46 incontro DAS ANDERE - Fratture: resilienza e rinascita
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46°incontro DAS ANDERE – Fratture: resilienza e rinascita 46°incontro DAS ANDEREFratture: resilienza e rinascita. Olimpia Pino Sabato 16 Febbraio, presso la Bottega del Terzo Settore (Corso Trento e Trieste n.18 – 63100 Ascoli Piceno) è andato in scena il 46°evento dell’associazione culturale onlus Das Andere (il 2°evento della stagione culturale 2019 “Aristosophia”), “Fratture: resilienza e rinascita”, con ospite la dott.ssa Olimpia Pino, Professore Associato di Psicologia Generale al Dipartimento di Medicina e Chirurgia Unità di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Parma.
La conferenza moderata dalla dott.ssa Valentina Artoni, è stata introdotta dalla vice-presidente di Das Andere, la dott.ssa Valentina Galati. Dopo i saluti del
presidente della Bottega del Terzo Settore dott.Roberto Paoletti, l’obiettivo emerso è stato quello di accrescere la consapevolezza degli effetti dell’esposizione a eventi potenzialmente traumatici e migliorare le possibilità di trattamento.
La professoressa Pino ha asserito come sia “necessario un approccio orientato alle persone per riformare i modelli attuali di recupero che si basano
principalmente sul supporto materiale e sulla riparazione delle infrastrutture fisiche”. Come affermato dalla dott.ssa Artoni, il Post-Traumatic Stress Disorder è un disturbo mentale e il gruppo ha condotto uno studio allo scopo di valutare la persistenza dei sintomi in un campione di Comuni dell’Italia Centrale colpiti dal sisma.
L’incidenza del disturbo post-traumatico cresce in presenza di lutti (39,10 %), lesioni (23,28 %), danni alla propria abitazione (38,49 %) per aumentare ancora
con la delocalizzazione in quanto in tal caso viene a mancare il supporto della propria rete sociale di riferimento. L’esposizione a eventi potenzialmente traumatici, inoltre, estende la vulnerabilità a problemi di salute mentale come l’abuso di sostanze e la depressione nell’arco di vita. Per migliorare la consapevolezza sul PTSD e sul suo impatto sull’individuo, la famiglia e la comunità in generale, il gruppo ha condotto uno studio, i cui risultati saranno comunicati nel corso della conferenza, allo scopo di valutare la persistenza dei sintomi in un campione di Comuni dell’Italia Centrale colpiti dal sisma così come i fattori di rischio e le variabili di vulnerabilità che possono favorire l’insorgenza e la cronicizzazione della patologia usando i primi 16 item della IV° parte dell’Harvard Trauma Questionnaire – HTQ.
Fondamentale sarà avere questionari di screening rapidi ed efficienti per identificare le patologie in corso e indirizzare verso percorsi terapeutici adeguati.
L’associazione Das Andere, oltre il nutrito pubblico, ringrazia la Regione Marche, Il Comune di Ascoli Piceno, La Fondazione Carisap e l’Università degli Studi di Parma per aver patrocinato l’incontro. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Ariston-Agathos. Esegesi del programma Aristosophia Ariston-Agathos. Esegesi del programma Aristosophia. D.Ferretti a cura di Stefano Scalella 02 Febbraio 2019 – Libreria Rinascita – Piazza Roma n.7 – 63100 Ascoli Piceno Introduce: Giuseppe Baiocchi Modera: Alessandro Poli Interviene: Donatella Ferretti Sabato 02 febbraio 2019 è andato in scena il 45°incontro della associazione culturale onlus Das Andere, il primo del programma culturale 2019 “Aristosophia”. L’evento, introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi e moderato dal dott.Alessandro Poli, ha avuto come ospite la professoressa Donatella Ferretti, già vice-sindaco della città di Ascoli Piceno. La tematica dell’incontro si è incentrata sul significato, nel mondo classico, del binomio dei termini “Ariston” e “Agathos”. La dott.ssa Ferretti introducendo il concetto di nobiltà, ha rimarcato – riprendendo l’etimologia classico-antica del termine – come questa sia indissolubilmente legata alla parola virtù. Fondamentale diviene dunque il concetto di aretè (virtù, dal greco ἀρετή) che in origine significava la capacità di qualsiasi cosa, animale o persona di assolvere bene il proprio compito. In una società odierna dove vige una continua strumentalizzazione dei fenomeni, legati anche ad una banalizzazione degli stessi, il concetto “del meglio” si può ritrovare unicamente nelle caratteristiche di nobiltà d’animo, integrità morale e sincerità spirituale. Da qui il compito annuale dell’associazione che si è prefissa l’obiettivo di operare una chiarezza sui valori culturali europei, nella sarabanda culturale che ci permea. Le scelte simboliche della civetta – simbolo di sapienza, di conoscenza e non di sventura – e del San Giorgio che sconfigge il Draco- serpente – ovvero il bene che vince sul male (male inteso come banalità e
appiattimento valoriale) -, ci indicano la via simbolica della nostra ri-nascita spirituale. Hohenzollern e Hitler: rapporti tra la casa imperiale e il Führer Hohenzollern e Hitler: rapporti tra la casa imperiale e il Führerdi Giuseppe Baiocchi del 10/02/2019 Friedrich Wilhelm Viktor Albrecht von Hohenzollern (1869 – 1941) fu il nono e ultimo König di Prussia. Quando il primo novembre del 1918, il suo ministro degli interni Bill Drews (1870 – 1938) gli propose l’abdicazione, dovuta alle pressioni popolari di Berlino, Wilhelm II di Prussia rispose: «come può lei, un funzionario prussiano, uno dei miei sudditi che mi ha giurato fedeltà, avere l’insolenza e la sfrontatezza di sottopormi una richiesta del genere»? Eppure gli eventi furono largamente maturi per la sua abdicazione, la quale avvenne il 9 novembre, dopo lo scoppio della rivoluzione novembrina alemanno-tedesca. Nella foto (da sinistra a destra) sono ritratti tre familiari imperiali tedeschi durante l’esilio in Olanda: il principe ereditario della casata degli Hohenzollern Friedrich Wilhelm Victor August Ernst (1882 – 1951); segue il Kaiser Friedrich Wilhelm Viktor Albert (Wilhelm II); infine il figlio primogenito del principe
