L'ESPERIMENTO DEL BAD BANKING IN ITALIA: DALLA SGA ALLA REV - S.r.L. Societàdirevisionedocumentalebancariaindipendente - Real Time

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L'ESPERIMENTO DEL BAD BANKING IN ITALIA:
          DALLA SGA ALLA REV
Sommario

Introduzione

Capitolo I - Il Bad Banking: teoria e prassi nell'Europa dell'ultimo
trentennio ..................................................................................................................................... 1
1.1 Il concetto di Bad Bank ............................................................................................................ 1
1.2 Un precursore: la Svezia dagli anni Settanta ad oggi.............................................................. 4
1.3 Il caso irlandese ..................................................................................................................... 16
1.4 Il caso spagnolo ..................................................................................................................... 22
1.5 Il caso sloveno ....................................................................................................................... 25
1.6 Il caso tedesco ....................................................................................................................... 29
1.7 Un quadro d'insieme .............................................................................................................. 32

Capitolo II - Le declinazioni del Bad Banking in Italia............................................................ 36
2.1 Il "miracolo" della SGA ........................................................................................................... 36
2.2 La scelta Pillarstone ............................................................................................................... 46
2.3 L'esperimento Prelios/Akros e la prima Bad Bank privata..................................................... 54
2.4 La crisi di Banca Etruria & Co.e la soluzione Rev ................................................................. 56
2.5 L'oro di Napoli ........................................................................................................................ 61

Capitolo III - Bad Banking e politiche pubbliche in Italia dopo la crisi del
2008 ............................................................................................................................................. 64
3.1 L'influenza del bad banking sui mercati ................................................................................. 64
3.2 La Bad Bank come l'Equitalia per le banche (?) .................................................................... 67
3.3 Il "fraintendimento" dell'art. 47 della Costituzione .................................................................. 72

Bibliografia ................................................................................................................................. 85

                                                          II
INTRODUZIONE

Con tale progetto s’intende affrontare il tema del bad banking,

di come esso sia uno degli elementi più rappresentativi del

sistema economico degli anni 2000 e rifugio del sistema

bancario    dall’inizio    della   Grande   Recessione   ad   oggi.

Muovendo i passi dai primi esempi di bad banking si tenterà,

quindi, di ipotizzare quali possano essere i possibili scenari

futuri di impiego.

Nel primo capitolo si provvederà preliminarmente a delineare il

concetto del bad banking avendo cura di tracciare il quadro

socio-economico da dove esso è scaturito e come sia stato già

utilizzato in alcuni Paesi. Si analizzerà, quindi, la prima

esperienza di bad bank in Svezia con la Securum nel 1992: a

partire dal 1990, anno in cui avvenne nel mercato svedese la

liberalizzazione del mercato finanziario e creditizio con la

riduzione dei tassi d’interesse ed il consequenziale incentivo

all’indebitamento di famiglie ed imprese, si comprenderanno i

termini che portarono al boom del mercato immobiliare ed

azionario ed il successivo crollo dello stesso. Lo scarso

controllo nell’erogazione del credito portò, infatti, ad un alto

livello di insolvenze al rialzo dei tassi che minò la stabilità del

sistema bancario. Nel 1993, quindi, il Governo istituì la Bank
                            III
Support Authority (Bsa), un organismo indipendente che aveva

il compito di analizzare i bad asset delle banche con la

massima trasparenza. Solo per due istituti, la Nordbanken e la

Gota Bank, venne, poi, adottata la divisione in "good bank" e

"bad bank", denominate rispettivamente Securum e Retriva.

Tale   esperienza,    stigmatizzata     dal   Premio   Nobel    per

l’Economia Joseph Stiglitz con l’epiteto “Bad Bank is cash for

trash”, portò in seguito il Presidente Obama e persino la Banca

Centrale Europea a considerare l’esperimento Securum come

un grande modello cui ispirarsi.

Ma la vicenda svedese non è isolata in Europa. Il primo

esempio di bad bank in area Euro è stato fornito dall’Irlanda con

la creazione della Nama: costituita nel 2009 per far fronte alla

crisi bancaria del paese, essa non solo opera con successo

come bad bank ma ha anche la facoltà di concedere

finanziamenti al settore immobiliare.

Anche la Spagna ha sperimentato il bad banking: dopo la

richiesta di aiuto all'Unione Europea del 25 giugno 2012 per la

ristrutturazione e ricapitalizzazione del settore bancario, il

Governo spagnolo concordò con i vertici Ue e Fmi la creazione

di una bad bank denominata Sareb (Sociedad de gestion de

activos procedentes de la restructuracion bancaria). Gli obiettivi

prevedevano di raccogliere i crediti insolventi dalle banche

sostenute con capitali pubblici e gestire la cessione di tali attivi

nell'arco di 15 anni. Da dicembre 2012 la Sareb ha avviato la

rimozione dei crediti delle quattro banche che avevano già
                              IV
ricevuto aiuti pubblici (Bfa-Bankia, Catalunya Banc, Novagalicia

Banco e Banco de Valencia).

Con risultati nettamente più deludenti delle precedenti è la bad

bank slovena, Bank Asset Management Company. Costituita

nell’estate 2012, ha ottenuto dall’UE 7 miliardi di Euro per il

salvataggio delle banche ma ha fortemente tardato ad entrare

nella piena operatività.

Per concludere si analizzerà l’esempio tedesco che può

esporre ben due bad bank con profonde diversità rispetto agli

altri paesi. Infatti la Erste Abwicklungsanstalt (EAA) e la FMS

Wertmanagement (FMS-WM) sono interamente pubbliche e

pesano sui conti pubblici. Gli attivi bancari che sono stati affidati

ai due istituti ammontano (in termini nominali) a oltre 350

miliardi di euro ed eventuali perdite sono interamente a carico

dello stato e dei vari laender.

Alla luce di quanto sin’ora descritto si analizzerà, quindi,

l’impiego del bad banking a partire dalla Grande Recessione,

valutando la sua funzione risolutrice nella crisi finanziaria.

Nel secondo capitolo si affronterà il modo con cui l’Italia ha

vissuto l’esperienza del bad banking. Iniziando dalla prima vera

bad bank italiana, ovvero lo SGA, si ripercorrerrà la sua storia

ventennale: da “fenice” emersa dalle ceneri del Banco di

Napoli, a ricca “cassaforte” con i suoi cinquecento milioni di

Euro in pancia; dalla nascita per la gestione dei crediti inesigibili

del Banco di Napoli, fino all’acquisizione di essa da parte del
                                V
governo      Renzi     per    “acquistare       sul   mercato   crediti,

partecipazioni e altre attività finanziarie”.

Si passerà, poi, alla più recente esperienza Pillarstone: la

piattaforma di KKR (l’operatore internazionale di private equity)

fornita all’Italia per finanziare la ristrutturazione del debito.

