L'ESPERIMENTO DEL BAD BANKING IN ITALIA: DALLA SGA ALLA REV - S.r.L. Societàdirevisionedocumentalebancariaindipendente - Real Time
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S.r.L. Società di revisione documentale bancaria indipendente L'ESPERIMENTO DEL BAD BANKING IN ITALIA: DALLA SGA ALLA REV
Sommario Introduzione Capitolo I - Il Bad Banking: teoria e prassi nell'Europa dell'ultimo trentennio ..................................................................................................................................... 1 1.1 Il concetto di Bad Bank ............................................................................................................ 1 1.2 Un precursore: la Svezia dagli anni Settanta ad oggi.............................................................. 4 1.3 Il caso irlandese ..................................................................................................................... 16 1.4 Il caso spagnolo ..................................................................................................................... 22 1.5 Il caso sloveno ....................................................................................................................... 25 1.6 Il caso tedesco ....................................................................................................................... 29 1.7 Un quadro d'insieme .............................................................................................................. 32 Capitolo II - Le declinazioni del Bad Banking in Italia............................................................ 36 2.1 Il "miracolo" della SGA ........................................................................................................... 36 2.2 La scelta Pillarstone ............................................................................................................... 46 2.3 L'esperimento Prelios/Akros e la prima Bad Bank privata..................................................... 54 2.4 La crisi di Banca Etruria & Co.e la soluzione Rev ................................................................. 56 2.5 L'oro di Napoli ........................................................................................................................ 61 Capitolo III - Bad Banking e politiche pubbliche in Italia dopo la crisi del 2008 ............................................................................................................................................. 64 3.1 L'influenza del bad banking sui mercati ................................................................................. 64 3.2 La Bad Bank come l'Equitalia per le banche (?) .................................................................... 67 3.3 Il "fraintendimento" dell'art. 47 della Costituzione .................................................................. 72 Bibliografia ................................................................................................................................. 85 II
INTRODUZIONE Con tale progetto s’intende affrontare il tema del bad banking, di come esso sia uno degli elementi più rappresentativi del sistema economico degli anni 2000 e rifugio del sistema bancario dall’inizio della Grande Recessione ad oggi. Muovendo i passi dai primi esempi di bad banking si tenterà, quindi, di ipotizzare quali possano essere i possibili scenari futuri di impiego. Nel primo capitolo si provvederà preliminarmente a delineare il concetto del bad banking avendo cura di tracciare il quadro socio-economico da dove esso è scaturito e come sia stato già utilizzato in alcuni Paesi. Si analizzerà, quindi, la prima esperienza di bad bank in Svezia con la Securum nel 1992: a partire dal 1990, anno in cui avvenne nel mercato svedese la liberalizzazione del mercato finanziario e creditizio con la riduzione dei tassi d’interesse ed il consequenziale incentivo all’indebitamento di famiglie ed imprese, si comprenderanno i termini che portarono al boom del mercato immobiliare ed azionario ed il successivo crollo dello stesso. Lo scarso controllo nell’erogazione del credito portò, infatti, ad un alto livello di insolvenze al rialzo dei tassi che minò la stabilità del sistema bancario. Nel 1993, quindi, il Governo istituì la Bank III
Support Authority (Bsa), un organismo indipendente che aveva il compito di analizzare i bad asset delle banche con la massima trasparenza. Solo per due istituti, la Nordbanken e la Gota Bank, venne, poi, adottata la divisione in "good bank" e "bad bank", denominate rispettivamente Securum e Retriva. Tale esperienza, stigmatizzata dal Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz con l’epiteto “Bad Bank is cash for trash”, portò in seguito il Presidente Obama e persino la Banca Centrale Europea a considerare l’esperimento Securum come un grande modello cui ispirarsi. Ma la vicenda svedese non è isolata in Europa. Il primo esempio di bad bank in area Euro è stato fornito dall’Irlanda con la creazione della Nama: costituita nel 2009 per far fronte alla crisi bancaria del paese, essa non solo opera con successo come bad bank ma ha anche la facoltà di concedere finanziamenti al settore immobiliare. Anche la Spagna ha sperimentato il bad banking: dopo la richiesta di aiuto all'Unione Europea del 25 giugno 2012 per la ristrutturazione e ricapitalizzazione del settore bancario, il Governo spagnolo concordò con i vertici Ue e Fmi la creazione di una bad bank denominata Sareb (Sociedad de gestion de activos procedentes de la restructuracion bancaria). Gli obiettivi prevedevano di raccogliere i crediti insolventi dalle banche sostenute con capitali pubblici e gestire la cessione di tali attivi nell'arco di 15 anni. Da dicembre 2012 la Sareb ha avviato la rimozione dei crediti delle quattro banche che avevano già IV
