Dante nel Novecento Corrado Bologna - Formazione Loescher
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Dopo la selezione forte che Pietro Bembo compie, nel 1525, con le sue Prose della volgar lingua, il cànone dei grandi classici trecenteschi si riduce di fatto a due: Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa. Bembo stesso, fra 1501 e 1502, pubblica presso Aldo Manuzio due edizioni senza commento di Dante e di Petrarca, che godranno di incredibile successo di pubblico. Ma a poco a poco Dante sembra uscire dal favore dei lettori. Fra Cinque e Settecento pochissime saranno le edizioni della Commedia dantesca (si contano sulle dita di una mano), mentre molte decine (quasi cento) sono quelle dei Rerum vulgarium fragmenta. Occorrerà attendere De Sanctis, il romanticismo e poi la scuola “storica” dei filologi di fine Ottocento perché dante riscatti lentamente il suo ruolo fondativo. Ma sono in realtà i grandi filosofi e i grandi poeti a contendersi la funzione di “riscopritori” della Commedia.
Benedetto Croce (1866-1952)
Il compito attuale dello studio della Commedia è di rivivere la poesia di Dante. (B. Croce, La letteratura della nuova Italia, III vol., 1915) La poesia di Dante è principalmente, e si potrebbe dire quasi unicamente, la poesia della Commedia. L’opera giovanile di Dante piuttosto che poesia è rappresentazione di atti d’un culto, adempimenti di riti, cerimonie, atti liturgici, insomma, deliberata esecuzione del programma della scuola stilnovistica che, unita alla rettorica giovanile, non accende la luce della poesia. […] Se in altri casi si vede, nello svolgimento di un artista o di un pensatore, prepararsi il suo capolavoro, per Dante non si vede. Solo con la Commedia Dante si lega all’età sua e insieme […] la produce e la fa sua. (B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Il romanzo etico-politico-teologico, il più grandioso e meglio architettato dei romanzi teologici medievali, è una fabbrica robusta e massiccia sulla quale una rigogliosa vegetazione si stenda [...], rivestendolo in modo che solo qua e là qualche pezzo della muratura mostri il suo grezzo. Il rapporto con la poesia è semplicemente quello che passa tra un romanzo teologico […] e la lirica che lo varia e interrompe di continuo. […] Struttura e poesia non sono separabili nell’opera di Dante, ma vivono in rapporto dialettico sul quale si fonda l’unità della Commedia. […] Se l’unità vera della poesia dantesca è lo spirito poetico di Dante, il cammino più corto e più proprio per leggere la Commedia sarà passare in rassegna le principali poesie e gruppi di poesie comprese in ciascuna delle cantiche. (B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Dante va letto con un criterio che è da sostituire a quello dell’estetica idealistica e romantica e che ne è, per certi rispetti, correzione e inveramento: il concetto dell’arte come lirica o intuizione lirica. […] Se Dante non fosse grandissimo poeta, tutte le altre facoltà che gli sono state attribuite (filosofo, teologo, giudice, banditore di riforme), soprattutto nel periodo risorgimentale, perderebbero di rilievo. Alla letteratura dantesca, in crescita a partire dalla metà del Settecento, ormai imponente e addirittura spaventevole per mole, è da imputare ogni interpretazione allotria del poema sia filosofica sia etica o religiosa: l’interpretazione allegorica che è solo criptografia spiegabile, come tale, soltanto da parte dell’autore, e la sopraestimazione […] o il fraintendimento della particolare importanza del Dante filosofo e politico (la Monarchia è piuttosto opera di pubblicistica che di scienza politica). (B. Croce, La poesia di Dante, 1921)
Gianfranco Contini (1912-1990)
… il saggio crociano è stato il primo richiamo all’intelligenza moderna dell’opera, più pertinente, non esito a dirlo, di tutta la secolare ermeneutica messa assieme. L’aspetto pragmatico di quel gusto è certo nella conquista di Dante alla liricità. (G. Contini, Un’interpretazione di Dante, 1965)
