Addio a Lucia Bosè, diva d'altri tempi - Smart ...

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Addio a Lucia Bosè, diva d'altri tempi - Smart ...
Addio a Lucia Bosè, diva d’altri tempi
L’epidemia mondiale di Coronavirus, ci porta via una delle dive più rappresentative e più
leggendarie del nostro glorioso cinema, ovvero Lucia Bose’. Lei, che era stata scoperta,
giovanissima, dal maestro Luchino Visconti, quando andando a comprare le paste nella pasticceria
dove lavorava come commessa, le disse “Lei ha un viso fotogenico, farà del cinema”. Lucia aveva sì e
no 16 anni: era la Milano dell’immediato dopoguerra, e proveniva da una famiglia semplice dove si
parlava esclusivamente il dialetto milanese e nessuno aveva grilli per il capo. La vita di Lucia cambia
quando un giovane ignoto fotografo, invia una sua foto alla rivista “L’Europeo” senza nemmeno
dirglielo. La rivista ha lanciato un concorso, Miss Sorriso 1947. Da quella foto parte però l’offerta di
andare alla seconda edizione di Miss Italia, che allora è un evento per il quale il Paese si ferma.
Lucia va a Stresa con la mamma Francesca, nel settembre del ’47, e contro ogni pronostico (suo, in
primis) vince. E’ un podio pazzesco: seconda si classifica Gianna Maria Canale, terza Gina
Lollobrigida, mentre una quarta concorrente – tale Eleonora Rossi Drago – viene squalificata
perché già sposata.
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In giuria, a Miss Italia, c’è Edoardo Visconti di Modrone, parente di Luchino: un segno del destino.
Lui si innamora follemente di lei e la invita ad andare con lui a Roma, dove ritroverà Luchino; ma è
un uomo sposato, e a un certo punto la diciottenne Lucia deve scegliere fra una vita da “amante
segreta” e una possibile carriera nel cinema. Sceglie la seconda, e il suo esordio è incredibilmente
rocambolesco. Visconti la vorrebbe per un film che sta preparando ma non farà, “Cronache di poveri
amanti”; Giuseppe De Santis è indeciso fra lei e Silvana Mangano per “Riso amaro”, e alla fine
sceglie la seconda. Dopo l’immenso successo del film sulle “mondine” De Santis prepara “Non c’è
pace tra gli ulivi” (1950) e vorrebbe di nuovo la Mangano, che però ha appena sposato Dino De
Laurentiis ed è rimasta incinta; a quel punto Visconti dice a De Santis “perché non prendi la
milanese?”, come la chiamano tutti nel giro. “Non c’è pace tra gli ulivi” è un esordio folgorante,
seguito quasi subito dai primi due film di Michelangelo Antonioni, “Cronaca di un amore” (1950) e
“La signora senza camelie” (1953), dove Lucia – pur giovanissima, e di estrazione proletaria –
incarna meravigliosamente due donne borghesi molto più grandi di lei.

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Chiari nel 1954.

Torna poi a lavorare con De Santis, interpretando “Roma, ore 11” (1952), un film corale tutto al
femminile, tratto da un fatto di cronaca molto ben rielaborato dal punto di vista narrativo, con
un’unità di luogo che prima attira e poi disperde miriadi di singole storie. Uno dei capolavori del
“tardo neorealismo”, per uno sfaccettato ritratto della donna italiana anni ’50, con una congrua
riflessione sui mass-media invadenti e manipolatori. Un anomalo film-inchiesta in cui spicca la
straordinaria interpretazione drammatica di Lucia Bosè, che a soli 21 anni dimostra una sicurezza di
fronte alla macchina da presa, davvero da attrice matura. Lavorerà anche nella commedia, ad
esempio in “Parigi è sempre Parigi” (1951), storia di un gruppo di italiani in vacanza a Parigi, per
seguire un’amichevole della nazionale di calcio. Su questo set conosce un giovanissimo Marcello
Mastroianni e soprattutto il maestro Aldo Fabrizi.

Seguirà una carriera discontinua, di grandi picchi e lunghi silenzi.
Leggendario resta il suo legame d’amore con Walter Chiari. Il fascino seducente di Walter Chiari
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non è di certo un mistero. La loro storia d’amore si sviluppa alcuni anni prima che la donna sposasse
il torero Luis Miguel Dominguin. Sono tante le fotografie che li ritraggono insieme, una coppia
che farà sognare gli italiani e che varrà ad entrambi il titolo degli eterni fidanzati del cinema. Il loro
legame durò circa due anni, con anche alcune collaborazioni cinematografiche in comune: “Era lei
che lo voleva” e “Accadde al commissariato”, per citarne alcune. Lucia diventerà vicina di casa
dell’attore e i due convivranno così a Milano, come sottolinea un articolo di Oggi del ’54. Alla fine di
quell’anno però, la Bosè conoscerà e sposerà Luis Miguel Dominguin, dopo essere partita per la
Spagna per lavorare con Bardem contro il parere del fidanzato Chiari e della sua famiglia. All’epoca
il torero era fidanzato con Ava Gardner, che lascerà per l’attrice. La prima invece si fidanzerà con
Chiari, in uno strano scambio di partner. “La Bosè è stata la donna della sua vita, lo capisco. Bellezza
rara, faceva impazzire anche me”, dirà diversi anni più tardi a Diva e Donna Simone
Annicchiarico, il figlio di Chiari.
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Poi venne il matrimonio con Luis Dominguin che lei, ancora oggi, chiamava semplicemente “il
torero”: un matrimonio che in Spagna la trasforma in una sorta di “first lady”, perché è difficilmente
immaginabile la popolarità di cui gode in quel paese il toreador numero 1; ma che la mette anche in
situazioni imbarazzanti, dalle obbligate frequentazioni con il “caudillo” Franco e il gotha della
reazionaria chiesa ispanica, fino alla progressiva rinuncia al cinema che è poco degno della “donna
del torero”. Ciò nonostante, dopo la separazione, avvenuta in seguito ai continui tradimenti del
marito, torna a lavorare per il cinema “impegnato” con i fratelli Taviani, con Fellini (nel
“Satyricon”), con la Cavani, con Buñuel, con Bolognini, con la Duras, con Ponzi e con tanti altri.
Ma se Visconti, fu lo scopritore del talento in erba di Lucia Bosè, il suo mentore fu Michelangelo
Antonioni, che la conobbe in seguito al suo debutto sul grande schermo grazie al regista Giuseppe
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De Santis.

https://youtu.be/w_ZA_3uv4lM

Sarà un pranzo con Luchino Visconti, a permettere che quella ragazza dalla bellezza significativa
entri in contatto con il terzo regista più importante per la sua vita. All’epoca Antonioni è alla ricerca
di un volto di primo piano per il suo film “Cronaca di un amore” e Visconti gli suggerirà di pensare
alla Bosè. “Era scettico, mi considerava giovane e acerba per il ruolo di una trentacinquenne
elegante e borghese, ma decise di farmi un provino che superai alla grande”, confesserà l’attrice nel
corso di un’intervista. Sarà su quel set che si sentirà per la prima volta bellissima. Antonioni si
rivelerà però estremamente severo sul set, “a tratti terribile”. “Dopo quaranta ciak, visibilmente
stanca, sovrastata da un enorme cappello con veletta, mi scappò da ridere. Non lo avessi mai fatto,
Michelangelo si avvicinò furioso e mi mollò uno schiaffo”, confessa la Bosè. Di fronte a quella scena,
chiunque fosse stato presente avrebbe iniziato a darsela a gambe levate, ma non l’attrice. Lei, sicura
di aver peccato di non professionalità, chiederà semplicemente di riprendere a girare.