ricevuto aiuti pubblici (Bfa-Bankia, Catalunya Banc, Novagalicia Banco e Banco de Valencia). Con risultati nettamente più deludenti delle precedenti è la bad bank slovena, Bank Asset Management Company. Costituita nell’estate 2012, ha ottenuto dall’UE 7 miliardi di Euro per il salvataggio delle banche ma ha fortemente tardato ad entrare nella piena operatività. Per concludere si analizzerà l’esempio tedesco che può esporre ben due bad bank con profonde diversità rispetto agli altri paesi. Infatti la Erste Abwicklungsanstalt (EAA) e la FMS Wertmanagement (FMS-WM) sono interamente pubbliche e pesano sui conti pubblici. Gli attivi bancari che sono stati affidati ai due istituti ammontano (in termini nominali) a oltre 350 miliardi di euro ed eventuali perdite sono interamente a carico dello stato e dei vari laender. Alla luce di quanto sin’ora descritto si analizzerà, quindi, l’impiego del bad banking a partire dalla Grande Recessione, valutando la sua funzione risolutrice nella crisi finanziaria. Nel secondo capitolo si affronterà il modo con cui l’Italia ha vissuto l’esperienza del bad banking. Iniziando dalla prima vera bad bank italiana, ovvero lo SGA, si ripercorrerrà la sua storia ventennale: da “fenice” emersa dalle ceneri del Banco di Napoli, a ricca “cassaforte” con i suoi cinquecento milioni di Euro in pancia; dalla nascita per la gestione dei crediti inesigibili del Banco di Napoli, fino all’acquisizione di essa da parte del V
governo Renzi per “acquistare sul mercato crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie”. Si passerà, poi, alla più recente esperienza Pillarstone: la piattaforma di KKR (l’operatore internazionale di private equity) fornita all’Italia per finanziare la ristrutturazione del debito. Attraverso la società Pillarstone Italy SPV S.r.L. già due fra i maggiori istituti di credito (Unicredit ed Intesa San Paolo) hanno gestito una larga parte dei propri NPL’s. La Pillarstone, inoltre, opera anche nel rilancio di importanti gruppi industriali italiani fra cui la Cuki Group Spa e la Sirti Spa. Ma l’Italia è stata anche scenario ad inizio 2016 del più singolare degli esperimenti: mentre si discute sulla creazione di una bad bank pubblica, Prelios e Banca Akros creano una bad bank privata per consentire alle banche di fare pulizia dei crediti “cattivi” nei loro bilanci. Si chiuderà la rassegna del bad banking italiano con l’argomento più di attualità, ovvero la gestione dei crediti in sofferenza di Banca Etruria, Carichieti, Cariferrara e Banca Marche. Tale compito (per un ammontare lordo di circa 10,3 miliardi di Euro) è stato affidato alla Rev Gestione Crediti Spa, società veicolo interamente controllata da Bankitalia. Infine nel terzo capitolo si analizzerà l’impatto del bad banking nello sviluppo economico con particolare riguardo al suo effetto nei mercati finanziari e le sue “ricadute” sulla clientela. Per certi versi sembrerebbe quasi che vi sia un “fraintendimento” dell’art. VI
47 della Costituzione; sembrerebbe quasi che ad essere incoraggiato e tutelato non sia il risparmio delle famiglie, bensì il sistema bancario. C’è addirittura chi ipotizza la bad bank come una nuova Equitalia volta ad impennare il recupero del credito aggredendo la clientela per rientrare il più velocemente possibile, facendo leva sulle garanzie illo tempore rilasciate. Pertanto, alla luce di quanto sin’ora descritto, si tenterà di delineare possibili scenari per l’utilizzo del bad banking a breve/medio termine, i suoi possibili effetti con uno sguardo al passato (prossimo) per comprendere il futuro. VII
CAPITOLO I Il Bad Banking: teoria e prassi nell’Europa dell’ultimo trentennio 1.1 Il concetto di “Bad Bank” In un trafiletto del 20 marzo 2009 il sito ufficiale della Borsa Italiana forniva in modo conciso una definizione di bad bank anche per chi non fosse addetto ai lavori. Nella sua immediata delle definizioni la bad bank è un “veicolo societario in cui far confluire gli asset ‘tossici’ di una banca”. A dipanarne ulteriormente il senso è la stessa Borsa Italiana: “Con tale termine si fa riferimento alla suddivisione in due di una banca, nella sua parte ‘buona’ (good bank) e in quella ‘cattiva’ (bad bank). La banca buona si occuperà di tutte le parti sane dell’attività di credito, mentre la parte cattiva comprenderà tutte le attività cosiddette ‘tossiche’ ”1. In altre parole una Bad Bank, (o Servicer) è l’intermediario creato ad hoc al quale il soggetto (non necessariamente una banca), intrattiene un rapporto costante e sistematico nella cessione, generalmente a titolo oneroso e pro-soluto, dei propri non performing loans (NPL), ovvero crediti deteriorati per i quali la riscossione è incerta sia in termini di scadenza sia in termini di quantum da 1 Borsa Italiana, Cos’è una Bad Bank?, 20 Marzo 2009 1
corrispondere. Il compito del cessionario sarà, quindi, provvedere al recupero dei crediti in tempi inferiori, misura maggiore ed a minor costo rispetto a quanto accadrebbe se la gestione avvenisse nelle strutture interne del cedente. Se non vi è di certo alcuna novità nella tipologia dell’attività svolta poiché già esistono strutture (p. es. le società di factoring), di gestione e recupero dei crediti, l'elemento peculiare va ricercato nelle modalità operative del servicer finalizzate ad una gestione attiva del credito che rende l'esperienza del bad banking un'esperienza del tutto innovativa. La bad bank nel trattamento degli NPL si assume tutti i rischi del caso ma potrà godere anche degli eventuali rendimenti ottenuti dal recupero dei crediti deteriorati. Se, infatti, è poco certa la loro realizzazione, viceversa sono potenzialmente alti i rendimenti... Fatta, quindi, una valutazione che tenga conto del rapporto opportunità/rischi, la banca potrà scegliere di cedere la gestione dei crediti in sofferenza rivolgendosi ad un servicer; sarà, poi, l’accordo di mandato, corroborato da apposita procura generale per svolgere le azioni legali necessarie, che definirà l’ampiezza dei compiti individuando per importo e categoria i crediti oggetto della gestione. Se la Bad Bank sembrerebbe, quindi, dotata di scarsa operatività, connotata essenzialmente dai compiti assegnati dal soggetto economico, essa non potrà essere una scatola vuota in termini di struttura organizzativa. Indipendentemente dalle 2
ragioni che possono aver motivato la costituzione di un servicer, il potere nelle operazioni da svolgere deve essere necessariamente ampio poiché, in caso di limitatezza delle funzioni attribuite, la bad bank si ridurrebbe a mero studio legale di un istituto di credito senza apportare alcun vantaggio funzionale. Pertanto essa dovrà occuparsi, oltre che della tradizionale azione di recupero crediti, anche di ogni altra attività pertinente, senza assunzione di ulteriori rischi, al fine di fluidificare lo smobilizzo dei crediti a favore del soggetto controllante. Il servicer potrà acquisire immobili a fronte di crediti, in particolar modo ipotecari; potrà erogare nuovi finanziamenti in caso di ricorso alla ristrutturazione e costruire operazioni di cartolarizzazione. In un futuro prossimo potrebbe addirittura implementare i servizi di consulenza, oltre che finanziari, per le imprese sostituendosi alla banca cedente nella fase di gestione della crisi così che la posizione, una volta ristrutturata, potrebbe essere riacquistata dall’originator o ceduta a terzi. Questo può permettere al servicer di svolgere le sua attività anche a favore di altri operatori, comprese anche altre banche di piccole e medie dimensioni trasformando la gestione del contenzioso in una business-line autonoma, che comprenda anche l’attività di arranging di operazioni di cartolarizzazione a favore di soggetti con portafogli non sufficientemente dimensionati per diventare originator. L’eventuale e non indispensabile natura bancaria della 3