ereditario Wilhelm Friedrich Franz Joseph Christian Olaf (1906 – 1940), morto durante le operazioni belliche del 1940 in Francia. Esiliato in Olanda, dal 10 novembre del 1918, il Kaiser visse la vita di un gentiluomo di campagna e sebbene pensasse costantemente ad un restauro del suo Trono, la Germania in pochi anni cambiò terribilmente. Dal Castello di Amerongen, sede della sua residenza, non uscì quasi mai. I pochi estranei che riescono ad avvicinarlo dicono che appariva molto invecchiato, ma i giornali di tutto il mondo sono alla caccia di una sua foto. L’ex Kaiser non riceve fotografi, finché un giornalista olandese riuscì nell’impresa sul finire dell’estate del 1919. Travestitosi da contadino e appostatosi su un carro carico di fieno, fermo presso l’alto muro di cinta del castello, aveva immortalato Wilhelm uscito con la moglie a passeggiare nel grande parco: gli era cresciuta una foltissima barba. Durante l’esilio dorato olandese, la sua religione cristiano-protestante aumentò di portata e precedentemente alla presa del potere (1933) di Adolf Hitler (1889 – 1945), il partito nazionalsocialista iniziò un lungo corteggiamento politico, con la promessa di restaurare la Monarchia. Hitler chiese al Kaiser Wilhelm, una richiesta semplice: l’appoggio dell’elettorato reazionario alle elezioni del luglio del 1932, trovando un accordo con il capo della casata degli Hohenzollern. In verità il primo Führer, di stampo nazional-socialista, era molto lontano dalle ideologie monarchiche, ma da ottimo politico aveva un necessario bisogno di voti. Quando nel 1933, Hitler diventando Cancelliere del Reich, pose un rigoroso silenzio sulla “questione monarchica”, i rapporti con il Kaiser si raffreddarono, fino ad arrivare ad un disprezzo reciproco. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale rifiutò l’offerta di salvataggio da parte degli inglesi e, si deve dire, provò una certa gioia nel vedere la Francia sconfitta e le truppe tedesche che marciavano trionfanti attraverso Parigi. Dopotutto rimaneva pur sempre un conservatore, ed un convinto sostenitore del militarismo. Soltanto quando saprà delle persecuzioni di Hitler contro gli ebrei asserirà: «per la prima volta mi vergogno di essere tedesco». Di lì a poco spirò il 4 giugno del 1941, dove nel suo testamento vietò l’esibizione di eventuali svastiche al suo funerale e rifiutò anche di essere sepolto in Germania, purché non vi fosse restaurata la sua Monarchia. Ciò impediva a Hitler di dare spettacolo della sua scomparsa e, nonostante il divieto del leader nazista, molti ufficiali e funzionari tedeschi di alto livello assistettero al sobrio funerale. Le sue spoglie riposano fino ad oggi presso il castello di Huis Doorn nei Paesi Bassi. Durante gli anni della dittatura nazista in Germania, alcuni reali abbracciarono il nuovo regime mentre altri si opposero con convinzione. Coloro che si unirono ai nazisti provenivano principalmente da famiglie minori che sentivano di non avere nulla da perdere nel farlo e avrebbero guadagnato poco se il vecchio sistema monarchico fosse stato restaurato. Tuttavia, furono i reali prussiani a essere al
centro dell’attenzione mediatica, in quanto prima rappresentavano il nucleo familiare imperiale di tutta la Germania. Del ramo dinastico degli Hohenzollern è importante ricordare che solo un figlio dell’ex Kaiser, il principe August Wilhelm Heinrich Günther Viktor principe di Prussia (1887 – 1949) abbracciò la causa nazista. Un coinvolgimento politico, che gli causò, da parte di suo padre Wilhelm II, la rinnegazione come proprio figlio. Alcuni pensarono che il principe August Wilhelm nutrisse l’ambizione di conquistare il Trono imperiale per se stesso o forse per suo figlio, ma, naturalmente, tale operazione non fu mai presa in considerazione da parte del movimento nazista. Alla fine Hitler si rivolgerà a lui, quando i reali tedeschi non rientrarono più nei propri piani politici. Come la tradizione esigeva, numerosi principi prussiani, mentre sfidavano il partito nazional-socialista, si unirono alla Wehrmacht, l’organo militare più conservatore e reazionario nella Germania degli anni Trenta e Quaranta, combattendo il secondo conflitto mondiale nella sua parte iniziale. È importante capire chi fossero questi uomini e perché servissero ancora la Germania, nonostante il partito nazista usava nei loro confronti una politica denigratoria al punto di farli apparire come caricature fittizie e ridicole. È bene affermare che non tutti i tedeschi erano legati al partito nazional-socialista: molti possedevano la tessera per scopi opportunistici, altri per paura e infine alcuni per devozione nazionale. Ne è un esempio il famoso caso dell’imprenditore tedesco Oscar Schindler (1908 – 1974) membro del partito, onorato fino ad oggi per aver salvato le vite di molti ebrei (1.100 persone) durante l’Olocausto. Potsdam, marzo del 1933: il principe ereditario Friedrich Wilhelm Victor August Ernst (1882 – 1951) in compagnia del leader nazional-socialista Adolf Hitler, davanti alla Chiesa protestante di Garrison. Il problema che affliggeva i reali tedeschi era lo stesso di molte teste coronate di tutta Europa, i cui paesi avevano abolito le loro monarchie: se mettersi in
opposizione al proprio paese a causa del proprio governo o difendere la propria patria indipendentemente dalla situazione politica. In assenza del Kaiser, esiliato in Olanda, il sovrano più alto in Germania era il principe ereditario prussiano Friedrich Wilhelm Victor August Ernst (1882 – 1951). Alto, magro, dal contegno rilassato, con un collo slanciato che la satira dell’Intesa, durante la Grande Guerra, prese di mira. Era ritratto come un dandy, ma tutto ciò fu largamente ingiusto per il defunto principe ereditario. In quasi tutti i casi il ritratto esagerato di lui è completamente falso. Nato ed educato per ereditare un Impero, si formò come un pangermanista convinto, ma pochi conoscono la sua avversità verso il conflitto bellico che trascinò l’Europa verso la sua guerra civile: il principe ereditario non era un guerrafondaio. Quando scoppiò la guerra nel 1914, che definì «stupida», al principe fu dato il comando del quinto esercito tedesco sul fronte occidentale e, nonostante ciò che molti pensano ora, fu un abile comandante sul teatro bellico. Ha ottenuto ottimi voti per la sua leadership nelle Ardenne durante l’iniziale invasione tedesca e, sebbene non fosse un genio militare, era certamente capace, degno del suo rango e immeritevole del dileggio avversario di cui fu vittima. All’inizio del 1916 le sue forze guidarono l’offensiva contro Verdun, per la quale è stato spesso anche molto e ingiustamente criticato. Nel 1917 cominciò a parlare in favore della fine della conflitto. Le sue armate vinsero nella battaglia dell’Aisne nel 1918 e con l’abdicazione del Kaiser, andò in esilio come suo padre. Gli fu permesso di tornare in Germania nel 1923, dove continuò a sostenere il restauro degli Hohenzollern. Durante il nazismo, tutti i suoi figli in grado di prestare servizio militare, durante la seconda guerra mondiale, si arruolarono. L’unico a non arruolarsi fu il figlio più giovane, il principe Friedrich Georg Wilhelm Christoph di Prussia (1911 – 1966), che stava studiando in Inghilterra quando scoppiò la guerra. Fu arrestato dalle autorità britanniche come “nemico straniero” e posto in un campo di internamento in Inghilterra e in seguito trasferito in Canada. In entrambi i campi, i suoi compagni di reclusione lo elessero loro capo e divenne un cittadino britannico dopo la guerra nel 1947. Il primogenito Wilhelm Friedrich Franz Joseph Christian Olaf (1906 – 1940) e il terzo figlio Hubertus Karl Wilhelm (1909 – 1950) prestarono servizio nella Wehrmacht; mentre il secondo Louis Ferdinand Viktor Eduard Albert Michael Hubertus (1907 – 1994) prestò servizio nella Luftwaffe. Il loro padre, principe ereditario Wilhelm, è stato spesso ritratto come membro o sostenitore del partito nazista: nulla di più falso. Egli fu un patriota tedesco, conservatore, in pieno contrasto con il trattato di Versailles come qualsiasi tedesco patriottico e si oppose alla Repubblica di Weimar, per il suo carattere largamente progressista. Non è mai stato un membro o un sostenitore del partito nazista. Le ipotesi contrarie derivano in gran parte dal fatto che numerose sue foto, indossano quella che sembra la classica uniforme nazista degli Sturmabteilung (SA). Nonostante le apparenze, il principe ereditario non