Attraverso la società Pillarstone Italy SPV S.r.L. già due fra i

maggiori istituti di credito (Unicredit ed Intesa San Paolo) hanno

gestito una larga parte dei propri NPL’s. La Pillarstone, inoltre,

opera anche nel rilancio di importanti gruppi industriali italiani

fra cui la Cuki Group Spa e la Sirti Spa.

Ma l’Italia è stata anche scenario ad inizio 2016 del più

singolare degli esperimenti: mentre si discute sulla creazione di

una bad bank pubblica, Prelios e Banca Akros creano una bad

bank privata per consentire alle banche di fare pulizia dei crediti

“cattivi” nei loro bilanci.

Si chiuderà la rassegna del bad banking italiano con

l’argomento più di attualità, ovvero la gestione dei crediti in

sofferenza di Banca Etruria, Carichieti, Cariferrara e Banca

Marche. Tale compito (per un ammontare lordo di circa 10,3

miliardi di Euro) è stato affidato alla Rev Gestione Crediti Spa,

società veicolo interamente controllata da Bankitalia.

Infine nel terzo capitolo si analizzerà l’impatto del bad banking

nello sviluppo economico con particolare riguardo al suo effetto

nei mercati finanziari e le sue “ricadute” sulla clientela. Per certi

versi sembrerebbe quasi che vi sia un “fraintendimento” dell’art.
                             VI
47 della Costituzione;      sembrerebbe quasi che ad essere

incoraggiato e tutelato non sia il risparmio delle famiglie, bensì il

sistema bancario. C’è addirittura chi ipotizza la bad bank come

una nuova Equitalia volta ad impennare il recupero del credito

aggredendo la clientela per rientrare il più velocemente

possibile, facendo leva sulle garanzie illo tempore rilasciate.

Pertanto, alla luce di quanto sin’ora descritto, si tenterà di

delineare possibili scenari per l’utilizzo del bad banking a

breve/medio termine, i suoi possibili effetti con uno sguardo al

passato (prossimo) per comprendere il futuro.

                                 VII
CAPITOLO I

                  Il Bad Banking: teoria e prassi nell’Europa

                                    dell’ultimo trentennio

              1.1      Il concetto di “Bad Bank”

              In un trafiletto del 20 marzo 2009 il sito ufficiale della Borsa

          Italiana forniva in modo conciso una definizione di bad bank

          anche per chi non fosse addetto ai lavori. Nella sua immediata

          delle definizioni la bad bank è un “veicolo societario in cui far

          confluire gli asset ‘tossici’ di una banca”. A dipanarne

          ulteriormente il senso è la stessa Borsa Italiana: “Con tale

          termine si fa riferimento alla suddivisione in due di una banca,

          nella sua parte ‘buona’ (good bank) e in quella ‘cattiva’ (bad

          bank). La banca buona si occuperà di tutte le parti sane

          dell’attività di credito, mentre la parte cattiva comprenderà tutte

          le attività cosiddette ‘tossiche’ ”1. In altre parole una Bad Bank,

          (o Servicer) è l’intermediario creato ad hoc al quale il soggetto

          (non necessariamente una banca), intrattiene un rapporto

          costante e sistematico nella cessione, generalmente a titolo

          oneroso e pro-soluto, dei propri non performing loans (NPL),

          ovvero crediti deteriorati per i quali la riscossione è incerta sia

          in termini di scadenza sia in termini di quantum da

1 Borsa Italiana, Cos’è una Bad Bank?, 20 Marzo 2009

                                                       1
corrispondere.    Il   compito   del   cessionario   sarà,   quindi,

provvedere al recupero dei crediti in tempi inferiori, misura

maggiore ed a minor costo rispetto a quanto accadrebbe se la

gestione avvenisse nelle strutture interne del cedente. Se non

vi è di certo alcuna novità nella tipologia dell’attività svolta

poiché già esistono strutture (p. es. le società di factoring), di

gestione e recupero dei crediti, l'elemento peculiare va ricercato

nelle modalità operative del servicer finalizzate ad una gestione

attiva del credito che rende l'esperienza del bad banking

un'esperienza del tutto innovativa. La bad bank nel trattamento

degli NPL si assume tutti i rischi del caso ma potrà godere

anche degli eventuali rendimenti ottenuti dal recupero dei crediti

deteriorati. Se, infatti, è poco certa la loro realizzazione,

viceversa sono potenzialmente alti i rendimenti...

  Fatta, quindi, una valutazione che tenga conto del rapporto

opportunità/rischi, la banca potrà scegliere di cedere la gestione

dei crediti in sofferenza rivolgendosi ad un servicer; sarà, poi,

l’accordo di mandato, corroborato da apposita procura generale

per svolgere le azioni legali necessarie, che definirà l’ampiezza

dei compiti individuando per importo e categoria i crediti oggetto

della gestione.

  Se la Bad Bank sembrerebbe, quindi, dotata di scarsa

operatività, connotata essenzialmente dai compiti assegnati dal

soggetto economico, essa non potrà essere una scatola vuota

in termini di struttura organizzativa. Indipendentemente dalle
                                 2
ragioni che possono aver motivato la costituzione di un

servicer, il potere nelle operazioni da svolgere deve essere

necessariamente ampio poiché, in caso di limitatezza delle

funzioni attribuite, la bad bank si ridurrebbe a mero studio

legale di un istituto di credito senza apportare alcun vantaggio

funzionale. Pertanto essa dovrà occuparsi, oltre che della

tradizionale azione di recupero crediti, anche di ogni altra

attività pertinente, senza assunzione di ulteriori rischi, al fine di

fluidificare lo smobilizzo dei crediti a favore del soggetto

controllante. Il servicer potrà acquisire immobili a fronte di

crediti, in particolar modo ipotecari; potrà erogare nuovi

finanziamenti in caso di ricorso alla ristrutturazione e costruire

operazioni di cartolarizzazione. In un futuro prossimo potrebbe

addirittura implementare i servizi di consulenza, oltre che

finanziari, per le imprese sostituendosi alla banca cedente nella

fase di gestione della crisi così che la posizione, una volta

ristrutturata, potrebbe essere riacquistata dall’originator o

ceduta a terzi. Questo può permettere al servicer di svolgere le

sua attività anche a favore di altri operatori, comprese anche

altre banche di piccole e medie dimensioni trasformando la

gestione del contenzioso in una business-line autonoma, che

comprenda anche l’attività di arranging di operazioni di

cartolarizzazione a favore di soggetti con portafogli non

sufficientemente dimensionati per diventare originator.

  L’eventuale e non indispensabile natura bancaria della

                                 3
società di recupero dipende dalla circostanza che in alcuni casi

si    è    proceduto   ad   utilizzare,   anche tenendo   presente

considerazioni di natura fiscale, soggetti giuridici che già

avevano tale statuto; da una parte, questo è funzionale

all’applicazione dell’articolo 58 del TUB, possibile solo se il

cessionario è una banca e che prevede come unico

adempimento conseguente alla cessione, la pubblicazione sulla

Gazzetta Ufficiale; dall’altro consente il ricorso al mercato

interbancario, od ad altre forme di raccolta tipicamente

bancarie, per il finanziamento delle operazioni di acquisto.