Giovanni Gentile (1875-1944)
Con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia; col suo Poema la filosofia italiana. Per questo, in ogni tempo, Dante è stato considerato padre spirituale della nazione, e la sua poesia è la sua filosofia. […] Dante è poeta per non poter essere interamente quel che si era proposto di essere: maestro di verità. […] È più grande poeta che filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande filosofo che poeta. […] La Commedia, una specie di sistema filosofico, è il primo libro di filosofia scritto in italiano. (G. Gentile, Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla, 1904-15)
Dante è poeta per non poter essere interamente quel che si era proposto di essere: maestro di verità. […] È più grande poeta che filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande filosofo che poeta. La Commedia, una specie di sistema filosofico, è il primo libro di filosofia scritto in italiano. (G. Gentile, Studi su Dante, ed. V. A. Bellezza, 1965)
Due sono le fondamentali chiavi di lettura del capitolo dantesco di Gentile: la Commedia come capolavoro filosofico in forma di poesia, al tramonto del Medioevo, tra l’istanza del razionalismo tomistico e quella del misticismo francescano; Dante come suprema figura simbolica della nazionalità italiana attraverso i secoli. Pochi anni prima Giovanni Pascoli aveva proposto una lettura mistico-visionaria di Dante, introducendo per primo una riflessione su Bernardo e i Vittorini come ispiratori della Commedia. I filologi fiorentini che pubblicavano, sotto la guida di Michele Barbi, il “Bullettino” della “Società dantesca” (soprattutto E. G. Parodi ed E. Pistelli), criticarono ferocemente i suoi libri.
Giovanni Pascoli (1855-1912)
Io ho trovata, tra i roghi e i bronchi che la nascondevano, la porticciuola del gran tempio mistico. E sono entrato, e ho veduto. […] Mi trovai per caso avanti un viluppo di rami contorti e di foglie gialle e vidi di tra quel viluppo trasparire il legno imporrito d’una porta. E spinsi ed entrai. Niente è men grande, ma niente è più vero. Entrai. Gli altri si mostrarono acuti, sottili, profondi; ma io ho veduto. (G. Pascoli, La Minerva oscura, 1898)
G. Pascoli: Minerva oscura (1898); Sotto il velame (1900); La mirabile visione (1902) Già son piene le carte. Il velame si è levato quanto basta a contemplare la visione di Dante. Narrarla non posso qui; sì, in altro libro che comincia di là dove questo finisce [= La poesia del mistero Dantesco, mai scritto]. E ciò che ora verrò soggiungendo, è solo “un prendere lo pane apposito, e quelllo purgare da ogni macola” [Conv., I 2]. Dico dunque che la divina Comedia è tutto un amoroso uso d’arte e di sapienza: un poetare, cioè, e un filosofare. […] Non ha qui luogo la distinzione di teologia e filosofia: filosofia è termine sintetico. Chè ell’è, dunque [scil. Beatrice], amore di sapienza. […] Un’umile donna Fiorentina la sapienza, dunque? E sì. O non era un’umile donna Nazarena quella che vide negli abissi del pensiero di Dio? (G. Pascoli, La mirabile visione, 1902)
Giovanni Pascoli in toga accademica
Osip Mandel'štam (1891-1938)
Il Discorso su Dante (Разговор о Данте) di Osip Mandel'štam è probabilmente il più bel saggio dantesco composto da uno scrittore del Novecento. Realizzato nell’estate del 1933, subito bocciato dal Gosizdat, le “Edizioni di Stato” sovietiche, il piccolo libro giunse in Occidente nel 1962 in dattiloscritto attraverso il samizdat e fu presentato nel 1967 da Angelo Maria Ripellino nella traduzione di Maria Olsoufieva presso l’editore De Donato di Bari. Un’altra edizione, con il titolo Conversazione su Dante, è stata curata nel 1994 da Remo Faccani, che di Mandel'štam ha ben tradotto alcune poesie, in molte delle quali è esplicita la fratellanza di idee, di emozioni e di parole con Dante, soprattutto quello della Commedia.