società di recupero dipende dalla circostanza che in alcuni casi si è proceduto ad utilizzare, anche tenendo presente considerazioni di natura fiscale, soggetti giuridici che già avevano tale statuto; da una parte, questo è funzionale all’applicazione dell’articolo 58 del TUB, possibile solo se il cessionario è una banca e che prevede come unico adempimento conseguente alla cessione, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale; dall’altro consente il ricorso al mercato interbancario, od ad altre forme di raccolta tipicamente bancarie, per il finanziamento delle operazioni di acquisto. 1.2 Un precursore: la Svezia dagli anni Settanta a oggi Affrontare la genesi del bad banking non è un mero esercizio di stile a’ la Queneau ma rappresenta una via concreta per comprendere l’attuale crisi finanziaria. Già agli albori della Grande Recessione i più si son voltati indietro verso la Grande Depressione con l’intento di ricercare chiavi di lettura interpretative ma nella realtà dei fatti il “prisma” andava “ruotato” soltanto di un ventennio. Prima della scoperta dei cd. mutui sub-prime in America, l’Europa aveva già affrontato un problema simile. I germi della crisi finanziaria attuale erano già tutti presenti nella crisi bancaria che coinvolse i paesi del Nord Europa negli anni ’90 4
con particolare riguardo al caso svedese. Prima di comprendere come la crisi sia stata gestita, è fondante analizzarne i fattori che determinarono perdite talmente ingenti per il sistema bancario svedese al punto da metterne a rischio la solvibilità. E’ necessario, quindi, tornare indietro sino alla fine degli anni ’70 e durante tutti gli anni ’80, laddove i paesi industrializzati vissero un momento epifanico nel processo di liberalizzazione dei mercati finanziari e creditizi. In tale prolifico quadro socio-economico il sistema finanziario svedese, fortemente regolato, promosse un processo di deregulation iniziato nel 1978 con l’abbattimento del tetto sui tassi d’interesse applicati sui depositi e condotto fino al 1990 con l’autorizzazione concessa alle banche straniere di poter aprire filiali sul territorio svedese. In questi anni furono effettuate scelte di netta rottura col passato favorendo la liberalizzazione attraverso la rimozione de: ➢ l’obbligo di detenere titoli di Stato per soddisfare i vincoli sulla percentuale di titoli liquidi (1983); ➢ il limite massimo all’ammontare totale di prestiti concessi dalle banche commerciali (1985); ➢ il vincolo sui tassi d’interesse applicati ai prestiti da parte delle banche (1985); 5
➢ ogni vincolo agli scambi internazionali in valuta (1989). Prima di tali modifiche l’esistenza di vincoli sui prestiti e sui tassi d’interesse da applicare generavano una resistenza per l’accesso al credito con una consequenziale selezione tra tutti i potenziali debitori. Vigeva una stringente relazione fra la banca ed il debitore in quanto l’istituto di credito deteneva ampie informazioni sulla sua condizione patrimoniale e poteva pertanto definire in modo preciso il rischio di credito associato al soggetto. Inoltre l’istituto di credito effettuava una costante vigilanza del comportamento del soggetto nel caso intraprendesse azioni che ne avrebbero minato fortemente la solvibilità. Tale quadro è letteralmente sconvolto dall’abolizione dei limiti sui tassi d’interesse e dall’ingresso di nuovi competitors sul mercato: la deregulation aveva creato un mercato del credito competitivo laddove la concorrenza fra le banche era sulla variabile del tasso d’interesse. Ne scaturì una politica aggressiva fondata sul ribasso dei tassi e sulla smodata erogazione dei prestiti per soddisfare la crescente domanda delle famiglie e delle imprese. L’esplosione dei prestiti, del resto, è desumibile dal rapporto che hanno con il PIL a partire dal 1985: si passò da poco meno dell’80% al 130% negli anni ’90. Una tale espansione determinò una frattura nel rapporto banca-debitore: d’ora in poi gli istituti di credito erogheranno prestiti ad un numero sempre crescente di soggetti, senza le approfondite conoscenze sullo stato patrimoniale e non 6
potendo più svolgere un monitoraggio capillare del comportamento dei clienti. Ad aggravare lo scenario fu anche il mutato orientamento del portafoglio prestiti verso settori ciclici quali le costruzioni con l’ovvia conseguenza di tale espansione del mercato: l’approvvigionamento da parte delle banche stesse di liquidità. I depositi, infatti, non bastavano più e si ricorse al mercato della moneta ed ai finanziamenti esteri connotati da maggiori costi e volatilità: tra il 1985 ed il 1990 i prestiti delle banche subirono un incremento del 10% nei loro asset mentre la quota depositi si ridusse della stessa percentuale. L’espansione incontrollata del mercato dei prestiti produsse anche un allentamento dei vincoli di bilancio per le famiglie e le imprese al fine di non limitarne le capacità d’indebitamento. Come non approfittare, ad inizio degli anni ’80, della congiuntura favorevole dovuta all’elevata inflazione, alla competizione tra le banche ed alla piena deducibilità degli interessi sui prestiti bancari che determinavano tassi d’interesse reali netti negativi? Si creò, così, un incremento di domanda di prestiti ed un proporzionale aumento del livello di indebitamento delle famiglie. La maggior parte dei prestiti prevedeva l’applicazione di un tasso variabile che determinava l’assunzione di un rischio maggiore per il debitore connesso alle variazioni del tasso d’interesse di riferimento. Le banche non si preoccuparono affatto né della possibilità che un repentino aumenti dei tassi d’interesse potesse portare ad un aumento del rischio d’insolvenza dei debitori né di come le somme 7