     1.2    Un precursore: la Svezia dagli anni Settanta a oggi

     Affrontare la genesi del bad banking non è un mero esercizio

di stile a’ la Queneau ma rappresenta una via concreta per

comprendere l’attuale crisi finanziaria. Già agli albori della

Grande Recessione i più si son voltati indietro verso la Grande

Depressione con l’intento di ricercare chiavi di lettura

interpretative ma nella realtà dei fatti il “prisma” andava

“ruotato” soltanto di un ventennio.

     Prima della scoperta dei cd. mutui sub-prime in America,

l’Europa aveva già affrontato un problema simile. I germi della

crisi finanziaria attuale erano già tutti presenti nella crisi

bancaria che coinvolse i paesi del Nord Europa negli anni ’90
                                   4
con    particolare   riguardo        al     caso    svedese.      Prima   di

comprendere come la crisi sia stata gestita, è fondante

analizzarne i fattori che determinarono perdite talmente ingenti

per il sistema bancario svedese al punto da metterne a rischio

la solvibilità. E’ necessario, quindi, tornare indietro sino alla fine

degli anni ’70 e durante tutti gli anni ’80, laddove i paesi

industrializzati vissero un momento epifanico nel processo di

liberalizzazione dei mercati finanziari e creditizi. In tale prolifico

quadro    socio-economico       il        sistema   finanziario   svedese,

fortemente regolato, promosse un processo di deregulation

iniziato nel 1978 con l’abbattimento del tetto sui tassi

d’interesse applicati sui depositi e condotto fino al 1990 con

l’autorizzazione concessa alle banche straniere di poter aprire

filiali sul territorio svedese. In questi anni furono effettuate

scelte di netta rottura col passato favorendo la liberalizzazione

attraverso la rimozione de:

   ➢      l’obbligo di detenere titoli di Stato per soddisfare i

vincoli sulla percentuale di titoli liquidi (1983);

   ➢      il limite massimo all’ammontare totale di prestiti

concessi dalle banche commerciali (1985);

   ➢      il vincolo sui tassi d’interesse applicati ai prestiti da

parte delle banche (1985);

                                      5
➢         ogni vincolo agli scambi internazionali in valuta (1989).

  Prima di tali modifiche l’esistenza di vincoli sui prestiti e sui

tassi d’interesse da applicare generavano una resistenza per

l’accesso al credito con una consequenziale selezione tra tutti i

potenziali debitori. Vigeva una stringente relazione fra la banca

ed il debitore in quanto l’istituto di credito deteneva ampie

informazioni sulla sua condizione patrimoniale e poteva

pertanto definire in modo preciso il rischio di credito associato

al soggetto. Inoltre l’istituto di credito effettuava una costante

vigilanza     del   comportamento      del   soggetto    nel    caso

intraprendesse azioni che ne avrebbero minato fortemente la

solvibilità. Tale quadro è letteralmente sconvolto dall’abolizione

dei limiti sui tassi d’interesse e dall’ingresso di nuovi

competitors sul mercato: la deregulation aveva creato un

mercato del credito competitivo laddove la concorrenza fra le

banche era sulla variabile del tasso d’interesse. Ne scaturì una

politica aggressiva fondata sul ribasso dei tassi e sulla smodata

erogazione dei prestiti per soddisfare la crescente domanda

delle famiglie e delle imprese. L’esplosione dei prestiti, del

resto, è desumibile dal rapporto che hanno con il PIL a partire

dal 1985: si passò da poco meno dell’80% al 130% negli anni

’90. Una tale espansione determinò una frattura nel rapporto

banca-debitore: d’ora in poi gli istituti di credito erogheranno

prestiti ad un numero sempre crescente di soggetti, senza le

approfondite conoscenze sullo stato patrimoniale e non
                          6
potendo      più   svolgere     un      monitoraggio         capillare   del

comportamento dei clienti. Ad aggravare lo scenario fu anche il

mutato orientamento del portafoglio prestiti verso settori ciclici

quali le costruzioni con l’ovvia conseguenza di tale espansione

del mercato: l’approvvigionamento da parte delle banche stesse

di liquidità. I depositi, infatti, non bastavano più e si ricorse al

mercato della moneta ed ai finanziamenti esteri connotati da

maggiori costi e volatilità: tra il 1985 ed il 1990 i prestiti delle

banche subirono un incremento del 10% nei loro asset mentre

la   quota   depositi    si   ridusse    della      stessa    percentuale.

L’espansione incontrollata del mercato dei prestiti produsse

anche un allentamento dei vincoli di bilancio per le famiglie e le

imprese al fine di non limitarne le capacità d’indebitamento.

Come non approfittare, ad inizio degli anni ’80, della

congiuntura favorevole        dovuta all’elevata inflazione, alla

competizione tra le banche ed alla piena deducibilità degli

interessi sui prestiti bancari che determinavano tassi d’interesse

reali netti negativi? Si creò, così, un incremento di domanda di

prestiti ed un proporzionale aumento del livello di indebitamento

delle famiglie. La maggior parte dei prestiti prevedeva

l’applicazione     di   un    tasso     variabile     che     determinava

l’assunzione di un rischio maggiore per il debitore connesso alle

variazioni del tasso d’interesse di riferimento. Le banche non si

preoccuparono affatto né della possibilità che un repentino

aumenti dei tassi d’interesse potesse portare ad un aumento

del rischio d’insolvenza dei debitori né di come le somme
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erogate erano impiegate. Le famiglie, infatti, si rivolsero in

modo massivo al mercato immobiliare per l’acquisto di beni

determinando un aumento medio annuo del 18,2% tra il 1985

ed il 1990 del valore degli immobili. Tale aumento determinò

anche un incremento del valore del collaterale con cui le

famiglie potevano indebitarsi per finanziarsi ulteriormente.

Avvenne, così, un boom di consumi pagati con l’indebitamento

contratto dalle famiglie. Se si tiene conto, infine, che nello

stesso periodo esplosero anche i titoli azionari, si potranno

comprendere appieno tutti gli elementi del palcoscenico

economico, ovvero:

  ➢      bassi tassi d’interesse;

  ➢      aumento dei consumi e degli acquisti immobiliari;

  ➢      consequenziale aumento dei prezzi degli immobili e

del valore corrispondente del collaterale;

  ➢      ulteriore incremento di debiti contratti dalle famiglie.

