Dante nel Novecento Corrado Bologna - Formazione Loescher

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Dante nel Novecento Corrado Bologna - Formazione Loescher
Corrado Bologna

Dante nel Novecento
Dante nel Novecento Corrado Bologna - Formazione Loescher
Editio princeps della Commedia dantesca
         Foligno, 11 aprile 1472
Dopo la selezione forte che Pietro Bembo compie, nel 1525, con le
sue Prose della volgar lingua, il cànone dei grandi classici
trecenteschi si riduce di fatto a due: Petrarca per la poesia, Boccaccio
per la prosa.
  Bembo stesso, fra 1501 e 1502, pubblica presso Aldo Manuzio due
edizioni senza commento di Dante e di Petrarca, che godranno di
incredibile successo di pubblico. Ma a poco a poco Dante sembra
uscire dal favore dei lettori. Fra Cinque e Settecento pochissime
saranno le edizioni della Commedia dantesca (si contano sulle dita
di una mano), mentre molte decine (quasi cento) sono quelle dei
Rerum vulgarium fragmenta.
   Occorrerà attendere De Sanctis, il romanticismo e poi la scuola
“storica” dei filologi di fine Ottocento perché dante riscatti
lentamente il suo ruolo fondativo. Ma sono in realtà i grandi filosofi e
i grandi poeti a contendersi la funzione di “riscopritori” della
Commedia.
Benedetto Croce (1866-1952)
Il compito attuale dello studio della Commedia è di rivivere la
poesia di Dante.
(B. Croce, La letteratura della nuova Italia, III vol., 1915)

 La poesia di Dante è principalmente, e si potrebbe dire quasi
unicamente, la poesia della Commedia. L’opera giovanile di
Dante piuttosto che poesia è rappresentazione di atti d’un culto,
adempimenti di riti, cerimonie, atti liturgici, insomma, deliberata
esecuzione del programma della scuola stilnovistica che, unita
alla rettorica giovanile, non accende la luce della poesia. […] Se
in altri casi si vede, nello svolgimento di un artista o di un
pensatore, prepararsi il suo capolavoro, per Dante non si vede. Solo
con la Commedia Dante si lega all’età sua e insieme […] la produce
e la fa sua.
(B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Il romanzo etico-politico-teologico, il più grandioso e
meglio architettato dei romanzi teologici medievali, è una
fabbrica robusta e massiccia sulla quale una rigogliosa
vegetazione si stenda [...], rivestendolo in modo che solo qua e
là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo. Il
rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra
un romanzo teologico […] e la lirica che lo varia e
interrompe di continuo. […] Struttura e poesia non sono
separabili nell’opera di Dante, ma vivono in rapporto
dialettico sul quale si fonda l’unità della Commedia. […] Se
l’unità vera della poesia dantesca è lo spirito poetico di Dante,
il cammino più corto e più proprio per leggere
la Commedia sarà passare in rassegna le principali poesie e
gruppi di poesie comprese in ciascuna delle cantiche.

(B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Dante va letto con un criterio che è da sostituire a quello
dell’estetica idealistica e romantica e che ne è, per certi rispetti,
correzione e inveramento: il concetto dell’arte come lirica o
intuizione lirica. […] Se Dante non fosse grandissimo poeta, tutte le
altre facoltà che gli sono state attribuite (filosofo, teologo, giudice,
banditore di riforme), soprattutto nel periodo risorgimentale,
perderebbero di rilievo.
 Alla letteratura dantesca, in crescita a partire dalla metà del
Settecento, ormai imponente e addirittura spaventevole per mole, è
da imputare ogni interpretazione allotria del poema sia filosofica sia
etica o religiosa: l’interpretazione allegorica che è solo criptografia
spiegabile, come tale, soltanto da parte dell’autore, e la
sopraestimazione […] o il fraintendimento della particolare
importanza del Dante filosofo e politico (la Monarchia è piuttosto
opera di pubblicistica che di scienza politica).

(B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Gianfranco Contini (1912-1990)
… il saggio crociano è stato il primo richiamo all’intelligenza
moderna dell’opera, più pertinente, non esito a dirlo, di tutta
la secolare ermeneutica messa assieme. L’aspetto pragmatico
di quel gusto è certo nella conquista di Dante alla liricità.

