cosiddetti «giornali fotocopia»16. La ricaduta diffusionale è risultata negativa, soprattutto per quei quotidiani
che nella percezione del pubblico apparivano come duplicati di serie B. Non stupisce perciò che siano state le
testate intermedie, regionali e interregionali ad essere le più penalizzate. Questi giornali hanno pagato la crisi
del regionalismo, che in una società e in un’economia pre-globale era stato l’orizzonte di chi viveva in una
delle tante periferie geosociali del paese.
          La modernizzazione tecnologica ha spezzato l’isolamento del territorio, dando la consapevolezza che
fosse consentito a chiunque l’accesso a un sistema di relazioni nazionali, europee, mondiali. Il regionalismo
si è ridotto ad essere una mera rappresentazione dei ritardi della politica e della burocrazia nel procedere a un
reale decentramento di poteri17. La conseguente interdipendenza con la politica e con la burocrazia è costata
cara ai giornali, soprattutto nel momento in cui hanno letto in maniera acritica questo processo di decadenza
istituzionale, continuando a rappresentare per anni una sequela di appuntamenti mancati come le tappe di un
graduale avanzamento verso la modernità. Il collante culturale è venuto meno gradualmente. E le élites
giornalistiche, orfane dei riferimenti tradizionali, hanno risposto alla crisi cercando un accesso nella
globalizzazione, poiché fuori da essa la percezione dell’esclusione si faceva più netta. Questo tentativo di
emulare le grandi testate nazionali ha contribuito ad incrementare l’omologazione, rivelandosi un boomerang
commerciale: trascurando le proprie radici identitarie, i giornali medi sono risultati i più esposti alla
concorrenza dal basso dei giornali locali, che invece hanno usato la tecnologia per esaltare le differenza, e a
quella dei grandi media, che hanno messo in piedi edizioni regionali e metropolitane in modo da estendere la
loro penetrazione in aree geografiche da cui erano esclusi. Questo processo di omologazione può riassumersi
in una percezione diffusa della fungibilità dei giornali, cioè nella convinzione crescente tra i lettori che i
quotidiani italiani siano un unico prodotto indifferenziato, in cui si ritrovano, sia pure approfonditi, gli stessi
temi e notizie già trattate dalla televisione.
          Il fenomeno dell’omologazione si riflette anche con quella che si definisce prevalenza del politico,
ovvero una sproporzione tra l’offerta di informazione politica e la domanda di informazione richiesta dal
lettore; si crea così una sopravvalutazione della dimensione politica.18
          Di questo modo, i titoli di testata in prima pagina riguardanti la politica nazionale vantano nei giornali
italiani una frequenza non riscontrabile in nessun altro paese europeo. L’ipertrofia di rappresentazioni politiche
spesso non è collegabile a fatti rilevanti, ma è il risultato di un effetto di trascinamento: così accade, per
esempio, che nei giorni in cui nessun’altra notizia s’imponga nell’agenda di redazione, la politica finisca per
essere un cerotto buono per tutti gli usi, con cui caratterizzare l’offerta informativa, altrimenti percepita come
debole.
          Per spiegare le cause di questo atteggiamento storico del giornalismo italiano si ricorre al rapporto di
interdipendenza esistente tra l’universo delle proprietà editoriali, quello politico e la categoria dei giornalisti,

16
   Ivi, p.145.
17
   Ibid.
18
   Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.146.
                                                               9
cioè al fatto che l’offerta informativa in Italia risponde solo in parte alle regole del mercato, e per un’altra
parte svolge un ruolo regolativo di conflitto tra le classi dirigenti del paese.
           La mancanza segnalazione di un editore puro fornisce una determinante ma non esaustiva conferma a
questa spiegazione: l’interesse a trarre dai giornali un vantaggio nelle relazioni con il potere centrale ha
concorso a difendere e promuovere anche in periferia un modello di informazione che appariva più adatto a
facilitare una mediazione o una transazione tra poteri. Questo ricorso sussidiario alla politica svela anche una
specificità culturale interna alla cosiddetta cassetta degli attrezzi del mestiere: oltre ad essere la principale
dimensione di regolazione sociale, la politica svolge un ruolo di supplenza culturale come categoria di
interpretazione della realtà.