Mi pare che Dante abbia studiato con attenzione tutte le pronunce difettose: che abbia ascoltato accuratamente i balbuzienti, i biascicanti, quelli che non pronunciano certe lettere o parlano nel naso, imparando qualcosa da ciascuno. Si vorrebbe parlare a lungo del colorito sonoro dell’Inferno. Una tipica musica labiale – abbo, gabbo, tebbe, rebbe, converrebbe – come se la fonetica fosse stata creta con l’aiuto di una balia. […] Tra linguaggio e nutrimento si rivela l’esistenza di un nesso inatteso. (Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Di fronte all’Essere e alla Luce Dante balbetta come un neonato (cfr. Salmo VIII, che Dante ha di certo nella mente: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari») La forma universal di questo nodo A quella luce cotal si diventa, credo ch’i’ vidi, perché più di largo, che volgersi da lei per altro aspetto dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. è impossibil che mai si consenta; Un punto solo m’è maggior letargo però che ’l ben, ch’è del volere obietto, che venticinque secoli a l’impresa tutto s’acoglie in lei, e fuor di quella che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. è defettivo ciò che lì ¨perfetto. Così la mente mia, tutta sospesa, Omai sarà più corta mia favella, mirava fissa, immobile e attenta, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante e sempre di mirar faceasi accesa. che bagna ancora la lingua a la mammella. (Par., XXXIII 91-108)
Andrea Zanzotto (1921-2011)
...il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte… (Andrea Zanzotto, Filò, 1968)
La lingua “monta” come monta il latte alla puerpera: evento magico descritto con calorosa sapienza dalle donne del popolo. Dante applica quest’idea a sé stesso, alla propria lingua inceppata e afasica, da infans, incapace di dire l’infinito, nell’ultimo canto della Commedia: «omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella» (Par., XXXIII 106-108). Straordinaria invenzione, questa rima favella : mammella! La lingua è latte succhiato dalla mamma, dalla balia, dalla tradizione poetica… Quest’idea splendida Dante la collega anche ad Omero, «poeta sovrano» (Inf., IV 88), «che le Muse lattar più ch'altro mai» (Purg., XXII 102). Ma la metafora dell’allattamento della lingua-balia, e dunque della lingua poetica come nutrimento materno, è splendidamente condensato anche in altri versi del Paradiso, da collegare al poeta-neonato allattato dalle Muse «del latte lor dolcissimo più pingue» (Par., XXIII 57).
Torniamo a Mandel'štam e al suo Dante esiliato, «poveraccio», «tormentato e braccato, insicuro», tradito ad «ogni passo» dall’«inquietudine», da «una penosa goffaggine», che impara a scrivere dalla balia e balbetta la lingua dell’universo come un «balbuziente», o «un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella», biascicando le sillabe dell’inaudito volgare illustre della Commedia. È un Dante umanissimo, non monumentale, attuale nell’Europa devastata dalle dittature e dal terrore, dall’esilio e dalla miseria, che negli anni Trenta ci consegna Mandel'štam nel Discorso su Dante. È un Dante attuale anche oggi, in un’età anch’essa impoverita e violenta, in cui occorre tornare a difendere il diritto a pensare, a leggere, a dialogare. Dante offre ancora a noi e ai nostri giovani della vita e della morte, della paura e della letizia, dell’esilio che patiamo tutti noi, creature transeunti e assediate dalla nostra finitudine: ma piene di slanci, di emozioni, di speranze, che Dante ci aiuta ancora a nominare e a sentire.