Se ne va dunque la “Ragazza di piazza di Spagna”, la giovane sartina Marisa, che nel leggendario
film di Luciano Emmer (“Le ragazze di piazza di Spagna”-1952) sognava di fare la mannequin e
si ritrovava a fare colazione sulle scalinate della famosa piazza romana, insieme ad altre due ragazze
piene di sogni di e di speranze. Parlavano del domani, parlavano del futuro, diventando il simbolo di
altre milioni di ragazze che in quegli anni erano chiamate ad emanciparsi e a diventare il motore
trainante del nascente boom economico italiano.

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Nel 1995 usci “Safe”, un film che parlava
di malattia, quarantena forzata e
isolamento sociale. Una cupa profezia
cinematografica che tutti dovremmo
vedere.
In questi giorni di Coronavirus e di clausura forzata, mi è tornato in mente un film abbastanza
vecchiotto, del 1995, “Safe”, di Todd Hayne, lo stesso regista che il mese scorso (febbraio) aveva
portato nelle sale italiane il film “Cattive acque” con Mark Ruffalo.

Perché mi sia tornato in mente questo film è presto detto.
Credo che questo profetico film d’autore, all’epoca assai sottovalutato, abbia diverse cose in comune
e molti punti di contatto con il momento storico che stiamo vivendo, segregati in casa e smaniosi di
recuperare una normalità che oggi ci pare straordinaria ed ammantata di nostalgia.

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Il film “Safe” parla di Carol White (una straordinaria Julianne Moore), signora dell’alta borghesia
californiana, che da giorno all’altro si scopre affetta da Sensibilità chimica multipla, una rara
malattia che la porta rapidamente a diventare allergica ad ogni composto, prodotto, agente ed
oggetto della modernità, così come ai gas di scarico ed all’inquinamento ambientale.

La ricca e annoiata Carol, che passava le giornate fra il parrucchiere e lo shopping con le amiche, le
sedute di aerobica e l’hobby del giardinaggio, fra le sue manie salutiste e quelle di design che la
portavano a variare spesso l’arredamento della sua lussuosa villa, dovrà cambiare radicalmente stile
di vita. Per prima cosa si isolerà nel suo appartamento, rendendolo a poco a poco asettico e
sterilizzato, poi cambierà dieta ed orari e comincerà a rimpiangere tutto ciò che prima le sembrava
scontato e banale, perfino il rapporto con il marito Greg (l’attore Xander Berkeley) ed il figlio di
prime nozze di quest’ultimo, Rory, di 10 anni.
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Ma l’isolamento forzato non funziona, e, alla ricerca spasmodica di un rimedio, un giorno si imbatte
nella pubblicità del Wrenwood Center, un ranch che raccoglie una comunità di 200 individui un po’
asceti ed un po’ hippie, che vivono e ricercano un ideale ritorno alla natura ed alla semplicità. A capo
della comunità c’è un tale, Peter Dunning (l’attore Peter Friedman), uno scrittore a sua volta
malato di AIDS, che si atteggia a guida spirituale in pieno stile new age.

Todd Hayne gira il film prediligendo i campi lunghi, che rendono le composizioni fredde e le
atmosfere inquietanti, oltre a creare un ideale distacco dalla protagonista, il che ne accentua ancora
di più l’isolamento. Il film è diviso in due parti abbastanza distinte: una prima più narrativa,
sperimentale, visionaria nel restituirci la quotidianità dell’alta borghesia americana; la seconda più
formale, convenzionale, quasi documentaristica, perfetta nel tratteggiare il calvario della
protagonista, che vive su di sè tutte le possibili cure psicologiche e farmacologiche alle quali si
sottopone per guarire. Il film, cupo e pessimista, che ricorda per molti aspetti Cronenberg, è una
critica aspra e cruda alla società consumistica e materialistica occidentale, ripiegata su se stessa ed
incapace di vedere i danni che sta arrecando al pianeta in cui vive.

https://youtu.be/MP3kLKLaiTw

Todd Hayne, che in seguito si farà apprezzare per film come “Lontano dal Paradiso”, “Carol” e “Io
non sono qui”, dirige gli attori con maestria, tirando fuori ottime performance. Fra tutte, è proprio
Julianne Moore che ci restituisce un’interpretazione perfetta nel tratteggiare la sfaccettata
personalità di Carol con tutte le sue nevrosi, le sue idiosincrasie e le sue fragilità, un personaggio
sempre sull’orlo del precipizio, pronto ad esplodere, ma che in realtà interiorizza tutta l’angoscia e le
tensioni della sua patologia e del suo male di vivere.

Rivedere questo film oggi, in piena emergenza coronavirus, può sembrare ai più un dannoso atto di
masochismo, ma sono profondamente convinto che in realtà rappresenti un essenziale esercizio
ginnico per allenare la nostra memoria, così spesso incapace di fissare i ricordi importanti, le
esperienze significative e le emozioni più profonde.

Quando usci, “Safe” era un film potente, crudo e visionario, quasi di fantascienza, che anticipava sul
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finire del secolo scorso un mondo che ancora doveva venire e che oggi è quello in cui viviamo, ci
muoviamo e nel quale ci ammaliamo.

E non importa se ci ammaliamo di Sensibilità chimica multipla o a causa del Coronavirus, quello
che il film ci racconta è la lenta ed inesorabile parabola di un essere umano che, in un mondo oramai
sintetico, per scampare da un male senza forma, peso e consistenza, è costretto a richiudersi nel
profondo della propria individualità, scoprendo con sgomento che ciò che chiamava vita era riempita
più di cose e di oggetti che di significati ed emozioni.

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Gli anni più belli - Il film

   “È il film più grande che abbia mai realizzato perché i personaggi sono la
   microstoria nella cornice della grande storia. Sullo sfondo della storia che
 racconto c’è l’Italia che cambia, dalla fine degli anni di piombo alla caduta del
   Muro di Berlino, dalla stagione di Mani pulite all’11 settembre. Racconterò
    anche l’ascesa del Movimento 5 stelle. Non sarà un viaggio nostalgico, o
  pessimista: tutti i personaggi, con le loro difficoltà, sono spinti dall’idea che
                         domani sarà un giorno migliore”.

