Vaticano, 23 luglio 2018 - Presentazione della "Positio super virtutibus" del Servo di Dio Ignazio Stuchlý

Pagina creata da Giulio Berti
 
CONTINUA A LEGGERE
Vaticano, 23 luglio 2018 - Presentazione della "Positio super virtutibus" del Servo di Dio Ignazio Stuchlý
Vaticano, 23 luglio 2018 –
Presentazione della “Positio
super virtutibus” del Servo
di Dio Ignazio Stuchlý
(AgenziaNotizieSalesiane – Città del Vaticano) – Il 20 luglio
nel corso della visita che il Rettor Maggiore, Don Ángel
Fernández Artime, accompagnato da don Pierluigi Cameroni,
Postulatore Generale, e della Dott.ssa Lodovica Maria Zanet,
collaboratrice della Postulazione, ha fatto al Cardinale
Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei
Santi, è stato presentato il volume della Positio super Vita,
Virtutibus et Fama Sanctitatis del Servo di Dio Ignazio
Stuchlý, Sacerdote Professo della Società di San Francesco di
Sales.

La Positio ha avuto come relatore padre Zdzisław Kijas, OFM
Conv., come Postulatore don Pierluigi Cameroni e come
Collaboratori la dott.ssa Lodovica Maria Zanet, Don Jan Ihnát,
SDB e don Petr Zelinka, SDB. Elementi strutturali della
“Positio” – che presenta in modo articolato ed approfondito
tutto l’apparato probatorio documentale e testificale
riguardante la vita virtuosa del Servo di Dio – sono: una
breve presentazione da parte del Relatore; l’Informatio super
virtutibus, ossia la parte teologica nella quale viene
dimostrata la vita virtuosa del Servo di Dio; i
due Summarium con le prove testificali e documentali;
la Biographia ex Documentis. Dopo la consegna, la Positio sarà
anzitutto esaminata dai Consultori storici della Congregazione
delle Cause dei Santi.

Il Servo di Dio don Ignazio Stuchlý nasce a Bolesław, nell’ex
Slesia prussiana, il 14 dicembre 1869, in una numerosa
famiglia di contadini. Giovane uomo tenace nell’impegno e
Vaticano, 23 luglio 2018 - Presentazione della "Positio super virtutibus" del Servo di Dio Ignazio Stuchlý
fermo nella speranza, viene accettato tra i Salesiani nel
1894. Arriva a Torino l’8 settembre, e vive le tappe di
formazione a Valsalice e Ivrea: si forma a contatto con i
grandi Salesiani della prima generazione. Inizialmente
destinato alle missioni, per ordine di don Rua il Servo di Dio
resta in Italia, e si prepara a supportare la crescita delle
opere salesiane nelle aree slave. È allora a Gorizia
(1897-1910); quindi in Slovenia, tra Ljubljana e Verzej, fino
al 1924; poi, dal 1925 al 1927, è a Perosa Argentina, dove
forma le nuove leve per innestare la Congregazione salesiana
“al Nord”. Nel 1927 ritorna in patria, a Fryšták, e anche lì
ricopre incarichi di governo, compreso l’ispettorato, dal
1935. Dopo le conseguenze a più ampio raggio della Guerra
Balcanica e la Prima Guerra Mondiale, affronta sia la Seconda
Guerra Mondiale sia il dilagare del totalitarismo comunista:
in entrambi i casi, le opere salesiane vengono requisite, i
confratelli arruolati o dispersi, ed egli vede d’un tratto
distrutta l’opera cui aveva consacrato la vita. Quaranta
giorni prima della fatidica “Notte dei barbari”, nel marzo
1950, è colpito da apoplessia: la vivissima stima che egli
sempre aveva suscitato nei superiori, e la sua grande capacità
di amare e farsi amare, fioriscono allora più che mai in fama
di santità. Si spegne serenamente nella sera del 17 gennaio
1953. Economo, prefetto, vice-direttore, direttore, ispettore,
il Servo di Dio aveva ricoperto, per ampia parte della vita,
ruoli di responsabilità. Un po’ come il beato don Rua, da lui
preso ad esempio, era considerato “regola vivente”, testimone
efficace dello spirito di don Bosco e capace di trasmetterlo
alle generazioni successive.

