LE CANZONI AI TESTIMONI by Tommaso "Tommy" Lorenzi rockshow.it

Pagina creata da Matteo Romano
 
CONTINUA A LEGGERE
LE CANZONI AI TESTIMONI by Tommaso “Tommy” Lorenzi
© rockshow.it

La modernità vive e si esprime, al tempo della società liquida, sotto una moltitudine di forme.
Cercare di comprendere il tutto senza perdersi nel particolare, farne un giudizio sintetico col dovuto
distacco e incanalarlo in una definizione buona per i posteri, diventa un'impresa impossibile con gli
strumenti limitati e fallibili dell'osservatore contemporaneo.
La fola novecentesca della fantasia al potere ha prodotto, conseguenza inintenzionale dei buoni
propositi, una estrema dispersione della conoscenza, un'atomizzazione delle competenze e infine il
comodo rifugio dell'individuo nel proprio inattaccabile orticello, sul quale il dominio è assoluto e
completo. La mentalità aperta al mondo intero, l'annullamento delle distanze fisiche grazie al
contatto virtuale, la tolleranza, il rispetto per ogni stile di vita, hanno trovato la loro declinazione
(definitiva?) nel sostanziale menefreghismo per ciò che accade sullo stesso pianerottolo.
Tale condizione assume una evidenza ancora maggiore nel campo della musica, che della fantasia è
massima espressione e che da sempre si nutre di contaminazioni e influenze reciproche.
Negli anni della dittatura del web, della condivisione istantanea, del marketing virale, diventa
difficile già operare una distinzione tra l'alto e il basso, con milioni di mp3 disponibili senza sforzo
con un clic, con youtube che propone un calderone lo-fi in cui saltare da Mozart a Pupo in
apparente continuità. La nona di Beethoven? Forse cercavi la nonna di Beethoven. Forse potrebbe
interessarti anche la nonna di Gigi D'Alessio, appassionata di musica classica (#sapevatelo). E
perché non la moglie, che guardacaso fa la cantante ed ha giusto un nuovo video in rotazione? Così
il cerchio si chiude e amen.
La conseguenza di questo quadro surreale è sotto gli occhi di tutti: la musica, nata per unire, oggi è
per lo più degradata a sottofondo di cui fruire in modo distratto, facendo altro. Chill-out da due
soldi mentre si riempiono i piatti di plastica in pieno happy hour o rotazione dei singoli più scaricati
per i greggi di malcapitati avventori dei centri commerciali, che differenza fa? Nei rari casi in cui
l'ascolto diventa attento, invece, la musica rinnega la propria originaria missione e si fa veicolo di
divisione. Ne sono testimonianza gli eserciti di silenti automi che popolano le nostre città armati di
Ipod e auricolari. Forse i due ragazzi che si sfiorano sul tram stanno ascoltando la stessa cosa. Non
lo sapranno mai.
Diciamo subito che questo estremo individualismo di per sé non è un male, portando alla
proliferazione dell'offerta musicale grazie anche alla diffusione sempre maggiore di tecnologia una
volta riservata solo agli addetti ai lavori. I risultati sono talvolta ragguardevoli: alcuni dischi
concepiti in una cameretta tengono testa, sul lato artistico, a costosissimi lavori usciti dalle major.
La tragedia si compie però quando c'è da fare i conti con la crisi economica in generale e con
quella della discografia in particolare. Meno soldi significa infatti meno spazio alla qualità.
E' un cane che si morde la coda: una buona fetta del mercato dei dischi sparisce a causa della
pirateria, la grande distribuzione si mangia i piccoli e appassionati negozianti, che nel vecchio
sistema fungevano non di rado da “educatori” dei loro clienti. Ne esce un bacino di utenza
fortemente ridotto e per giunta frammentato nella domanda, il che significa che, fatti due calcoli (e
l'industria musicale li fa, eccome), diventa pressoché impossibile che un artista non ancora
affermato riesca a pubblicare un'opera prima artisticamente convincente -e quindi ad alto rischio di
fallimento commerciale– ricevendo il giusto investimento per produzione, distribuzione,
promozione. I pochi che ce la fanno devono spesso sottostare ai diktat delle case discografiche che
impongono i loro musicisti, che stravolgono gli arrangiamenti e i testi, che suggeriscono (ma
talvolta sarebbe più esatto parlare di ricatto) strategie promozionali basate sulle mode del momento.
Così, anche perché i prodotti creati in laboratorio difficilmente emozionano, capita spesso che non
sia “buona la prima”, che non arrivi subito il successo commerciale sperato. In tal caso avanti un
altro, la rivincita non è prevista. Non c'è posto per gli sconfitti nel mondo dello show business.
Con tanti saluti ai nuovi De André e Battiato, tanto per citare gente che prima dei numeri vertiginosi
e dei dischi di platino ha pubblicato per anni capolavori passati del tutto inosservati, flop clamorosi
riscoperti solo in seguito dal grande pubblico.