erogate erano impiegate. Le famiglie, infatti, si rivolsero in modo massivo al mercato immobiliare per l’acquisto di beni determinando un aumento medio annuo del 18,2% tra il 1985 ed il 1990 del valore degli immobili. Tale aumento determinò anche un incremento del valore del collaterale con cui le famiglie potevano indebitarsi per finanziarsi ulteriormente. Avvenne, così, un boom di consumi pagati con l’indebitamento contratto dalle famiglie. Se si tiene conto, infine, che nello stesso periodo esplosero anche i titoli azionari, si potranno comprendere appieno tutti gli elementi del palcoscenico economico, ovvero: ➢ bassi tassi d’interesse; ➢ aumento dei consumi e degli acquisti immobiliari; ➢ consequenziale aumento dei prezzi degli immobili e del valore corrispondente del collaterale; ➢ ulteriore incremento di debiti contratti dalle famiglie. Le famiglie non furono gli unici soggetti ad indebitarsi; il processo di deregulation portò anche ad un incremento dell’indebitamento delle imprese sostenuto soprattutto dagli investimenti nel settore delle costruzioni e dei servizi. La lettura superficiale della crescita economica, anabolizzata dai consumi e dagli investimenti, seppur apportò una riduzione della disoccupazione (meno del 2%), concorse al formarsi di aspettative positive nell’andamento economico e, quindi, a 8
contrarre ulteriormente debiti. Nessun operatore considerò la possibilità di un’inversione di tendenza per effetto del rialzo dei tassi d’interessi, eventualità che avrebbe di fatto annientato questa nuova classe di debitori poco controllati e maggiormente vulnerabili a congiunture economiche negative. Sono queste le ragioni per cui sul finire degli anni ’80 la Svezia conobbe un abnorme periodo di crescita (tra il 1985 ed il 1990 il PIL aveva registrato una crescita media annua del 2,3%) sostenuto principalmente da un innalzamento dei consumi privati e da un’elevata attività d’investimento. Lo Stato, nel frattempo, era occupato ad attuare una politica monetaria incentrata sul mantenimento del tasso di cambio costante e non pensò ad arginare gli effetti della deregulation. Si giunse, così, al biennio 1989-1990 ed all’inevitabile crollo del sistema. L’effetto domino fu innescato dalla Germania post-riunificazione: la banca centrale tedesca, infatti, promosse una politica monetaria restrittiva che indusse un aumento dei tassi d’interesse internazionali provocando la crisi del Sistema Monetario Europeo che investì in pieno la Svezia. La banca centrale svedese decise, quindi, di aumentare i tassi d’interesse al fine di non perdere la parità di cambio e resistere agli attacchi speculativi sulla propria moneta. Il colpo decisivo fu assestato nel novembre 1992: la banca centrale svedese abbandonò lo SME, lasciando fluttuare il cambio e portando repentinamente ad una svalutazione la corona svedese. Giusto qualche anno prima (1990-1991) la riforma del sistema fiscale ridusse anche 9
la deducibilità degli interessi e la concomitanza di tutti questi cambiamenti comportò che il tasso d’interesse reale post- tassazione sui prestiti bancari dopo aver raggiunto la punta minima (negativa) nel 1990, iniziò a salire costantemente sino al 1992, raggiungendo il valore massimo del 9%. L’aumento dei tassi produsse un ovvio aumento del costo dell’indebitamento ed una corrispondente riduzione dei prestiti traducendosi in un abbassamento dei consumi e degli investimenti. In poco tempo crollò la domanda degli immobili, sgonfiando sia la bolla immobiliare che dei mercati azionari producendo due effetti deleteri per l’economia svedese: ❖ l’abbassamento dei prezzi immobiliari ridusse il corrispondente nel valore del collaterale, conducendo al paradosso che il debitore ora era tenuto a rimborsare mutui con valori nominalmente maggiori rispetto al collaterale sottostante; ❖ il crollo del valore dei titoli minò la ricchezza delle famiglie che detenevano quote azionarie nel proprio portafoglio. Va, poi, aggiunto un ulteriore effetto che colpì in modo esclusivo le aziende: il tasso di cambio. Molte imprese decisero di finanziarsi con debiti in valuta estera e la forte svalutazione della corona svedese aumentò in modo incontrollato il valore delle proprie esposizioni. L’impossibilità a contrarre ulteriori finanziamenti condusse nel breve termine ad un numero record di fallimenti. 10
Tra famiglie sovraindebitate ed aziende fallite, le banche accumularono un elevato numero di sofferenze (non performing loans) per un ammontare di circa 197 miliardi di corone svedesi di crediti inesigibili e già nel 1991 due principali istituti di credito ricercarono capitali per far fronte alle ingenti perdite registrate. Si giunse, così, al 1993 dove le perdite sui prestiti bancari ammontavano all’11% del PIL ed i soggetti più colpiti a cui erano attribuibili le perdite maggiori erano le imprese non finanziarie. Lo Stato decise, quindi, di approntare una politica monetaria trattando la contingenza come un’emergenza nazionale. Le contromisure iniziarono già nell’autunno del 1991: la Nordbanken, primario istituto di credito a partecipazione statale, a fronte delle prime previsioni di perdite, decise per una nuova immissione di capitale all’80% sottoscritto dallo Stato. Nel 1992 la Forsta Sparbanken ottenne un prestito statale per 3,8 milioni di corone svedesi al fine di gestirne la ricostruzione. Sempre nella primavera del 1992 la Nordbanken necessitava di interventi più profondi e fu allora che lo Stato acquistò tutte le azioni della banca per poi scinderla in due entità: la prima (good bank) conservò il nome originario e tutti gli asset validi; la seconda (bad bank) fu denominata Securum e raccolse tutti gli asset tossici. La prima ebbe in dotazione 10 milioni di corone in equity capital; la seconda poté contare su 24 milioni di corone in equity capital e 10 milioni di corone in garanzie sui prestiti. Nel Settembre del 1992 la crisi raggiunse il Gota Group, ivi 11
compresa la Gota Bank, quarta banca più grande in Svezia. Al fine di non minare la stabilità del sistema e la fiducia in esso, lo Stato intervenne assumendosi gli impegni della banca, prendendone il controllo fino alla fusione con la Nordbanken, fornendo garanzie per 10 milioni di corone, trasferendo gli asset tossici in una bad bank (Retriva) e vendendo gli asset validi all’asta. Dopo l’ennesimo intervento si comprese che non era più sostenibile approntare misure ad hoc per ogni istituto di credito ma andava promossa una ristrutturazione di tutto il sistema bancario attraverso l’adozione di misure globali. Nel Dicembre dello stesso anno furono fornite garanzie statali a tutte le banche svedesi che ne avessero fatto richiesta; si applicò una politica di massima trasparenza nei confronti dei clienti e fu istituita la Bank Support Authority (BSA). Essa iniziò ad operare nel maggio 1993, slegata dal Ministero delle Finanze e dalla Banca Centrale Svedese, con il compito di analizzare i bad asset delle banche secondo criteri di massima trasparenza ed evidenziando le perdite stimate senza approssimazione onde evitare di doverle rivedere al rialzo successivamente. Occorreva in altre parole definire con precisione l’ammontare di capitale richiesto su basi realistiche. Fu, perciò, approntato un modello di previsione per l’andamento finanziario e la profittabilità dei vari istituti basato sul medio periodo (3-5 anni), che tenesse conto di tutte le informazioni rilevanti: 12