Uomo che ha vissuto in molte e diverse realtà geografiche,
linguistiche e culturali (come le odierne Moravia, Boemia,
Slovacchia, Polonia, Slovenia, Italia), anche in terre di
confine, il Servo di Dio si propone oggi come uomo di pace,
unità e riconciliazione tra i popoli.
Vaticano, 23 luglio 2018 - Presentazione della "Positio super virtutibus" del Servo di Dio Ignazio Stuchlý
Fonte: http://www.infoans.org/index.php?option=com_k2&view=ite
m&id=5969:vaticano-presentazione-della-positio-super-
virtutibus-del-servo-di-dio-ignazio-
stuchly&Itemid=1680&lang=itSONS

Anna Kolesarova e Teresa
Bracco, due beate ispirate
dalla santità di Domenico
Savio
(AgenziaNotizieSalesiane – Roma) – Anna Kolesarova è stata
beatificata sabato 1° settembre in Slovacchia, nello stadio
Lokomotíva di Košice, dal cardinal Giovanni Angelo Becciu, neo
prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in
rappresentanza del Santo Padre. Teresa Bracco fu beatificata
vent’anni fa da Giovanni Paolo II. Queste due donne hanno in
comune, oltre la giovanissima età in cui sono morte, la
devozione verso san Domenico Savio, che ispirò la loro vita.

Anna, o Anka come la chiamavano i suoi cari, era nata nel
villaggio di Vysoka nad Uhom, nella Slovacchia dell’Est, in
una famiglia profondamente religiosa che la fece battezzare il
giorno dopo la nascita. Poi, all’età di dieci anni ricevette
l’Eucaristia e confermò successivamente la sua fede con la
Cresima.
Vaticano, 23 luglio 2018 - Presentazione della "Positio super virtutibus" del Servo di Dio Ignazio Stuchlý
La sua vita procedeva tranquilla fin quando, con l’avanzata
del fronte sovietico, l’armata russa occupò il suo villaggio.
Durante un raid dell’Armata Rossa, il 22 novembre 1944, Anka e
i suoi si nascosero, ma un soldato li scoprì e, nonostante i
tentativi del padre di rabbonirlo, lui iniziò a
fare avances alla giovane. Lei oppose resistenza, per
difendere la sua castità. La reazione del soldato fu la più
terribile: la uccise davanti ai suoi familiari.

A causa della difficile situazione, i suoi parenti dovettero
celebrare il rito funebre in segreto e solo dopo la caduta del
regime si tornò a parlare di questa eroica ragazza, morta per
difendere la sua purezza. I giovani iniziarono allora ad
andare nel cimitero del villaggio e a pregare sulla sua tomba,
dove è inciso il motto di Domenico Savio: “La morte, ma non i
peccati”.

Lo stesso motto ispirò tutta la vita di un’altra giovanissima
Beata, Teresa Bracco. Nata a Santa Giulia, oggi frazione di
Dego, in provincia di Savona, era cresciuta in una famiglia
profondamente religiosa e fin da piccola mostrò una singolare
inclinazione alla pietà. Nel 1931 ricevette la Comunione e due
anni dopo la Cresima. La sua vita spirituale cresceva di
giorno in giorno. Fu molto colpita da un’immagine di Domenico
Savio recante il suo famoso motto “La morte, ma non peccati”,
così la collocò in capo al letto e ne fece il programma della
sua vita.

La sua vita fu sconvolta nell’agosto del 1944, quando le
truppe naziste occuparono il suo paese. Durante la fuga venne
catturata da un soldato che provò ad abusare di lei. Lei lottò
coraggiosamente per difendere la sua castità e questo le costò
la vita. Il soldato la uccise con un colpo di pistola.