                    www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                1
A questo punto immagino che i nostri quindici lettori si stiano domandando il perché
dell'esposizione, in questa sede, di un simile dipinto a tinte fosche.
La risposta è semplice, è spiega il perché ci si appresti a parlare con toni entusiastici del progetto
discografico descritto di seguito: la nostra tesi è che nell'Anno Domini 2012, ma a dire il vero già da
diverso tempo, il meglio della produzione musicale italiana sia racchiuso nel circuito cosiddetto
indipendente, o comunque vi abbia trovato origine prima dell'approdo a lidi più noti e danarosi.
Di questo siamo assolutamente convinti, e, si badi bene, non parliamo (solo) di artisti a vocazione
underground, di prodotti cervellotici e incomprensibili per l'ascoltatore medio di musica pop/rock.
Al contrario, nelle meritorie etichette indipendenti, che dovremmo forse definire eroiche, giacché
s'ostinano a proporre artisti veri al tempo in cui i dischi li vendono gli amici di Maria De Filippi,
incidono intere discografie o muovono i primi decisivi passi anche potenziali big assoluti della
scena musicale, cantautori paragonabili senza timori di lesa maestà ai grandi del passato, band
destinate a sicuro successo se solo fossero investite dalla benedizione di qualche illuminato e
facoltoso discografico che creda in loro e nella loro coerenza. Artisti che, in sintesi, non trovano
collocazione in ambito mainstream solo per la miopia dell'industria del disco, miopia che trova
giustificazione solo in parte nelle oggettive difficoltà esposte sopra.
Ebbene, sembrerà strano ma dopo aver (s)parlato di tali e tante nefandezze a carico delle major,
siamo qui a celebrare un progetto artistico che ha origine direttamente dalla Universal. Come dire:
non venite a contestarci, ci riserviamo il diritto di contraddirci*.
E' successo infatti che proprio su iniziativa della casa discografica, abbia preso vita “Le canzoni ai
testimoni”, album che pur recando in copertina volto e nome di Enrico Ruggeri, vede il cantautore
solo come “ospite di sé stesso”, nel senso che la sua voce appare, in un ruolo più da comprimario
che da attore protagonista, in pezzi suonati e cantati da altri.
E se le canzoni, equamente distribuite tra grandi successi e semisconosciute perle nascoste nei
meandri di una discografia sterminata, sono tutte di Enrico, chi sono i “testimoni”? E cosa hanno a
che fare coi pezzi che hanno scelto di interpretare in questo strano autotributo?
Si tratta solo per metà di artisti che gravitano nell'orbita Universal, ma sia nel loro caso che negli
altri i trascorsi -o il presente- sono saldamente legati alle etichette indipendenti, fucine infinite di
talenti veri.
Vediamo di scoprirli nel dettaglio, assieme ai brani interpretati, scorrendo la tracklist.
L'album si apre con la rivisitazione di uno dei pezzi più noti nella storia di Enrico, “Polvere”, e la
firma è quella di Fluon. E' questo il nome dell'ultima incarnazione di uno dei personaggi più
multiformi della musica italiana degli ultimi vent'anni, l'ex Bluvertigo Andy, artista a tutto tondo
(oltre che musicista è deejay, pittore, designer). Su quanto i Bluvertigo, dei quali Andy è stato forse
più di Morgan l'ispiratore autentico, abbiano contribuito alla rinascita di un genere elettronico che a
distanza di anni è vitale come non mai anche in Italia, è inutile dilungarsi: diciamo solo che Fluon
porta in questa versione di “Polvere” tutto il suo amore per un epoca e uno stile, quello che potremo
definire depechemodiano, che sta alla base di gran parte dell'ondata electropop contemporanea. Il
risultato entusiasma, rendendo ancora più attuale un pezzo che già nella versione originale non
dimostra affatto i suoi quasi trent'anni. E infatti risuona spesso, accanto a canzoni ben più recenti,
sulle consolle dei DJ meno modaioli e più esperti.
E' poi il turno di Dente, cantautore che qualcuno ha definito tempo addietro “il De Gregori senza
barba”. Se la seconda parte della definizione suona già sorpassata, essendo nel frattempo il Nostro
fattosi anch'egli barbuto, quella che più vale è la prima. Da parte nostra rincariamo la dose,
avvalorando anche la tesi di chi lo accosta nientemeno che a Lucio Battisti. E prima che ci accusiate
di eresia, suggeriamo sommessamente l'ascolto degli ultimi suoi dischi, “L'amore non è bello”
(2009) e “Io tra di noi” (2011), in cui scoprirete un ottimo esempio di cosa il termine cantautore stia
a significare al giorno d'oggi: una poetica meno aulica, meno slegata di un tempo dalla quotidianità,
unita a una capacità innata nel rivestire il dolore di ironia (questa l'ho già sentita...) e aggiungere
tratti malinconici a una felicità precaria come le nuove generazioni. Il fatto che nel disco egli
interpreti “Pernod”, insomma, non stupisce per niente. Al contrario, la storia di decadente
disperazione tratteggiata dai Decibel pare ritagliata apposta su di lui, e già prevedo che molti che