La Divina Commedia non ruba il tempo al lettore, anzi gliene dà, esattamente come farebbe l’esecutore di un brano musicale. Nel suo svolgimento, il poema sembra allontanarsi dalla propria fine, che giunge improvvisa come un inizio […] Non è possibile leggere i canti di Dante senza rivolgerli all’oggi: sono fatti apposta, sono proiettili scagliati per captare il futuro, ed esigono un commento futurum. (Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Osip Mandel'štam nella foto segnaletica della polizia sovietica (1938)
Mandel'štam morì il 27 dicembre 1938 nel gulag di Vtoraja rečka, nei pressi di Vladivostok, dove era stato deportato da Stalin per «attività controrivoluzionaria» (in realtà si era limitato a definire il dittatore «montanaro del Cremlino», irridendo i suoi «baffoni da scarafaggio»). Nei giorni della fine, del gelo, della fame, traduceva a memoria per i suoi compagni di sofferenza e di morte, rifiutandosi (avrebbe detto ad Auschwitz Primo Levi) di farsi «degradare a bestia», Dante, Petrarca e Ariosto (sul quale scrisse un poemetto anora inedito in italiano). Per leggere questi grandi classici d’Italia e d’Europa aveva imparato l’italiano, «la più dadaistica delle lingue romanze». Si era così innamorato, attraverso la Commedia, della «puerilità della fonetica italiana», del suo «bellissimo infantilismo», della sua «affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario».
Lo stesso gesto straziato e necessario, anacronistico e umano, compirà pochi anni più tardi, nel 1944, ad Auschwitz, l’ebreo italiano Primo Levi, senza sapere del suo lontano compagno di dolore nell’Unione Sovietica. In fila per la zuppa di cavolo nero, Levi si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel miserabile cibo il povero corpo già spossato, ma di riscattare l'umanità della vita con l'atto umanistico di riportare alla luce dalla memoria profonda della mente la poesia dantesca. E nella memoria ritroverà brandelli del canto di Ulisse, il XXVI dell'Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando ad una ad una le sillabe strappate all'oblio con fatica e dolore: «appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare», e «per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà» (P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi 1989, nel cap. Iniziazione di Se questo è un uomo)
Tutto il poema non è che una sola strofa, unitaria e inscindibile. O meglio, non una strofa, ma una struttura cristallina, un solido. Tutta l'opera è attraversata da un flusso di energia costantemente teso alla creazione di nuove forme, è un corpo rigidamente stereometrico, lo sviluppo per monosillabi del cristallo tematico. Impossibile […] raffigurarsi visivamente, questo poliedro di tredicimila facce, mostruoso nella sua regolarità. […] Solo la metafora può essere un simbolo concreto dell'istinto plastico con cui Dante costruisce a goccia a goccia le sue terzine e le travasa l'una nell'altra. Dobbiamo perciò immaginare che a costruire la coscienza del poliedro di tredicimila facce lavori uno sciame d'api dotate di un geniale fiuto stereometrico, uno sciame che altre api accorrono a ingrossare via via che se ne presenta la necessità. […] La Commedia è una nave-portento che esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie. (Osip Mandel'štam, Discorso su Dante, 1933)
Notte d’insonnia. Omero. Vele tese laggiù. Ho letto, delle navi, fino a metà il catalogo: questa lunga nidiata, questo corteo di gru che dall’Ellade un giorno si levò e prese il largo. Cuneo di gru diretto verso estranee frontiere – bianca spuma divina sulle teste dei re –, per dove fate rotta? Per voi Troia senz’Elena che cosa mai sarebbe, maschi guerrieri achei? L’amore tutto muove – e Omero ed il suo mare. A chi presterò ascolto? Ed ecco tace Omero, ed enfaticamente strepita un mare nero che con un greve rombo si addossa al capezzale. Osip Mandel'štam (1915)
Nella poesia di Mandel'štam appena letta il verso che chiude il Paradiso («L’amor che move il sole e l’altre stelle») è evocato per sigillare l’incrocio con l’epopea omerica («L’amore tutto muove - e Omero ed il suo mare», «Vsjo dvìžetsja ljubòv’ju», forse con l’interferenza del virgiliano «Omnia vincit amor»). Questa intensità di emozioni si travasa dalla creatività poetica del 1915 nel saggio del 1933. E da qui, forse, l’idea passò ai filologi e ai traduttori. Non è casuale, probabilmente, che, lavorando fra 1939 e ’45, il più grande traduttore russo della Commedia, Michail Lozinskij, legato alla corrente dell’acmeismo di Mandel'štam e di Anna Achmatova, per rendere Inf., V 46-47 («e come i gru van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga»), abbia deciso di usare alla lettera la formula usata da Mandel'štam nella sua lirica.