  Le famiglie non furono gli unici soggetti ad indebitarsi; il

processo di deregulation portò anche ad un incremento

dell’indebitamento delle imprese sostenuto soprattutto dagli

investimenti nel settore delle costruzioni e dei servizi. La lettura

superficiale della crescita economica, anabolizzata dai consumi

e dagli investimenti, seppur apportò una riduzione della

disoccupazione (meno del 2%), concorse al formarsi di

aspettative positive nell’andamento economico e, quindi, a
                              8
contrarre ulteriormente debiti. Nessun operatore considerò la

possibilità di un’inversione di tendenza per effetto del rialzo dei

tassi d’interessi, eventualità che avrebbe di fatto annientato

questa nuova classe di debitori poco controllati e maggiormente

vulnerabili a congiunture economiche negative. Sono queste le

ragioni per cui sul finire degli anni ’80 la Svezia conobbe un

abnorme periodo di crescita (tra il 1985 ed il 1990 il PIL aveva

registrato una crescita media annua del 2,3%) sostenuto

principalmente da un innalzamento dei consumi privati e da

un’elevata attività d’investimento. Lo Stato, nel frattempo, era

occupato ad attuare una politica monetaria incentrata sul

mantenimento del tasso di cambio costante e non pensò ad

arginare gli effetti della deregulation. Si giunse, così, al biennio

1989-1990 ed all’inevitabile crollo del sistema. L’effetto domino

fu innescato dalla Germania post-riunificazione: la banca

centrale tedesca, infatti, promosse una politica monetaria

restrittiva che indusse un aumento dei tassi d’interesse

internazionali provocando la crisi del Sistema Monetario

Europeo che investì in pieno la Svezia. La banca centrale

svedese decise, quindi, di aumentare i tassi d’interesse al fine

di non perdere la parità di cambio e resistere agli attacchi

speculativi sulla propria moneta. Il colpo decisivo fu assestato

nel novembre 1992: la banca centrale svedese abbandonò lo

SME, lasciando fluttuare il cambio e portando repentinamente

ad una svalutazione la corona svedese. Giusto qualche anno

prima (1990-1991) la riforma del sistema fiscale ridusse anche
                              9
la deducibilità degli interessi e la concomitanza di tutti questi

cambiamenti comportò che il tasso d’interesse reale post-

tassazione sui prestiti bancari dopo aver raggiunto la punta

minima (negativa) nel 1990, iniziò a salire costantemente sino

al 1992, raggiungendo il valore massimo del 9%. L’aumento dei

tassi produsse un ovvio aumento del costo dell’indebitamento

ed una corrispondente riduzione dei prestiti traducendosi in un

abbassamento dei consumi e degli investimenti. In poco tempo

crollò la domanda degli immobili, sgonfiando sia la bolla

immobiliare che dei mercati azionari producendo due effetti

deleteri per l’economia svedese:

   ❖       l’abbassamento dei prezzi immobiliari ridusse il

corrispondente nel valore del collaterale, conducendo al

paradosso che il debitore ora era tenuto a rimborsare mutui con

valori nominalmente maggiori rispetto al collaterale sottostante;

   ❖       il crollo del valore dei titoli minò la ricchezza delle

famiglie che detenevano quote azionarie nel proprio portafoglio.

   Va, poi, aggiunto un ulteriore effetto che colpì in modo

esclusivo le aziende: il tasso di cambio. Molte imprese decisero

di finanziarsi con debiti in valuta estera e la forte svalutazione

della corona svedese aumentò in modo incontrollato il valore

delle proprie esposizioni. L’impossibilità a contrarre ulteriori

finanziamenti condusse nel breve termine ad un numero record

di fallimenti.
                                10
Tra famiglie sovraindebitate ed aziende fallite, le banche

accumularono un elevato numero di sofferenze (non performing

loans) per un ammontare di circa 197 miliardi di corone svedesi

di crediti inesigibili e già nel 1991 due principali istituti di credito

ricercarono capitali per far fronte alle ingenti perdite registrate.

Si giunse, così, al 1993 dove le perdite sui prestiti bancari

ammontavano all’11% del PIL ed i soggetti più colpiti a cui

erano attribuibili le perdite maggiori erano le imprese non

finanziarie. Lo Stato decise, quindi, di approntare una politica

monetaria trattando la        contingenza      come un’emergenza

nazionale. Le contromisure iniziarono già nell’autunno del 1991:

la Nordbanken, primario istituto di credito a partecipazione

statale, a fronte delle prime previsioni di perdite, decise per una

nuova immissione di capitale all’80% sottoscritto dallo Stato.

Nel 1992 la Forsta Sparbanken ottenne un prestito statale per

3,8 milioni di corone svedesi al fine di gestirne la ricostruzione.

Sempre nella primavera del 1992 la Nordbanken necessitava di

interventi più profondi e fu allora che lo Stato acquistò tutte le

azioni della banca per poi scinderla in due entità: la prima (good

bank) conservò il nome originario e tutti gli asset validi; la

seconda (bad bank) fu denominata Securum e raccolse tutti gli

asset tossici. La prima ebbe in dotazione 10 milioni di corone in

equity capital; la seconda poté contare su 24 milioni di corone

in equity capital e 10 milioni di corone in garanzie sui prestiti.

Nel Settembre del 1992 la crisi raggiunse il Gota Group, ivi
                           11
compresa la Gota Bank, quarta banca più grande in Svezia. Al

fine di non minare la stabilità del sistema e la fiducia in esso, lo

Stato intervenne assumendosi gli impegni della banca,

prendendone il controllo fino alla fusione con la Nordbanken,

fornendo garanzie per 10 milioni di corone, trasferendo gli asset

tossici in una bad bank (Retriva) e vendendo gli asset validi

all’asta. Dopo l’ennesimo intervento si comprese che non era

più sostenibile approntare misure ad hoc per ogni istituto di

credito ma andava promossa una ristrutturazione di tutto il

sistema bancario attraverso l’adozione di misure globali. Nel

Dicembre dello stesso anno furono fornite garanzie statali a

tutte le banche svedesi che ne avessero fatto richiesta; si

applicò una politica di massima trasparenza nei confronti dei

clienti e fu istituita la Bank Support Authority (BSA). Essa iniziò

ad operare nel maggio 1993, slegata dal Ministero delle

Finanze e dalla Banca Centrale Svedese, con il compito di

analizzare i bad asset delle banche secondo criteri di massima

trasparenza    ed   evidenziando     le   perdite   stimate   senza

approssimazione onde evitare di doverle rivedere al rialzo

successivamente. Occorreva in altre parole definire con

precisione l’ammontare di capitale richiesto su basi realistiche.

Fu, perciò, approntato un modello di previsione per l’andamento

finanziario e la profittabilità dei vari istituti basato sul medio

periodo (3-5 anni), che tenesse conto di tutte le informazioni

rilevanti:

                                12
➢       la valutazione degli asset e del bilancio complessivo

della banca;

  ➢       i dati e le previsioni macroeconomiche;

  ➢       la situazione attuale e l’evoluzione del sistema

finanziario nel suo complesso.