                    www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                2
non conoscono l'originale la prenderanno proprio per farina del suo sacco. Se succederà, visto
quanto detto finora, crediamo possano esserne orgogliosi sia il giovane Dente sia lo stesso Enrico,
che al tempo in cui l'ha scritta era davvero un ragazzino.
Di “Tenax”, singolo lanciato con consistente anticipo rispetto all'album, si è già parlato molto, ma
vale la pena ripetersi: siamo molto contenti che Enrico abbia ripescato, facendolo suo, uno degli
inni dell'italo disco, genere tanto sottovalutato al tempo quanto sdoganato negli ultimi anni. Allo
stesso modo siamo felici che a interpretarlo insieme a lui ci siano i Serpenti, un duo electrodance
davvero notevole. Per saperne di più su di loro rimandiamo all'intervista di Rock Show: buona
lettura.
Trascinati dall'ondata danzereccia in salsa latina (intesa come lingua degli antichi romani: tranquilli,
“ai se eu te pego” non c'entra nulla) approdiamo alla traccia successiva, quella “Eroi solitari” a
lungo discussa al tempo della pubblicazione in quanto accusata nientemeno che di revisionismo
storico, per aver dato voce agli sconfitti che secondo la vulgata corrente dovrebbero accontentarsi di
leggere sé stessi e i loro drammi sui libri scritti dagli altri. Chissà se risentendola in questa versione
reggae/dub realizzata dagli Africa Unite qualcuno si ricrederà, e smetterà per un attimo di vedere la
realtà attraverso le lenti deformanti dell'ideologia che divide i buoni dai cattivi. Di certo Bunna,
Madaski e c., voci preminenti del loro genere in Italia, hanno fatto del loro meglio, rivisitando
radicalmente una canzone che meritava di essere riscoperta.
Si arriva così ai due brani forse più noti al grande pubblico, quelli che non possono mancare in
nessun concerto di Enrico Ruggeri perché la loro assenza causerebbe rivolte popolari in grado di far
impallidire il movimento dei forconi. Diciamolo: “Quello che le donne non dicono” e “Il mare
d'inverno”, croce e delizia dei fan abbonati ai tour ruggeriani, le abbiamo ascoltate in ogni salsa,
dalla voce di centinaia di interpreti più o meno presentabili. Non era quindi per niente facile il
compito di chi, con un atto di assoluto coraggio, ha deciso di riproporle su questo album.
Eppure, a conti fatti, entrambi hanno vinto la scommessa: L'Aura con una versione dolcissima e
sognante del classico interpretato in origine da Fiorella Mannoia, Boosta con la rilettura in chiave
elettronica del capolavoro pop lanciato da Loredana Bertè.
La cantante bresciana è ancora molto giovane: era infatti poco più che ventenne ai tempi di quella
“Radio Star che la vide esordire nel 2005. Ciononostante, riteniamo sia tra le voci più significative
nella nuova generazione del pop/rock, e lo dimostra qui dando prova di grande personalità. Riesce
infatti a fare propria, con una inedita versione priva di orpelli e furbate in cui risalta solo la sua
bellissima voce, una canzone sulla quale si cimentano quotidianamente moltissime sue colleghe , e
lo fa scongiurando quel fastidioso effetto karaoke (la definizione, azzeccatissima, è dello stesso
Rouge) che talvolta sembra di intravedere nelle varie versioni in cui “Quello che le donne non
dicono” è proposta.
Boosta è tastierista e anima meno commerciale dei Subsonica, sui quali mi pare superfluo spendere
parole: si tratta semplicemente della più importante band italiana degli ultimi anni. Alle prese con
“Il mare d'inverno” ne coglie alla perfezione l'essenza algida, e lo fa rivestendola di suggestioni
new wave, con spruzzi minimal che ricordano Murcof e vaghi sentori di Battiato nel ritornello. Più
“vera” dell'originale.
Altrettanto fanno quei ragazzacci dei Linea 77, trasformando “Tanti auguri” da originale sintesi tra
new wave e cabaret berlinese qual era, a urlato inno hardcore, e mantenendone inalterata la carica
ironica con cui è affrontato il disagio esistenziale giovanile. La band, che non si può certo definire
“emergente” visto che festeggerà presto il ventennale di attività, è un'autorità nel genere nu-metal,
la risposta italiana a mostri sacri del calibro dei Rage Against The Machine: chissà cosa diranno
certi suoi fan di questa collaborazione con un artista così fuori dal loro mondo, dopo l'inferno che
scatenarono ai tempi del duetto con la popstar Tiziano Ferro (ebbene sì, certi ignoranti che rifiutano
di guardare fuori dalle pareti della loro casa non esistono solo tra gli ascoltatori di musica
mainstream): siamo davvero curiosi di saperlo. Ma anche no.
Curiosità certamente più reale ce l'ha destata la notizia che anche Andrea Mirò sarebbe stata della
partita in questo atteso album, non tanto per il duetto in sé -certamente tutto fuorché inedito,
considerato che la relazione artistica tra lei ed Enrico ha ormai raggiunto il diciottesimo anno-