apparteneva alle SA (di stampo socialista e protestante), ma apparteneva al National Socialist Motor Corps (NSKK), un’organizzazione sussidiaria per gli appassionati di automobili e motocicli. Era un fatto comune nella Germania degli anni Trenta che tutte queste organizzazioni dovevano adottare uniformi conformi al partito nazional-socialista, tra cui le onnipresenti camicie brune e le cinghie con la svastica. Tuttavia non vi era nulla di sinistro nello stesso NSKK: si addestravano conducenti, si tenevano manifestazioni e si aiutato gli automobilisti, in modo simile alle organizzazioni anglosassoni come la “AAA” begli Stati Uniti o la “British Automobile Association” in Gran Bretagna. Il principe ereditario Wilhelm non è mai stato membro del partito nazista e non ha mai appoggiato Adolf Hitler o il suo movimento. La leadership nazista non ha mai visto il principe ereditario come un alleato, ma piuttosto il contrario e i loro sentimenti su quel punto sarebbero diventati molto chiari nel corso della seconda guerra mondiale. Mentre, all’inizio, cercavano di reclutare i reali come vetrine per aggiungere legittimità alle riunioni naziste, i membri del partito erano paranoici riguardo a qualsiasi solidarietà per la vecchia monarchia e agivano contro i reali anche se stavano prestando servizio in uniforme con le forze armate tedesche. Il primogenito di “Wilhelm III”, anche lui di nome Wilhelm, quando nel 1933 – contro il volere di suo nonno -, sposò Dorothea von Salviati (1907 – 1972) incontrata mentre era a scuola a Bonn, per le leggi dinastiche dovette rinunciare alla sua pretesa al Trono e ai diritti di successione per eventuali futuri figli. Così facendo, il futuro della casa di Hohenzollern divenne responsabilità del fratello minore, il principe Louis Ferdinand. Lontano dalla Germania per lungo tempo – essendosi stabilito negli Stati Uniti e avendo iniziato un lavoro a Detroit (Michigan), dove è stato accolto da Henry Ford (1863 – 1947) -, quando le azioni di suo fratello lo richiamarono in Germania nel 1934, accettò il compito senza riserbo. Bisogna comunque segnalare che il principe Louis Ferdinand non era contento del matrimonio di suo fratello e di come le sue azioni lo avessero spinto verso una posizione di futuro capo della famiglia, ma sarà unicamente la sua linea di sangue che porterà avanti il lascito della casata degli Hohenzollern fino ai giorni nostri. Il principe Louis Ferdinand lavorò nel settore dell’aviazione tedesca e in seguito si unì alla Luftwaffe come ufficiale di addestramento. Il primogenito, principe Wilhelm, parallelamente dopo il matrimonio divenne un ufficiale del Primo Reggimento della Prima Divisione, ricoprendo il comando della 11a Compagnia nel 1938. Il terzogenito, il principe Hubertus, doveva assistere all’ottavo reggimento, presso la terza divisione di fanteria (anche lui in seguito si trasferì alla Luftwaffe). Quando scoppiò la seconda guerra mondiale i due principi, arruolati nella Wehrmacht, parteciparono entrambi all’azione bellica di offesa alla Polonia nel 1939. Un altro reale prussiano, di ramo cadetto, il principe Oskar Wilhelm Karl Hans Cuno von Hohenzollern (1915 – 1939), ufficiale di
riserva, fu ucciso in azione a Widawka, in Polonia, il 5 settembre 1939. Hitler per la prima perdita “Imperiale” non permise alcuna manifestazione, non facendo sollevare la questione, attraverso i propri canali mediatici. Più tardi, tuttavia, quando il primogenito degli Hohenzollern (principe Wilhelm) – che stava combattendo al fronte nell’invasione della Francia (1940) -, fu ferito a morte a Valenciennes (spirò pochi giorni dopo a Nivelles il 26 maggio 1940), la notizia non poté essere repressa: due principi prussiani uccisi in un anno sul fronte, disturbarono molto la leadership nazista, la quale non gradiva clamori sulla questione. Principe Wilhelm di Prussia (1906 – 1940) nell’aprile del 1933, figlio del principe ereditario Wilhelm III. Quando le notizie sulla morte del principe Oskar e del principe Wilhelm arrivarono in Germania, ci fu un’ondata di simpatia nei confronti della famiglia reale prussiana. I funerali del principe Wilhelm furono celebrati nella Chiesa della Pace e più di 50.000 tedeschi dimostrarono il loro sostegno alla Casa di Hohenzollern. L’enorme numero di persone in lutto causò il panico dei dirigenti nazisti, che immediatamente emanarono il cosiddetto “decreto del principe” che vietò a tutti i reali prussiani il servizio militare. Il terzogenito, principe Hubertus, fu estromesso dal fronte e praticamente costretto a porre fine alla sua carriera militare; mentre al secondogenito, principe Louis Ferdinand della Luftwaffe, gli fu impedito di volare. Il proclama, sotto il profilo della propaganda di partito, voleva esentare dalla leva i reali per «non creare ulteriori lutti, verso una grande famiglia tedesca e risparmiare dolore alla popolazione». L’unico principe prussiano a cui fu permesso di rimanere al suo posto nell’esercito fu Alexander Ferdinand Albrecht Achilles Wilhelm Joseph Viktor Karl Feodor (1912 – 1985), unico figlio di August Wilhelm Heinrich Günther Viktor (1887 – 1949), quarto figlio del Kaiser in esilio, Wilhelm II, poiché era membro del
Partito nazista (come il padre) e originariamente membro delle Camicie brune. Una volta emesso il decreto, questo coincise con una repressione nazista sui reali e sui monarchici in generale. Ogni pretesa di essere in qualche modo solidale con la vecchia monarchia fu abbandonata e anche i pochi reali filo-nazisti in Germania furono messi da parte e sottoposti a controllo dello Stato. Il principe Alexander Ferdinand, che un tempo aveva nutrito la speranza di divenire il successore di Adolf Hitler, fu estromesso politicamente dal partito, ritrovandosi isolato, poiché la sua adesione al nazismo gli aveva chiuso le porte della Casa Imperiale. Quando si sposò nel 1938 nessuno dell’aristocrazia degli Hohenzollern partecipò al matrimonio. La maggior parte della famiglia reale prussiana aveva legami molto più stretti con i dissidenti del partito. Il principe ereditario Wilhelm III, rilevò la sua avversione al partito con il palese regalo che inviò al monarchico e anti-nazista Reinhold Wulleche, spedito successivamente in un campo di lavoro per aver tentato l’organizzazione di un movimento di opposizione monarchico. Dopo tale