Anna e Teresa hanno difeso la propria purezza a costo della
vita, tenendo fede fino alla fine al motto di Domenico Savio
“La morte, ma non i peccati”, che aveva ispirato tutta la loro
esistenza.
Fonte: http://www.infoans.org/sezioni/notizie/item/6303-rmg-an
na-kolesarova-e-teresa-bracco-due-beate-ispirate-dalla-
santita-di-domenico-savio

Spunti   sulle  Letture   di
domenica 16 settembre 2018
   1. «Chi dice la gente che io sia?» Gesù non cerca una
      risposta grandiosa per essere applaudito, Lui sa chi è
      veramente. Ma è pronto a sorprendere i suoi discepoli.
   2. «E voi chi dite che io sia?» Adesso il Signore si
      rivolge agli apostoli, come a noi. Ci chiede di prendere
      una posizione personale, di fare una scelta tra Lui e le
      molte ipotesi, coloro che allettano ma poi deludono…
   3. «Il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere
      riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli
      scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni,
      risuscitare». Il cuore del messaggio cristiano. Già
      dall’inizio viene incompreso e rifiutato perfino dai più
      vicini.
   4. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi
      perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la
      salverà». Quanti modi di fuggire o di perdere la vita
      per Cristo…
   5. Isaia: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto
      confuso».
   6. Salmo 116: «Il Signore protegge gli umili: ero misero ed
      egli mi ha salvato».
7. San Giacomo: «Così anche la fede: se non ha le opere, è
      morta in se stessa».

Alessandro D’Avenia. Letti da
rifare 25. A testa alta
«Perché lo avete ucciso?», chiede il magistrato. «Perché si
portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde
il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del
Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva
sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a
scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare
il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il
Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato
in classe. Capo d’accusa: far giocare e studiare, con l’aiuto
volontario dei ragazzi di cui era professore di religione,
bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su
quella strada comandava. Troppo poco?

3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di
Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce
verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un
rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove,
perché l’inferno poteva essere girato l’angolo. A cosa serviva
la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che
avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il
quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da
bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio,
gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice
quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso
il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita
diversa da quella del «picciotto mafioso». La mafia alleva il
suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e
assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che
riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da
cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo,
ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché
la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono
connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e
non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per
aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi
potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si
batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del
suo omicidio era andato per l’ennesima volta nei sordi uffici
del Comune a sollecitare i permessi per la scuola, inaugurata
solo 7 anni dopo la sua morte.

Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di
insegnare religione. Proprio quell’estate, forse temendo
qualcosa, aveva chiesto una diminuzione d’orario, ma il
preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a
non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche
se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava
combattendo silenziosamente. La sua pace veniva dall’unione
con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché
riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia
del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere
dei meravigliosi mosaici del duomo di Monreale. Per questo
decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da
dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto
alle persone, calpestando le loro strade e dando loro
nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepissero la
possibilità di un’altra «strada». Per questo lo fecero fuori,
erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento
del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso,
tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno
prima. «Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini,
non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più
bella, sicuramente meno facile, ma costruttiva, libera, vera.
Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro,
apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come
i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.

Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di
tenebra e luce nel romanzo «Ciò che inferno non è», perché ha
determinato il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho
sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non
volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l’ennesima,
archeologica, commemorazione di una delle tante ferite della
mia città, recuperata per l’occasione nelle soffitte della
retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso
raggiungeva cuore e membra come una trasfusione. E così se il
professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei
voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»:
impegnarsi per ogni vita, anche quando c’è poco da sperare o
attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride.
Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli
alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene
comodi e la speranza la principale attività della testa, del
cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può
essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo
umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare
la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera
altezza: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». Per
questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per
trasformare il loro desiderio di vita attraverso la morte,
come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la
vita, come mostrava lui.