                     www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                 3
quanto piuttosto per la scelta del pezzo. Crediamo infatti che “Quando sogno non ho età”, geniale
nelle intuizioni ed emozionante nella poetica, possa di buon grado ambire alla top ten dei pezzi più
ispirati di sempre nella sconfinata discografia del Rouge, e ci faceva ben sperare il fatto che a tirarla
fuori da un ingiusto oblio fosse proprio questa straordinaria musicista capace di toccare, senza
trucco e senza inganno (ogni riferimento a colleghe dedite al virtuosismo esasperato è puramente
voluto) le corde dell'anima dell'ascoltatore. Pur carichi di aspettative, non siamo certo rimasti
delusi: la rilettura del pezzo, prologo che richiama per certi versi i Velvet Underground e
prosecuzione sullo stile di un cantautorato femminile di stampo indie molto attuale, si fa notare
come uno dei capitoli più convincenti del disco, rendendo giustizia a un gran testo e confermando
l'opinione su Andrea, artista dallo stile unico nel panorama italiano.
Proseguiamo così verso il pezzo forse più particolare dell'album, un pezzo destinato a far discutere i
fan duri e puri di Enrico Ruggeri. Parlo della reinterpretazione della storica “Contessa” ad opera di
una delle band più promettenti della scena indipendente italiana, quei Marta sui Tubi che vedono
accrescere, album dopo album, un seguito di pubblico quasi anomalo per la complessità dei lavori
che propongono. La loro musica, difficile da definire se non con un asettico “rock alternativo”, è un
folle mix di generi e stili senza niente di scontato. Sfoggiano una invidiabile tecnica pur senza
ricorrere al tecnicismo masturbatorio, non cedono alle mode e possiedono una indubbia attitudine
punk. Aggiungiamo un bravissimo cantante che in certe interpretazioni ricorda perfino un mito del
calibro di Demetrio Stratos e forse il loro successo ci stupirà un po' meno. Qui alle prese col
classico dei Decibel, lo destrutturano e lo ricompongono da par loro, trasformandolo davvero in una
canzone del tutto diversa dall'originale, eppure assai godibile. Perfetta la partecipazione dello stesso
Ruggeri, molto a sua agio in un ambito così poco frequentato come quello similfolk su cui si muove
la canzone.
Assai più fedele all'originale, pur se irruvidita nell'arrangiamento, è invece “Prima del temporale”,
qui proposta in veste di ballata rock dai The Fire del cantante Olly, noto a un pubblico non
trascurabile per esser stato, in passato, frontman e leader del gruppo punk Shandon. Chi lo segue fin
da quei tempi saprà che le sonorità dei The Fire si allontanano da quelle ska degli Shandon per
volgere sull'hard rock, con un sorprendente respiro internazionale. La loro prova da “testimoni”
dimostra che il talento non manca, e l'insolito cantato in lingua italiana lascia intravedere per il
gruppo un futuro da profeti in patria.
Un destino similare potrebbe toccare ai successivi artisti che compaiono nell'album, quei Vanilla
Sky che con il loro power pop un po' in debito con gli anni novanta, tengono alta anch'essi in giro
per l'Europa la bandiera di una musica italiana che non sia solo quella neomelodica per la quale tutti
ci amano e un po' ci sfottono. Per chi non li conosce: si tratta della band che un paio di anni fa ha
spopolato con la versione punk rock del successo di Rihanna, “Umbrella”. In effetti suona evidente,
ascoltando la loro produzione, quanto questa sia ispirata dall'opera di band quali Gree Day ed
Offspring. Insomma, il titolo del loro ultimo EP, “Punk is dead”, è quantomeno fuorviante. Al
contrario quello stile, quell'attitudine, i Vanilla Sky li rivendicano apertamente, e infatti per “Le
canzoni ai testimoni” hanno scelto un pezzo emblematico: “Punk (prima di te)”, di cui
propongono una versione fortemente rimodellata sulle loro corde. Esperimento riuscito: la canzone
rinasce a nuova vita, e suona credibile nonostante il concetto stesso di punk sia totalmente mutato
nel corso dei decenni, e possa sembrare un po' strano sentir parlare di anni di piombo chi, come la
generazione dei venti/trentenni, li ha vissuti solo raccontati dalle immagini di repertorio.
Lo scenario cambia totalmente con la successiva “Rien ne va plus”, con la quale si abbandonano i
terreni sporchi del rock'n'roll per tornare sulla dimensione cantautorale, più congeniale all'artista
che l'ha scelta. Alla cabina di comando assieme al Rouge c'è infatti un nome ingiustamente poco
noto al grande pubblico, un nome che meriterebbe ben altri palcoscenici. Ecco cosa scrive di lui uno
dei più profondi conoscitori della musica contemporanea, il deejay e conduttore radiofonico Alessio
Bertallot: “Diego Mancino è uno degli autori italiani più validi e forse più misconosciuti di questi
ultimi tempi. Non è comune sapere scrivere delle canzoni, e non semplicemente applicare delle
formule. Se ne stanno accorgendo in molti, dai musicisti di cultura hip hop (Fabri Fibra, DJ Myke,
con i quali ha collaborato) agli appassionati di musica alla ricerca di qualcosa di spontaneo e