           La lettura dei fatti è tendenzialmente politica perché la speciale valenza della politica italiana si sposa
con la speciale caratterizzazione simbolica della cultura civile del paese. Le ragioni di questa consonanza le
possiamo individuare in alcuni tratti comuni ai sistemi che hanno segnato la storia del Novecento italiano:
l’opera di nazionalizzazione delle masse dello Stato fascista e quella di risocializzazione istituzionale
repubblicana messa in atto dopo la Liberazione, nella loro indiscussa diversità di valori e di obiettivi, hanno
tuttavia in comune elementi di continuità culturale. Ad esempio, il ricorso a una pedagogia del linguaggio
fortemente simbolica.
           Il simbolo è intuitivamente rapido, capace di una reattività emotiva e di attrarre consenso, non richiede
approfondimenti e giustificazione razionale, non stimola la dialettica e rende difficile qualsiasi indagine critica.
Il ricorso all’eccessiva simbolizzazione si traduce in categorie concettuali e interpretative stereotipate
all’interno della cultura professionale che governa le redazioni19. Quest’atteggiamento culturalmente difensivo
risulta accentuato di fronte ai cambiamenti sociali e alle transizioni in grado di mettere a dura prova il senso
dell’identità collettiva di una nazione.
           L’ultimo ventennio di storia nazionale, con le sue profonde trasformazioni, ha confermato la tendenza
a politicizzare la lettura del sociale e ad accentuale le forme simboliche delle rappresentazioni giornalistiche.
La Seconda Repubblica segna il passaggio tra due codici diversi della comunicazione politica in Italia: il primo
è quello dell’istituzionalità routinaria, tipico della Prima Repubblica, per cui la politica è rappresentata come
esibizione pubblica di formalità, atti ufficiali, dibattiti, eventi cerimoniali, in cui prevale una ritualità scontata
e ripetitiva; il secondo codice è quello della personalizzazione: esso opera una sostanziale riduzione dei
processi politici all’azione di attori individuali. Quest’ultimo codice concorre a determinare una stagione di
scontro permanente che ha segnato tutta la storia nazionale di quello che ormai viene battezzato «Ventennio
berlusconiano».
            Tutto ciò avviene, paradossalmente, in un momento in cui i contorni storici tra Destra e Sinistra sono
molto più sfumati, o addirittura confusi, che nel passato. Ciò dipende dal fatto che nelle società moderna la
politica è cambiata nella sua stessa natura e nel suo ruolo sociale. È diventata residuale, nel senso che non
media e non risponde alla totalità dei processi e dei progetti sociali, ma solo a una parte di questi. Non è più

19
     Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.148.
                                                                10
in grado di fornire risposte ideologicamente distinte dai problemi che deve affrontare, ma solo strategie
marginalmente diverse, diminuendo i suoi spazi di azione e di manovra. Ne consegue la dipendenza della
democrazia dalla garanzia dell’alternanza tra forze che, nella dialettica politica, si contrapporranno assai più
aspramente di quanto non faranno nelle opzioni concrete di governo. Da questo paradosso si spiega
l’incompiutezza del sistema bipolare italiano, dovuto alla riduzione dei margini d’azione politica: è di prassi
che due forze candidate al governo del paese tendano ad accentuare le loro differenze per essere identificati
dagli elettori. Ciò comporta che gli elettori saranno sempre delusi quando si renderanno conto che l’azione
politica dei loro eletti non si differenzia in modo concreto da chi li ha preceduti al governo, sentendosi di
questo modo traditi delle promesse elettorali.
           Di fronte a questo fenomeno il giornalismo può fare la differenza: può cioè fare ricorso alla sua
indipendenza e autonomia intellettuale in modo da filtrare e disinnescare la conflittualità evitando che essa si
tramuti in distruttività per la democrazia. O piuttosto, può agire da megafono, contribuendo a produrre
un’ipertrofia di rappresentazioni politiche in cui prevale un tratto contrappositivo permanente, non più
collegabile a fatti giornalisticamente rilevanti.