➢ la valutazione degli asset e del bilancio complessivo della banca; ➢ i dati e le previsioni macroeconomiche; ➢ la situazione attuale e l’evoluzione del sistema finanziario nel suo complesso. In base a queste valutazioni, gli istituti di credito vennero suddivisi in tre categorie: ❖ Categoria “A”: qui rientravano le banche con problemi di liquidità a breve termine ma il cui rapporto di capitalizzazione sarebbe rimasto entro i limiti. La soluzione adottata dalla BSA per questi istituti fu quella di promuovere immissioni di capitale da parte degli azionisti. ❖ Categoria “B”: in tale categoria si comprendevano tutti gli istituti con problemi più gravi a breve termine ma profittevoli nel medio-lungo periodo. Si stabilì che il rapporto di capitalizzazione potesse temporaneamente scendere sotto l’8%, richiedendo anche in questo caso immissioni di capitale da parte degli azionisti. Per incentivarli l’operazione fu supportata da una garanzia statale che poteva divenire sottoscrizione di capitale qualora il vincolo dell’8% sui requisiti di capitale non fosse rispettato. Era chiaro l’intento di privilegiare sottoscrizioni di aumento di capitale in primis da parte degli stessi azionisti, ricorrendo solo in un secondo 13
momento all’intervento dello Stato. Per migliorare lo status di queste banche la maggior parte degli asset tossici furono trattati presso le bad banks. ❖ Categoria “C”: qui vi rientrarono, infine, tutti gli istituti di credito già tecnicamente falliti. Queste banche furono lasciate fallire o furono nazionalizzate e fuse con istituti più solidi scegliendo un criterio che prevedesse l’alternativa con il minor costo sociale possibile. A ben vedere il cuore della soluzione svedese risiede proprio nel concepimento della celebre divisione in “good bank” e “bad bank”, scindendo gli asset solidi dagli asset tossici e gestendoli in due unità distinte. Questa misura adottata presentò due benefici evidenti: ➢ La good bank, ormai libera dalla gestione degli asset tossici, poteva riprendere le normali operazioni; ➢ Gli asset tossici non furono semplicemente liquidati dalle banche ma furono dirottati verso le AMC (Asset Management Company). A ben pensare la vendita incontrollata dei titoli avrebbe provocato un ulteriore deprezzamento degli asset con conseguente aggravio della situazione finanziaria anche per gli altri istituti. Il discorso è applicabile anche ad un’eventuale liquidazione frettolosa del collaterale che avrebbe 14
generato un deprezzamento degli immobili. Trasferendo i bad asset alle AMC tale problematica, invece, era risolta: queste unità create ad hoc, non essendo mosse da logiche di profitto a breve termine, attesero la normalizzazione del mercato per liquidare tali asset anche se ciò richiedeva un arco temporale più lungo. L’ultima grande svolta viene poi attuata dalla Banca Centrale svedese nel novembre 1992, ovvero la decisione di abbandonare il cambio fisso. Ciò comportò un’immediata svalutazione della corona svedese che rese i beni nazionali più competitivi e diede il via per la ripresa, che era di fatto sostenuta dalla domanda estera. Si varò una politica monetaria di tipo espansivo che potesse rilanciare anche la domanda interna. Gli effetti sono palpabili dal 1993 quando i tassi d’interesse, seppur lentamente, cominciarono a ridursi anche se ciò non apportò nell’immediato i benefici sperati. Ad ogni modo la soluzione svedese è considerata come riferimento per la sua efficacia nella gestione della crisi finanziaria e bancaria: riuscì ad evitare sia casi di bank-run che di credit crunch. L'accento maggiore va, però, posto sull'aspetto più unico che raro avvenuto in una gestione di crisi finanziaria: il costo finale dell'operazione per i contribuenti è stato pressoché nullo e ciò essenzialmente per la gestione delle AMC che liquidarono gli asset ereditati dalle banche parecchi anni dopo la crisi, quando il mercato si era ormai stabilizzato, rendendo una 15
valorizzazione normale degli stessi asset. Tale esperienza non presenta solo luci: se i costi finali per i contribuenti furono nulli, i costi macroeconomici furono considerevoli. Il livello di disoccupazione raggiunse l'8%; tra il 1991 ed il 1993 la contrazione media annua del PIL fu del 2% mentre quella dei consumi del 1,6% ma, nonostante tali ombre, la tempestività d'intervento, i costi ridotti e la velocità di risoluzione della crisi pongono comunque il caso svedese come primo modello di successo di applicazione del bad banking nel crisis management. 1. 3 Il caso irlandese Anche in questo caso appare opportuno delineare preliminarmente il quadro socio-economico che condusse alla crisi finanziaria/bancaria del Paese per comprenderne, poi, i risultati (positivi) ottenuti dal ricorso al bad banking. Se si potesse rappresentare graficamente lo sviluppo economico irlandese esso sarebbe assimilabile ad una curva sinusoidale che inizia nel 1973 protraendosi, tra alti e bassi, sino al 2009. La nostra anamnesi non potrà, quindi, che muovere dalla prima espansione economica di inizio anni '70, ripercorrendo quelli che possono essere definiti punti fondamentali di tale crescita: 16
➢ L'ingresso nella CEE (1973) con il consequenziale abbandono delle politiche isolazionistiche autarchiche e nazionaliste; ➢ La scelta di adottare un approccio pragmatico nelle scelte di business, incentrando l'attenzione su quei settori emergenti quali tecnologia e prodotti farmaceutici; ➢ Un miglioramento della formazione universitaria per creare giovani con elevate competenze per tali nuove aziende. L'Irlanda era riuscita a scrollarsi di dosso nel giro di una generazione la povertà, l'epiteto di "terra d'emigrazione" e l'affezione da una disoccupazione cronica. Purtroppo con l’avvento degli anni '80 conobbe una nuova fase di stagnazione economica indotta da cause sia endogene che esogene. Le motivazioni endogene erano riconducibili al persistere dell'inflazione (11%) e della disoccupazione giovanile, non tanto per la mancanza di posti lavoro quanto per l'inefficienza del sistema di collocamento e per l'elevato tasso di fallimento delle aziende. Si creò, quindi, un periodo di depressione economica che investì il Paese dal 1981 al 1986. Neanche gli interventi statali furono in grado di invertire la tendenza ma aumentarono solo il carico fiscale, demotivando le possibilità di nuovi investimenti. Tale quadro fu sovvertito solo all'inizio degli anni 17