                     www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                4
originale”. E se il lusinghiero giudizio di Bertallot è sulle doti di Mancino in veste di autore, la
rilettura del brano premiato dalla critica a Sanremo '86 dimostra come anche come interprete egli
non sfiguri affatto, sicuramente aiutato dalla splendida base elettronica elaborata da Marco
Zangirolami e dallo stesso DJ Myke. Brividi di velluto.
Ma sono gli ultimi, perché per il gran finale del disco si torna al rock duro.
La storia è questa: con la prossima edizione saranno sessantadue anni che “la radio ci pugnala con il
festival dei fiori”, per usare le parole di un altro grande cantautore da troppo tempo assente dalle
scene. Ne abbiamo viste di tutti i colori a Sanremo, ma a tutt'oggi l'unico artista che sia riuscito a
sbancare il festival con un pezzo rock è proprio Enrico Ruggeri. Era il '93, e la canzone è
ovviamente “Mistero”, qui riproposta insieme non a una band qualsiasi, ma a quell'ambizioso
progetto musicale chiamato Rezophonic. E' questo il nome del cantiere fondato dal batterista Mario
Riso a scopo benefico, al quale molti cantanti e musicisti tra i più noti del rock italiano hanno
prestato negli anni il proprio contributo, interpretando canzoni scritte per lo più dallo stesso Riso.
Così per dire, almeno metà degli artisti coinvolti ne “Le canzoni ai testimoni” ne ha fatto parte in
almeno un'occasione. Non si tratta però, come spesso capita quando si parla di beneficenza, di
dozzinali collaborazioni senza alcun valore artistico: i dischi e i concerti col marchio Rezophonic
sono garanzia di assoluta qualità. Lo dimostra la già citata “Mistero” (e, nella versione Itunes,
l'altrettanto nota “Peter Pan”) proposta qui in una veste ancor più tirata dell'originale, nella quale
risaltano le voci del leader dei Deasonika Max Zanotti, del notevole vocalist Roberto Tiranti (ex
New Trolls, attuale frontman dei metallari Labirynth), dell'ex Vanadium e attuale volto simbolo di
Rock TV Pino Scotto, e della bravissima Cristina Scabbia, indiscussa regina del metal italico coi
suoi Lacuna Coil. Una colossale ubriacatura musicale dalla quale ci si riprende solo all'ultima nota,
con la quale lo scenario cambia nuovamente. L'atmosfera si fa cupa, ansiogena. Si ode qualche nota
di chitarra, il sottofondo di un hammond. Sembra la colonna sonora di un film che racconta scenari
post-atomici, di quelli che andavano forte ai tempi della guerra fredda. E' in realtà l'inizio del
racconto visionario scritto da un Ruggeri ventenne, che prefigurava un mondo dominato dai media,