                                                                               Gabriele Muccino
Che male c’è a rifare un film, sia anche questo una delle pietre miliari del cinema italiano e
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mondiale? Nulla, perché le ispirazioni possono diventare imitazioni, le riproposte non mancanze di
idee nuove, ma voglia di raccontare il proprio presente. Il regista de Gli anni più belli, Muccino si
rifà a modelli accreditati e storicizzati, che hanno dettato, ai loro tempi, evasione, esempio e anche
qualità. È vero che i tre protagonisti, Giulio (Favino), Paolo (Rossi Stuart) e Riccardo (Santamaria) li
abbiamo già visti e rivisti e certo ricordano i loro omologhi Gianni (Gassman) Antonio (Manfredi) e
Nicola (Satta Flores) di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ed è vero che la Gemma che fa
Micaela Ramazzotti assomiglia alla Luciana di Stefania Sandrelli di quel film. Ma cosa c’è di male? E
potremmo ancora aggiungere che Muccino rifà la scena della fontana di Trevi. Non è lesa maestà
come qualcuno ha erroneamente annunciato, ma piuttosto un richiamo di estetica e di sentimento
nostalgico e gradevole, ma soprattutto un omaggio pieno d’amore verso i grandi autori della
commedia all’italiana.

Potremmo chiuderla dicendo che Muccino ci ha fatto ricordare Scola, così come Sorrentino, per certi
versi, ci ricorda Fellini. E ancora, che questo quartetto di incredibile bravura, non ci fa rimpiangere i
Gassman, i Manfredi, i Satta Flores e la Sandrelli, ma rappresentano la naturale evoluzione delle
loro storie. Già perché se il film di Scola, racconta attraverso la storia di tre amici ed una ragazza
oggetto dei desideri di tutti e tre, trent’anni di Italia, dalla Liberazione alla metà degli anni ’70; il
remake di Muccino dai primi anni ’80 arriva ai giorni nostri, seguendo esattamente il filo logico del
film del maestro Scola. E così il film di Muccino si erge, in maniera impeccabile come il commovente
e amaro ritratto di una generazione, che “credeva di cambiare il mondo, e invece è il mondo che l’ha
cambiata”, come profetizzava Manfredi nell’originale.

https://youtu.be/X5KHk6SGOEU

Andando più nel concreto, il film è sorretto dal quartetto di protagonisti, con la splendida aggiunta e
scoperta di una Emma Marrone attrice di livello. Dopo l’entrata in scena di Pierfrancesco Favino,
Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un’identità che
si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un’onestà artistica credibile. Il merito è certamente
degli attori, che trovano la loro misura anche all’interno dello stile dominante, ma anche di una regia
attenta. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant’anni il punto di forza e il cavallo di
Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora
nessuno, negli anni 2000, aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco
una generazione sfocata, travolta da una “metamorfosi socioculturale”, umiliata dal precariato e
schiacciata dai padri.

In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C’eravamo tanto amati, fa da efficace
pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l’ombra di
quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la
definizione di chi ha vissuto un’Italia molto diversa dalla nostra, ma ugualmente come gli originali,
diventano lo specchio della società italiana, rivisitata e trasportata agli anni 2000.

Muccino fa leva drammaturgica su questo scarto epocale raccontandoci tre identità maschili
depotenziate e destrutturate, come lo sono molti neocinquantenni di oggi. E alla fine ci si commuove
profondamente, si riflette su dove siamo e perché, e su quali siano “le cose belle” cui restare
incollati quando il mondo intorno ci tradisce. Muccino racconta molto bene quanto sia facile
sbagliare nella vita (soprattutto se è “una vita difficile”) senza valutare le conseguenze di errori cui
sarà arduo porre riparo, ma è ancora possibile rammendare la propria vita e trovare una
consolazione finale, una rappacificazione con noi stessi e il nostro bilancio esistenziale.

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Il film Parasite mette in scena la
globalizzazione al suo zenit ed è per
questo che dovremmo vederlo
Siamo nella ricca e moderna Corea del Sud, anche se dalle immagini non si direbbe, sembra la più
desolata delle periferie orientali, trafficata, sporca, tentacolare e affaccendata. Attraverso una
piccola finestra a livello del suolo, entriamo in un angusto e raffazzonato appartamento, ma meglio
sarebbe dire tugurio, ed è qui che conosciamo la famiglia Kim, composta dal padre Ki-taek, la madre
Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jeong.

Li vediamo poveri, quasi indigenti, alla continua ricerca di piccoli lavoretti temporanei per sbarcare
il lunario, o di una connessione internet gratuita a cui connettersi, od ancora ad approfittare della
disinfestazione stradale per bonificare “gratuitamente” la loro abitazione.

Insomma, i Kim sono una famiglia al margine, ottimi rappresentanti di quei nuovi poveri, quella
moltitudine di individui che cresce in tutto il mondo civilizzato e che la globalizzazione ha lasciato
indietro, se non proprio dimenticato.

La vita della famiglia Kim scorre, o meglio si trascina, senza che si intraveda una possibilità di
riscatto sociale e/o economico. Nonostante la miseria, li vediamo molto uniti, ancora portatori sani di
quella tipica “dignità” orientale e dotati di una vena di furbizia che li aiuta a sopravvivere.

Ma adesso cambiamo scenario. Attraverso una enorme finestra in vetro, entriamo in un’altra casa,
quella della ricchissima famiglia Park, una lussuosissima villa in un quartiere residenziale della città.
Anche qui la famiglia è composta da quattro individui: Park Dong-ik, il ricco capofamiglia che dirige
una grande azienda informatica, l’ingenua ed annoiata moglie Choi Yeon-kyo, la timida, ma non
troppo, figlia adolescente Park Da-hye ed il piccolo e problematico figlio Park Da-song.

La separazione, anzi la frattura, esistente fra le due famiglie è marcata da tutti gli elementi presenti,
perfino l’architettura crea divisone di classe: la casa dei poveri Kim è sotto il livello del suolo, quella
dei Park è sopra una collina; gli spazi della casa dei Kim sono angusti e luridi, quelli della casa Park
ampi, luminosi, lussuosi, sembrano usciti da una rivista di arredamento. I Kim vivono a ridosso di un
malfamato marciapiede e sono avvolti dal cemento, i Park conducono un’esistenza dorata, protetti da
un grande muro di cinta e immersi in un grandioso giardino. Perfino il cibo è differente, notiamo
anche in questo una marcata differenza di classe. Insomma, i Kim ed I Park sono letteralmente e
fisicamente agli antipodi, tutto potremmo pensare tranne che queste famiglie possano avere
qualcosa in comune (tranne il fatto di vivere nella stessa città), o possano mai venire in qualche
maniera in contatto.
Eppure il contatto ci sarà ed è da questo scontro di civiltà che prende avvio il plot del film
“Parasite” di Bong Joon-ho, già vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2019 e
trionfatore, un po’ a sorpresa, all’ultima Notte degli Oscar del 2020 dove, a fronte di 6
candidature, il film si è aggiudicato 4 premi fra i più prestigiosi: Miglior Film, Miglior Film
Internazionale (l’ex premio Miglior Film Straniero), Miglior Regista e Migliore Sceneggiatura
Originale.