A lui mi ispiro per il mio lavoro. L’uomo che sono diventato
lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapevole, ingenuo,
egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella
vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma
doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell’uomo
minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma
gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell’uomo.
L’ho constatato incontrando i ragazzi che operano oggi al
Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano.
Studenti delle superiori o universitari si impegnano per i
bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni
maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con
lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se
stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo
se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con
quell’uomo. Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva
forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta
pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe.
Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo,
mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza
intelligente, abbastanza creativa, abbastanza bella… Non ho
trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci
quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma
insoddisfatti della propria condizione e convinti
dell’inferiorità delle nuove generazioni. Ho avuto insegnanti
che non leggevano una poesia “perché tanto non capireste”.
Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi
avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di
letteratura. Cercavo chi mi avrebbe abbracciato anche da
epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagnato nei
tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo,
gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare
maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta
elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano
successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che
non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le
persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo
sono già: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da
vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino «alibi»
vuol dire letteralmente essere «altrove») in un quartiere
difficilissimo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani
contro ogni speranza. Ha amato lì dov’era, con lui nessuno era
«sbagliato».
La più bella definizione di maestro che io conosca si trova
nell’incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al
defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or
m’accora,/la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel
mondo ad ora ad ora/m’insegnavate come l’uom s’etterna».
Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la
vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a
ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario
scolastico, gli insegnava «come l’uom s’etterna», parole che
indicano l’immortalità dell’anima, ma in senso più ampio, la
ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si
rovina, ma sempre si rinnova, all’altezza del desiderio umano.
Brunetto si rammarica: «figliuolo mio… s’io non fossi sì per
tempo morto… dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe
voluto continuare a prestare servizio, come si dice con
lampante verità anche in burocratese scolastico, alla vita
dell’allievo. Maestro è chi riconosce «l’opera» che l’altro
deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre
che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna,
vera, felice. L’uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16
anni, una lezione che non dimenticherò, ed è la lezione che ha
reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano
dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a
testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno
essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai.
Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me.

Fonte: Corriere della Sera, 10 settembre 2018

Mariateresa Zattoni. “Ritorno
a casa. La nascita di una
coscienza”
Storia del cammino verso la ‘guarigione’              di   una
tossicodipendente morta a 26 anni per AIDS

È l’autunno ’89. Sono passati otto lunghi anni dal primo buco,
la morte per AIDS è alle porte e per la prima volta Salina mi
guarda con aria stupefatta ed infinitamente triste, dicendomi:
«Mariateresa, ho contagiato altri, mi vendevo e non dicevo
niente . . Tanto non me ne fregava assolutamente niente. Ma
l’ultimo, un tizio di P .. . , si è sposato un mese fa. Devo
andarglielo a dire»?
La domanda è per me come il grido del neonato che si sveglia
alla vita del mondo e per la prima volta respira in proprio.
Circa nove mesi prima di morire, finalmente e definitivamente,
Salina si sveglia alla coscienza e vi sta aggrappata guardando
in faccia alla morte …
«In quasi cinque anni che so di essere sieropositiva, non mi
era mai successo di considerare l’AIDS come una possibilità
concreta ed invece quella notte ho saputo cosa significa aver
paura che rimanga poco tempo. Ho scritto una lettera a Redento
riguardo a questo, poi non ne ho più parlato ed anche la paura
è sfumata: ma non è stato come se l’avessi accantonata, si
è piuttosto trasformata in una piena coscienza di me». Dal
Diario che pubblichiamo in appendice, p. l

Altri spunti per la Santa
Messa di domenica 9 settembre
Sordità autentica: peccato che impedisce di rendersi docili
alla voce di Dio e dei fratelli.

Pericolo:

     che si diffonda la sordità, che si battezzi il “fanno
     tutti così”.
     Cadere nell’abitudinarismo.
     Comodità.
     Annunziare se stessi più che Gesù Cristo.
     Paura che trattengono dall’annuncio, di non essere
     all’altezza, di far brutta figura, che gli altri non
     capiscano.
     Correre tanto, ma non annunciare con umiltà e verità.