in cui “ciò che dice la tv per tutti ormai è legge” (giudichi il lettore quanto lungimirante fosse quello
sguardo sul mondo). Sul banco dei testimoni questa volta siede Bugo, certamente uno dei
personaggi più controversi della musica italiana degli ultimi anni, capace di dividere gli ascoltatori
tra chi lo ama alla follia e chi lo ritiene inascoltabile. Gettiamo la maschera e dichiariamo subito che
facciamo parte del primo gruppo fin dai suoi primi lavori da rocker ruspante, esempio lampante di
quanto la scarsità di mezzi possa essere irrilevante se si hanno idee da raccontare e si sa scegliere la
forma migliore, passando per gli esordi iconoclasti nel mondo mainstream (memorabile il
titolo/calembour del suo primo album alla Universal, “Dal lofai al cisei”), fino all'ultimo recente
capitolo, quel “Nuovi rimedi per la miopia” che lo vede svoltare verso un genere più definito, un
pop d'autore che abbandona il nonsense per testi compiuti e in certi casi profondi. Ebbene, questa
traccia sembra riprendere da lì, dove avevamo lasciato il Bugatti a descrivere la “città cadavere”,
vendetta di Dio sugli uomini. Che bello il lavaggio del cervello!, grida la voce ribelle di Bugo
mentre trasfigura letteralmente questa canzone, facendone una suite di nove minuti che scorrono via
tutti d'un fiato. Per il progetto “Le canzoni ai testimoni” non poteva esserci conclusione migliore.
Tutto finito dunque? Neanche per sogno, giacché l'edizione dell'LP in download digitale vede
l'aggiunta di un ulteriore pezzo: si tratta di “Señorita”, tratta dal disco di esordio solista del Rouge,
qui rivista e corretta da una band giovanissima quanto promettente come i Bankrobber. Si tratta di
un gruppo che con Ruggeri ha già collaborato in diverse occasioni. Enrico sembra stravedere per
loro, e ne ha diverse ragioni: il loro pop/rock molto londinese eppure cantato in italiano (per giunta
con testi ben scritti) li rende una piacevole novità nel nostro panorama. Forse troppo chiaramente
debitori di un certo genere e di certi numi (a partire dal nome della band, citazione di un singolo dei
Clash), ma del resto non è questo il filo che unisce tutto il rock? Sarebbero potuti esistere giovani da
n.1 nelle chart inglesi come i White Lies senza i Joy Division? E i Joy Division sarebbero mai nati
senza David Bowie? Domande retoriche, risposte scontate. Si vive di influenze e agli inizi perfino
di qualche piccola scopiazzatura, l'importante è che il risultato sia fresco e porti qualcosa di nuovo.
I Bankrobber lo fanno, ascoltare per credere questa “Señorita”, forse il pezzo più radiofonico

