19 GIUGNO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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19 GIUGNO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa
UFFICIO STAMPA

19 GIUGNO 2018
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19 GIUGNO 2018
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA

                                LA SICILIA
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Il dossier
In crisi le partecipate della Regione

Spa, già bruciati 1,3 miliardi settemila posti in
pericolo
Non solo Riscossione: alle corde pure Sicilia digitale, Ast, Airgest Casse vuote,
amministratori in fuga. Nuova mina per il governo

ANTONIO FRASCHILLA CLAUDIO REALE

Un bubbone che, solo per gli stipendi, è costato negli ultimi quattro anni 1,3 miliardi di euro.
Per produrre utili da destinare al socio principale, la Regione, pari a zero. Sta tutto qui il grande disastro delle società
partecipate, carrozzoni in gran parte esplosi durante gli anni delle vacche grasse del periodo cuffariano. Adesso, dopo i
governi della paralisi e dello status quo, da quello di Lombardo a quello di Crocetta, i nodi stanno irrimediabilmente
venendo al pettine. E a pagarne il conto rischiano di essere i settemila dipendenti, tutti assunti, manco a dirlo, senza
concorso.
L’ultimo caso esploso fragorosamente è quello di Riscossione Sicilia: venerdì scorso il cda della controllata che si
occupa delle cartelle esattoriali ha rassegnato in blocco le dimissioni. Il motivo?
Un contenzioso monstre con semplici cittadini, colossi come Monte dei Paschi, Comuni e dipendenti, per un totale di
quasi 400 milioni di euro. In queste condizioni, l’ex generale della Finanza Domenico Achille, l’ex procuratore di
Catania Michelangelo Patanè e la commercialista Graziella Germano hanno gettato la spugna. Riscossione non riesce a
chiudere i bilanci in pari, e già nel 2014 ha avuto una iniezione di denaro regionale per 20 milioni di euro pur di far
quadrare i conti. E Riscossione non è l’azienda messa peggio.
Rischia il fallimento l’ex Sicilia e-Servizi, oggi Sicilia digitale: dopo i progetti fatti e mai utilizzati, la Regione non ha
pagato alla società 50 milioni di euro. L’Unione europea, che doveva finanziare questi progetti, ha bloccato tutto perché
di fatto i software non sono stati nemmeno collaudati (si tratta di fatti riguardanti la vecchia gestione durante i governi
Cuffaro e Lombardo).
Inoltre il socio privato, e-Venture, chiede di avere arretrati per quasi 90 milioni ed è in corso un contenzioso in
tribunale. A rischio quaranta posti di lavoro, ma anche la gestione di altri fondi Ue che sono in arrivo: a Palazzo
d’Orleans c’è chi vorrebbe gestire in maniera diversa questi finanziamenti, senza passare dalla spa.
Una situazione critica è anche quella dell’Ast. L’Azienda trasporti non approva i bilanci dal 2016 e, nell’ultimo
rendiconto approvato in giunta un mese fa, si prevede una perdita di un milione nel solo 2017. Dal 2011 le perdite
ammontano a 10 milioni di euro. Insomma, la spa non riesce a reggersi sulle sue gambe nonostante i lauti contributi
regionali: l’Ast oggi ha circa 1.300 dipendenti, tra autisti e amministrativi.
Altra spa regionale in perdita è il Parco scientifico e tecnologico: l’ultimo bilancio approvato dalla giunta segna un rosso
di 1,3 milioni di euro. Una partecipazione che porta solo grane a Palazzo d’Orleans è quella della Airgest, la spa che
gestisce l’aeroporto di Trapani: nel 2016 ha perso 2,4 milioni di euro e l’anno scorso, ancora secondo il rendiconto
della Regione, ha proseguito con un altro rosso di quasi 1,4 milioni di euro. Al momento il patrimonio della spa è in
negativo: 1,3 milioni di rosso che rendono la società un peso più che un valore in bilancio. Ed è in perdita pure la
partecipazione nella Società interporti Sicilia, la spa nata per realizzare gli investimenti a Termini Imerese e che invece è
rimasta un carrozzone senza che un solo appalto sia mai partito nel porto e nell’area industriale termitana. Nell’ultimo
bilancio approvato segna meno 276mila euro.
La grana delle spa rischia di esplodere e travolgere il governo Musumeci, che ha grandi difficoltà a trovare persone che
vogliano andare a guidare questi carrozzoni con enormi problemi per compensi che si aggirano intorno ai 30mila euro
lordi all’anno. Prima delle elezioni politiche di marzo, il governatore aveva preso tempo, indicando nei cda solo tecnici
interni agli uffici di gabinetto: «Mai nomine in periodo elettorale», aveva detto. Adesso però il tempo è scaduto: nei
prossimi giorni il fascicolo tornerà al centro del dibattito interno alla maggioranza, con gli alleati, Gianfranco Miccichè
in testa, in pressing su Palazzo d’Orleans.
Benzina sul fuoco di una coalizione già in fibrillazione e in frantumi all’Assemblea, dove da sei mesi non si riesce a far
passare una legge degna di questo nome, a parte la Finanziaria. Il tempo scorre e il bubbone spa si incancrenisce.
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Le elezioni amministrative