(G. Contini, Un’interpretazione di Dante, 1965)
Giovanni Gentile (1875-1944)
Con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia;
col suo Poema la filosofia italiana. Per questo, in ogni
tempo, Dante è stato considerato padre spirituale della
nazione, e la sua poesia è la sua filosofia. […] Dante è poeta
per non poter essere interamente quel che si era proposto
di essere: maestro di verità. […] È più grande poeta che
filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande filosofo che
poeta. […] La Commedia, una specie di sistema filosofico, è
il primo libro di filosofia scritto in italiano.

(G. Gentile, Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, 1904-15)
Dante è poeta per non poter essere interamente quel che si
era proposto di essere: maestro di verità. […] È più grande
poeta che filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande
filosofo che poeta. La Commedia, una specie di sistema
filosofico, è il primo libro di filosofia scritto in italiano.

(G. Gentile, Studi su Dante, ed. V. A. Bellezza, 1965)
Due sono le fondamentali chiavi di lettura del capitolo
dantesco di Gentile: la Commedia come capolavoro
filosofico in forma di poesia, al tramonto del Medioevo,
tra l’istanza del razionalismo tomistico e quella del
misticismo francescano; Dante come suprema figura
simbolica della nazionalità italiana attraverso i secoli.

  Pochi anni prima Giovanni Pascoli aveva proposto una
lettura mistico-visionaria di Dante, introducendo per
primo una riflessione su Bernardo e i Vittorini come
ispiratori della Commedia. I filologi fiorentini che
pubblicavano, sotto la guida di Michele Barbi, il
“Bullettino” della “Società dantesca” (soprattutto E. G.
Parodi ed E. Pistelli), criticarono ferocemente i suoi libri.
Giovanni Pascoli (1855-1912)
Io ho trovata, tra i roghi e i bronchi che la nascondevano,
la porticciuola del gran tempio mistico. E sono entrato, e ho
veduto. […] Mi trovai per caso avanti un viluppo di rami
contorti e di foglie gialle e vidi di tra quel viluppo trasparire il
legno imporrito d’una porta. E spinsi ed entrai. Niente è men
grande, ma niente è più vero. Entrai. Gli altri si mostrarono
acuti, sottili, profondi; ma io ho veduto.

(G. Pascoli, La Minerva oscura, 1898)
G. Pascoli: Minerva oscura (1898); Sotto il velame (1900); La
mirabile visione (1902)

  Già son piene le carte. Il velame si è levato quanto basta a
contemplare la visione di Dante. Narrarla non posso qui; sì, in altro
libro che comincia di là dove questo finisce [= La poesia del mistero
Dantesco, mai scritto]. E ciò che ora verrò soggiungendo, è solo “un
prendere lo pane apposito, e quelllo purgare da ogni macola” [Conv.,
I 2]. Dico dunque che la divina Comedia è tutto un amoroso uso
d’arte e di sapienza: un poetare, cioè, e un filosofare. […] Non ha
qui luogo la distinzione di teologia e filosofia: filosofia è termine
sintetico. Chè ell’è, dunque [scil. Beatrice], amore di sapienza.
[…] Un’umile donna Fiorentina la sapienza, dunque? E sì. O non
era un’umile donna Nazarena quella che vide negli abissi del
pensiero di Dio?

(G. Pascoli, La mirabile visione, 1902)
Giovanni Pascoli in toga accademica
Osip Mandel'štam (1891-1938)
Il Discorso su Dante (Разговор о Данте) di Osip Mandel'štam è
probabilmente il più bel saggio dantesco composto da uno
scrittore del Novecento. Realizzato nell’estate del 1933, subito
bocciato dal Gosizdat, le “Edizioni di Stato” sovietiche, il piccolo
libro giunse in Occidente nel 1962 in dattiloscritto attraverso il
samizdat e fu presentato nel 1967 da Angelo Maria Ripellino nella
traduzione di Maria Olsoufieva presso l’editore De Donato di Bari.
Un’altra edizione, con il titolo Conversazione su Dante, è stata curata
nel 1994 da Remo Faccani, che di Mandel'štam ha ben tradotto alcune
poesie, in molte delle quali è esplicita la fratellanza di idee, di
emozioni e di parole con Dante, soprattutto quello della
Commedia.
Mi pare che Dante abbia studiato con attenzione tutte le
pronunce difettose: che abbia ascoltato accuratamente i
balbuzienti, i biascicanti, quelli che non pronunciano certe
lettere o parlano nel naso, imparando qualcosa da ciascuno. Si
vorrebbe parlare a lungo del colorito sonoro dell’Inferno. Una
tipica musica labiale – abbo, gabbo, tebbe, rebbe, converrebbe –
come se la fonetica fosse stata creta con l’aiuto di una balia.
[…] Tra linguaggio e nutrimento si rivela l’esistenza di un
nesso inatteso.

(Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Di fronte all’Essere e alla Luce Dante balbetta come un neonato

 (cfr. Salmo VIII, che Dante ha di certo nella mente: «Con la bocca dei bimbi
          e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari»)

 La forma universal di questo nodo        A quella luce cotal si diventa,
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,   che volgersi da lei per altro aspetto
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.     è impossibil che mai si consenta;
 Un punto solo m’è maggior letargo        però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
che venticinque secoli a l’impresa       tutto s’acoglie in lei, e fuor di quella
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.   è defettivo ciò che lì ¨perfetto.
 Così la mente mia, tutta sospesa,        Omai sarà più corta mia favella,
mirava fissa, immobile e attenta,        pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
e sempre di mirar faceasi accesa.        che bagna ancora la lingua a la mammella.

                                         (Par., XXXIII 91-108)
Andrea Zanzotto (1921-2011)
...il nostro non sapere di dove la
lingua venga, nel momento in cui
viene, monta come un latte…

(Andrea Zanzotto, Filò, 1968)
La lingua “monta” come monta il latte alla puerpera: evento
magico descritto con calorosa sapienza dalle donne del popolo.
  Dante applica quest’idea a sé stesso, alla propria lingua inceppata
e afasica, da infans, incapace di dire l’infinito, nell’ultimo canto
della Commedia: «omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io
ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua alla
mammella» (Par., XXXIII 106-108). Straordinaria invenzione, questa
rima favella : mammella! La lingua è latte succhiato dalla
mamma, dalla balia, dalla tradizione poetica…
  Quest’idea splendida Dante la collega anche ad Omero, «poeta
sovrano» (Inf., IV 88), «che le Muse lattar più ch'altro mai» (Purg.,
XXII 102). Ma la metafora dell’allattamento della lingua-balia, e
dunque della lingua poetica come nutrimento materno, è
splendidamente condensato anche in altri versi del Paradiso, da
collegare al poeta-neonato allattato dalle Muse «del latte lor
dolcissimo più pingue» (Par., XXIII 57).
Torniamo a Mandel'štam e al suo Dante esiliato, «poveraccio»,
«tormentato e braccato, insicuro», tradito ad «ogni passo»
dall’«inquietudine», da «una penosa goffaggine», che impara a
scrivere dalla balia e balbetta la lingua dell’universo come un
«balbuziente», o «un fante / che bagni ancor la lingua alla
mammella», biascicando le sillabe dell’inaudito volgare illustre
della Commedia.
  È un Dante umanissimo, non monumentale, attuale nell’Europa
devastata dalle dittature e dal terrore, dall’esilio e dalla miseria, che
negli anni Trenta ci consegna Mandel'štam nel Discorso su Dante. È
un Dante attuale anche oggi, in un’età anch’essa impoverita e
violenta, in cui occorre tornare a difendere il diritto a pensare, a
leggere, a dialogare. Dante offre ancora a noi e ai nostri giovani
della vita e della morte, della paura e della letizia, dell’esilio che
patiamo tutti noi, creature transeunti e assediate dalla nostra
finitudine: ma piene di slanci, di emozioni, di speranze, che
Dante ci aiuta ancora a nominare e a sentire.
La Divina Commedia non ruba il tempo al lettore, anzi
gliene dà, esattamente come farebbe l’esecutore di un brano
musicale. Nel suo svolgimento, il poema sembra allontanarsi
dalla propria fine, che giunge improvvisa come un inizio
[…] Non è possibile leggere i canti di Dante senza
rivolgerli all’oggi: sono fatti apposta, sono proiettili
scagliati per captare il futuro, ed esigono un commento
futurum.

(Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Osip Mandel'štam nella foto segnaletica
     della polizia sovietica (1938)
Mandel'štam morì il 27 dicembre 1938 nel gulag di Vtoraja
rečka, nei pressi di Vladivostok, dove era stato deportato da Stalin
per «attività controrivoluzionaria» (in realtà si era limitato a definire
il dittatore «montanaro del Cremlino», irridendo i suoi «baffoni da
scarafaggio»).
   Nei giorni della fine, del gelo, della fame, traduceva a
memoria per i suoi compagni di sofferenza e di morte,
rifiutandosi (avrebbe detto ad Auschwitz Primo Levi) di farsi
«degradare a bestia», Dante, Petrarca e Ariosto (sul quale scrisse
un poemetto anora inedito in italiano). Per leggere questi grandi
classici d’Italia e d’Europa aveva imparato l’italiano, «la più
dadaistica delle lingue romanze». Si era così innamorato, attraverso
la Commedia, della «puerilità della fonetica italiana», del suo
«bellissimo infantilismo», della sua «affinità con un melodico
balbettio, con un dadaismo originario».
Lo stesso gesto straziato e necessario, anacronistico e umano,
compirà pochi anni più tardi, nel 1944, ad Auschwitz, l’ebreo
italiano Primo Levi, senza sapere del suo lontano compagno di
dolore nell’Unione Sovietica. In fila per la zuppa di cavolo nero,
Levi si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel
miserabile cibo il povero corpo già spossato, ma di riscattare
l'umanità della vita con l'atto umanistico di riportare alla luce
dalla memoria profonda della mente la poesia dantesca.
  E nella memoria ritroverà brandelli del canto di Ulisse, il
XXVI dell'Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando ad
una ad una le sillabe strappate all'oblio con fatica e dolore:
«appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a
bestie, noi bestie non dobbiamo diventare», e «per vivere è
importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro,
l'impalcatura, la forma della civiltà» (P. Levi, Se questo è un
uomo. La tregua, Torino, Einaudi 1989, nel cap. Iniziazione di Se
questo è un uomo)
Tutto il poema non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile.
O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido.
Tutta l'opera è attraversata da un flusso di energia costantemente teso
alla creazione di nuove forme, è un corpo rigidamente stereometrico,
lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico. Impossibile […]
raffigurarsi visivamente, questo poliedro di tredicimila facce,
mostruoso nella sua regolarità. […] Solo la metafora può essere un
simbolo concreto dell'istinto plastico con cui Dante costruisce a
goccia a goccia le sue terzine e le travasa l'una nell'altra.
Dobbiamo perciò immaginare che a costruire la coscienza del
poliedro di tredicimila facce lavori uno sciame d'api dotate di un
geniale fiuto stereometrico, uno sciame che altre api accorrono a
ingrossare via via che se ne presenta la necessità. […]
 La Commedia è una nave-portento che esce dal cantiere con lo
scafo già incrostato di conchiglie.

(Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Notte d’insonnia. Omero. Vele tese laggiù.
Ho letto, delle navi, fino a metà il catalogo:
questa lunga nidiata, questo corteo di gru
che dall’Ellade un giorno si levò e prese il largo.
Cuneo di gru diretto verso estranee frontiere –
bianca spuma divina sulle teste dei re –,
per dove fate rotta? Per voi Troia senz’Elena
che cosa mai sarebbe, maschi guerrieri achei?
L’amore tutto muove – e Omero ed il suo mare.
A chi presterò ascolto? Ed ecco tace Omero,
ed enfaticamente strepita un mare nero
che con un greve rombo si addossa al capezzale.