gesto di solidarietà la vita di Wilhelm fu controllata in ogni istante dai nazisti: durante la guerra, ma soprattutto dopo l’Operazione Valchiria, il tentativo di assassinio di Hitler del 1944. Alla Gestapo fu ordinato di pedinare il principe in ogni momento. Il gruppo reazionario-conservatore di stampo prussiano, che organizzò il tentativo di omicidio ha avuto numerosi legami con la famiglia reale prussiana. Secondo i piani dell’attentato del 20 luglio del 1944, il nuovo Cancelliere della Germania sarebbe stato il monarchico e conservatore Carl Friedrich Goerdeler (1884 – 1945), e rilievo politico sarebbe stato concesso al secondogenito principe Louis Ferdinand come potenziale Kaiser tedesco che avrebbe ripristinato la Monarchia e trattato la resa, come nuovo Governo Tedesco. Molti dei cospiratori erano anche membri del ramo tedesco dei Cavalieri di San Giovanni di Rodi e Malta, presieduto dal principe Oskar Karl Gustav Adolf di Prussia (1888 – 1958), il cui figlio (e successore in quella posizione) scrisse in seguito una storia del movimento di resistenza tedesco. Quasi tutti gli esponenti della Wehrmacht del colpo di Stato monarchico furono catturati, processati e uccisi. Uno dei pochi coinvolti che miracolosamente fu risparmiato, per volere di Hitler (che non voleva fucilare un personaggio amato dal popolo tedesco), fu il filosofo Ernst Jünger, eroe della Grande Guerra e capitano durante il secondo conflitto; così ricordò l’evento: «fu sotto l’egida del generale Speidel che potemmo formare a Parigi, all’interno della macchina militare, nel cuore stesso del mostro, un circolo ristretto fedele allo spirito e ai valori cavallereschi. Dei gruppi dovevano entrare in azione contro Hitler: il luogotenente von Hokafcker e lo stesso comandante von Stulpnagel mi spiegarono che bisognava violare il sistema di sicurezza “numero uno” della Wolfs.Schanze e riuscire a stare cinque minuti con un’arma nel quartier generale del Führer. Bisognava far saltare Hitler per trattare con l’Occidente in previsione di una
catastrofica disfatta ad Oriente. Non era quindi resistenza ideologica, ma fronda sulle scelte militari. Io, però non credevo negli attentati. La storia dimostra che in genere giovano solo al potere in carica. Ero scettico e da certi segnali avevo intuito lo scacco. Andò male e il nostro circolo fu decimato». Il già citato Goerdeler fu catturato dalla Gestapo il 12 agosto del 1944 e impiccato come traditore della Patria. Prima di morire dichiarò: «Chiedo al mondo di accettare il nostro martirio come atto di penitenza in nome del popolo tedesco». Sebbene non fosse personalmente coinvolto nel complotto dell’assassinio, i legami tra la resistenza e il secondogenito Louis Ferdinand Hohenzollern furono sufficienti per il suo arresto. Fu interrogato dalla Gestapo e successivamente imprigionato nel campo di concentramento di Dachau. Lo stesso Adolf Hitler affermò che «il principe ereditario è l’istigatore» dell’attentato alla sua vita. Il ministro della propaganda Paul Joseph Goebbels (1897 – 1945) proclamò, verso gli aristocratici tedeschi, «dobbiamo sterminare questa sporcizia», e il capo delle Schutzstaffel (SS) Heinrich Luitpold Himmler (1900 – 1945) riferì come: «non ci saranno più principi. Hitler mi ha dato l’ordine di finire tutti i reali tedeschi e di farlo immediatamente». Nell’immagine (da sinistra a destra): il filo-nazista Alexander Ferdinand Albrecht Achilles Wilhelm Joseph Viktor Karl Feodor (1912 – 1985); il principe e generale delle SS Josias Georg Wilhelm Adolf Waldeck e Pyrmont (1896 – 1967) e l’anti nazista e principe Oskar Karl Gustav Adolf di Prussia (1888 – 1958). Per motivi temporali e soprattutto bellici, le minacce naziste non furono attuate, ma il principe Louis Ferdinand fu come citato mandato in un campo di concentramento e la repressione antireale fu così diffusa che vide l’arresto del principe filo-nazista Philipp von Hessen-Kassel und Hessen-Rumpenheim (1896 – 1980, Filippo d’Assia) e di sua moglie la principessa Mafalda di Savoia (1902 – 1944), la quale trovò la morte nel campo di concentramento di Buchenwald il 28
agosto 1944. Le stime riportano che seimila reali e aristocratici furono uccisi nelle purghe dopo il complotto. Himmler voleva che tutti i principi tedeschi sfilassero attraverso Berlino, per essere oltraggiati, prima della loro esecuzione e le loro proprietà sequestrate e ridistribuite ai fedeli nazisti. Sembra paradossale che ancora oggi alcuni storici moderni facciano di tutto per collegare la monarchia tedesca con il partito nazional-socialista, quando proprio quest’ultimo era assolutamente certo che gli Hohenzollern fossero il cuore e il centro della loro più pericolosa opposizione interna. Quei prussiani e altri principi reali che combatterono nelle forze armate tedesche, quasi senza eccezione, lo fecero puramente per la loro devozione alla Germania e al popolo tedesco e non per simpatia verso il regime nazista. Quei principi e aristocratici che erano veramente devoti alla causa nazista erano pochissimi e si trovarono traditi dal partito che servivano e scacciati dal resto della loro classe e spesso dalle loro stesse famiglie. Gli aristocratici contro cui il partito non si è scagliato, come il principe e generale delle SS Josias Georg Wilhelm Adolf Waldeck e Pyrmont (1896 – 1967), furono condannati dopo la fine della guerra dagli Alleati. Dopo il conflitto la casata degli Hohenzollern, vide la morte di Wilhelm III nel 1951 e la leadership della famiglia passò nelle capaci mani del principe Louis Ferdinand Hohenzollern, un uomo dai legami amichevoli con gli alleati e uno strenuo oppositore del regime nazista per tutta la sua vita. Per approfondimenti: _Walter Henry Nelson, Gli Hohenzollern – Odoya, Bologna 2016; _Giovanni Ansaldo, L’ultimo Junker. L’uomo che consegnò la Germania a Hitler – Le Lettere, Grassina (Fi), 2007; _Stephan Malinowski, Vom König zum Führer: Der deutsche Adel und der Nationalsozialismus – Fischer Taschenbuch, 2004; _Ernst Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945 – Guanda, Milano, 1995. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata 45°incontro DAS ANDERE –
Ariston-Agathos 45°incontro DAS ANDEREAriston-Agathos – Esegesi del programma Aristosophia. Donatella Ferretti Sabato 02 febbraio 2019 è andato in scena il 45°incontro della associazione culturale onlus Das Andere, il primo del programma culturale 2019 “Aristosophia”. L’evento, introdotto dal presidente arch.Giuseppe Baiocchi e moderato dal dott.Alessandro Poli, ha avuto come ospite la professoressa Donatella Ferretti, già vice-sindaco della città di Ascoli Piceno. La tematica dell’incontro si è incentrata sul significato, nel mondo classico, del binomio dei termini “Ariston” e “Agathos”. La dott.ssa Ferretti introducendo il concetto di nobiltà, ha rimarcato – riprendendo l’etimologia classico-antica del termine – come questa sia indissolubilmente legata alla parola virtù.