Intervento di Gesù: sembra un po’ complicato, ma al centro sta
l’emettere lo Spirito! (gesto trinitario)

Come far entrare lo Spirito Santo in ogni istante della nostra
giornata?

     Lui è semplice.
     Noi, invece, complicati a causa del peccato.
     Eseguendo bene, in serenità, con gioia anche nei momenti
     di sconforto il proprio dovere.
     Elevando spesso, più spesso possibile il pensiero a Dio
     (giaculatorie, frecce)
     Trovando dei momenti, specialmente al mattino e alla
     sera espliciti per il Signore: non parlano di come
     vivere la nostra giornata, ma di “perché” affrontarla.
     Nei momenti di sconforto, non scappare, ma rimanere con
     la serenità e la fiducia di chi sa di essere figlio
     amato: “Non temere”.

Mons. Luigi Negri:                              ci si
purifica   se   si                                vive
l’annunzio
Lo scandalo degli scandali è che la Chiesa non parla più di
Gesù Cristo.

Non si può negare che ci sia una situazione di vero scandalo,
nel senso che la manifestazione dell’immoralità è diventata
così ovvia e naturale, che il popolo vive una situazione
permanente di scandalo. Ed è come se la Chiesa fosse tutta
concentrata a parlare di questi scandali, a cercare di
chiarirli, di dettagliare. C’è un incredibile dettaglio del
male che porta però a una reale alterazione della situazione
della Chiesa. Gli scandali della pedofilia, della immoralità
del clero, dell’evidentissima presenza nel tessuto della
Chiesa di forme di pressione omosessuale sono davanti agli
occhi di tutti; però lo scandalo degli scandali è che la
Chiesa non parla più di Gesù Cristo.

La Chiesa finisce per ridursi a formulare una serie di
interventi corretti politicamente, in cui è evidente che non
si propone più l’immagine di Gesù Cristo, non si pone più
quella presenza inquietante e insieme confortante che la
Chiesa deve vivere e comunicare agli uomini di ogni
generazione.

Il sospetto è che questa attenzione spropositata a situazioni
certamente gravi dal punto di vista morale, finiscano per
impedire alla Chiesa di tenere fermo il punto. Quale è il
punto su cui la Chiesa deve tenere ferma la sua presenza? Che
ci sono questi scandali terribili oppure che nonostante tutti
questi limiti c’è la presenza di Cristo che salva l’uomo, che
riempie la vita dell’uomo di un significato vero e profondo,
che apre davanti ad ogni uomo quel sentiero buono della vita
di cui parlava in modo indimenticabile papa Benedetto XVI?

Se la Chiesa si esaurisce nell’analisi dei suoi mali, o di
certi suoi mali, di fronte al male resta sgomenta, perché il
male sembra invincibile. Non è una Chiesa che rinnova ogni
giorno ad ogni uomo l’esperienza dell’annunzio, che il Signore
è risorto ed è con noi, che la vita umana non è perduta, non è
neanche spezzata, non è neanche inutile: la vita umana
acquista il suo senso profondo, il suo significato profondo
per la presenza di Cristo e dalla presenza di Cristo.

Forse è anche inutile fare confronti fra le situazioni di
crisi di oggi e di altri momenti della Chiesa. Non credo ci
sia stato un momento della storia in cui la Chiesa non abbia
sofferto anche gravemente per le incoerenze di chi doveva
tenere alta la barra della fede e dell’amore a Cristo.

Oggi è evidente che quanto più il tempo passa e quanto più ci
si impegna in questa dialettica senza fine sulla natura degli
errori, sul peso degli errori, sulle radici degli errori
morali, tanto meno si tiene ferma l’unica cosa che deve essere
tenuta ferma, dentro la Chiesa e nel rapporto tra la Chiesa e
il mondo: che Cristo è il redentore dell’uomo e del mondo,
centro del cosmo e della storia. E che quindi nessuna
condizione, nessuna situazione che si provochi all’interno
della Chiesa per l’immoralità dei suoi aderenti o che invece
proceda dal mondo verso il cuore della Chiesa con la forza
terribile del demonio, può scuotere la serena certezza che «se
Cristo è con noi chi può essere contro di noi?».