L’incontro fra queste due famiglie avviene per mezzo di una strana raccomandazione grazie alla
quale Kim Ki-woo entrerà nella casa dei Park per insegnare inglese alla ricca figlia adolescente, Da-
hye, assunto dall’apprensiva madre Choi Yeon-kyo, che si farà abbindolare da un titolo di studio
fasullo e da millantate credenziali. Fin da subito Kim Ki-woo intuisce l’estrema malleabilità della
signora Choi Yeon-kyo e già dal loro primo incontro la convince ad assumere la sorella Kim Ki-jeong
come insegnate d’arte del figlio Park Da-song, ritenuto dalla madre depositario di un talento
artistico grezzo e da affinare.

Piano, piano i due fratelli Kim riusciranno con sotterfugi, intrighi e complotti a far licenziare l’autista
e la governante dei signori Park per far assumere negli stessi ruoli i propri genitori. Insomma,
l’osmosi fra queste due famiglie tanto diverse pare completa ed alla fine tutti sembrano contenti, se
non fosse che il destino un giorno bussa alla porta, o meglio al videocitofono della residenza dei
Park. Infatti una sera nella quale, partiti i Park per un campeggio, i Kim si sono riuniti a fare
baldoria nella villa dei propri datori di lavoro, ricevono la visita inaspettata della vecchia governante,
la signora Moon-gwang che chiede di poter recuperare una cosa importante dallo scantinato della
villa.

https://youtu.be/iPOugEDF8tk

Fermiamoci qui con il racconto della trama per non togliervi il gusto di recuperare questo
straordinario film, che è tornato in molte sale italiane dal 6 febbraio scorso prima dell’assegnazione
degli Oscar ed è, dopo il trionfo, ancora in programmazione su molti schermi, e proviamo a capire
come mai questo film outsider abbia sbaragliato una concorrenza così agguerrita come quella di
quest’anno dei Premi Oscar.

Sicuramente l’Academy Award ha voluto lanciare un messaggio alla politica del presidente Trump,
ma questo non basta a spiegare come film eccezionali come “1917”, “The Irishman” e “C’era una
volta… a Hollywood”, con 10 candidature ciascuno, e un film notevole come “Joker”, con
addirittura 11 nomination, siano rimasti pressoché a bocca asciutta di Oscar “pesanti” in favore di
questo film sudcoreano.

Credo che il successo stia nella forza della storia raccontata che è un ibrido fra thriller, commedia,
drammatico, con una spolverata di horror, ma non un horror qualunque, bensì un orrore quotidiano,
persistente, pestilenziale, un orrore che sentiamo latente in ognuna delle scene del film, un orrore
esaltato dalla splendida ed estremamente fluida fotografia di Hong Kyung-po, che ci mostra una
realtà alla quale sembra sempre mancare qualcosa o che nel migliore dei casi sia carica di nefasti
presagi. Il film Parasite ci mostra uno scontro di civiltà nel quale i ricchi non sono malvagi
profittatori, ma ingenui e sempliciotti, gente buona tutto sommato, mentre i poveri non sono virtuosi
e stoici, ma meschini e profittatori, un po’ cinici e pronti a tutto pur di manipolare il prossimo.
Insomma, Parasite ci mostra cosa sia diventata la società civile di oggi: da una parte abbiamo i
benestanti, radical chic, buonisti ed abbastanza ingenui e dall’altra una classe media impoverita
dalla globalizzazione che è diventata perfida e pronta a tutto pur di migliorare la propria condizione
sociale. I Park, a loro modo, sono i parassiti della società intera nella quale, come sappiamo, pochi
individui detengono la ricchezza dei due terzi della popolazione più povera e ci mostrano quanto
sarebbe necessaria una redistribuzione del reddito alle classi più bisognose. Dall’altra parte abbiamo
i Kim che diventano veri e propri parassiti della ricca famiglia con cui vengono in contatto, e, al pari
di un morbo o di un virus, diventano infestanti e tossici fino alla morte dell’organismo ospite che li
ha accolti.

Il regista Bong Joon-ho ci mostra in maniera potente, scintillante e senza filtri a cosa la nostra
società intrisa di disuguaglianze sociali, economiche e culturali può portare, anzi ci ha già portato.
La stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di questo film si muovono senza ideali, senza
piani, senza moralità, non sono più neanche individui nei quali riconoscerci o specchiarci, sono
diventati una moltitudine, una folla indistinta, una massa a cui tutto è concesso e nella quale non vi
sono colpe, né punizioni, neanche per i crimini più efferati. Una massa informe nella quale non
vogliamo riconoscerci, ma della quale siamo già adepti, seguaci e credenti.
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ore alla Notte degli Oscar 2020.

Insomma, Parasite ci mostra non tanto la banalità del male, quanto la sua ineluttabilità, sembra che
il regista Bong Joon-ho, abbia fatto sua la riflessione del sociologo e filosofo polacco Zygmunt
Bauman quando, parlando del sentimento della paura ai tempi della globalizzazione, scrisse:

“La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che il male
si può nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non
ha segni particolari né usa carta d’identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a
essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o
potenzialmente arruolabile.”
Quello che ci mostra Parasite allora è la globalizzazione al suo zenit, quando l’unica legge che ha
valore è la legge della giungla, nella quale, se non si è un predatore, non si ha grande scelta, si può
essere preda o appunto diventare un parassita.

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Odio l’estate - Il film
“Odio l’estate” è l’ultima fatica del leggendario trio composto da Aldo Baglio, Giovanni Storti e
Giacomo Poretti. Una pellicola che restituisce al trio i fasti del proprio glorioso passato. Quando si
parla di Aldo, Giovanni & Giacomo, si tende sempre a paragonare una loro novità cinematografica
con i loro grandi successi come Tre uomini e una gamba, Chiedimi se sono felice o Tu la conosci
Claudia?. E questa volta non si rimane delusi. Odio l’estate ha qualcosa di ognuno dei film storici del
trio: ti fa pensare, ti fa ridere e alla fine lascia una velatura di malinconia. Nel film si ritrova il solito
Aldo fanfarone, il solito Giovanni pignolo e il solito Giacomino perfezionista maniacale con il punto di
forza di un affiatamento collaudato e di un’amicizia sincera che dura da sempre, quasi a voler
smentire, una volta per tutte, i soliti detrattori, che avevano preannunciato o sperato in un
disfacimento del trio. E invece no, Aldo, Giovanni & Giacomo, dopo alcune scialbe prove sono tornati
più convinti di prima al cinema, con una sceneggiatura importante, ben scritta, e con un ritorno al
passato.