Fondamentale diviene dunque il concetto di aretè (virtù, dal greco ἀρετή) che in origine significava la capacità di qualsiasi cosa, animale o persona di assolvere bene il proprio compito. In una società odierna dove vige una continua strumentalizzazione dei fenomeni, legati anche ad una banalizzazione degli stessi, il concetto “del meglio” si può ritrovare unicamente nelle caratteristiche di nobiltà d’animo, integrità morale e sincerità spirituale.
Da qui il compito annuale dell’associazione che si è prefissa l’obiettivo di operare una chiarezza sui valori culturali europei, nella sarabanda culturale che ci permea. Le scelte simboliche della civetta – simbolo di sapienza, di conoscenza e non di sventura – e del San Giorgio che sconfigge il Draco-serpente – ovvero il bene che vince sul male (male inteso come banalità e appiattimento valoriale) -, ci indicano la via simbolica della nostra ri-nascita spirituale.
Nel finale bellissimo dibattito con il nutritissimo pubblico presente, che ha visto anche molti esponenti di diverse associazioni culturali cittadine, come
“l’associazione chitarristica picena” e l’associazione “Culturalmente insieme” dell’esponente prof.Stefano Papetti, il quale durante il dibattito è intervenuto sul dipinto di Raffaello – rappresentante il San Giorgio – che è stato presentato come immagine simbolo dell’evento.
L’associazione infine ringrazia gli enti istituzionali quali, la Regione Marche, il Comune di Ascoli Piceno, la Fondazione Carisap, l’associazione Rinnovamento nella Tradizione e la Libreria Rinascita che ha ospitato l’incontro. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Hermann Goering e la mania per l’arte Hermann Goering e la mania per l’artedi Liliane Jessica Tami del 04/02/2019 Nel 2015 la casa editrice francese Flammarion ha mandato alle stampe il catalogo completo delle opere d’arte appartenute alla collezione privata del Reichmarschall Hermann Goering (Rosenheim, 1893 – Norimberga, 1946). La pubblicazione del catalogo, curata da Jean-Marc Dreyfus, elenca 1376 dipinti appartenuti al secondo uomo più importante del Nazional-socialismo.
Hermann Göring nel 1917, in uniforme della Luftstreitkräfte durante la Grande Guerra. La prefazione del volume è di Laurent Fabius (1946), ministro degli Esteri francese. L’interdisciplinarietà dell’opera, che tange diritto internazionale, storia dell’arte, economia e politica, è stata affrontata grazie all’intervento da un team di archivisti e storici: Isabelle Richefort, conservatore generale degli Archivi Diplomatici di Francia; Anne Liskenne, conservatore capo degli Archivi del Ministero degli Esteri; Pascal Even, conservatore generale e direttore degli Archivi di Francia e Frédéric Baleine du Laurens, direttore degli Archivi diplomatici del Ministero degli Esteri. Il catalogo originale della collezione Goering, oggi conservato presso gli Archivi diplomatici francesi, è un registro di 268 pagine di circa 23 x 35,5 cm redatto a mano tra il 1940 e il 1945. I fogli, suddivisi in colonne in cui vengono elencati i nomi delle opere, le relative descrizioni, gli artisti, il luogo di provenienza e la nuova collocazione sono stati compilati perlopiù da Gisela Limberg, la segretaria di Hermann Goering, che lavorava accanto al negoziante d’arte Walter Andreas Hofer, direttore della collezione di Goering.
Una pagina del Catalogo Goering. Nelle caselle, da sinistra: il numero dell’opera, per ordine d’acquisizione, il titolo e l’autore, la descrizione dell’opera, la sua provenienza e infine il nuovo luogo di esposizione. Il ricercatore Jean-Marc Dreyfus (1968) descrive la controversa figura di Hermann Goering come un principe del Rinascimento: egli sfruttò la sua carriera politica per promuovere le belle arti in Germania mediante il mecenatismo, istituì scuole artistiche e creò svariate collezioni e musei. Goering, infatti, il 9 giugno 1938 a Kronenburg, come un grande mecenate rinascimentale, inaugurò la sua scuola d’arte per promuovere la Weltanschauung hitleriana nell’ambito creativo. In questa scuola, l’artista veniva visto come il depositario d’un sapere iniziatico e pagano da divulgare al popolo e l’arte stessa assurgeva ad una dimensione religiosa e persino escatologica. L’idea che l’arte abbia la funzione di educare ed elevare il popolo sta alla base dei grandi espropri artistici che i nazionalsocialisti svolsero nei confronti di privati ebrei facoltosi e di diversi musei pubblici europei. Quando alla Francia, dopo la sconfitta militare del 1940, gli fu imposta la visione del mondo socialista e nazionalista, della Repubblica di Vichy, questa lasciò agli eserciti di Hitler (Wehrmacht e SS) di fare irruzione nei musei pubblici e nelle case degli ebrei più facoltosi, per prelevare tutto ciò che di prezioso fosse presente, compresi gioielli , mobili e tappeti. I tedeschi confiscarono ai ricchi ebrei inestimabili tesori, che finirono nei musei germanici, come il Kunst Museum di Linz in Austria, per essere contemplati dal popolo alemanno. Alcuni capolavori, invece, vennero trasportati nelle dimore private dei vertici del Reich. Hitler, per la propria collezione personale, raccolse circa 5mila pezzi e Goering circa 2mila. Dai preziosi manufatti appartenuti alla collezione Goering se ne evince la vasta e raffinata cultura umanistica, unita al più estremo fanatismo politico. Egli possedeva tantissime cariche ed onorificenze (presidente del Reichstag, ministro- presidente di Prussia, fondatore della Gestapo, eroe di guerra, asso dell’aviazione, ministro della Luftwaffe, grande imprenditore e insignito da Adolf Hitler come
protettore supremo della natura e dell’ambiente, capo dei cacciatori ecc.), e vantava anche una passione per la poesia, la mitologia e la letteratura, dovuto al suo animo da esteta. Ovviamente per lui la trinità composta da razza, paganesimo e arte era basilare, perciò il suo gusto estetico non poteva che essere fortemente influenzato dalla propria etica fondata sul superomismo ariano. Inizialmente Goering collezionò soprattutto autori tedeschi: il suo favorito era Lucas Cranach, di cui aveva 54 opere. In seguito si interessò anche agli olandesi e fiamminghi del Seicento, ritenuti appartenere al medesimo ceppo razziale nordico dei germani. Fra i Cranach collezionati alcuni erano assai belli come il pagano Giudizio di Paride oggi a Basilea o il Piramo e Tisbe. Pian piano Goering ampliò il proprio settore di nicchia ed iniziò a procurarsi anche opere delle più disparate epoche storiche e regioni geografiche. Nella sua collezione figurano il capolavoro pagano la Leda con il cigno, allora ritenuta di Leonardo da Vinci (oggi nel Museumslandschaft Hessen di Kassel), numerosi Canaletto, Tintoretto, Masolino da Panicale e tantissimi altri autori Italiani, come Botticelli, Tiziano, Sebastiano Ricci, Francesco Padovanino e altri artisti rinascimentali. Tra le sue opere di autori italiani figura anche il ben più moderno Boldini, con due splendidi quadri prelevati dalla galleria del miliardario ebreo Maurice Rothschild. Dalla scuola di Fontaine Bleu sino agli impressionisti francesi, Goering è riuscito a comporre un vero e proprio tempio alla storia dell’arte moderna europea. Tiziano Vecellio, «Danea» (1545). I temi pagani e mitologici erano molto amati da Goering. Questo splendido quadro del Tiziano si trovava in camera sua. La vita pubblica di Hermann Goering è stata fortemente influenzata dalle sue inclinazioni private da esteta stravagante, in bilico tra il rigore e la purezza classici e l’impeto sentimentale romantico. Colto dandy in grado di disegnarsi da solo le proprie uniformi e sprezzante dei diritti fondamentali dell’uomo, sensibile amante del bello e ex-impietoso soldato, meticoloso collezionista e devoto