Osip Mandel'štam (1915)
Nella poesia di Mandel'štam appena letta il verso che chiude il
Paradiso («L’amor che move il sole e l’altre stelle») è evocato per
sigillare l’incrocio con l’epopea omerica («L’amore tutto muove -
e Omero ed il suo mare», «Vsjo dvìžetsja ljubòv’ju», forse con
l’interferenza del virgiliano «Omnia vincit amor»). Questa
intensità di emozioni si travasa dalla creatività poetica del 1915 nel
saggio del 1933.
  E da qui, forse, l’idea passò ai filologi e ai traduttori. Non è
casuale, probabilmente, che, lavorando fra 1939 e ’45, il più
grande traduttore russo della Commedia, Michail Lozinskij,
legato alla corrente dell’acmeismo di Mandel'štam e di Anna
Achmatova, per rendere Inf., V 46-47 («e come i gru van
cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga»), abbia
deciso di usare alla lettera la formula usata da Mandel'štam
nella sua lirica.
Dante, dunque, poeta capace di Universo, che l’Universo
riscrive in forma di poema sacro: ma che al contempo insegna le
parole-chiave, essenziali, in grado di toccare la mente e il cuore
dei nostri giovani. Fin dall’inizio del poema queste parole sono
scandite con esattezza nelle rime di avvio: vita, morte, paura.
  I ragazzi di oggi, come i grandi poeti del passato, riconoscono in
Dante questa energia esistenziale, questa capacità di “trovare le
parole giuste” per dar corpo alle emozioni che tutti condividiamo, e
al contempo per dar forma alle idee più alte che si possano
immaginare.
 Poeta della quotidianità e delle situazioni estreme, Dante è al
centro e agli opposti. Lo scopriamo sulla bocca di chi è felice e di
chi è disperato, perfino sulle labbra dei condannati a morte, da
qualsiasi parte essi abbiano militato, anche contraddittoriamente.
Ezra Pound (1885-1972)
Ezra Pound, scheda segnaletica
della polizia militare americana (1945)
«Papà non si lamentava mai. Anzi ci scherzava
sopra. Sosteneva che l’essere stato rinchiuso in una
gabbia all'aperto per tre settimane e poi internato per
tredici anni in manicomio, costituirono un’occasione
unica per vedere il mondo, per allargare i suoi
orizzonti. Se una siepe può permettere di figurare
l’infinito, come in Leopardi, una gabbia poteva
allagare lo sguardo oltre ciò che non si vedeva.
Guardando il cielo tra le gambe di chi gli faceva da
sentinella, scrisse: “Sotto nuvole bianche, cielo di
Pisa / da tutta questa bellezza qualcosa deve
uscire…”».

(Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound)
Maria Corti (1915-2002)
Pound arriva a intuire in qualche modo quelli che noi
oggi possiamo chiamare i campi semantici mobili, cioè
il diverso uso dei vocaboli ai diversi livelli della testualità
culturale. […] E ancora acutissima l’intuizione di Pound
nei riguardi delle lingue tecniche di allora, che solo in
questi ultimi anni stiamo mettendo un po’ a fuoco.

(M. Corti, Quattro poeti leggono Dante, 1984)
Ezra Pound a Venezia
Pier Paolo Pasolini intervista Ezra Pound (1968)
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)
Trasumanar significar per verba
non si porìa; però l’essemplo
basti a cui esperienza grazia serba.
(Par., I 70-73)

Cfr. Pasolini, Trasumanar e organizzar (1971)
L’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
 per una lagrimetta che ’l mi toglie”.
(Purg., V 104-107)

Cfr. Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961): è proprio
«una lagrimetta» a “salvare” Stracci, personaggio molto
prossimo al protagonista Accattone.
Il personaggio Stracci piange (P. P. Pasolini, Accattone, 1961)
Giorgio Caproni (1912-1990)
Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
 pon giù il seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti la mia carne sepolta.
(Purg., XXXI 43-48)

Cf. G. Caproni, Il seme del piangere (1959)
Thomas Stearns Eliot (1888-1965)
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
(Inf., III 52-57)

Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many.
(T.S. Eliot, The Waste Land, I, vv. 60-63)
We are the hollow men
We are the stuffed men
[…]
Those who have crossed
With direct eyes, to death's other Kingdom
Remember us – if at all – not as lost Violent souls, but only
As the hollow men
The stuffed men

T. S. Eliot, The hollow men (1925)
In Dante e nei poeti moderni che a lui ripensano la poesia è
invocazione di memoria, di compassione umana e culturale capace
di riscattare dall’oblio, quindi dalla morte:

Because I do not hope to turn again
Because I do not hope
Because I do not hope to turn
[…]
And pray to God to have mercy upon us
(T. S. Eliot, Ash-Wednesday, 1930)

«Miserere di me», gridai a lui…
(Inf., I 65)

«Ricorditi di me, che son la Pia…»
(Purg., V 133)

«“Sovenha vos a temps de ma dolor…»
(Purg., XXVI 147)
Ezra Pound a Venezia negli ultimi anni di vita
Ho provato a scrivere il Paradiso
Non ti muovere
Lascia parlare il vento
Così è Paradiso