'90 con scelte drastiche e mirate, tutte contenute nel National Recovery Program, quali; ❖ Riduzione della spesa pubblica con tagli ad enti ed agenzie; ❖ Aumenti salariali; ❖ Riduzione delle tasse; ❖ Sinergie nella programmazione tra governo, imprenditori, settore bancario e sindacati. Tra tutte le manovre attuate, incredibilmente, la più fruttuosa fu la riduzione della pressione fiscale in quanto una tassazione più favorevole produsse sia maggiori entrate per lo Stato (tasse ragionevoli implicano minore evasione) sia indusse molte società a fare base in Irlanda per poi espandersi nei mercati europei. Con l'inizio del nuovo millennio incominciarono, quindi, a sorgere le prime contraddizioni: i redditi più alti produssero un tenore di vita migliore ma il Paese non era in grado di supportarlo con le dovute infrastrutture. L'edilizia sembrava non soddisfare le nuove esigenze di una popolazione benestante e questa mancanza cronica di strutture condusse l'Irlanda a vivere un boom edilizio senza precedenti. L'esplosione fu talmente incontrollata che il valore immobiliare risultava slegato da qualsiasi variabile reale con prezzi in continua crescita che alimentarono la bolla speculativa. A suffragio di ciò è sufficiente riportare il numero di abitazioni presenti in Irlanda dal 1991 con 18
1,2 milioni di abitazioni, aumentate a 1,4 milioni nel 2000, fino a giungere al boom edilizio con 1,9 milioni di unità immobiliari nel 2008; un vero e proprio raddoppio in meno di 20 anni. Proporzionalmente anche il pricing delle case e delle rendite immobiliari raddoppiò negli stessi anni. E’ questo il momento epifanico del boom immobiliare e della consequenziale bolla speculativa conosciuta come Irish property bubble. Con un’economia in costante crescita e in permanente piena occupazione, molti dei lavoratori impiegati nel settore edile provenivano dall’estero, in particolare dai nuovi paesi orientali della UE (in primis la Polonia). D’altronde nel 2007 il settore edilizio-immobiliare occupava il 13,3% della forza-lavoro, ovvero il valore più alto dei paesi membri dell’OSCE risultando elemento di attrattività per lavoratori stranieri. Con un alto livello di reddito e con le facilitazioni creditizie ottenute dalle banche il mercato immobiliare subì un’impennata agli inizi degli anni 2000 portando l’offerta a crescere in modo smisurato. In tale quadro va aggiunta la costante crescita della domanda di abitazioni favorita anche da una riduzione delle imposte sul reddito per comprendere appieno lo squilibrio di mercato che si venne a creare con il risultato di una robusta crescita nella costruzione dei fabbricati e, come già detto, di un’impennata dei prezzi con un’economia di Paese sempre più dipendente dal settore edilizio. A partire dal 1997 la bolla speculativa aveva creato un pricing immobiliare slegato da 19
qualsiasi variabile macroeconomica reale fino a giungere al 2007 dove tale sovrastima toccò il 30%. Questa frenesia investì anche il settore bancario, vittima del mito di una crescita infinita. Con l’apice della crisi dei subprime nel 2008, giunse, poi, il colpo ferale al sistema bancario irlandese che versava ormai in condizioni disperate. Il 21 dicembre 2009 il governo irlandese tentò di arginare la crisi con la nascita della NAMA (National Asset Management Agency). Con una dotazione di capitale per 100 milioni di Euro, la NAMA era formata al 49% da partecipazione statale ed il restante 51% diviso per quote fra i tre investitori: l’Irish Life Investment Managers, New Ireland Assurance ed Allied Irish Banks. Le cinque principali banche irlandesi che vi aderirono furono: EBS Building Society, Irish Nationwide Building Society, Anglo Irish Bank, Allied Irish Banks e Bank of Ireland. Rispetto ad altri esempi di bad banking, in questo caso si è in presenza di una bad bank atipica in quanto le sono consentite attività ben oltre la semplice gestione di crediti deteriorati: per perseguire le sue finalità, infatti, può sottoscrivere capitale sociale di banche, garantirne le posizioni debitorie, detenere e commercializzare immobili (svolgendo perfino finalità sociali con circa 7 mila abitazioni destinate al social housing) ed addirittura contrarre essa stessa debiti. La NAMA tratta anche l'acquisizione di titoli tossici purché iscritti a bilancio entro il 03/12/2008 ma con una peculiarità: per tutti gli istituti di credito ammessi alla cessione dei titoli vigeva l'obbligo di cedere oltre ai crediti stabiliti dall'atto 20
costitutivo (p.es. i crediti per attività immobiliare) anche i crediti il cui mancato trasferimento avesse potuto rappresentare un potenziale ostacolo al perseguimento degli obiettivi della bad bank. Al fine di liquidare i titoli tossici acquisiti NAMA emise per via indiretta attraverso apposita società veicolo, obbligazioni (di cui 95% senior e 5% subordinate) che furono trasferite alle banche che avevano ceduto i crediti deteriorati. Anche se la garanzia statale sulle obbligazioni senior non riparava totalmente le banche che le avevano acquisite dal rischio di perdita nel caso in cui dalla gestione bad bank dovessero risultare perdite, tale eventualità, allo stato di fatti, è da escludersi: dal rapporto per l’anno 2015 risulta che attraverso 9 tranches sono stati conferiti alla NAMA 12 mila prestiti, 60 mila immobili e circa 6 mila operazioni di altro tipo. Il valore di bilancio del pacchetto era pari a 74 miliardi di euro ma per la cessione ha fruttato solo 31,8 miliardi per gli istituti che ne hanno beneficiato, di cui 26,2 miliardi pagati dalla bad bank come valore di mercato dei titoli e i restanti 5,6 miliardi ricevuti come aiuti di stato (con il benestare della Commissione europea). L’obiettivo, quindi, di rispettare le date di scadenza per la restituzione dei debiti fatti per finanziare l'attività (fine 2018 per i senior e primavera 2020 per i subordinati) appare verosimile. Ad ulteriore conferma di ciò al 14 dicembre 2016 risulta che deve essere restituito solo il 9% del debito senior. La previsione attuale è che la bad bank sarà liquidata a 21