fanatico, ha conservato la maggior parte delle sue opere d’arte a Carinhall, una bellissima e sfarzosa villa nei boschi presso Berlino. Qui Hitler teneva gli incontri diplomatici più importanti del Reich, ed aveva espressamente chiesto a Goering di rendere il luogo quanto più bello e lussuoso possibile. Di fatto, la collezione di Goering al Carinhall era sì a lui intestata a titolo privato, ma ne potevano fruire tutti i vertici del sistema politico tedesco. Nel cortile di questo spettacolare museo immerso nella natura, ricchissimo ed imponente, è stato persino eretto un piccolo castello intitolato ad Edda, la figlia di Goering. Carinhall non era però solo il cuore dell’arte e della diplomazia germanica: era per Goering anche un monumento alla sua defunta Carin von Kantzow, fervente nazionalsocialista ed aristocratica svedese morta precocemente il 31 ottobre 1931. Interni del Carinhall: residenza principesca fatta costruire da Göring negli anni trenta in onore della sua amante svedese, Carin von Fock, che per lui abbandonò sia il marito che il figlio. Per assemblare la sua grandiosa collezione Goering ha impiegato tanti anni e tanti esperti. Tra questi il più celebre è sicuramente il seducente Bruno Lohse (1911 – 2007), elegante ufficiale parigino delle SS, integrato nella Luftwaffe e laureato in Storia dell’Arte con specializzazione in pittura fiamminga. A soli 29 anni divenne il negoziante d’arte di fiducia di Goering. Questo ragazzo colto, elegante e di spicco nella Parigi bene era riuscito a procurare quadri di inestimabile valore ai vertici del Reich e, come riporta Isabelle Richefort, assistente del direttore degli Archivi diplomatici, si è sempre impegnato affinché nessun quadro venisse portato via dai musei pubblici francesi. Lohse lavorava molto, sia nel suo ufficio presso l’ERR (Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, una sorta di università nazionalsocialista) che nel museo Jeu de Paume, accanto al Louvre, dove era stato provvisoriamente installato il deposito delle opere confiscate agli ebrei, ma non volle mai essere pagato per ciò: comprare,
espropriare, valutare e vendere opere per conto dei vertici del Nazionalsocialismo era per lui un gesto di filantropia verso l’Europa e una vocazione ideologica. Un altro esperto d’arte che collaborò col Reichsmarschall fu Gustav Rochlitz, un gallerista tedesco che si è specializzato in transizioni verso la Svizzera, ed in particolar modo con Theodor Fischer (1878 – 1957), di Lucerna. Il Giornale dell’Arte, numero 363, pubblicato nell’aprile 2016, a pag.14, riporta un elenco di ben 34 commercianti d’arte, tra cui nobili, professori, galleristi, che si arricchirono vendendo a Goering. Adolf Hitler regala «La bella falconiera» di Hans Makart a Hermann Göring. Non tutti i tesori appartenuti alla collezione Goering furono frutto di regolari scambi economici: alcuni di essi furono espropriati con la forza ai proprietari privati ebrei, ritenuti illegittimi in quanto considerati non europei. La prima azione di confisca a danno dei proprietari semiti avvenne per mano delle SS nel 1940, quando i beni delle famiglie Rosenberg, Bernheim, Rothschild e Seligmann vennero prelevati sotto la supervisione del professor Kurt von Behr (1890 – 1945). Un documento del 3 novembre 1941 redatto dal capo dell’ERR di Berlino, Gerard Utikal (1912 – 1982), asserisce che «nessun oggetto appartenente allo stato Francese o a privati francesi non ebrei è stato toccato». Dopo la guerra la Francia ha istituito una Commissione per il recupero delle opere d’arte e con l’aiuto di Rose Valland, storica e antifascista francese, è riuscita a portarsi a casa metà di tutte le opere conservate dai tedeschi, senza minimamente curarsi se appartenessero a privati o a musei statali. I russi, invece, hanno fatto razzia di capolavori, arraffandoli come bottino di guerra, distruggendoli e usando le statue greche come bersagli per il fucile. Sebbene il laghetto di Carinhall fosse nel loro settore non si degnarono nemmeno di controllarne il fondo per recuperare le statue in esso gettate: alcuni cimeli, infatti, vennero ripescati solo dopo il crollo del muro di Berlino. Nel novembre 1945 gli
americani tentano anche il recupero delle molteplici opere rubate in tutta europa dai nazisti, comprese anche quelle regolarmente acquistate. Nel 1950, quando l’operazione di spartizione della collezione Goering tra le potenze vincitrici si concluse, i comunisti spianarono Carinhall e il parco circostante con le ruspe per essere certi che nemmeno i cercatori di tesori non vi potessero più trovare nulla se non qualche vecchio coccio. Di fatto, ci si è ritrovati di fronte ad un paradosso: come Goering ha espropriato quadri, arazzi e statue a noti collezionisti d’arte ebrei, come i Rothschild, d’Alphonse Kann, Seligman, David-Weil e tanti altri, gli alleati angloamericani e francesi hanno a loro volta depredato tutti i beni artistici della Germania, sia pubblici che privati, ivi compresi quelli regolarmente comprati: un pesante tributo per la sconfitta bellica. La visione socialista del Terzo Reich ha superato la logica economica dell’appropriazione dei beni di lusso: secondo Goering l’arte europea doveva infatti appartenere agli europei e quindi andava tolta agli ebrei (ritenuti stranieri perché originari d’Israele) mediante la coercizione. La visione angloamericana ha a sua volta superato il concetto di diritto etnico di possessione delle opere d’arte, istituendo, di fatto, un nuovo diritto di possessione fondato sulla legge democratica. Il recupero della collezione Goering è stato immediato: l’intero bottino era composto da almeno 1.300 quadri, 250 sculture e 168 arazzi. Alcune opere sono tornate ai loro ex-proprietari ebrei, molte di queste sono state rivendute tramite i più disparati canali e, purtroppo, parecchie di esse sono andate perse per sempre. Per approfondimenti: _Le catalogue Goering, edizioni Flammarion Parigi, 2015; _Alessandro Marzo Magno, Missione grande bellezza, gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler, edizioni garzanti Milano, 2017; _Adolf Hitler, Il regime dell’arte, Edizioni AR, Padova, 2009; _Il Giornale dell’Arte, numero 363, aprile 2016, pag.14. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Napoleone II: un destino di