  In base a queste valutazioni, gli istituti di credito vennero

suddivisi in tre categorie:

  ❖       Categoria “A”: qui rientravano le banche con problemi

di liquidità a breve termine ma il cui rapporto di capitalizzazione

sarebbe rimasto entro i limiti. La soluzione adottata dalla BSA

per questi istituti fu quella di promuovere immissioni di capitale

da parte degli azionisti.

  ❖       Categoria “B”: in tale categoria si comprendevano tutti

gli istituti con problemi più gravi a breve termine ma profittevoli

nel medio-lungo periodo. Si stabilì che il rapporto di

capitalizzazione potesse temporaneamente scendere sotto

l’8%, richiedendo anche in questo caso immissioni di capitale

da parte degli azionisti. Per incentivarli l’operazione fu

supportata da una garanzia statale che poteva divenire

sottoscrizione di capitale qualora il vincolo dell’8% sui requisiti

di capitale non fosse rispettato. Era chiaro l’intento di

privilegiare sottoscrizioni di aumento di capitale in primis da

parte degli stessi azionisti, ricorrendo solo in un secondo
                              13
momento all’intervento dello Stato. Per migliorare lo status di

queste banche la maggior parte degli asset tossici furono

trattati presso le bad banks.

  ❖      Categoria “C”: qui vi rientrarono, infine, tutti gli istituti

di credito già tecnicamente falliti. Queste banche furono lasciate

fallire o furono nazionalizzate e fuse con istituti più solidi

scegliendo un criterio che prevedesse l’alternativa con il minor

costo sociale possibile.

  A ben vedere il cuore della soluzione svedese risiede proprio

nel concepimento della celebre divisione in “good bank” e “bad

bank”, scindendo gli asset solidi dagli asset tossici e gestendoli

in due unità distinte. Questa misura adottata presentò due

benefici evidenti:

  ➢      La good bank, ormai libera dalla gestione degli asset

tossici, poteva riprendere le normali operazioni;

  ➢      Gli asset tossici non furono semplicemente liquidati

dalle banche ma furono dirottati verso le AMC (Asset

Management Company). A ben pensare la vendita incontrollata

dei titoli avrebbe provocato un ulteriore deprezzamento degli

asset   con conseguente aggravio della situazione finanziaria

anche per gli altri istituti. Il discorso è applicabile anche ad

un’eventuale liquidazione frettolosa del collaterale che avrebbe
                               14
generato un deprezzamento degli immobili. Trasferendo i bad

asset alle AMC tale problematica, invece, era risolta: queste

unità create ad hoc, non essendo mosse da logiche di profitto a

breve termine, attesero la normalizzazione del mercato per

liquidare tali asset anche se ciò richiedeva un arco temporale

più lungo.

     L’ultima grande svolta viene poi attuata dalla Banca Centrale

svedese      nel        novembre   1992,        ovvero       la    decisione    di

abbandonare il cambio fisso. Ciò comportò un’immediata

svalutazione della corona svedese che rese i beni nazionali più

competitivi e diede il via per la ripresa, che era di fatto

sostenuta dalla domanda estera. Si varò una politica monetaria

di tipo espansivo che potesse rilanciare anche la domanda

interna. Gli effetti sono palpabili dal 1993 quando i tassi

d’interesse, seppur lentamente, cominciarono a ridursi anche

se ciò non apportò nell’immediato i benefici sperati. Ad ogni

modo la soluzione svedese è considerata come riferimento per

la sua efficacia nella gestione della crisi finanziaria e bancaria:

riuscì ad evitare sia casi di bank-run che di credit crunch.

L'accento maggiore va, però, posto sull'aspetto più unico che

raro avvenuto in una gestione di crisi finanziaria: il costo finale

dell'operazione per i contribuenti è stato pressoché nullo e ciò

essenzialmente per la gestione delle AMC che liquidarono gli

asset ereditati dalle banche parecchi anni dopo la crisi, quando

il    mercato      si     era   ormai        stabilizzato,        rendendo     una
                                        15
valorizzazione normale degli stessi asset. Tale esperienza non

presenta solo luci: se i costi finali per i contribuenti furono nulli, i

costi   macroeconomici       furono      considerevoli.   Il   livello   di

disoccupazione raggiunse l'8%; tra il 1991 ed il 1993 la

contrazione media annua del PIL fu del 2% mentre quella dei

consumi del 1,6% ma, nonostante tali ombre, la tempestività

d'intervento, i costi ridotti e la velocità di risoluzione della crisi

pongono comunque il caso svedese come primo modello di

successo     di   applicazione     del     bad    banking      nel   crisis

management.

1. 3 Il caso irlandese

   Anche     in   questo    caso      appare      opportuno     delineare

preliminarmente il quadro socio-economico che condusse alla

crisi finanziaria/bancaria del Paese per comprenderne, poi, i

risultati (positivi) ottenuti dal ricorso al bad banking.

   Se si potesse rappresentare graficamente lo sviluppo

economico irlandese esso sarebbe assimilabile ad una curva

sinusoidale che inizia nel 1973 protraendosi, tra alti e bassi,

sino al 2009. La nostra anamnesi non potrà, quindi, che

muovere dalla prima espansione economica di inizio anni '70,

ripercorrendo     quelli   che   possono         essere   definiti   punti

fondamentali di tale crescita:

                                   16
➢      L'ingresso nella CEE (1973) con il consequenziale

abbandono       delle   politiche   isolazionistiche     autarchiche   e

nazionaliste;

  ➢      La scelta di adottare un approccio pragmatico nelle

scelte di business, incentrando l'attenzione su quei settori

emergenti quali tecnologia e prodotti farmaceutici;

  ➢      Un miglioramento della formazione universitaria per

creare giovani con elevate competenze per tali nuove aziende.

  L'Irlanda era riuscita a scrollarsi di dosso nel giro di una

generazione la povertà, l'epiteto di "terra d'emigrazione" e

l'affezione da una disoccupazione cronica. Purtroppo con

l’avvento degli anni '80 conobbe una nuova fase di stagnazione

economica indotta da cause sia endogene che esogene. Le

motivazioni     endogene      erano      riconducibili   al   persistere

dell'inflazione (11%) e della disoccupazione giovanile, non tanto

per la mancanza di posti lavoro quanto per l'inefficienza del

sistema di collocamento e per l'elevato tasso di fallimento delle

aziende. Si creò, quindi, un periodo di depressione economica

che investì il Paese dal 1981 al 1986. Neanche gli interventi

statali furono in grado di invertire la tendenza ma aumentarono

solo il carico fiscale, demotivando le possibilità di nuovi

investimenti. Tale quadro fu sovvertito solo all'inizio degli anni

                                    17
'90 con scelte drastiche e mirate, tutte contenute nel National

Recovery Program, quali;

  ❖        Riduzione della spesa pubblica con tagli ad enti ed

agenzie;

  ❖        Aumenti salariali;

  ❖        Riduzione delle tasse;

  ❖        Sinergie    nella    programmazione     tra   governo,

imprenditori, settore bancario e sindacati.