conclusione della sua attività con un utile di 2 miliardi di euro per i suoi azionisti. 1.4 Il caso spagnolo Con la fine della dittatura franchista e l’entrata nella CEE (1986) la Spagna conobbe una crescita economica durante tutti gli anni 90 ed inizio anni 2000 basata sugli scambi commerciali con l’estero, il turismo e l’attrattività di capitali stranieri. Tale boom fu anche alimentato dal basso costo della manodopera ed un saggio utilizzo dei fondi europei che abbassarono i livelli di disoccupazione dal 22% all’8%. Purtroppo, come per i casi precedenti, la grande crisi del 2008 minò alle fondamenta l’economia del Paese che nel ventennio precedente aveva creato un sistema fortemente sbilanciato nel settore terziario con il 60% circa delle aziende operanti nel settore del turismo, dei trasporti, commercio, telecomunicazioni e dei servizi finanziari / assicurativi, ovvero tutti quei settori colpiti dagli effetti della crisi. Si può osservare come dopo 15 anni il PIL subisce una contrazione sul finire del 2008, evento che anticipò di poco l’entrata della Spagna nella piena recessione (febbraio 2009). Il settore più colpito fu, come sempre, quello edile: se nel periodo di crescita era elemento trainante dell’economia, adesso versa in una completa paralisi. I prezzi crollarono bruscamente e nonostante il forte ribasso rimasero invendute 22
circa mezzo milione di unità finite. La disoccupazione raggiunse il 25%, i capitali fuggirono all’estero ed i titoli di stato salirono costantemente fino a raggiungere il 7%. Nel 2012 il nuovo quadro socio-economico distrusse il sistema bancario ed il Governo di Rajoy fu costretto a ricorrere al fondo salva-stati predisposto dalla UE per ricapitalizzare gli istituti di credito. Si costituì, quindi, il Fondo de Resolucion Ordenada Bancaria (FROB) che potè contare su un prestito di 100 miliardi di Euro dall’UE. Tale prestito, garantito dallo Stato, fu impiegato integralmente per ricapitalizzare le banche e gestirne i crediti deteriorati. Nel 2012 il FROB promosse la costituzione di una Sociedad de Gestión de Activos procedentes de la Reestructuración Bancaria S.A. (Sareb), con una dotazione pari a 4,8 miliardi di Euro (25% di equity ed il resto subordinato), con l’obiettivo di gestire il processo di ristrutturazione del sistema bancario in un arco temporale massimo di 15 anni. Al fine di non essere categorizzato come ente della pubblica amministrazione secondo la classificazione Eurostat, FROB acquisì il 45% del capitale di Sareb, mentre il restante 55% fu sottoscritto da oltre 20 società private, per lo più banche. Onde evitare conflitti di interesse, le banche beneficiarie dell’aiuto pubblico non potevano detenere quote del capitale della società. La Sareb fu autorizzata ad emettere titoli garantiti dallo Stato fino a 90 miliardi di Euro, titoli che successivamente erano 23
scambiati con gli attivi trasferiti dalle banche, che poi a loro volta potevano impiegare come collaterale per ottenere i finanziamenti dalla BCE. E’ peculiare che nell’esperienza del bad banking spagnolo gli istituti di credito erano tenuti obbligatoriamente al trasferimento di determinate tipologie di attivi che non comprendevano unicamente asset tossici ma anche crediti buoni: immobili del valore contabile di 100.000 Euro iscritti a bilancio fino al 30 giugno 2012 (acquisiti tramite procedura giudiziaria o per cessione volontaria del debitore inadempiente), i crediti erogati per importo pari o superiore a 250.000 Euro al fine di acquisto terreni o per costruzioni, tutti i prestiti od i crediti garantiti da ipoteca od altra garanzia reale che, però, potevano minare la solidità di bilancio dell’istituto di credito. Fu soprattutto quest’ultima scelta che delineò l’indirizzo scelto dal governo di “alleggerire” i bilanci delle banche coinvolte dalla crisi, schermandole anche da ulteriori peggioramenti del mercato immobiliare. A fronte di tale manovra la Sareb ha, quindi, acquisito 90.000 immobili e 105.000 prestiti per un valore complessivo di 50,7 miliardi di Euro. L’acquisizione ha previsto uno sconto di tali attività rispetto al valore registrato in bilancio pari al 63% per la parte immobiliare e pari al 45% per i crediti. La consequenziale politica della bad bank fu da un lato votata alla ristrutturazione dei crediti per agevolarne il recupero e dall’altro alla vendita 24
degli immobili. Non può parlarsi, però, di semplice gestione di vendita immobiliare in quanto la Sareb fu proattiva nella valorizzazione del patrimonio realizzando anche operazione di sviluppo immobiliare. Ad oggi i risultati non sono incoraggianti: nei primi 4 anni di operatività la bad bank ha sempre chiuso i bilanci in perdita, bilanci che venivano opportunamente ripianati da aumenti di capitale; è riuscita a restituire 8 miliardi di Euro del debito garantito dallo Stato e nel maggio 2016 ha convertito i bond subordinati in azioni per un valore pari 2,17 miliardi di Euro. 1.5 Il caso sloveno Di certo tra tutti i casi trattati sino ad ora, quello sloveno non rappresenta un unicum né per importi trattati né per successi ottenuti ma il suo studio getta luce su una delle realtà economiche più in osmosi in termini di esportazione con l’Italia e la Germania. La Slovenia ha rappresentato di certo l’esempio più di successo tra le repubbliche ex-jugoslave; un vero e proprio modello di crescita economica che le ha valso l’epiteto di “Svizzera dei Balcani”. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia la Slovenia è stata difatti la più ricca tra le repubbliche nate e 25
considerata un modello di stabilità politica e crescita economica cui ispirarsi. Anch’essa vittima della Grande Crisi a partire dal 2009 fino al 2012, subì la recessione in modo talmente profondo da spingere la Commissione Europea ad avviare verso Lubiana la procedura di infrazione per deficit eccessivo. La politica creditizia espansionistica attuata dal 2004 al 2008, nell’era del denaro facile e cavalcando l’entusiasmo per l’ingresso nell’Euro, spinse il sistema finanziario sloveno in una vorticosa speculazione che poteva muoversi indisturbata. Con la Grande Crisi emerse, invece, una realtà fino a quel momento insospettata. Seppur la Banca centrale slovena dichiarava che si era ancora in una fase di deterioramento gestibile, le cifre della crisi bancaria apparivano ben più serie: il rapporto tra depositi e prestiti era piuttosto elevato (153%), le sofferenze avevano toccato i 7 miliardi di Euro e nel 2012 le banche slovene avevano registrato una perdita totale di 664 milioni di Euro. Nel marzo 2013 i mercati si posero in allerta nei confronti della Slovenia e lo stesso Pier Carlo Padoan (allora capo economista dell’Ocse) evidenziò un pericolo di contagio per l’Italia per cui, a differenza della crisi spagnola, “la Slovenia è un caso diverso e richiederà attenzione”2. In un articolo su IL PICCOLO il giornalista Piercarlo Fiumanò riassumeva così la situazione slovena al 31 marzo 2013: “I mercati sono in stato d’allerta, con lo spread che ha terminato la settimana ben sopra 2 Fiumanò Piercarlo, Una Bad Bank per salvare la Slovenia, 2013 – consultabile sul sito http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2013/03/31/news/una-bad-bank-per-salvare-la-slovenia-1.6795366 26