Dante, dunque, poeta capace di Universo, che l’Universo riscrive in forma di poema sacro: ma che al contempo insegna le parole-chiave, essenziali, in grado di toccare la mente e il cuore dei nostri giovani. Fin dall’inizio del poema queste parole sono scandite con esattezza nelle rime di avvio: vita, morte, paura. I ragazzi di oggi, come i grandi poeti del passato, riconoscono in Dante questa energia esistenziale, questa capacità di “trovare le parole giuste” per dar corpo alle emozioni che tutti condividiamo, e al contempo per dar forma alle idee più alte che si possano immaginare. Poeta della quotidianità e delle situazioni estreme, Dante è al centro e agli opposti. Lo scopriamo sulla bocca di chi è felice e di chi è disperato, perfino sulle labbra dei condannati a morte, da qualsiasi parte essi abbiano militato, anche contraddittoriamente.
Ezra Pound (1885-1972)
Ezra Pound, scheda segnaletica della polizia militare americana (1945)
«Papà non si lamentava mai. Anzi ci scherzava sopra. Sosteneva che l’essere stato rinchiuso in una gabbia all'aperto per tre settimane e poi internato per tredici anni in manicomio, costituirono un’occasione unica per vedere il mondo, per allargare i suoi orizzonti. Se una siepe può permettere di figurare l’infinito, come in Leopardi, una gabbia poteva allagare lo sguardo oltre ciò che non si vedeva. Guardando il cielo tra le gambe di chi gli faceva da sentinella, scrisse: “Sotto nuvole bianche, cielo di Pisa / da tutta questa bellezza qualcosa deve uscire…”». (Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound)
Maria Corti (1915-2002)
Pound arriva a intuire in qualche modo quelli che noi oggi possiamo chiamare i campi semantici mobili, cioè il diverso uso dei vocaboli ai diversi livelli della testualità culturale. […] E ancora acutissima l’intuizione di Pound nei riguardi delle lingue tecniche di allora, che solo in questi ultimi anni stiamo mettendo un po’ a fuoco. (M. Corti, Quattro poeti leggono Dante, 1984)
Ezra Pound a Venezia
Pier Paolo Pasolini intervista Ezra Pound (1968)
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)
Trasumanar significar per verba non si porìa; però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba. (Par., I 70-73) Cfr. Pasolini, Trasumanar e organizzar (1971)
L’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ’l mi toglie”. (Purg., V 104-107) Cfr. Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961): è proprio «una lagrimetta» a “salvare” Stracci, personaggio molto prossimo al protagonista Accattone.
Il personaggio Stracci piange (P. P. Pasolini, Accattone, 1961)
Giorgio Caproni (1912-1990)
Tuttavia, perché mo vergogna porte del tuo errore, e perché altra volta, udendo le serene, sie più forte, pon giù il seme del piangere e ascolta: sì udirai come in contraria parte mover dovieti la mia carne sepolta. (Purg., XXXI 43-48) Cf. G. Caproni, Il seme del piangere (1959)
Thomas Stearns Eliot (1888-1965)
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna che girando correva tanto ratta, che d’ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. (Inf., III 52-57) Unreal City, Under the brown fog of a winter dawn, A crowd flowed over London Bridge, so many, I had not thought death had undone so many. (T.S. Eliot, The Waste Land, I, vv. 60-63)
We are the hollow men We are the stuffed men […] Those who have crossed With direct eyes, to death's other Kingdom Remember us – if at all – not as lost Violent souls, but only As the hollow men The stuffed men T. S. Eliot, The hollow men (1925)