Vorremmo che soprattutto le autorità della Chiesa si
rendessero conto che il popolo si aspetta che si rinnovi
l’annunzio di Cristo, che si rinnovi all’uomo la grande
certezza che la vita è buona, perché nasce da Dio, nasce dal
mistero di Cristo, ci viene donata in virtù della sua presenza
e della sua grazia. Si sperimenta come vita nuova, come modo
nuovo di essere, di agire, di vivere, di lottare, di soffrire,
di morire. E questa vita nuova, che rende ogni giorno nuova
l’esistenza, non deve essere trattenuta con qualche forma di
neghittosità nello spazio della coscienza privata, dei singoli
o delle comunità, ma deve essere annunciata con forza ad ogni
uomo di questo mondo, perché soltanto nell’incontro con Cristo
l’uomo di questo mondo può trovare il senso profondo della sua
esistenza.

Tutto il tempo che si dedica all’analisi degli errori interni
alla Chiesa è tempo tolto alla fede, è tempo tolto all’amore
personale al Signore, è tempo tolto a quella esperienza di
verità, di bellezza, di bene, che rende più faticosa e insieme
più lieta l’esistenza. «Il mio cuore è lieto perché Dio vive»:
solo la Chiesa può dare questa letizia. Se si sottrae a questo
compito di proporre agli uomini quella letizia che il cuore
dell’uomo desidera, la Chiesa non compie un peccato
particolare, compie il peccato di Giuda, «meglio per te che
non fossi neanche nato».

Non si tratta di far finta che nulla sia successo o
minimizzare la portata di certe situazioni, ma tutto va
vissuto alla luce del compito che ci è stato dato, tutto va
vissuto in funzione di una ripresa. Tutto va tradotto in
termini di coscienza nuova, altrimenti è un tempo perduto.

È un tempo perduto perché non ci è chiesta immediatamente la
purificazione di noi stessi, che si operi magari come esito
della nostra capacità morale. Ci è chiesto l’annunzio, ed è
l’annunzio che ci purifica. Non c’è una purificazione morale
previa dopo della quale comincia l’annunzio. Se si vive
l’annunzio ci si purifica, come ci ha insegnato Paul Claudel
in modo indimenticabile in alcuni grandi personaggi di quel
documento della genialità cristiana che è “l’Annunzio a
Maria”.

Fonte: http://www.lanuovabq.it/it/ci-si-purifica-se-si-vive-la
nnunzio

Grazie
https://costanzamiriano.com/2018/06/27/la-valigia-dei-libri-pe
r-le-vacanze/
Foto nella homepage: Lago di Tiberiade – 2014 foto di Leonora
Giovanazzi

Spunti per la meditazione
sulle letture di domenica 9
settembre 2018
   1. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete; ecco
      il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
      Egli viene a salvarvi”.
   2. A l l o r a s i a p r i r a n n o g l i o c c h i d e i c i e c h i e s i
      schiuderanno gli orecchi dei sordi.
      Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia
      la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel
      deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
   3. Il Signore protegge lo straniero.
      Egli sostiene l’orfano e la vedova,
      ma sconvolge le vie degli empi.
      Il Signore regna per sempre,
      il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.
4. Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la
      vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore
      della gloria.
   5. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la
      mano.
      E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose
      le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la
      lingua;
      guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e
      disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».