i 400 punti base e un rendimento dei titoli pubblici decennali già salito al record del 6,382%. Nova Ljubljanska, la banca maggiore del Paese (a controllo pubblico) ha perso 305 milioni di euro nel 2012, quarto anno consecutivo in rosso. La seconda banca del Paese, Nova Kreditna Banka Maribor, 205 milioni di rosso lo scorso anno, è stata fra le quattro banche che non hanno passato gli stress test europei e di recente ha deciso una ricapitalizzazione da 100 milioni”. In un’intervista pubblicata il 5 Luglio 2012, l’ex-ministro sloveno (e professore universitario) Joze Damijan descriveva in modo efficace i motivi per cui la Slovenia patì le conseguenze della crisi globale: “La Slovenia paga oggi l’accumularsi di problemi che non sono stati risolti in passato. Il primo è la mancata approvazione negli ultimi dieci anni delle necessarie riforme strutturali: la riforma fiscale, quella del mercato del lavoro e quella delle pensioni avrebbero rafforzato l’economia e l’avrebbero resa più flessibile di fronte alla crisi. Il secondo problema è l’eredità delle politiche sbagliate del precedente governo. Per esempio, nel bel mezzo della crisi del 2008-2009 l’esecutivo ha aumentato il salario minimo del 25% e i salari del pubblico impiego del 10%, spingendo così verso l’alto anche le pensioni, che sono indicizzate all’inflazione. Questi provvedimenti hanno aumentato la spesa pubblica del 10%, proprio mentre gli introiti fiscali calavano della stessa percentuale. Il terzo problema della Slovenia è la mancata privatizzazione delle banche prima della crisi. Questi istituti, di proprietà pubblica, devono ora essere 27
ricapitalizzati dalla mano pubblica. Ecco perchè i nostri spread oggi sono uguali a quelli italiani”. 3 La soluzione del governo fu, quindi, di approntare una bad bank, ovvero la Bank Assets Management Company (BAMC). Interamente di proprietà pubblica il suo scopo fu, come per i casi analizzati in precedenza, di acquisire crediti non esigibili al fine di mitigare le perdite nei bilanci delle banche. Gli istituti di credito che si rivolsero alla BAMC furono tre: Nova Ljubljanska Banka, Nova Kreditna Banka Maribor e Abanka Vipa. La bad bank, però, non ha mai lavorato in modo egregio pesando economicamente sulla cittadinanza ed è per questo che è stata fortemente contestata; si può addirittura affermare che la sua creazione sia stata la misura più impopolare del governo Bratusek. L’immagine della BAMC, infatti, è stata minata essenzialmente da due aspetti endogeni: ➢ Performance negative (nel 2013, dopo poco più di un anno di attività, ha registrato perdite per 80 milioni di Euro); ➢ Una pessima amministrazione. E’ soprattutto quest’ultimo aspetto a deteriorarne l’immagine pubblica: salari manageriali oltre i limiti consentiti, gli eccessivi costi delle consulenze (nel 2014 ben 14 milioni di Euro) e, cosa 3 L’intervista è consultabile sul sito http://www.limesonline.com/tra-i-malati-deuropa-ce-anche-la-slovenia/36680 28
ancor più grave, il fatto che una grande parte di queste consulenze siano state appaltate alla stessa società (Quarz) che annovera fra i suoi azionisti Torbjorn Mansson, ex direttore esecutivo della stessa BAMC. Forse un cambio di rotta si è tentato ad inizio 2015 quando il governo sloveno ha introdotto tre nuovi direttori non esecutivi (veri e propri supervisori) all’interno della bad bank per far fronte alle già citate irregolarità fatte emergere dalla Corte dei conti per il periodo compreso dalla nascita fino al 2013. Gli ultimi monitoraggi sono decisamente incoraggianti rispetto il primo trend: entro maggio 2017 sono stati venduti 1,1 miliardi di Euro di attività e considerando che l’obiettivo di entrate pari ad un miliardo era fissato per il 2019, che il servicer ha un portafoglio valutato ancora oltre 1 miliardo di Euro, si può ben sperare che in un futuro prossimo la BAMC possa riscrivere la propria (breve) storia ed, insieme alla sua, quella della Slovenia. 1.6 Il caso tedesco Anche la Germania non fu immune alla grande crisi finanziaria del 2008 ricorrendo al bad banking come soluzione mitigatrice. Furono creati ben due servicers a partecipazione totalmente pubblica, ovvero la EAA (Erste Abwiklungsanstalt) nel 2009 per il salvataggio della WestLb e la FMS-WM (Fms Wert-Management) nel 2010 per la gestione della Hypo Real Estate: la prima rilevò assets tossici per circa 77,5 miliardi di 29
Euro, la seconda ben 175 miliardi. Tra le due operazioni la prima risultò essere alquanto peculiare. Il primo luglio del 2012 Norbert Walter Borjans, ministro delle finanze dello stato tedesco del Nord Reno - Westfalia (nonché uno dei principali stakeholder della WestLb), dichiarò che era stata rimossa una delle più grandi banche dal mercato 4 , laddove il termine “large” aveva un valore dicotomico: un significato “storico”, che individuava nella WestLb quella che era una volta la più grande landesbank della Germania, ed un significato “economico” in quanto la scomparsa dell’istituto di credito rappresentava un passo importante nel consolidamento delle banche tedesche che fornivano servizi “all’ingrosso” alle rispettive banche di risparmio regionali. Ma facciamo un passo indietro. Oltre alla congiuntura socio- economica del 2008, la WestLb fu anche protagonista di una serie di scandali commerciali (scandali perpetrati fino ad oggi con, non ultima, la manipolazione dei tassi Euribor) con perdite che minarono ogni ambizione internazionale della banca nonché si resero necessari ripetuti salvataggi da parte dei proprietari. Prima di essere liquidata con la bad bank la proiezione prevedeva un costo per i contribuenti e per le banche di risparmio pari a 18 miliardi di Euro distribuiti tra il 2005 ed il 2028, anno in cui l’ultimo dei suoi bad assets 4 L’intervista è consultabile sul sito http://www.reuters.com/article/westlb-breakup-idUSL6E8I15SR20120701 30
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