In Dante e nei poeti moderni che a lui ripensano la poesia è invocazione di memoria, di compassione umana e culturale capace di riscattare dall’oblio, quindi dalla morte: Because I do not hope to turn again Because I do not hope Because I do not hope to turn […] And pray to God to have mercy upon us (T. S. Eliot, Ash-Wednesday, 1930) «Miserere di me», gridai a lui… (Inf., I 65) «Ricorditi di me, che son la Pia…» (Purg., V 133) «“Sovenha vos a temps de ma dolor…» (Purg., XXVI 147)
Ezra Pound a Venezia negli ultimi anni di vita
Ho provato a scrivere il Paradiso Non ti muovere Lascia parlare il vento Così è Paradiso Lascia che gli Dei perdonino quel che Ho costruito Chi ho amato cerchi di perdonare Quello che ho costruito (E. Pound, Notes for CXVII et seq., trad. M. de Rachewiltz)
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde, dov’e’ le trasmutò a lume spento. (Purg., III 124-132) Cfr. Ezra Pound, A lume spento (1908)
Thomas Stearns Eliot
«In mezzo mar siede un paese guasto», diss’elli allora, «che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. (Inf., XIV 94-96) Cfr. T.S. Eliot, The waste land (1922): La terra desolata, ma meglio ancora: La terra guasta
«O frate – disse –, questi ch’io ti cerno col dito – e additò un spirto innanzi – fu miglior fabbro del parlar materno». (Purg., XXVI 117-119) Cfr. T.S. Eliot, The Waste Land (1922), con questa dedica al maestro e amico Pound: «For Ezra Pound: il miglior fabbro»
I poeti, anche prima dell’uscita del saggio di B. Croce sulla poesia di Dante, in cui si condanna la “struttura” come “non- poesia”, comprendono la necessità del pensiero poetante (cioè del nesso poesia-filosofia) nella Commedia: Dobbiamo mostrare per prima cosa che, in un caso particolare - il nostro caso è Dante -, la filosofia è essenziale alla struttura della poesia e la struttura è essenziale alla bellezza poetica delle parti. [We must show first in a particular case - our case is Dante - that the philosophy is essential to the structure and that the structure is essential to the poetic beauty of the parts] (T. S. Eliot, Dante, in The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, 1920)
Lo stesso aveva già sostenuto, dieci anni prima, Ezra Pound, riferendosi a some, “qualcuno”, che non può essere se non il Benedetto Croce dell’Estetica (1902): Il discorso esplicativo di Piccarda contiene quella filosofia della quale alcuni dicono che il poema è sovraccarico; questa è però, certamente, anche l’essenza stessa della bellezza. [Picarda’s speech of explanation contains that philosophy with which some say the poem is over-loaded. Surely this also is the very marrow of beauty] (E. Pound, Dante, in The Spirit of Romance, 1910)
Se cerchiamo nelle opere dei secoli che lo precedono immediatamente quegli elementi che la grandezza di Dante ha forgiato nella Divina Commedia, troviamo molta della sua filosofia o della sua teologia nei Padri della Chiesa. Riccardo di San Vittore ha scritto in una prosa che divien poesia non per le sue fioriture ma per la sua intensità. (E. Pound, Lingua toscana, in The Spirit of Romance, 1910)
Primo Levi (1919-1987)
Dante poeta delle contraddizioni, amato da uomini diversissimi fra loro, schierati su fronti anche opposti, estremistici, contraddittori. Può amare Dante il russo Mandel'štam ucciso nel gulag stalinista, che a memoria traduce Dante in russo per i suoi compagni di dolore e di morte. Può amarlo il filofascista Pound rinchiuso a Pisa per collaborazionismo (sarà condannato a morte, e poi graziato per intervento di Eliot, di Vanni Scheiwiller e di altri intellettuali) nella gabbia in cui compone alcuni fra i Cantos pià belli, imbevuto di poesia romanza e di Commedia. Può amarlo l’ebreo Primo Levi, che ad Auschwitz a memoria cerca di risarcire dall’oblio i versi del canto di Ulisse, spalancati verso la scoperta del mondo oltre il limite naturale.