  Tra tutte le manovre attuate, incredibilmente, la più fruttuosa

fu la riduzione della pressione fiscale in quanto una tassazione

più favorevole produsse sia maggiori entrate per lo Stato (tasse

ragionevoli implicano minore evasione) sia indusse molte

società a fare base in Irlanda per poi espandersi nei mercati

europei. Con l'inizio del nuovo millennio incominciarono, quindi,

a sorgere le prime contraddizioni: i redditi più alti produssero un

tenore di vita migliore ma il Paese non era in grado di

supportarlo con le dovute infrastrutture. L'edilizia sembrava non

soddisfare le nuove esigenze di una popolazione benestante e

questa mancanza cronica di strutture condusse l'Irlanda a

vivere un boom edilizio senza precedenti. L'esplosione fu

talmente incontrollata che il valore immobiliare risultava slegato

da qualsiasi variabile reale con prezzi in continua crescita che

alimentarono la bolla speculativa. A suffragio di ciò è sufficiente

riportare il numero di abitazioni presenti in Irlanda dal 1991 con

                                 18
1,2 milioni di abitazioni, aumentate a 1,4 milioni nel 2000, fino a

giungere al boom edilizio con 1,9 milioni di unità immobiliari nel

2008; un vero e proprio raddoppio in meno di 20 anni.

Proporzionalmente anche il pricing delle case e delle rendite

immobiliari raddoppiò negli stessi anni. E’ questo il momento

epifanico del boom immobiliare e della consequenziale bolla

speculativa    conosciuta    come Irish    property   bubble.   Con

un’economia in costante crescita e in permanente piena

occupazione, molti dei lavoratori impiegati nel settore edile

provenivano dall’estero, in particolare dai nuovi paesi orientali

della UE (in primis la Polonia). D’altronde nel 2007 il settore

edilizio-immobiliare occupava il 13,3% della forza-lavoro,

ovvero il valore più alto dei paesi membri dell’OSCE risultando

elemento di attrattività per lavoratori stranieri.

  Con un alto livello di reddito e con le facilitazioni creditizie

ottenute dalle banche il mercato immobiliare subì un’impennata

agli inizi degli anni 2000 portando l’offerta a crescere in modo

smisurato. In tale quadro va aggiunta la costante crescita della

domanda di abitazioni favorita anche da una riduzione delle

imposte sul reddito per comprendere appieno lo squilibrio di

mercato che si venne a creare con il risultato di una robusta

crescita nella costruzione dei fabbricati e, come già detto, di

un’impennata dei prezzi con un’economia di Paese sempre più

dipendente dal settore edilizio. A partire dal 1997 la bolla

speculativa aveva creato un pricing immobiliare slegato da

                                 19
qualsiasi variabile macroeconomica reale fino a giungere al

2007 dove tale sovrastima toccò il 30%. Questa frenesia investì

anche il settore bancario, vittima del mito di una crescita infinita.

Con l’apice della crisi dei subprime nel 2008, giunse, poi, il

colpo ferale al sistema bancario irlandese che versava ormai in

condizioni disperate. Il 21 dicembre 2009 il governo irlandese

tentò di arginare la crisi con la nascita della NAMA (National

Asset Management Agency). Con una dotazione di capitale per

100 milioni di Euro, la NAMA era formata al 49% da

partecipazione statale ed il restante 51% diviso per quote fra i

tre investitori: l’Irish Life Investment Managers, New Ireland

Assurance ed Allied Irish Banks. Le cinque principali banche

irlandesi che vi aderirono furono: EBS Building Society, Irish

Nationwide Building Society, Anglo Irish Bank, Allied Irish

Banks e Bank of Ireland.          Rispetto ad altri esempi di bad

banking, in questo caso si è in presenza di una bad bank

atipica in quanto le sono consentite attività ben oltre la semplice

gestione di crediti deteriorati: per perseguire le sue finalità,

infatti, può sottoscrivere capitale sociale di banche, garantirne

le posizioni debitorie, detenere e commercializzare immobili

(svolgendo perfino finalità sociali con circa 7 mila abitazioni

destinate al social housing) ed addirittura contrarre essa stessa

debiti.   La NAMA tratta anche l'acquisizione di titoli tossici

purché iscritti a bilancio entro il 03/12/2008 ma con una

peculiarità: per tutti gli istituti di credito ammessi alla cessione

dei titoli vigeva l'obbligo di cedere oltre ai crediti stabiliti dall'atto
                                  20
costitutivo (p.es. i crediti per attività immobiliare) anche i crediti

il cui mancato trasferimento avesse potuto rappresentare un

potenziale ostacolo al perseguimento degli obiettivi della bad

bank. Al fine di liquidare i titoli tossici acquisiti NAMA emise per

via indiretta attraverso apposita società veicolo, obbligazioni (di

cui 95% senior e 5% subordinate) che furono trasferite alle

banche che avevano ceduto i crediti deteriorati. Anche se la

garanzia    statale   sulle   obbligazioni   senior   non    riparava

totalmente le banche che le avevano acquisite dal rischio di

perdita nel caso in cui dalla gestione bad bank dovessero

risultare perdite, tale eventualità, allo stato di fatti, è da

escludersi: dal rapporto per l’anno 2015 risulta che attraverso 9

tranches sono stati conferiti alla NAMA 12 mila prestiti, 60 mila

immobili e circa 6 mila operazioni di altro tipo. Il valore di

bilancio del pacchetto era pari a 74 miliardi di euro ma per la

cessione ha fruttato solo 31,8 miliardi per gli istituti che ne

hanno beneficiato, di cui 26,2 miliardi pagati dalla bad bank

come valore di mercato dei titoli e i restanti 5,6 miliardi ricevuti

come aiuti di stato (con il benestare della Commissione

europea). L’obiettivo, quindi, di rispettare le date di scadenza

per la restituzione dei debiti fatti per finanziare l'attività (fine

2018 per i senior e primavera 2020 per i subordinati) appare

verosimile. Ad ulteriore conferma di ciò al 14 dicembre 2016

risulta che deve essere restituito solo il 9% del debito senior. La

previsione attuale è che la bad bank sarà liquidata a

                                 21
conclusione della sua attività con un utile di 2 miliardi di euro

per i suoi azionisti.