                     www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                5
dell'intero album.

A questo punto, giunti alla conclusione del nostro viaggio, una seria recensione prevederebbe un
giudizio equanime sulla riuscita dell'intero progetto, sui capitoli più entusiasmanti e su quelli da
dimenticare. Una seria recensione, appunto. Si da il caso, invece, che queste righe siano altro, e
nell'ordine: l'omaggio a un grande artista che sulla soglia dei 35 anni di carriera riesce ancora a
stupire per la poliedricità, la curiosità e la molteplicità di idee e di progetti; la gratitudine, da parte
attenti ascoltatori di musica alternativa, verso chi ha deciso di puntare su quella scena i riflettori,
abbattendo gli steccati e vedendo ancora una volta più lontano degli altri; la speranza che altri fan si
avvicinino a quel mondo, infinitamente più compatibile con la storia del Rouge di quanto non lo sia
l'intera galleria del melenso pop italiano. Per questo eviteremo di distribuire pagelle e valutazioni
che sarebbero qui inutili e fuori contesto. Il forum di Rock Show esiste per questo, e se in quella
sede come in altre (siti specializzati, blog più o meno indipendenti) la discussione sarà ampia e
partecipata e permetterà a qualcuno di aprire i propri orizzonti anche a generi e artisti differenti,
sarà stato compiuto un primo passo verso lo scopo più importante di un gran bel disco come “Le
canzoni ai testimoni”.

Solo una piccola postilla:
come ha scritto qualche recensore dalla memoria lunga, l'idea dell'autotributo non è del tutto nuova,
ma richiama alla memoria un disco che in qualche modo ha segnato un'epoca. Correva infatti l'anno
1997 quando Antonella Ruggiero pubblicava (provate a indovinare sotto quale produzione?) quel
“Registrazioni moderne” che la vedeva duettare con giovani promettenti del panorama musicale
italico nell'interpretazione di brani storici dei Matia Bazar più sperimentali. Ebbene, forse non tutti
ricorderanno quel disco, ma certo chiunque potrà notare, scorrendo i nomi coinvolti, che molti di
quei giovani di allora sono entrati prepotentemente nella storia della musica italiana. Alcuni li
abbiamo ritrovati anche in “Le canzoni ai testimoni”, ed avere la riprova che gente come Andy,
Boosta e Madaski non hanno arretrato di un passo, ma nonostante il successo commerciale
continuano a proporre musica di assoluta qualità con la coerenza che solo i veri artisti sanno
dimostrare, semplicemente non ha prezzo.
La discografia “dove vendono la simpatia, dove sporcano e distruggono pezzi di fantasia”, sarà pure
in crisi, ma la musica è destinata inesorabilmente a rinascere dalle proprie ceneri, moderna fenice al
centro delle nostre vite sempre più caotiche e squattrinate. Anche grazie a progetti lungimiranti e
entusiasmanti come quello di cui abbiamo avuto il piacere di parlare.

*E qui, cari lettori, se non sentite un senso di deja-vu avete bisogno di un bel ripasso ruggeriano,
ma del resto siete capitati sul sito giusto.

© rockshow.it

                     www.rockshow.it - Webzine Ufficiale Enrico Ruggeri                                  6
Puoi anche leggere