Verso un commento…

San Lorenzo da Brindisi (1559-1619)
Cappuccino, dottore della Chiesa

11a domenica dopo Pentecoste, Prima omelia, 1.9.11-12; Opera
omnia, 8, 124.134.136-138

“Ha fatto bene ogni cosa”
La Legge divina racconta le opere che Dio ha compiute nella
creazione del mondo e aggiunge: “Dio vide quanto aveva fatto;
ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31)… Il Vangelo
riferisce l’opera della Redenzione e della nuova creazione e
dice nello stesso modo: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7, 37)…
Certamente il fuoco può spandere soltanto il calore, per sua
natura, e non può produrre freddo; il sole può diffondere
soltanto la luce e non può essere causa delle tenebre. Così
Dio può fare soltanto cose buone, poiché è la bontà infinita,
la luce stessa. È il sole che spande una luce infinita, il
fuoco che produce un calore infinito: “Ha fatto bene ogni
cosa”… La Legge dice che tutto ciò che Dio ha fatto era buono
e il Vangelo dice che egli ha fatto bene ogni cosa. Però, fare
cose buone non è semplicemente farle bene. Molti, in verità,
sono quelli che fanno cose buone senza farle bene, come gli
ipocriti che fanno, certo, cose buone, ma con spirito cattivo,
con intenzione perversa e falsa. Dio fa ogni cosa buona e la
fa bene. “Il Signore è giusto in tutte le sue vie, santo in
tutte le sue opere” (Sal 145, 17)… E se Dio, sapendo che
troviamo gioia in ciò che è buono, ha fatto per noi tutte le
sue opere buone e le ha fatte bene, perché, di grazia, anche
noi non ci spendiamo per fare soltanto opere buone e farle
bene, dato che sappiamo che in questo sta la gioia di Dio?

Fonte: https://vangelodelgiorno.org/IT/gospel/2018-09-09

Gesù vivo oggi

Effetà – Paolo VI
La storia di questa Scuola dei Sordi di Betlemme (Israele –
Stato Palestinese) gestita dalle Suore Dorotee di Vicenza ha
le sue origini nella visita pastorale che Sua Santità Paolo VI
effettuò in Terra Santa nel 1964.
Il Santo Padre, avendo constatato in questa terra la presenza
di numerosi bambini sordi privi di assistenza, espresse il
desiderio che fosse realizzata un’opera educativa per la loro
riabilitazione. La risposta fu data dalla Congregazione delle
Suore Maestre di Santa Dorotea, Figlie dei Sacri Cuori,
originarie dall’Italia, già presenti in Terra Santa dal 1927.
Esse avevano avviato a Betlemme una costruzione per uso
proprio; sensibili all’appello del Papa gliene fecero dono
perché vi potesse realizzare l’opera auspicata.
Il Santo Padre gradì l’offerta e la riconsegnò alla
Congregazione allo scopo che essa stessa avviasse un Istituto
speciale per i bambini audiolesi considerato che questo è un
aspetto carismato della sua missione. Con il contributo della
Santa Sede, la costruzione iniziale venne ampliata, adeguata
alle nuove esigenze e dotata di apparecchiature specifiche.

Il 30 giugno 1971 il Card. Massimiliano Furstemberg inaugurò
l’Istituto che prese il nome di “Effetà Paolo VI”. Nel titolo
si è voluto ricordare l’ideatore e benefattore, ed inoltre
richiamare la parola pronunciata da Gesù nel guarire un
sordomuto.

Il 1° luglio 1971 vi si stabilì la prima comunità educativa
composta di sette Religiose ed il 6 settembre dello stesso
anno, 24 bambini audiolesi iniziarono il programma
riabilitativo audiofonetico. Di anno in anno il loro numero
andò crescendo fino a raggiungere oggi circa 140 alunni.

L’Ufficio Pellegrinaggi di Vicenza promuove la raccolta di
vestiario e cancelleria per l’Istituto Effeta di Betlemme.

Visita il sito dell’Istituto Effeta
Udine, 7 settembre 2018.
Costanza Miriano e Stephan
Kampowski.   Un  fiore nel
deserto.   L’attualità  di
“Humanae vitae”
Puoi anche leggere