A dirigerli infatti, torna Massimo Venier, il regista dei primi immortali film del trio. Aldo, Giovanni e
Giacomo, insomma, sono tornati a fare ciò che riesce loro meglio: raccontare l’amicizia che li lega da
decenni attraverso una storia semplice che attinge alle loro esperienze personali. Semplicità che
forse è la chiave del loro successo. Quando sono semplici, ma non semplicistici, il trio funziona. E’
dalla semplicità che il trio trae linfa per i propri film. Il trio dunque, torna a ciò che sa fare meglio:
raccontare con spontaneità una rassicurante e affettuosa amicizia. Il grande ritorno di Aldo Giovanni
e Giacomo non ha deluso e infatti gli incassi sono stati altissimi, ben oltre i 20 milioni di euro:
risultati che li riportano ai fasti d’un tempo. Un film divertente, fresco, gioioso, con tutto il sapore
dell’estate e di quelle atmosfere leggere e sognanti che spesso si accompagnano alle vacanze estive.
La sceneggiatura è ben fatta. Le spiagge sono incantevoli. Il regista è stato bravo a miscelare nelle
giuste dosi i tre personaggi molto diversi nella caratterizzazione, inconciliabili sembrerebbe fra di
loro e con le rispettive famiglie, eppure con lo scorrere del film si crea un filo sempre più forte fra i
vari personaggi e si crea spazio per tante gustose risate, situazioni comiche nelle quali molti di noi si
immedesimeranno.
https://youtu.be/wgfE_VvTD20

Ma non è solo un film comico, c’è anche la solidarietà e l’amore tenero e pulito che coinvolge in
parte gli adulti ma soprattutto i giovanissimi di questa storia, figli delle coppie protagoniste. Un film
che esalta l’umanità della gente comune che spesso vive chiusa a riccio, dimostrando che basta
aprirsi agli altri per essere più felici. Le mogli dei tre protagonisti (Lucia Mascino, Carlotta Natoli e
soprattutto l’irresistibile Maria Di Biase) non sono affatto in secondo piano, reggendo bene la scena
con divertenti caratterizzazioni. Giovanni e Giacomo sono veramente esilaranti nella loro incapacità
a trovare il ruolo di bravo genitore, ma un gradino in più se lo ritaglia Aldo Baglio, personaggio
poliedrico, eterno Peter Pan, capace di impazzire per il concerto di Massimo Ranieri, felice con un
cuore bambino, che forse è questo il segreto della felicità, una felicità da vivere e far vivere
necessariamente a coloro che lo circondano, anche a costo di nascondere il terribile segreto di una
grave malattia. Insomma tantissime risate a cuor leggero, ma anche motivi di riflessione sui
problemi di coppia e sulla costante ricerca di felicita’. “Sono fatti così”, come dice la canzone che li
accompagna, e seguire le loro avventure è fare una passeggiata verso casa con i compagni di sempre
di cui conosciamo vizi e virtù, debolezze e tormentoni.

Questa volta si aggiungono alla storia alcuni elementi di contemporaneità che rendono i loro
personaggi riconoscibili non solo nei manierismi cui ci hanno abituati, ma anche nelle
preoccupazioni della nostra epoca: un’attività di famiglia che chiude, un figlio sempre attaccato
all’IPad, una società in cui le regole sono inesplicabilmente a volte ferree, a volte flessibili. Tante le
autocitazioni della coppia: la partitella in spiaggia, le schitarrate di sottofondo (la musica è di
Brunori Sas ma ci sono anche Bruno Martino e Vinicio Capossela), le trasferte in macchina in
quell’Italia estiva che si snoda lungo l’autostrada come grande equalizzatore, inseguendo una
geografia impossibile. Impeccabile anche il maresciallo interpretato da Michele Placido, il quale ha
un ruolo delizioso che fa leva sui suoi impeccabili tempi comici. Nessuno in questo film è stupido o
demenziale, pur nell’esagerazione comica, nessuno è troppo lontano dal vero, dal doloroso e
dall’umanamente fragile. Il finale triste, lascia l’amaro in bocca, perché il trio e la puntualità della
regia, ti porta ad immedesimarti con i tre teneri protagonisti e condividere emotivamente con loro
gioie e dolori. Ma in fondo questa è la vita, la nostra vita, descritta da un trio che dimostra quanto
ancora hanno da dirci, e che è ancora grado di regalarci splendidi squarci di poesia e rassicuranti
antidoti agli squallori del presente.

I “cinque” fenomeni comici italiani degli
ultimi 25 anni
Che in Italia il “volto” dell’attore di turno, sia stato fin da sempre, storicamente più importante
dell’autore del film, è risaputo. I “fenomeni” da botteghino sono stati sempre volti comici, familiari, a
partire dai vari Totò, Macario, Taranto, Rascel, passando per i Mostri della commedia all’italiana e
per gli attori degli anni ’80: Celentano, Villaggio, Pozzetto, Banfi…Questa tendenza si è confermata
anche nei tempi più recenti, basti immaginare come dal 1995 all’attuale 2020, i film campioni di
incassi annuali sono stati letteralmente monopolizzati da “5” fenomeni comici italiani: tre attori
singoli, una coppia ed un trio. 17 volte su 25, dal 1995 al 2020, il film campione di incassi ha le
sembianze di questi cinque fenomeni comici. 4 volte Leonardo Pieraccioni (1995: I laureati; 1996: Il
ciclone; 1999: Il pesce innamorato; 2005: Ti amo in tutte le lingue del mondo); 4 volte Aldo, Giovanni
& Giacomo (1997: Tre uomini e una gamba; 1998: Così è la vita; 2000: Chiedimi se sono felice; 2010:
La banda dei Babbi Natale); 4 volte Checco Zalone (2011: Cado dalle nubi; 2014: Sole a catinelle;
2016: Quo vado; 2020: Tolo tolo); 3 volte Alessandro Siani (2012: Benvenuti al nord; 2013: Il
principe abusivo; 2015: Si accettano miracoli); 2 volte Ficarra & Picone (2017: L’ora legale; 2019: Il
primo Natale). Ed ancor più rilevante è, che tra alterni momenti di variabile successo, tutti siano più
o meno attivi e longevi allo scoccare del nuovo decennio.