Lascia che gli Dei perdonino quel che
Ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
Quello che ho costruito

(E. Pound, Notes for CXVII et seq., trad. M. de Rachewiltz)
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
 l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
 Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
(Purg., III 124-132)

Cfr. Ezra Pound, A lume spento (1908)
Thomas Stearns Eliot
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
(Inf., XIV 94-96)

Cfr. T.S. Eliot, The waste land (1922): La terra
desolata, ma meglio ancora: La terra guasta
«O frate – disse –, questi ch’io ti cerno
col dito – e additò un spirto innanzi –
fu miglior fabbro del parlar materno».
(Purg., XXVI 117-119)

Cfr. T.S. Eliot, The Waste Land (1922), con
questa dedica al maestro e amico Pound: «For
Ezra Pound: il miglior fabbro»
I poeti, anche prima dell’uscita del saggio di B. Croce sulla
poesia di Dante, in cui si condanna la “struttura” come “non-
poesia”, comprendono la necessità del pensiero poetante (cioè
del nesso poesia-filosofia) nella Commedia:

Dobbiamo mostrare per prima cosa che, in un caso
particolare - il nostro caso è Dante -, la filosofia è essenziale
alla struttura della poesia e la struttura è essenziale alla
bellezza poetica delle parti.
[We must show first in a particular case - our case is Dante - that the
philosophy is essential to the structure and that the structure is essential to the
poetic beauty of the parts]

(T. S. Eliot, Dante, in The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, 1920)
Lo stesso aveva già sostenuto, dieci anni prima, Ezra
Pound, riferendosi a some, “qualcuno”, che non può essere
se non il Benedetto Croce dell’Estetica (1902):

 Il discorso esplicativo di Piccarda contiene quella filosofia
della quale alcuni dicono che il poema è sovraccarico;
questa è però, certamente, anche l’essenza stessa della
bellezza.
[Picarda’s speech of explanation contains that philosophy with which some
say the poem is over-loaded. Surely this also is the very marrow of beauty]

(E. Pound, Dante, in The Spirit of Romance, 1910)
Se cerchiamo nelle opere dei secoli che lo precedono
immediatamente quegli elementi che la grandezza di
Dante ha forgiato nella Divina Commedia, troviamo molta
della sua filosofia o della sua teologia nei Padri della
Chiesa. Riccardo di San Vittore ha scritto in una prosa
che divien poesia non per le sue fioriture ma per la sua
intensità.

(E. Pound, Lingua toscana, in The Spirit of Romance, 1910)
Primo Levi (1919-1987)
Dante poeta delle contraddizioni, amato da uomini
diversissimi fra loro, schierati su fronti anche opposti,
estremistici, contraddittori.
 Può amare Dante il russo Mandel'štam ucciso nel gulag
stalinista, che a memoria traduce Dante in russo per i suoi
compagni di dolore e di morte.
 Può amarlo il filofascista Pound rinchiuso a Pisa per
collaborazionismo (sarà condannato a morte, e poi graziato
per intervento di Eliot, di Vanni Scheiwiller e di altri
intellettuali) nella gabbia in cui compone alcuni fra i Cantos
pià belli, imbevuto di poesia romanza e di Commedia.
 Può amarlo l’ebreo Primo Levi, che ad Auschwitz a
memoria cerca di risarcire dall’oblio i versi del canto di Ulisse,
spalancati verso la scoperta del mondo oltre il limite naturale.
Nello stesso anno (1946) in cui sta scrivendo Se questo è un uomo, Primo Levi
compone una poesia, Un altro lunedì, che quasi quarant’anni più tardi uscirà nella
collezione Ad ora incerta (1984):

Così Minosse orribilmente ringhia
Dai megafoni di Porta Nuova
Nell’angoscia dei lunedì mattina
Che intendere non può chi non la prova.

Nella sua memoria umana e poetica riemergono, fondendosi, i versi del V canto
dell’Inferno e della più famosa poesia stilnovistica di Dante:

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia.