           Da qui la scelta dei quotidiani di aprire la ‘Prima Pagina’ con la politica dettata dal clima che i media
hanno creato nel paese da cui essi stessi sono condizionati.
           L’offerta complessiva dei giornali italiani si presenta e viene percepita dal pubblico come unica e
indifferenziata, ciò è dovuto al meccanismo di prevedibilità condivisa delle scelte dominanti che si uniforma
alla ‘Prima Pagina’ dei giornali leader20. Viene di consueto chiedersi quali possano essere gli effetti di una
comunicazione politicamente ipertrofica sul pubblico a cui è destinata.
           Su questi effetti Bechelloni sottolinea come si possa andare incontro a un rischio di «un annullamento
simbolico della politica»21. Finisce per diventare un «rumore di fondo» che rende «invisibile» la politica reale
e ciò che ne segue.
            La mediatizzazione sociale è un fenomeno complesso che riguarda sia l’evoluzione della politica che
la cultura professionale giornalistica e il loro rispettivo rapporto di interdipendenza.
           Per spezzare l’interdipendenza con la politica occorre che i media italiani si aprano a saperi capaci di
intercettare e di mediare tra le nuove istanze sociali che segnano la modernità in modo da allargare i confini
della cultura civile del paese all’interno della quale s’inscrive l’attività giornalistica. È questa una sfida che il
giornalismo può e deve compiere per sé e per il futuro della democrazia italiana.

20
     Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.149.
21
     Cfr. G. Bechelloni, Giornalismo o post giornalismo? Studi per pensare il modello italiano, Liguori, Napoli 1995.
                                                                  11
1.2.        Il dibattito in Italia
Negli anni ’60 del secolo scorso, Umberto Eco ha scritto che l’obiettività dell’informazione è un “mito
professionale”, una manifestazione di falsa coscienza, un’ideologia”22. Le sue considerazioni nascono dal
periodo della contestazione operaia e studentesca, che riteneva la stampa ufficiale serva del potere e, per
rimediare a ciò, chiedeva una “controinformazione”. Eco definiva il quotidiano italiano uno strumento
autoritario di repressione e non uno strumento di liberazione.
        Per lo scrittore la realtà che viene plasmata nei media è manipolata, l’immagine globale della realtà
non è altro che un inganno. Ad esempio, solo la scelta della notizia da pubblicare è un’interpretazione che
deriva dall’importanza relativa che il giornalista attribuisce all’avvenimento. Inoltre, ci saranno altri interventi
come la titolazione, l’impaginazione, il taglio, la presenza o meno di immagini e di quali immagini.
        Come si deve comportare il giornalista di fronte a questo? «Il giornalista non ha un dovere di obiettività.
Ha un dovere di testimonianza. Deve testimoniare su ciò che sa […] e deve testimoniare dicendo come la
pensa lui. […] compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì
di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre. Il giornalista che rispetta il
lettore deve lasciargli il senso dell’alternativa»23.
        A sostenere una visione opposta è Piero Ottone, all’epoca direttore del “Corriere della Sera”. Egli
difende un giornalismo che sia disposto a seguire delle regole di base, valide per tutti come la separazione tra
notizia e commento, una citazione rigorosa delle fonti, una descrizione dei vari punti di vista sullo stesso
argomento. Sono tutte posizioni radicalmente divergenti da quelle di Eco.
        Mentre per Eco «Il giornale non è un organo al servizio del pubblico, ma uno strumento di formazione
del pubblico», Ottone ribatte che «Il giornale può esprimere opinioni, e quindi contribuire a fare opinione,
però la sua funzione prevalente è un’altra: scoprire i fatti e, una volta che li ha scoperti, non nascondere niente
di quello che esso sa»24. Ottone ritiene che il giornalismo abbia lo scopo di informare e non quello di spingere
i lettori verso un partito o verso un’azione politica perché nel momento in cui un giornalista presenta dei fini
politici diventa automaticamente un politico mancato e probabilmente un cattivo giornalista25. Ed è proprio
qui che si rimarca il vizio del giornalismo italiano con il compito di convincere, di influenzare, di educare il
pubblico. È questo equivoco che rovina i giornali italiani.