grandezza negato Napoleone II: un destino di grandezza negatodi Giuseppe Baiocchi del 24/01/2019 Nel dicembre del 1940, Parigi è una città sconfitta e occupata dalla Wehrmacht tedesca. Il sentimento francese è diviso in due: c’è la Repubblica collaborazionista di Vichy, ci sono gli appelli alla Francia libera lanciata da Charles André Joseph Marie de Gaulle (1890 – 1970) dal suo rifugio di Londra e ci sono davanti agli occhi di tutto il mondo le immagini di Adolf Hitler (1889 – 1945) vittorioso in visita a Parigi. Il Führer non vuole più apparire come un conquistatore: tenterà di ammorbidire il senso di odio e di ribellione nei suoi confronti, concedendo così un regalo ai francesi. Di notte alla Gare de l’Est, arriva una bara la quale viene caricata su una macchina nera che attraversa la città buia e deserta, fino all’Hôtel des Invalides: all’interno le ceneri di un personaggio che poteva diventare grande nella storia, ma che fu solo semplice comparsa, Napoleone François Charles Joseph Bonaparte (1811 – 1832), unico figlio di Napoleone Bonaparte I (1769 -1821). Nelle due foto (da sinistra a destra): Hitler nel 1940 visita il mausoleo di Napoleone I; statua marmorea di Napoleone I, in abiti imperiali, sopra la tomba del figlio Napoleone François Charles Joseph Bonaparte. Le Roi de Rome, così come venne denominato per aver regnato dal 22 giugno al 7 luglio del 1815, non muta minimamente l’opinione del popolo francese, che rimane indifferente, tanto che per le strade di Parigi, aleggia una battuta: «i tedeschi ci hanno restituito delle ceneri, noi avremo preferito del carbone». Ancora oggi l’Hôtel des Invalides è l’ospizio per veterani e invalidi di guerra fatto edificare nel Seicento da Luigi XIV (1638 – 1715) e all’epoca della traslazione del
sarcofago pochissime persone furono presenti: qualche dignitario di Vichy, qualche gerarca nazionalsocialista, tanto che un testimone asserì come sullo spiazzo si respirava una «atmosfera da cospirazione». Tra svastiche e corone di fiori ce ne è una che porta scritto «il Cancelliere Adolf Hitler al duca di Reichstadt». I titoli per Napoleone II sono diversi e molteplici, ma tutti privi di quello spessore politico che aveva contraddistinto il padre: Roi de Rome, duca di Reichstadt, Grand Aigle e Gran collare dell’Ordine della Legion d’Onore, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona Ferrea, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Reale di Santo Stefano d’Ungheria, Senatore di Gran Croce S.A.I. Ordine Costantiniano di San Giorgio. Il protagonista di questa storia è custodito sotto la cupola del Duomo dell’Hôtel des Invalides: attraversato il cortile, passati sotto la cupola e scesi nel mausoleo di Napoleone, in disparte è situata una nicchia con una lapide dove è scritto «Napoleone II, Roi de Rome 1811 – 1832», questa è dominata da una statua marmorea di Napoleone I in abiti imperiali, ma sulla figura di suo figlio, nulla. Il confronto con il padre è drammatico: il mausoleo che custodisce le spoglie di Napoleone I è enorme, un monumento funebre degno di un faraone con al centro un sarcofago di pietra immenso ed intorno scolpite in cerchio i suoi successi politici, diplomatici e militari. Sicuramente un colpo d’occhio estremamente diverso dalla spoglia lapide del figlio. Anche le circostanze del ritorno in patria del generale còrso avviene in una modalità totalmente differente, poiché Napoleone Bonaparte viene restituito dagli inglesi nel 1840, su richiesta del Re Louis Philippe I di Borbone-Orléans (1773 – 1850), in un clima di riconciliazione nazionale, un monarca – erede dei Re pre-rivoluzionari, ma di stampo liberal- borghese – riconosce la grandezza di Napoleone e lo ammette nel Pantheon dei grandi di Francia: una cerimonia solenne che commosse tutto il Paese. Sarà lo stesso Victor Marie Hugo (1802 – 1885), nel suo “I funerali di Napoleone”, che commenterà così l’evento: «rue du four: la neve si infittisce, il cielo si fa nero, i fiocchi di neve lo seminano di lacrime bianche, sembra che anche Dio voglia partecipare». Il figlio Napoleone II torna, di contro, in sordina, di nascosto, accolto quasi con vergogna, restituito da un invasore detestato: eppure per lui gli eventi erano iniziati con una piega molto diversa, il suo doveva divenire un destino di grandezza. «Io sono stato Filippo, lui sarà Alessandro», proferì alla sua nascita Napoleone Bonaparte I, padre insieme alla madre Maria Luisa Leopoldina Francesca Teresa Giuseppa Lucia d’Asburgo-Lorena (1791 – 1847); il loro amore fu il frutto di un innesto tra antichi e nuovi poteri, tra vecchie e nuove energie: un frutto che non maturò mai e che marcirà a soli 21 anni. Il conte Montbel, Guillaume Isidore (1787 – 1861) scrivendo nel suo “Le Duc de Reichstadt” appuntò sul giovane Napoleone: «La mia nascita e la mia morte, ecco tutta la mia storia, non sono che un imbarazzo, fra la mia culla e la mia tomba, c’è un grande
zero». Napoleone François viene al mondo per il problema dinastico del padre: Napoleone I, una volta divenuto Imperatore il 18 maggio 1804, non viene riconosciuto legittimo da nessuna corte monarchica (Trono e Altare) europea. Il suo è un impero non riconosciuto, frutto dei moti rivoluzionari che hanno tagliato la testa a Luigi XVI: un erede rafforzerebbe la sua leadership e assicurerebbe un erede alla Francia bonapartista. La prima moglie Marie-Josèphe-Rose Tascher de La Pagerie di Beauharnais (1763 – 1814) a trentasette anni, dopo quattro anni di matrimonio, non è ancora riuscita a donare un erede a Napoleone. La Costituzione imperiale creata dallo stesso Bonaparte cita all’art.4: «Napoleone può adottare i figli o i nipoti dei suoi fratelli, premesso che abbiano compiuto diciotto anni e che lui stesso non abbia figli maschi al momento dell’adozione. I suoi figli adottivi entrano nella linea di discendenza diretta». Quel figlio adottivo affermato nella costituzione, almeno secondo le voci di corte c’è già: è il piccolo Napoleone Carlo, figlio di Luigi Bonaparte (1778 – 1846) e di Hortense Eugénie Cécile di Beauharnais (1783 – 1837), raffigurato all’interno del celebre quadro del pittore Jacques-Louis David (1748 – 1825) “L’incoronazione di Napoleone” del 1808; un bambino di due anni che tiene per mano la sua mamma. Non è ufficiale, ma tutti sono convinti che un giorno l’Imperatore sarà lui, poiché rappresenta la perfetta unione di entrambi i clan familiari dei Bonaparte e dei