   1.4 Il caso spagnolo

   Con la fine della dittatura franchista e l’entrata nella CEE

(1986) la Spagna conobbe una crescita economica durante tutti

gli anni 90 ed inizio anni 2000 basata sugli scambi commerciali

con l’estero, il turismo e l’attrattività di capitali stranieri. Tale

boom fu anche alimentato dal basso costo della manodopera

ed un saggio utilizzo dei fondi europei che abbassarono i livelli

di disoccupazione dal 22% all’8%. Purtroppo, come per i casi

precedenti, la grande crisi del 2008 minò alle fondamenta

l’economia del Paese che nel ventennio precedente aveva

creato un sistema fortemente sbilanciato nel settore terziario

con il 60% circa delle aziende operanti nel settore del turismo,

dei trasporti, commercio, telecomunicazioni e dei servizi

finanziari / assicurativi, ovvero tutti quei settori colpiti dagli

effetti della crisi. Si può osservare come dopo 15 anni il PIL

subisce una contrazione sul finire del 2008, evento che anticipò

di poco l’entrata della Spagna nella piena recessione (febbraio

2009). Il settore più colpito fu, come sempre, quello edile: se nel

periodo di crescita era elemento trainante dell’economia,

adesso versa in una completa paralisi. I prezzi crollarono

bruscamente e nonostante il forte ribasso rimasero invendute
                            22
circa mezzo milione di unità finite. La disoccupazione

raggiunse il 25%, i capitali fuggirono all’estero ed i titoli di stato

salirono costantemente fino a raggiungere il 7%. Nel 2012 il

nuovo quadro socio-economico distrusse il sistema bancario ed

il Governo di Rajoy fu costretto a ricorrere al fondo salva-stati

predisposto dalla UE per ricapitalizzare gli istituti di credito. Si

costituì, quindi, il Fondo de Resolucion Ordenada Bancaria

(FROB) che potè contare su un prestito di 100 miliardi di Euro

dall’UE. Tale prestito, garantito dallo Stato, fu impiegato

integralmente per ricapitalizzare le banche e gestirne i crediti

deteriorati. Nel 2012 il FROB promosse la costituzione di una

Sociedad     de   Gestión    de    Activos    procedentes     de    la

Reestructuración Bancaria S.A. (Sareb), con una dotazione pari

a 4,8 miliardi di Euro (25% di equity ed il resto subordinato),

con l’obiettivo di gestire il processo di ristrutturazione del

sistema bancario in un arco temporale massimo di 15 anni. Al

fine di non essere categorizzato come ente della pubblica

amministrazione secondo la classificazione Eurostat, FROB

acquisì il 45% del capitale di Sareb, mentre il restante 55% fu

sottoscritto da oltre 20 società private, per lo più banche. Onde

evitare conflitti di interesse, le banche beneficiarie dell’aiuto

pubblico non potevano detenere quote del capitale della

società.

  La Sareb fu autorizzata ad emettere titoli garantiti dallo Stato

fino a 90 miliardi di Euro, titoli che successivamente erano

                                  23
scambiati con gli attivi trasferiti dalle banche, che poi a loro

volta potevano impiegare come collaterale per ottenere i

finanziamenti dalla BCE. E’ peculiare che nell’esperienza del

bad banking spagnolo gli istituti di credito erano tenuti

obbligatoriamente al trasferimento di determinate tipologie di

attivi che non comprendevano unicamente asset tossici ma

anche crediti buoni: immobili del valore contabile di 100.000

Euro iscritti a bilancio fino al 30 giugno 2012 (acquisiti tramite

procedura giudiziaria o per cessione volontaria del debitore

inadempiente), i crediti erogati per importo pari o superiore a

250.000 Euro al fine di acquisto terreni o per costruzioni, tutti i

prestiti od i crediti garantiti da ipoteca od altra garanzia reale

che, però, potevano minare la solidità di bilancio dell’istituto di

credito.

  Fu soprattutto quest’ultima scelta che delineò l’indirizzo

scelto dal governo di “alleggerire” i bilanci delle banche

coinvolte   dalla   crisi,   schermandole   anche    da    ulteriori

peggioramenti del mercato immobiliare. A fronte di tale

manovra la Sareb ha, quindi, acquisito 90.000 immobili e

105.000 prestiti per un valore complessivo di 50,7 miliardi di

Euro. L’acquisizione ha previsto uno sconto di tali attività

rispetto al valore registrato in bilancio pari al 63% per la parte

immobiliare e pari al 45% per i crediti. La consequenziale

politica della bad bank fu da un lato votata alla ristrutturazione

dei crediti per agevolarne il recupero e dall’altro alla vendita

                                 24
degli immobili. Non può parlarsi, però, di semplice gestione di

vendita immobiliare in quanto la Sareb fu proattiva nella

valorizzazione del patrimonio realizzando anche operazione di

sviluppo immobiliare.

  Ad oggi i risultati non sono incoraggianti: nei primi 4 anni di

operatività la bad bank ha sempre chiuso i bilanci in perdita,

bilanci che venivano opportunamente ripianati da aumenti di

capitale; è riuscita a restituire 8 miliardi di Euro del debito

garantito dallo Stato e nel maggio 2016 ha convertito i bond

subordinati in azioni per un valore pari 2,17 miliardi di Euro.

  1.5 Il caso sloveno

  Di certo tra tutti i casi trattati sino ad ora, quello sloveno non

rappresenta un unicum né per importi trattati né per successi

ottenuti ma il suo studio getta luce su una delle realtà

economiche più in osmosi in termini di esportazione con l’Italia

e la Germania.

  La Slovenia ha rappresentato di certo l’esempio più di

successo tra le repubbliche ex-jugoslave; un vero e proprio

modello di crescita economica che le ha valso l’epiteto di

“Svizzera dei Balcani”. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia la

Slovenia è stata difatti la più ricca tra le repubbliche nate e

                                25
considerata un modello di stabilità politica e crescita economica

               cui ispirarsi. Anch’essa vittima della Grande Crisi a partire dal

               2009 fino al 2012, subì la recessione in modo talmente

               profondo da spingere la Commissione Europea ad avviare

               verso Lubiana la procedura di infrazione per deficit eccessivo.

               La politica creditizia espansionistica attuata dal 2004 al 2008,

               nell’era del denaro facile e cavalcando l’entusiasmo per

               l’ingresso nell’Euro, spinse il sistema finanziario sloveno in una

               vorticosa speculazione che poteva muoversi indisturbata. Con

               la Grande Crisi emerse, invece, una realtà fino a quel momento

               insospettata. Seppur la Banca centrale slovena dichiarava che

               si era ancora in una fase di deterioramento gestibile, le cifre

               della crisi bancaria apparivano ben più serie: il rapporto tra

               depositi e prestiti era piuttosto elevato (153%), le sofferenze

               avevano toccato i 7 miliardi di Euro e nel 2012 le banche

               slovene avevano registrato una perdita totale di 664 milioni di

               Euro. Nel marzo 2013 i mercati si posero in allerta nei confronti

               della Slovenia e lo stesso Pier Carlo Padoan (allora capo

               economista dell’Ocse) evidenziò un pericolo di contagio per

               l’Italia per cui, a differenza della crisi spagnola, “la Slovenia è

               un caso diverso e richiederà attenzione”2. In un articolo su IL

               PICCOLO il giornalista Piercarlo Fiumanò riassumeva così la

               situazione slovena al 31 marzo 2013: “I mercati sono in stato

               d’allerta, con lo spread che ha terminato la settimana ben sopra

2 Fiumanò Piercarlo, Una Bad Bank per salvare la Slovenia, 2013 – consultabile sul sito
http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2013/03/31/news/una-bad-bank-per-salvare-la-slovenia-1.6795366
                                                              26
i 400 punti base e un rendimento dei titoli pubblici decennali già

salito al record del 6,382%. Nova Ljubljanska, la banca

maggiore del Paese (a controllo pubblico) ha perso 305 milioni

di euro nel 2012, quarto anno consecutivo in rosso. La seconda

banca del Paese, Nova Kreditna Banka Maribor, 205 milioni di

rosso lo scorso anno, è stata fra le quattro banche che non

hanno passato gli stress test europei e di recente ha deciso una

ricapitalizzazione da 100 milioni”. In un’intervista pubblicata il 5

Luglio 2012, l’ex-ministro sloveno (e professore universitario)