        In un momento decisamente critico per il mondo politico e giornalistico e per l’Italia stessa, alla fine
degli anni ’70, con il rapimento di Aldo Moro avvenuto il 9 marzo, si era sentita la necessità di organizzare un
convegno. Tra il 15 e il 16 aprile 1978, nella Casa della Cultura di Milano e l’Istituto Gramsci di Roma, si
riprende il dibattito.

22
   F. Festuccia, L’oggettività dell’informazione, Tra mito professionale e ideale regolativo, Armando, 2010, cit. p.17.
23
   Umberto Eco, art. de L’Espresso, Il lavaggio dei lettori, 1969.
24
   P. Ottone, Intervista sul giornalismo italiano (a cura di Paolo Murialdi), Laterza, Roma-Bari 1978, p.103.
25
   M. Schudson, cit., da A. Mazzanti, L’obiettività giornalistica, un ideale maltrattato-il caso italiano in una prospettiva storico-
comparata, Liguori, Napoli, 1990.
                                                                 12
Dalle posizioni precedentemente illustrate di Eco, si evince ora, come ci siano nuove posizioni decisamente
meno “pessimiste”: si parla, più realisticamente, di “limite alto” e “limite basso” dell’obiettività26. Il primo
viene reputato irraggiungibile mentre, il secondo, coincide con la visione di Ottone nel 1969, con cui alla fine
Eco si trova d’accordo sottolineando come questo limite coincida con la separazione tra notizia e commento.
         Negli anni Novanta si aggiunge un nuovo problema nel dibattito: l’oggettività, ovvero il controllo
rigoroso dei fatti e delle fonti. Non ci si riferisce più all’obiettività come onestà intellettuale nei confronti del
lettore, ma alla scientificità della ricerca e all’esposizione dei fatti.

     1.3.         La deontologia del giornalista
La deontologia del giornalista è data da un sistema di principi e di valori fondativi e specifici di un’etica
professionale. In prima istanza il giornalismo si trova a dover fare i conti con la verità e ad essere il
responsabile nella scoperta di essa. Ciò non significa darla per scontata, certa e acquisita, ma orientare una
ricerca rigorosa nei confronti della realtà, utilizzare la tecnica come mezzo e non come fine27, indagare il fascio
di relazioni che lega fatti e fenomeni attorno al contesto interno della notizia.
     La responsabilità della verità si accosta a un nuovo realismo. Il giornalismo sarà sempre un riferimento
forte della democrazia dal momento in cui, il giornalista, facilita il lettore nella strada complessa di quella che
è la realtà. Per riuscirci deve spostarsi da una visione cronistico-morale della realtà ad una analitico-
interpretativa. «Deve essere – scriveva il giornalista Rodolfo Brancoli – veicolo di comprensione che impone
un minimo di ordine al caos e aiuta un popolo che si autogoverna a capire le forze che influiscono sulla sua
vita e sulla comunità, in modo da consentirgli di guidarle!».28 Insegnamento quanto mai attuale se lo associamo
ai temi del Web 2.029. Il giornalismo viene in automatico sfidato da una certa deriva tecnologica e consumistica
all’interno dei processi di produzione delle notizie.
     In seconda istanza il giornalismo deve riferirsi a un ideale di indipendenza. Non coincide con una comoda
neutralità e neanche con un’acritica imparzialità, ma con un’autonomia dall’alto al basso, dai condizionamenti
dei gruppi di pressione e dalla vischiosità e dalla debolezza del sapere comune30. Il tratto qualificante del
giornalismo è proprio l’indipendenza, come espressione di una sensibilità priva di preconcetti e che trae, da
ogni esperienza, lo spunto per nuovi dubbi e nuovi approfondimenti.

26
   Festuccia, Flaminia. L'oggettività dell'informazione: tra mito professionale e ideale regolativo. Armando Editore, 2010.
27
   Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p. 284.
28
   Brancoli, Rodolfo, Il risveglio del guardiano, Garzanti, Milano 1994, p.111.