Beauharnais. La sua investitura durerà poco: morirà a breve per una difterite, lasciando aperta la partita per la successione dell’erede imperiale. Napoleone dirà «non c’è solidità nella mia dinastia se non ho figli, i miei nipoti non possono rimpiazzarmi, la nazione non comprenderebbe. Un bambino nato nella porpora è per la nazione e per il popolo tutt’altra cosa che il figlio di mio fratello». Durante il cesarismo del bonapartismo, Napoleone avendo avuto un figlio dalla sua amante polacca Maria Walewska (1786 – 1817), capisce che il problema dinastico è riconducibile a sua moglie Marie-Josèphe, che lentamente e inesorabilmente inizia ad essere posta da parte, fino al divorzio del 1809. Dopo la vittoria francese sull’Impero austriaco di Francesco I d’Austria, sposerà la diciottenne Maria Luisa d’Asburgo-Lorena che darà alla luce Napoleone François. Dall’Aiglon di André Castelot (1911 – 2004) il giovane Napoleone François Charles Joseph ricorderà come: «mio padre sarebbe dovuto rimanere sposato con Marie-Josèphe, se Josèphine fosse stata mia madre, lui non sarebbe andato a Sant’Elena e io non sarei lasciato a languire a Vienna. Mia madre è buona, ma priva di forza, non è la sposa che mio padre meritava». Il paradosso del secondo matrimonio di Napoleone fu proprio che Maria Luisa, nata all’interno del Palazzo di Schönbrunn, era stata educata fin da bambina a temere e detestare il futuro marito, considerato dagli Asburgo un orco, un demone: anche per lei la politica non avrà cuore, ma solo testa. Alla proposta di matrimonio che Klemens Wenzel
Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein (1773 – 1859) farà alla giovane Asburgo-Lorena, questa risponderà: «quando si tratta dell’interesse dello Stato è a esso che devo conformarmi e non ai miei sentimenti. La volontà di mio padre è sempre stata la mia. La mia felicità sarà sempre la sua. Con il permesso di mio padre, io dò il consenso al mio matrimonio con l’Imperatore Napoleone». Nelle corti europee nasce la voce che la giovane Maria Luisa fu consegnata alle “fauci del minotauro”. L’unione avvenne l’undici marzo in matrimonio religioso a Vienna, per procura, con Napoleone non presente: fu rappresentato dall’arciduca Carlo, lo zio di Maria Luisa. Litografia austriaca di Napoleone François Charles Joseph Bonaparte (1811 – 1832). Dopo pochissimo tempo, la giovane austriaca resta in cinta del còrso e suo figlio, l’infante Napoleone François Charles Joseph Bonaparte avrà il titolo di “Re di Roma”. Il titolo non è casuale: oltre che l’Impero romano, tramontato da lungo tempo, la capitale dello Stato Pontificio era anche il fulcro della cristianità cattolico-romana. Tale appellativo stava a significare un riavvicinamento ideale e romantico verso il Pontefice (esiliato) e un controllo “titolato” della cristianità. Nel 1801 Napoleone da Primo Console, aveva firmato un concordato con Papa Pio VII, ma nel 1806 da Imperatore, quando il Pontefice aveva intensificato i suoi legami diplomatici con i “nemici della Francia”, gli scrisse: «Sua Santità è Sovrano a Roma, ma io sono l’Imperatore: tutti i miei nemici devono essere i Suoi». Per rafforzare tale tesi scriverà il 22 febbraio al cardinale Joseph Fesch (1763 – 1839), suo ambasciatore a Roma: «dite che io ho gli occhi aperti, che vedo bene quello che succede e non mi faccio ingannare, dite che io sono Carlo Magno – spada della Chiesa e Suo Imperatore – e devo essere trattato come tale». Napoleone rivendica a sé il diritto di nominare i vescovi in Francia, poiché sono servitori della Chiesa, ma prima sono accoliti e sudditi dello Stato. Il conflitto con
Pio VII da sotterraneo, diviene conclamato fino a quando nel maggio del 1809, Napoleone annette Roma e l’Umbria: il Papa risponde con una bolla di scomunica il 10 giugno dello stesso anno – “Quum memoranda” – affissa sulle basiliche di Roma: «per l’autorità di Dio onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo che l’invasione di Roma, dopo la violazione sacrilega dei patrimoni di San Pietro da parte delle truppe francesi, tutti coloro che hanno agevolato queste violenze o le hanno eseguite essi stessi sono incorsi nella scomunica maggiore». Napoleone non viene nominato in forma esplicita, ma è chiaro che il soggetto della scomunica è lui medesimo; così in risposta l’Imperatore dei francesi farà arrestare il Papa, il quale sarà in conclusione condotto a Savona. Famose le parole del Sommo Pontefice, davanti all’ufficiale napoleonico entrato al Quirinale il 5 luglio del 1809: «Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo». Per dimostrare il suo mancato pentimento Napoleone Bonaparte, per il suo erede, concederà il titolo di ottavo Re di Roma: un’onorificenza scomparsa dai tempi dei sette Re romani. Dopo i 101 colpi di cannone che annunciarono al popolo francese, il 20 marzo 1811 – alle nove del mattino, la nascita dell’erede tanto atteso, Napoleone François Charles Joseph Bonaparte diverrà presto l’icona per eccellenza imperiale, foraggiata e sponsorizzata dal padre, il quale già da tempo aveva iniziato un vero e proprio culto – attraverso scultura e la pittura – propagandistico sulla sua persona. Al contrario di sua madre, che possedeva un’educazione aristocratica, Napoleone I prova un grande trasporto per il figlio: vuole vederlo ogni mattina a colazione, prenderlo in braccio, giocare con lui. Commissiona agli architetti dell’arco di Trionfo, l’incarico di progettare il Palazzo del “Re di Roma” – grande come quello di Versailles, nel luogo dove oggi sorge la Torre Eiffel. Una folla oceanica accorrerà per il battesimo a Notre-Dame: occasione imperdibile per dare una sbirciata al futuro Imperatore, una cerimonia monumentale, che ribadisce la saldezza del potere di Napoleone. Ancora da “L’Aiglon” di Castelot, Napoleone dichiara: «Lo invidio, la gloria lo attende, mentre io ho dovuto correrle dietro; per afferrare il mondo non dovrà che tendere le braccia». La scelta del palazzo per il Roi de Rome, nell’ex capitale dello Stato Pontificio, sarà il Quirinale. Una delle lunghe sale, sarà divisa in tre porzioni dagli architetti francesi: la Sala Gialla, la Sala di Augusto e la Sala degli Imperatori. I lavori andranno avanti per tutto il 1812, un anno fatale per l’Imperatore: c’è stata la guerra di Spagna (1808-09) e la campagna di Russia (1812) che si conclude in autunno con l’annientamento della Grande Armée. Il giovanissimo Napoleone, soprannominato l’Aiglon (“l’aquilotto”) – reso popolare dall’omonima opera postuma di Edmond Rostand (1868 – 1918) -, non potrà mai passeggiare all’interno degli appartamenti romani fatti ristrutturare dal padre. Napoleone François è biondo, bello e in salute, cresce felice e accudito, i suoi giocattoli preferiti sono bandiere, trombe, tamburi e un
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