https://youtu.be/BusG4D6PiN0

Pieraccioni ad esempio, il più vecchio ed anche il più duraturo di questi fenomeni comici, è stato in
sala poco più di un anno fa con Se son rose…, un film azzeccato, poetico e inusualmente anche un
po’ amaro, un punto di nuovo inizio nella carriera pluriventennale dell’attore toscano, che piaccia o
no uno dei mostri cinematografici italiani più importanti degli ultimi trent’anni. Quello certamente
con la più rilevante presenza nella speciale classifica dei “film che hanno incassato di più”: 6
presenze contro le 5 di Adriano Celentano. Un attore che sarà in sala anche alla fine di quest’anno
con la sua nuova fatica. Tutto iniziò nel lontano 1995, quando I laureati a sorpresa si issò come
campione di incassi della stagione. L’anno successivo è il trionfo: dirige, scrive e interpreta Il
ciclone, il film della vita, quello rimasto nella storia del nostro cinema e nella memoria collettiva. Nel
cast i suoi amici di sempre Massimo Ceccherini e Alessandro Haber, oltre ad una strepitosa Tosca
D’Aquino, forse la migliore della compagnia. Il botteghino premia la pellicola con un incasso
mostruoso di 75 miliardi di lire entrando nella top ten dei film italiani di maggior incasso e al quarto
posto assoluto come biglietti venduti. La storia è semplice e gustosa. Un gruppo di ballerine
spagnole di flamenco, rimaste a piedi, trova ospitalità presso la famiglia Quarini, in una bella casa
della campagna toscana. La normale vita di provincia naturalmente viene sconvolta dalla verve di
queste ragazze vivaci e disponibili. Questo successo abnorme ha comunque delle spiegazioni. Una è
il naturale “volàno” del film (che ha tenuto le sale per un anno), che a un certo punto “deve” essere
visto da tutti perché fa moda. Poi naturalmente c’è la grana della regia e della storia. Si può parlare
di film medio che manca al nostro cinema, di sapori di commedia all’italiana, che sono ben
percepibili, ma in questo caso c’è una ragione “tattile”, immediata, che capiscono tutti subito: è un
film pulito, fuori dai contesti grigi, tristi, omologati, spesso malamente sociali del cinema nostrano.
Un film che non invecchia mai e che non ci si stanca mai di vederlo. Presenta poi, qualcosa che non
si vedeva dai tempi di Poveri ma belli: la felicità di vivere. Una felicità, che non sarà aderente al
nostro momento storico, ma è una bella fortuna che qualcuno ce la descriva almeno nella finzione.

https://youtu.be/wgfE_VvTD20

Sono invece attualmente al cinema Aldo, Giovanni & Giacomo con il film Odio l’estate. Una pellicola,
a detta della critica, che restituisce al trio i fasti del proprio glorioso passato. Quando si parla di
Aldo, Giovanni & Giacomo, si tende sempre a paragonare una loro novità cinematografica con i loro
grandi successi come Tre uomini e una gamba, Chiedimi se sono felice o Tu la conosci Claudia?. E
questa volta non si rimane delusi. Odio l’estate ha qualcosa di ognuno dei film storici del trio: ti fa
pensare, ti fa ridere e alla fine lascia una velatura di malinconia. Nel film si ritrova il solito Aldo
fanfarone, il solito Giovanni pignolo e il solito Giacomino perfezionista maniacale con il punto di
forza di un affiatamento collaudato e di un’amicizia sincera che dura da sempre, quasi a voler
smentire, una volta per tutte, i soliti detrattori, che avevano preannunciato o sperato in un
disfacimento del trio. E invece no, Aldo, Giovanni & Giacomo, dopo alcune scialbe prove sono tornati
più convinti di prima al cinema, con una sceneggiatura importante, ben scritta, e con un ritorno al
passato. A dirigerli infatti, torna Massimo Venier, il regista dei primi immortali film del trio. Aldo,
Giovanni e Giacomo, insomma, sono tornati a fare ciò che riesce loro meglio: raccontare l’amicizia
che li lega da decenni attraverso una storia semplice che attinge alle loro esperienze personali.
Semplicità che forse è la chiave del loro successo. Quando sono semplici, ma non semplicistici, il trio
funziona. E’ dalla semplicità che il trio trae linfa per i propri film.

https://youtu.be/M1tIBWi7vjI

Come quel Tre uomini e una gamba, che li lanciò al successo nazionale. Il successo di pubblico e
critica, aprì la strada ad una serie di altri film scritti, diretti ed interpretati dai tre attori, diventati
l’unico trio, che può davvero chiamarsi così, della storia del cinema italiano. Nonostante abbia
incassato ben 40 miliardi di lire al botteghino a fronte di una spesa per realizzarlo di appena due,
Tre uomini e una gamba è oggigiorno considerato un assoluto cult del cinema comico italiano in un
modo che va ben oltre il pur innegabile successo avuto al cinema. Il film ha conquistato il suo status
di semi-immortalità odierno grazie soprattutto al pubblico giovane degli anni immediatamente
successivi alla sua uscita al cinema, conquistando anche i più piccoli. Siamo infatti di fronte a un
classico caso di pellicola elevata a capolavoro grazie ai continui passaggi televisivi e al
contemporaneo crescente successo dei tre comici protagonisti, che l’hanno resa un must
irrinunciabile. Il successo del trio è stato bissato l’anno successivo dal film Così è la vita e da
un’altra decine di pellicole, di discontinuo valore, ma di immutato successo popolare, soprattutto
delle più giovani generazioni (ottimi Chiedimi se sono felice-2000, Tu la conosci Claudia?-2004, La
banda dei Babbi Natale-2010; discreti La leggenda di Al, John e Jack-2002, Fuga da Reuma Park-
2016; trascurabili Il cosmo sul comò-2008, Il ricco il povero il maggiordomo-2014).

https://youtu.be/xpNyu_dUeV4

Anche Checco Zalone è attualmente in sala con la sua quinta fatica, la prima anche da regista. Tolo
tolo è il titolo del film, che seppur lontano dal record di incassi di Quo vado (65 milioni di euro al
botteghino) ha registrato un considerevole successo di pubblico, che lo isserà come campione di
incassi assoluto del 2020. Checco Zalone, al secolo Luca Medici, questa volta non è solo interprete e
coautore della sceneggiatura (insieme a Paolo Virzì, abbandonato il sodalizio con Gennaro
Nunziante) ma anche regista, e si vede, perché la sua direzione è pirotecnica e schizzata come la sua
vis comica, sempre pronta ad aprire mille finestre all’interno di un discorso continuamente
interrotto. In Tolo Tolo (che significa “solo solo”) ce n’è per tutti: politici incapaci dalle vertiginose
carriere, migranti innamorati delle griffe (di pessima resa qualitativa), nostalgici mussoliniani
(perché “il fascismo ce l’abbiamo tutti dentro, pronto a riemergere, come la candida”) e buonisti
favorevoli alla “contaminazione” etnica. Nella sua rappresentazione a tutto tondo dell’italiano medio
e dei suoi difetti ricorrenti, Checco fugge da un Paese “che ci perseguita”, invitando l’immediata
identificazione del pubblico. Lo stesso pubblico sarà poi messo di fronte alle proprie meschinità e
ipocrisie, ai suoi pregiudizi ed egoismi, nonché alla banalità di certi slogan populisti e all’inettitudine
della politica.