(Inf., V 1-4) Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova
(Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 9-11)
Come ha dimostrato sottilmente Domenico Scarpa, consulente
letterario del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, nella
memoria profonda di Levi, in Se questo è un uomo, Dante si
sovrappone a Manzoni: la sua riflessione sull’Inferno che è il
Lager, e che può diventare la vita intera, si aggancia a quella che
nasce intorno alla sopraffazione del prepotente sul debole,
l’oltraggio che causa non solo dolore, ma la percezione, nel
giusto, dell’irreversibilità del male che, subito, genera altro
male, altro dolore:

«Che volete ch’io vi dica?» rispose Agnese. «La legge l’hanno
fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo
capir tutto. E poi quante cose... Ecco; è come lasciar andare un
pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che
gliel’abbiate, nè anche il papa non glielo può levare» (I
Promessi Sposi, cap. VI).
Manzoni ha mostrato chiara la sua tendenza ad attribuire
anche quei trascorsi degli umili, [...] la responsabilità non agli
umili stessi, ma ai potenti.

(Angelandrea Zottoli, Il Manzoni e gli “umili” (Lettera a Filippo Crispolti,
1931)
Guido Piovene (1907-1974)
Guido Piovene, citato da Domenico Scarpa, in alcune pagine
intensissime su Manzoni analizza con grande profondità la tremenda
forza fecondatrice del male, che è un tema anche dantesco:

  L’alimento più ricco di cui la violenza si nutre è inoltre la viltà,
la moderazione viziosa. Don Abbondio ci mostra che la viltà è il
tessuto connettivo del male. [...] Un motivo costante dell’opera di
Manzoni è la tremenda forza fecondatrice del male. Ogni forza
malvagia irradia un’energia che estendendosi si moltiplica. I
prepotenti sono rei anche perché corrompono le loro vittime, in
cui istillano una necessità di vendetta, aprendo così al male un
nuovo corso d’imprevedibile durata.

(Guido Piovene, Qualche appunto per un saggio su Alessandro Manzoni [«appunti
scritti nel 1940 e fortemente ritoccati» nel 1973)                    ./.
./.
Su questo terreno possiamo scorgere l’unico vantaggio
dell’umile corrotto che esercita la potenza (come nella folla in
rivolta), sul potente cattivo, dell’ignorante posto in basso ed
incolto sull’ignorante posto in alto e magari colto. La colpa
(potenza e violenza) è identica per tutti, ma il colpevole che sta
sopra e predica, con la parola e con l’esempio, dovrà pagare
almeno in parte anche per la folla plagiata. L’istigatore al male
assomma su di sé anche la colpa dei suoi succubi. La severità di
Manzoni con tutti i corruttori (e vi spiccano i sobillatori del
popolo) spiega le sue assillanti trepidazioni nello scrivere.

(Guido Piovene, Qualche appunto per un saggio su Alessandro Manzoni
[«appunti scritti nel 1940 e fortemente ritoccati» nel 1973)
La vergogna di fronte all’oltraggio ricevuto, che in qualche modo
rende la vittima connivente con il carnefice, si moltiplica nella
vergogna di sopravvivere alla strage. Nella Tregua Levi analizza,
con Manzoni nella memoria, fuso con l’orrore dell’Inferno dantesco, la
percezione della propria degradazione di fronte alla semplice,
umanissima speranza di sopravvivere:

 Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che
da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e
avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna
a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni
volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la
vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova
davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che
sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che
esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non
abbia valso a difesa.
(P. Levi, La tregua, 1963)
In Se questo è un uomo, fin dai capitoli iniziali, Primo Levi
riesce a condensare in forma artistica l’angoscia, la
disperazione, l’orrore: non solo di fronte alla vita sua e degli
altri accanto a lui che si spegne, ma dinanzi al rischio di
diventare bestie:

 Il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi
bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo
si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere,
per raccontare, per portare testimonianza; e che per
vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo
scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà.
(P. Levi, Se questo è un uomo)
Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa
di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cos’è la
Divina Commedia. […] Mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso:
povero Dante e povero francese! […] Un buco nella memoria. […]
Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile […].
E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne
d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un
sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di
fermarcisi: …Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»:
dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione
di prima, «e misi me». […] Considerate la vostra semenza: / fatti
non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di
tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi
sono e dove sono. […]

(P. Levi, Se questo è un uomo, 1946-1954)
                                                                ./.
./.
  Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo
alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle
rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il
resto è silenzio. […] Trattengo Pikolo, è assolutamente
necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo
«come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui
o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli,
spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure
inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di
gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione
di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro
essere qui.

(P. Levi, Se questo è un uomo (1954)
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