29
   Il termine, apparso nel 2005, indica genericamente la seconda fase di sviluppo e diffusione di internet, caratterizzata da un forte
incremento dell’interazione tra sito e utente: maggiore partecipazione dei fruitori, che spesso diventano anche autori e la presenza
di una più efficiente condivisione delle informazioni. Nuovi linguaggi di programmazione consentono un rapido e costante
aggiornamento dei siti web anche per chi non possieda una preparazione tecnica specifica. Il fenomeno è ancora in fortissima
evoluzione. (Treccani.it).
30
   Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p. 284.

                                                                 13
Prove concrete dell’indipendenza possono essere:
           1) Il rispetto rigoroso del contesto interno dove sono collocati fatti e fenomeni, oggetto delle notizie,
               evitandone la decontestualizzazione;
           2) Un costante lavoro di ricerca che riporti i quesiti di senso comune al livello di una società
               complessa, in modo da porre la comunicazione giornalistica come mezzo di conoscenza e di
               interpretazione della realtà;
           3) La difesa e la dialettica democratica all’interno dell’organizzazione del lavoro con la
               consapevolezza che sarà determinante per quanto riguarda la qualità e la trasparenza delle
               informazioni.
Il terzo principio è la tolleranza. Si espone al compromesso, alla continua negoziabilità dei valori, ridefinendo
le priorità in ragione dei cambiamenti sociali. Esprime il principio di una possibile convivenza con ciò che
non si condivide. Non è un concetto debole, ma flessibile dal momento in cui riconosce l’esistenza e la
legittimità della diversità, ma anche quello della sofferenza per la sua presenza, una sofferenza che vuole
resistere, in modo contenuto e rispettoso nell’essenza altrui.
           È un equilibrio, è il senso di un giornalismo che vuole rinunciare alle campagne di evangelizzazione
morale dell’umanità, quanto al suo indifferente quanto non cinico distacco per il dolore che spesso
rappresenta31. È il riscatto di una professione.
           L’ultimo principio è quello della responsabilità. Essa è coscienza degli effetti di ciò che viene
comunicato. A tale principio se ne accosta un altro di derivazione giuridica ma centrale per il giornalismo: il
principio di presunzione di innocenza. Ad esempio, durante un’inchiesta penale l’accesso ai fatti spesso è
angolare. Durante le indagini preliminari il rapporto tra il giornalista e le fonti si sbilancia con la presenza di
indiscrezioni e l’impari equilibrio tra accusa e difesa. La comunicazione in questi casi rischia di perdersi
facilmente, cadendo nella tentazione di coprire i vuoti dell’indagine con, ad esempio, i riferimenti morali.
           Il rapporto di scambio tra giornalista e lettore è dunque legato da una serie di obblighi ineludibili. Tra
cui l’onestà, anch’essa riferibile a un concetto di derivazione giuridica. Il giornalista deve informare
continuamente il lettore circa il livello di attendibilità delle notizie, mettendolo nella condizione di valutare la
credibilità di una fonte, piuttosto che omettere qualche incertezza.
       In una società moderna, dunque, la definizione che possiamo attribuire al giornalista è quella di
manutentore civile e di mediatore sociale.

31
     Barbano, Alessandro. Manuale di giornalismo. Gius. Laterza & Figli Spa, 2012, p.285.
                                                                14
2. Informazione, disinformazione e fake news
          2.1. Un’informazione di qualità
Come sottolineato anche dal Papa, quello delle fake news non è un problema nato oggi: «la prima fake news»
risale all’inizio, al peccato originale raccontato nella Genesi e alla strategia diabolica del «padre della
menzogna». Oggi più che mai, però, «in un contesto di comunicazione sempre più veloce e all’interno di un
sistema digitale», si tratta di «smascherare la logica del serpente32, capace ovunque di camuffarsi e di
mordere», onde evitare di «abboccare ad ogni tentazione»33.
          In appena 60 secondi, vengono pubblicati 3 milioni di contenuti su Facebook, 430mila tweet, compiute
2 milioni e 315mila ricerche su Google, inviate 150 milioni di e-mail e 44 milioni di messaggi su WhatsApp,
visualizzati 2 milioni e 700mila video su YouTube.