Joze Damijan descriveva in modo efficace i motivi per cui la

Slovenia patì le conseguenze della crisi globale: “La Slovenia

paga oggi l’accumularsi di problemi che non sono stati risolti in

passato. Il primo è la mancata approvazione negli ultimi dieci

anni delle necessarie riforme strutturali: la riforma fiscale, quella

del mercato del lavoro e quella delle pensioni avrebbero

rafforzato l’economia e l’avrebbero resa più flessibile di fronte

alla crisi. Il secondo problema è l’eredità delle politiche

sbagliate del precedente governo. Per esempio, nel bel mezzo

della crisi del 2008-2009 l’esecutivo ha aumentato il salario

minimo del 25% e i salari del pubblico impiego del 10%,

spingendo così verso l’alto anche le pensioni, che sono

indicizzate    all’inflazione.   Questi    provvedimenti      hanno

aumentato la spesa pubblica del 10%, proprio mentre gli introiti

fiscali calavano della stessa percentuale. Il terzo problema della

Slovenia è la mancata privatizzazione delle banche prima della

crisi. Questi istituti, di proprietà pubblica, devono ora essere
                                  27
ricapitalizzati dalla mano pubblica. Ecco perchè i nostri spread

                oggi sono uguali a quelli italiani”. 3

                    La soluzione del governo fu, quindi, di approntare una bad

                bank, ovvero la Bank Assets Management Company (BAMC).

                Interamente di proprietà pubblica il suo scopo fu, come per i

                casi analizzati in precedenza, di acquisire crediti non esigibili al

                fine di mitigare le perdite nei bilanci delle banche. Gli istituti di

                credito che si rivolsero alla BAMC furono tre: Nova Ljubljanska

                Banka, Nova Kreditna Banka Maribor e Abanka Vipa. La bad

                bank, però, non ha mai lavorato in modo egregio pesando

                economicamente sulla cittadinanza ed è per questo che è stata

                fortemente contestata; si può addirittura affermare che la sua

                creazione sia stata la misura più impopolare del governo

                Bratusek. L’immagine della BAMC, infatti, è stata minata

                essenzialmente da due aspetti endogeni:

                    ➢         Performance negative (nel 2013, dopo poco più di un

                anno di attività, ha registrato perdite per 80 milioni di Euro);

                    ➢         Una pessima amministrazione.

                    E’ soprattutto quest’ultimo aspetto a deteriorarne l’immagine

                pubblica: salari manageriali oltre i limiti consentiti, gli eccessivi

                costi delle consulenze (nel 2014 ben 14 milioni di Euro) e, cosa

3 L’intervista è consultabile sul sito http://www.limesonline.com/tra-i-malati-deuropa-ce-anche-la-slovenia/36680

                                                              28
ancor più grave, il fatto che una grande parte di queste

consulenze siano state appaltate alla stessa società (Quarz)

che annovera fra i suoi azionisti Torbjorn Mansson, ex direttore

esecutivo della stessa BAMC. Forse un cambio di rotta si è

tentato ad inizio 2015 quando il governo sloveno ha introdotto

tre nuovi direttori non esecutivi (veri e propri supervisori)

all’interno della bad bank per far fronte alle già citate irregolarità

fatte emergere dalla Corte dei conti per il periodo compreso

dalla nascita     fino al 2013. Gli ultimi monitoraggi sono

decisamente incoraggianti rispetto il primo trend: entro maggio

2017 sono stati venduti 1,1 miliardi di Euro di attività e

considerando che l’obiettivo di entrate pari ad un miliardo era

fissato per il 2019, che il servicer ha un portafoglio valutato

ancora oltre 1 miliardo di Euro, si può ben sperare che in un

futuro prossimo la BAMC possa riscrivere la propria (breve)

storia ed, insieme alla sua, quella della Slovenia.

  1.6 Il caso tedesco

  Anche la Germania non fu immune alla grande crisi

finanziaria del 2008 ricorrendo al bad banking come soluzione

mitigatrice. Furono creati ben due servicers a partecipazione

totalmente pubblica, ovvero la EAA (Erste Abwiklungsanstalt)

nel 2009 per il salvataggio della WestLb e la FMS-WM (Fms

Wert-Management) nel 2010 per la gestione della Hypo Real

Estate: la prima rilevò assets tossici per circa 77,5 miliardi di
                              29
Euro, la seconda ben 175 miliardi. Tra le due operazioni la

               prima risultò essere alquanto peculiare.

                   Il primo luglio del 2012 Norbert Walter Borjans, ministro delle

               finanze dello stato tedesco del Nord Reno - Westfalia (nonché

               uno dei principali stakeholder della WestLb), dichiarò che era

               stata rimossa una delle più grandi banche dal mercato 4 ,

               laddove il termine “large” aveva un valore dicotomico: un

               significato “storico”, che individuava nella WestLb quella che

               era una volta la più grande landesbank della Germania, ed un

               significato “economico” in quanto la scomparsa dell’istituto di

               credito rappresentava un passo importante nel consolidamento

               delle banche tedesche che fornivano servizi “all’ingrosso” alle

               rispettive banche di risparmio regionali.

                   Ma facciamo un passo indietro. Oltre alla congiuntura socio-

               economica del 2008, la WestLb fu anche protagonista di una

               serie di scandali commerciali (scandali perpetrati fino ad oggi

               con, non ultima, la manipolazione dei tassi Euribor) con perdite

               che minarono ogni ambizione internazionale della banca

               nonché si resero necessari ripetuti salvataggi da parte dei

               proprietari. Prima di essere liquidata con la bad bank la

               proiezione prevedeva un costo per i contribuenti e per le

               banche di risparmio pari a 18 miliardi di Euro distribuiti tra il

               2005 ed il 2028, anno in cui l’ultimo dei suoi bad assets

4 L’intervista è consultabile sul sito http://www.reuters.com/article/westlb-breakup-idUSL6E8I15SR20120701

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