Scoprite la nostra rubrica dedicata al cinema!
Pochi giorni prima, catalogato però nella stagione 2019, era uscito in sala Il primo Natale, ennesima
commedia razionale ed intelligente di Ficarra & Picone, campioni di incassi dello scorso anno. Che la
coppia composta dai siciliani Salvatore Ficarra e Valentino Picone, fosse la più completa dell’ultimo
ventennio, non c’erano dubbi già da almeno dieci anni. Il penultimo film, L’ora legale, campione di
incassi della stagione 2017, aveva alzato l’asticella della loro commedia comica intelligente, con un
pizzico di amarezza di fondo, in puro stile da “grande” commedia all’italiana. Quella di Ficarra &
Picone, non è una comicità semplice e fine a se stessa. E’ piuttosto una comicità amara, che si basa e
raccoglie linfa vitale dalla realtà che viviamo. In questo, non solo si porgono come eredi di Franco &
Ciccio, ma anche di tanta riuscita commedia all’italiana degli anni ’60, perché si pongono, con ottimi
risultati, l’ambizione di descrivere la società italiana di oggi, con i falsi miti, le poche certezze e le
tante amarezze, in primis la dilagante corruzione. Ora con Il primo Natale, l’asticella
cinematografica della coppia continua a crescere. Già, perché stavolta Ficarra e Picone si cimentano
per la prima volta, con un film in costume, scegliendo l’anno 0 come punto focale del loro racconto,
regalandoci anche una precisa descrizione della società al tempo della nascita di Gesù Cristo.

https://youtu.be/ZR4j68Fp8CE

In ultimo va analizzato il “fenomeno” Siani, attore napoletano, nelle intenzioni troppo debitore di
atteggiamenti e monologhi alla “Troisi” e di buonismi rassicuranti alla “Pieraccioni” difficilmente
pareggiabili. Nonostante ciò, il pubblico dimostra di gradire la sua dissacrante comicità. Infatti,
Siani si è piazzato per ben tre volte come campione di incassi, l’ultimo dei quali è Si accettano
miracoli, film del 2015, al quale molto si rifà il suo ultimo lavoro (Il giorno più bello del mondo),
uscito in sala ad ottobre 2019. Alessandro Siani torna infatti al grande schermo due anni dopo
Mister Felicità, da lui scritto, diretto e interpretato, ma questa volta cambia cosceneggiatore,
passando da Fabio Bonifacci a Gianluca Ansanelli, con cui aveva già firmato Si accettano miracoli.
La differenza de Il giorno più bello del mondo con Si accettano miracoli non è grande, perché a
dominare la narrazione è sempre comunque il mattatore Siani, con quel suo misto di “guasconeria”
partenopea e buonismo da grande pubblico. Questo è esattamente il punto di forza e la debolezza del
suo cinema: perché se da un lato Siani è straordinariamente efficace nei siparietti da varietà, in
particolare quelli con Giovanni Esposito, dove mette a frutto la sua vis comica (deliziosa la creazione
di storie della buonanotte che utilizzano i personaggi delle favole meglio di Shrek), dall’altro
l’autore-attore cede troppo spesso alla tentazione di aggiungere melassa e ripetere i cliché
rassicuranto “alla Pieraccioni” che fanno a pugni con il suo talento autentico di guitto.

E allora tratte le somme, ognuno di questi 5 fenomeni comici italiani detiene un record: Leonardo
Pieraccioni come pubblico in sala (Il ciclone è il quarto film italiano più visto della storia del cinema
nazionale; Il pesce innamorato chiude invece la top ten); Checco Zalone come incassi medi al
cinema, che non corrisponde però con la top ten dei film più visti (il suo Quo vado, infatti, è soltanto
23esimo nella speciale classifica); Aldo, Giovanni & Giacomo poi, sono l’unico trio, che può chiamarsi
tale, del cinema italiano; mentre Ficarra & Picone sono l’unica coppia cinematografica veramente
stabile dell’ultimo ventennio; e infine Alessandro Siani rappresenta, nel bene o nel male, l’erede più
importante della comicità partenopea dopo la morte di Massimo Troisi. Si badi bene, da questo
saggio sono stati esclusi, attori comici di indiscusso valore come Fabio De Luigi, Vincenzo Salemme,
Antonio Albanese e Rocco Papaleo, soltanto perché la loro carriera non si è svolta e non si svolge
esclusivamente nel genere comico–brillante, ma tocca più campi, financo il drammatico.

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Tolo Tolo: gli Italiani davanti allo
specchio.
Nelle sale dal 1° gennaio 2020, l’ultimo film di Checco Zalone (del quale, per la prima volta, il
noto attore comico è anche regista) è il campione indiscusso del Box Office, con un totale di €
39.193.464 di incasso e 5.587.955 presenze registrate all’11 gennaio. Ancora più significativo il
successo se guardiamo al primo giorno di programmazione: infatti a Capodanno il film di Zalone è
stato visto da 1.174.285 persone, incassando € 8.668.926 e diventando il maggior incasso di
sempre nella storia del cinema nelle prime 24 ore.

Frainteso, discusso e criticato ancora prima di uscire nelle sale, complice un videoclip promozionale
sibilino, “Tolo Tolo” spadroneggia anche sui social: su Twitter l’hashtag #ToloTolo è uno di quelli
che fa più tendenza, mentre su Instagram e Facebook si sprecano i post che commentano,
criticano od esaltano il film.

https://youtu.be/we1sS9EJt8w

Noi di Smart Marketing, da sempre appassionati di cinema, vogliamo dire la nostra su quello che al
di là delle opinioni che ciascuno di noi si può (e si deve) fare rimane il fenomeno, non solo
cinematografico, di quest’inizio decennio.

Per farvi sapere cosa ne pensiamo, dopo averlo visto (cosa che non tutti i commentatori hanno fatto),
abbiamo scelto, in luogo della più classica recensione, la formula dei 5 buoni motivi per vedere
Tolo Tolo.