          Questo è il contesto cui va incontro il giornalista, definito dal Papa come il “custode delle notizie” che,
“nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione”. Il giornalista deve
tener conto del fatto che all’interno della notizia ci sono le persone e non la velocità nel darla, e nemmeno,
l’impatto che possa avere sull’audience.
          Il fenomeno delle fake news, le notizie false, o fandonie, come definite da alcuni traduttori italiani,
hanno un grande impatto sull’opinione pubblica. Secondo la definizione del vocabolario treccani.it per fake
news si intende «un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente
o inintenzionalmente attraverso il web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da
un’apparente plausibilità (…) ciò ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle
fonti». Termine simile alla nostra “bufala34”, con cui facciamo riferimento a notizie prive di veridicità. Accanto
a questi termini dobbiamo affiancarne altri due: la disinformazione e la misinformazione.
          “La disinformazione è proprio la creazione di notizie false, una vera e propria fabbricazione di notizie.
Mentre la misinformazione è la diffusione involontaria di notizie false che vengono diffuse senza dolo, o per
leggerezza o per mancanza di verifica delle fonti35”.
          L’emergenza da Covid-19, non solo sanitaria ma anche sociale ed economica, ha evidenziato la
presenza di una sistematica azione di disinformazione. Il professore Antonio Nicita, precedentemente
commissario dell’AgCom, l’Autorità di Garanzia nelle Comunicazioni, evidenzia come siano emerse delle
cosiddette strategie di disinformazione, ovvero delle campagne volte a manipolare l’opinione pubblica
mediante l’utilizzo dei social media, ma non solo, spesso anche la tv e i giornali rincorrono le notizie che
hanno maggiore successo sui social.

32
   “Si rese artefice della ‘prima fake news’ (cfr. Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo
fratricidio (cfr. Gen 4) e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato”. Riccardo Benotti, agensir.it, agenzia
d’informazione.
33
   Gian Guido Vecchi, art. Corrieredellasera.it.
34
    Notizia palesemente infondata. Molto spesso usato impropriamente come sinonimo di fake news. La bufala ha, tuttavia,
normalmente una sorta di retrogusto di goliardia e ironia, che normalmente le fake news non hanno; tant’è che può capitare di
sconfinare nel campo della satira pura.
35
   Redazione, articolo, Misinformazione, diffusione involontaria delle notizie false, editorpress.it.
                                                                         15
Oggi siamo immersi in un cambiamento epocale: la moltiplicazione all’infinito di mezzi di comunicazione di
massa, e la rottura dei tempi di trasmissione dell’informazione. Viviamo in un flusso informativo costante, che
non ha pause e non ha più ritmi, diversamente dal passato: se un tempo la nostra dieta mediatica era ritmata
dall’orario di uscita in edicola dei quotidiani e dall’orario di trasmissione dei giornali radio e dei telegiornali,
oggi non è più così. Siamo immersi da un mare di informazioni nel quale nuotiamo per l’intera giornata.
        Come spiega il giornalista e fact checker Nicola Bruno, «non siamo più in un mondo dove c’è chi
manda la notizia e chi la riceve. Viviamo in un mondo circolare dove c’è qualcuno che produce la notizia,
qualcun altro che la riceve e un altro ancora che la diffonde sui propri canali personali»36.
        Come poi evidenzia uno studio del Massachusetts Institut of Technology, una fake news ha il 70% di
possibilità in più di essere condivisa rispetto ad una notizia corretta.
        La facilità di accesso e lo sviluppo tecnologico permettono terreno fertile ai social per la diffusione di
false notizie. Di fatto, sono proprio i social a diffondere false notizie per orientare l’opinione pubblica e ciò,
si riversa anche in ambito politico. Tutti produciamo informazioni, il che ha esponenzialmente favorito lo
sviluppo di fake news. Riguardo ciò, Umberto Eco ha sentenziato: “I social media danno diritto di parola a
legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività.
Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione
degli imbecilli”.37
        A tal punto, diventa fondamentale il fact-checking. Questa è stata l’attività principale per snidare e
combattere le fake news. Nel lavoro giornalistico è la verifica puntigliosa dei fatti e delle fonti, tesa anche a
valutare la fondatezza di notizie o affermazioni riguardanti istituzioni e persone di rilievo pubblico, con
particolare riferimento a quanto viene diffuso mediante la Rete. Tanto è vero che, l’articolo 2 (Diritti e doveri,
presente nel Testo unico dei doveri del giornalista) della legge professionale 69/1963 recita: “E’ diritto
insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di
legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale
dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie
che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori”.38

36
   Mantineo, Fakecrazia. L’informazione e le sfide del Coronavirus, Media Books, 2020, p.13.
37
   “Messaggero.it”
38
   “Ordine dei giornalisti” (https://www.odg.it/etica-le-regole).
                                                              16
2.2. Le sfide da “infodemia”
Durante la pandemia da Coronavirus, il problema della disinformazione ha assunto un valore prioritario di
fronte alla paura collettiva per un nemico invisibile e sconosciuto. Un nemico di cui non sappiamo nulla e di
cui vorremmo sapere tutto in modo da preservarci. Non è solamente questione di buona informazione, ma è
questione di salute. Le fake news pesano e hanno pesato, soprattutto nella gestione della pandemia. La cattiva
informazione ha evidenziato come la pandemia non fosse soltanto un pericolo per la nostra salute fisica.
Ma perché è così importante la qualità dell’informazione? «L’informazione, sostanzialmente, è il
prolungamento dell’istruzione scolastica nell’età adulta: la democrazia, infatti, funziona se si va a votare
informati».39 Così, Luca Sofri, direttore del quotidiano online Il Post, evidenzia come il futuro delle nostre
società, dipenda proprio dalla qualità dell’informazione.
         Durante l’emergenza, abbiamo familiarizzato non solo con dei termini tecnici nuovi, legati al lessico
della sanità, ma anche con un termine derivato dalle parole informazione ed epidemia: “infodemia”. Si riferisce
alla «Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che
rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili»40.
          L’organizzazione Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, ha voluto evidenziare che la
deformazione della realtà nel rimbombo degli echi e dei commenti della comunità sui fatti reali o su quelli
inventati, sia il maggiore pericolo della società globale nell’era dei social media41.
         Secondo uno Speciale Coronavirus dell’Agcom, «L’analisi del contenuto testuale di tutti gli articoli di
disinformazione sul coronavirus evidenzia l’emergere di alcune narrazioni prevalenti sull’epidemia, quali i
rischi, le teorie complottiste e la cronaca, imperniate su una comunicazione basata sull’utilizzo ricorrenti di
termini atti a far leva sulle emozioni negative»42. Si evince così, come sia stata elevata l’attenzione attribuita
dalle fonti di disinformazione al coronavirus (37% del totale, nella settimana dal 13 al 19 aprile), pur
attestandosi su valori inferiori rispetto a quelli tra il 10 e il 20 marzo. Segue poi una tendenza decrescente per
quanto riguarda l’offerta di informazione e aumenta l’incidenza della disinformazione sul totale delle notizie
online relative al coronavirus (con un valore compreso tra il 5% e il 6% ).43 In linea generale, in Europa, si
riscontra un’impennata dei servizi di comunicazione online.
         Nei primi mesi del 2020, si è rilevato un considerevole incremento di minacce informatiche, molte
delle quali hanno sfruttato il veicolo sociopsicologico della pandemia in atto.
         Sono stati registrati 16.000 nuovi domini internet legati al Covid-19, di cui circa il 20% con finalità
malevole44. Facendo leva sulle emozioni negative è emerso come, dal lato degli utenti, si registri una
diminuzione sulle ricerche effettuate in rete sul coronavirus, dopo i picchi maggiormente più alti delle

39
   “Luz.it”. https://luz.it/spns_article/luca-sofri-intervista-giornalismo/
40
   “Treccani.it.”
41
   Leonardo Becchetti, “Resistere all’infodemia. I danni alle statistiche alla rovescia”. In: avvenire.it.
42
   “Coronavirus, Agcom: In crescita le fake news online”, ansa.it.
43
   “Le fake news non si fermano: il 37% sul Covid-19”, CORCOM, corrierecomunicazioni.it.
44
   “Coronavirus, Agcom: In crescita le fake news online”, ansa.it.
                                                                   17
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