Nello stesso anno (1946) in cui sta scrivendo Se questo è un uomo, Primo Levi compone una poesia, Un altro lunedì, che quasi quarant’anni più tardi uscirà nella collezione Ad ora incerta (1984): Così Minosse orribilmente ringhia Dai megafoni di Porta Nuova Nell’angoscia dei lunedì mattina Che intendere non può chi non la prova. Nella sua memoria umana e poetica riemergono, fondendosi, i versi del V canto dell’Inferno e della più famosa poesia stilnovistica di Dante: Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia. (Inf., V 1-4) Mostrasi sì piacente a chi la mira che dà per li occhi una dolcezza al core, che ’ntender no la può chi no la prova (Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 9-11)
Come ha dimostrato sottilmente Domenico Scarpa, consulente letterario del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, nella memoria profonda di Levi, in Se questo è un uomo, Dante si sovrappone a Manzoni: la sua riflessione sull’Inferno che è il Lager, e che può diventare la vita intera, si aggancia a quella che nasce intorno alla sopraffazione del prepotente sul debole, l’oltraggio che causa non solo dolore, ma la percezione, nel giusto, dell’irreversibilità del male che, subito, genera altro male, altro dolore: «Che volete ch’io vi dica?» rispose Agnese. «La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose... Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel’abbiate, nè anche il papa non glielo può levare» (I Promessi Sposi, cap. VI).
Manzoni ha mostrato chiara la sua tendenza ad attribuire anche quei trascorsi degli umili, [...] la responsabilità non agli umili stessi, ma ai potenti. (Angelandrea Zottoli, Il Manzoni e gli “umili” (Lettera a Filippo Crispolti, 1931)
Guido Piovene (1907-1974)
Guido Piovene, citato da Domenico Scarpa, in alcune pagine intensissime su Manzoni analizza con grande profondità la tremenda forza fecondatrice del male, che è un tema anche dantesco: L’alimento più ricco di cui la violenza si nutre è inoltre la viltà, la moderazione viziosa. Don Abbondio ci mostra che la viltà è il tessuto connettivo del male. [...] Un motivo costante dell’opera di Manzoni è la tremenda forza fecondatrice del male. Ogni forza malvagia irradia un’energia che estendendosi si moltiplica. I prepotenti sono rei anche perché corrompono le loro vittime, in cui istillano una necessità di vendetta, aprendo così al male un nuovo corso d’imprevedibile durata. (Guido Piovene, Qualche appunto per un saggio su Alessandro Manzoni [«appunti scritti nel 1940 e fortemente ritoccati» nel 1973) ./.
./. Su questo terreno possiamo scorgere l’unico vantaggio dell’umile corrotto che esercita la potenza (come nella folla in rivolta), sul potente cattivo, dell’ignorante posto in basso ed incolto sull’ignorante posto in alto e magari colto. La colpa (potenza e violenza) è identica per tutti, ma il colpevole che sta sopra e predica, con la parola e con l’esempio, dovrà pagare almeno in parte anche per la folla plagiata. L’istigatore al male assomma su di sé anche la colpa dei suoi succubi. La severità di Manzoni con tutti i corruttori (e vi spiccano i sobillatori del popolo) spiega le sue assillanti trepidazioni nello scrivere. (Guido Piovene, Qualche appunto per un saggio su Alessandro Manzoni [«appunti scritti nel 1940 e fortemente ritoccati» nel 1973)
La vergogna di fronte all’oltraggio ricevuto, che in qualche modo rende la vittima connivente con il carnefice, si moltiplica nella vergogna di sopravvivere alla strage. Nella Tregua Levi analizza, con Manzoni nella memoria, fuso con l’orrore dell’Inferno dantesco, la percezione della propria degradazione di fronte alla semplice, umanissima speranza di sopravvivere: Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. (P. Levi, La tregua, 1963)
In Se questo è un uomo, fin dai capitoli iniziali, Primo Levi riesce a condensare in forma artistica l’angoscia, la disperazione, l’orrore: non solo di fronte alla vita sua e degli altri accanto a lui che si spegne, ma dinanzi al rischio di diventare bestie: Il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. (P. Levi, Se questo è un uomo)
Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cos’è la Divina Commedia. […] Mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! […] Un buco nella memoria. […] Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile […]. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». […] Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. […] (P. Levi, Se questo è un uomo, 1946-1954) ./.
./. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. […] Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere qui. (P. Levi, Se questo è un uomo (1954)
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