Ed allora cominciamo
1) La storia (soggetto e sceneggiatura)
La sceneggiatura è nata dal sodalizio fra Checco Zalone e Paolo Virzì, che anzi, secondo
indiscrezioni, ebbe l’idea iniziale del film e contattò il comico pugliese per lavorare insieme al
soggetto. Lo script finale risente di entrambe le mani dei due autori, con i toni caustici ed irriverenti
propri dello Zalone e con la poesia e lievità che contraddistinguono invece la cifra di Virzì. Il film
parla della parabola discendente e del successivo riscatto di Pierfrancesco Zalone, strampalato
imprenditore pugliese che dopo il fallimento del suo improbabile ristorante giapponese
“Murgia&Sushi”, perseguitato da creditori e famigliari ridotti sul lastrico, scappa in Africa a
lavorare in un lussuoso villaggio turistico in Kenya. Qui varie vicissitudini lo porteranno ad
affrontare un viaggio a ritroso per tornare in occidente, durante il quale conoscerà la tragedia dei
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            Il film Tolo Tolo è girato in diverse e suggestive location sparse principalmente fra la Puglia e
            l’Africa. Le location italiane, con l’eccezione di Roma, Trieste e Latina, sono tutte Pugliesi,
            cominciando da Spinazzola (dove è ambientato la primissima parte del film), Acquaviva delle
            Fonti, Bari, Gravina di Puglia, Minervino Murge, Monopoli, Poggiorsini e Torre Guaceto.
            Per quanto concerne le location africane gran parte delle riprese si sono svolte in Kenya e in
            Marocco. Il film fa della celebrazione del paesaggio naturale ed architettonico uno dei punti salienti
            della narrazione, infatti tutta la storia si svolge on the road: la strada, ma anche il mare, diventano il
            percorso lungo il quale matura la consapevolezza del personaggio di Zalone. Ma lungo questo
            percorso anche il budget è lievitato, il film, infatti, è costato oltre 20 milioni di euro.3) Il cast
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            e le comparse)
Benché il film ruoti intorno alla figura di Zalone, il cast di cui si circonda l’attore/regista gira a
meraviglia. Le scene in Africa sono sempre corali, girate in autentici villaggi, con gli attori presi per
la maggior parte fra gli abitanti degli stessi. Fra i personaggi principali vanno ricordate le
interpretazioni di Souleymane Sylla, che interpreta Oumar, l’amico di colore del protagonista
appassionato di cinema e cultura italiana, quella di Manda Touré, la bellissima Idjaba, cameriera
del resort dove lavora anche Zalone che ha perso la testa per lei, quella del piccolo Doudou, il
giovanissimo Nassor Said Birya, molto naturale e a suo agio nelle riprese. Ma, oltre a queste vanno
ricordate almeno altre due interpretazioni, quella dell’Avvocato Russo, impersonato dal sempre
bravo Nicola Nocella, e quella di Luigi Gramegna, interpretato dal talentuoso Gianni D’Addario,
che già avevamo apprezzato nel precedente film di Zalone “Quo Vado” e nel “Viva la sposa” di
Ascanio Celestini, entrambi del 2015. Ma la vera chicca sono i cammei di alcuni volti noti e di
vecchie glorie sia del piccolo che del grande schermo. Prima fra tutte la splendida Barbara
Bouchet, che con i suoi 77 anni suonati è ancora un modello di stile ed eleganza, poi ci sono i due
giornalisti Massimo Giletti e Enrico Mentana, nella parte di loro stessi in collegamento
rispettivamente dagli studi di “Non è l’Arena” e del “TG La7”. Inoltre c’è il mitico Nicola Di Bari
che interpreta l’arzillo Zio Nicola. Ma senza dubbio il più riuscito cammeo è quello di Nichi
Vendola, che interpreta se stesso in un gustosissimo siparietto che non vi vogliamo svelare.

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Diciamolo subito: dimenticatevi le grasse, e un po’ becere, risate a cui Zalone ci ha abituato con i
suoi precedenti film. Certo, si ride, ma a denti stretti, e sempre con un misto di disagio e imbarazzo.
Il film è pieno di trovate geniali, che prendono in giro tutto il costume dell’Italia di oggi. Dalla mania
per i ristoranti fusion, alla fissazione per i marchi dell’alta moda, fino all’ossessione per i prodotti di
bellezza (la ricerca di una crema per le rughe sarà il vero tormentone del film). Ancora una volta
siamo posti di fronte ad uno specchio e mentre intorno a noi imperversa una crisi umanitaria, la
fame, addirittura la guerra, il personaggio di Zalone è preso da faccende futili e superficiali, la sua
felicità come la nostra è dettata da ciò che possiede, da ciò che indossa o da ciò che usa per idratare
la sua pelle. Il contrasto con le popolazioni locali è molto forte e stridente, i poveri migranti non
hanno nulla di tutto questo, eppure durante il viaggio e nelle peggiori situazioni non perdono il
sorriso, la voglia di cantare e di divertirsi.
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Ancora una volta Luca Medici (questo il vero nome di Checco Zalone) prende in giro i peggiori vizi
italiani, in questo caso il razzismo, la mancanza di legalità, il non rispetto delle regole, l’esterofilia,
ma pure l’ignoranza e l’atteggiamento radical chic. Molti commentatori hanno scomodato addirittura
mostri sacri come Totò a cui paragonare il Zalone di quest’ultimo film. Ma, al di là di certi
improbabili paragoni, il percorso cinematografico intrapreso dall’attore pugliese, prima con il
regista Gennaro Nunziante e adesso da solo, ricorda, per molti versi e con tutti i giusti
distinguo, il percorso di un altro gigante del nostro cinema, tale Alberto Sordi, soprattutto se ci
focalizziamo sui film girati dall’Albertone nazionale dopo il 1960. Lo so, il paragone è azzardato, ma
nel comico pugliese rivedo lo stesso cinismo un po’ gigione, la stessa irriverente ironia sugli italici
vizi, la prepotente presa in giro dell’ignoranza con cui Alberto Sordi ha tratteggiato i suoi
personaggi più celebri ed indimenticabili.

Ricordo molto bene tutte le polemiche intorno all’italiano medio interpretato da Sordi, che fu poco
amato dalla critica e dagli intellettuali quando era in vita, a differenza del pubblico che invece lo
adorava.

Ebbene, lo ripeto ancora una volta, con tutte le differenze del caso, anche la parabola
cinematografica di Checco Zalone mi pare stia subendo la stessa sorte. Fintanto che Zalone ha fatto
il comico tutto andava bene, ma da quando ha deciso di cimentarsi con il cinema molti critici e
commentatori hanno cominciato a storcere il naso, eppure nulla è cambiato nella ironia feroce o
nelle imitazioni irriverenti con le quali il comico si era fatto conoscere, prima ancora che a Zelig, nei
programmi comici di Telenorba (la stessa emittente, per dire, che ha lanciato le carriere di Toti e
Tata, ovverosia Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo).

Quindi in conclusione, cosa altro dirvi?
A noi di Smart Marketing il film “Tolo Tolo” è piaciuto e vi consigliamo di andarlo a vedere, e se
non vi sono bastati i 5 motivi sopra elencati ve ne diamo un altro, l’ultimo. Il film di Checco Zalone
va visto perché l’italiano che mette in scena attraverso le vicissitudini del protagonista rappresenta
la nostra cartina tornasole, il nostro specchio segreto, il nostro lato oscuro (ma non troppo). Durante
il film ridiamo poco, perché il protagonista Pierfrancesco Zalone ci somiglia troppo, con la sua mania
per le griffe, il suo finto buonismo, la sua smania di seguire i trend del momento, il suo fascismo di
ritorno e la sua incapacità di apprezzare la tradizione, la semplicità e la bellezza.

Checco Zalone sono io, sei tu, siamo noi, ed è per questo che quando usciamo dal cinema ci
rendiamo conto che abbiamo riso meno di quanto pensavamo, che avvertiamo un certo disagio, quasi
un fastidio, e che non possiamo fare a meno di dire la nostra opinione sul film, quasi a voler
esorcizzare il momento catartico che stiamo vivendo.

Un film, un buon film, prima ancora che intrattenerci, divertirci ed appassionarci, dovrebbe farci
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