Grana ballottaggi fuoco amico contro
Musumeci
Il governatore rompe con Granata a Siracusa incassa un flop a Catania e non trova sponde trasversali a Messina
Assedio a Musumeci. Il test delle amministrative, adesso, diventa una grana per il presidente della Regione. Che si trova
a far fronte a diversi casi contemporaneamente. I suoi stessi compagni di viaggio mugugnano, apertamente o meno. La
situazione più clamorosa quella di Siracusa, dove Fabio Granata, ex braccio destro del governatore (e in stretti rapporti
con l’assessore ai Beni culturali Sebastiano Tusa), è stato sconfessato per la scelta di non sostenere al secondo turno il
candidato del centrodestra Paolo Ezechia Reale ma di convergere su Francesco Italia, all’interno di un progetto civico
benedetto dall’ex sindaco renziano Giancarlo Garozzo. Musumeci ha privato Granata del simbolo di “ Diventerà
bellissima”. E l’ex luogotenente di Gianfranco Fini non l’ha mandata a dire: « Non è che quella lista mi sia stata di
grande aiuto. Non è, soprattutto, che io abbia avuto grande supporto dal movimento in campagna elettorale».
Poi c’è il caso Catania, dove Diventerà bellissima ha contribuito all’affermazione di Salvo Pogliese (che ieri si è
insediato ufficialmente con la prima riunione di giunta) solo attraverso un misero 5,9 per cento. « Un governatore del
passato, nella sua città, avrbbe preso dal 20 per cento a salire » , commenta un autorevole alleato di Musumeci. E
all’interno della lista di “Db” il presidente ha messo una sola candidata, Enza Blancato: 304 voti in tutto.
Messina, infine. Città in cui l’ex eurodeputato si è speso molto, a favore del primario Dino Bramanti, esponente del
centrodestra. È andato a comiziare, prima delle elezioni del 10 giigno, a piazza Cairoli, “ privilegio” che non ha
concesso a candidati di altri centri. Eppure il risultato non è stato dei migliori: Bramanti è costretto a un difficile
ballottaggio con Cateno De Luca, deputato del gruppo misto che ora sogna un successo fuori dagli schemi, stile
Accorinti cinque anni fa. Non solo: boatos che giungono dallo Stretto narrano anche di un tentativo, da parte del
governatore e dei suoi uomini, di stringere un patto con pezzi del centrosinistra che però, almeno ufficialmente, non c’è
stato. E anche la prova di Bramanti, domenica, diventa un passaggio spinoso per il presidente, che da queste
amministrative rischia di uscire con un magro bilancio.
- e. la.
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ATTUALITA                                                                                                       19/6/2018

Il caso

Prof in fuga dalla Maturità boom di commissari
che hanno dato forfait
Salvo Intravaia

Corsa contro il tempo per sostituire i docenti che hanno presentato certificato medico, già cambiati 20 presidenti
Prof in fuga dalla maturità. A Palermo e in provincia, in media, più di un commissario su otto ha dato forfait e mancano
all’appello numerosi docenti di Inglese e di Scienze. Lo scorso anno, il fenomeno fu più contenuto. E da ieri è corsa contro
il tempo per riempire tutte le caselle lasciate vuote, comprese quelle dei presidenti, da chi ha preferito passare la mano, prima
che prendano il via gli esami. Stando ai primi dati forniti quello che un tempo era il Provveditorato agli studi ( ora Ambito
territoriale di Palermo), alle 17,30 di ieri avevano rinunciato 120 docenti ( il 13 per cento abbondante) e 20 presidenti di
commissione. Il flusso delle lettere di rinuncia si è messo in moto ieri mattina, quando presidenti e professori erano chiamati
al primo appuntamento con gli esami 2018: la cosiddetta riunione preliminare di insediamento delle commissioni. E prima che
le prove abbiano inizio, il puzzle delle commissioni dovrà essere completo. Per questa ragione all’ex Provveditorato impiegati
e funzionari faranno gli straordinari e i lavori di sostituzione proseguiranno anche oggi fino a quando l’ultimo docente non
sarà rimpiazzato. Gli esami partiranno domani mattina alle 8,30 con la prova scritta di Italiano e proseguiranno l’indomani
con lo scritto d’indirizzo: Matematica allo scientifico e versione di Greco al classico. Come primo atto, i funzionari
dell’Ufficio provinciale hanno sostituito i 20 presidenti nominati dal ministero dell’Istruzione e rinunciatari. Una priorità
assoluta perché senza vertice la commissione non può insediarsi e non è possibile espletare tutte le operazioni propedeutiche
( controllo della documentazione degli studenti, organizzazione delle prove e stesura del calendario delle prove) che danno il
via libera agli esami. Per avvicendare i 30 docenti di Inglese che hanno presentato certificato medico le operazioni stanno
procedendo a rilento. Ieri pomeriggio, erano stati individuati soltanto 7 volontari. Discorso analogo per i prof di Scienze: 3
nomine già fatte ma occorrerà arrivare a 16. La presenza del docente esterno di Inglese riguarda la maggior parte delle 304
commissioni che vaglieranno la preparazione degli 11mila studenti in lizza a Palermo e in provincia. E alla fine ci si rivolgerà
a coloro che hanno presentato la loro candidatura: supplenti o, in caso di emergenza, anche semplici laureati che in questo
modo metteranno il primo piede nella scuola come docenti. L’avvicendamento dei prof esterni di Scienze riguarda invece le
commissioni dei licei: dal classico allo scientifico, passando per il linguistico e quello delle scienze umane. « Si tratta —
dichiara Marco Anello, dirigente a capo dell’Ambito provinciale — di un numero di rinunce gestibile. Abbiamo provveduto
alla sostituzione dei presidenti e stiamo nominando i commissari delle materie oggetto della prima e seconda prova scritta».
Altrimenti, durante gli scritti i ragazzi non avranno un referente a cui chiedere lumi sulle tracce che arrivano dal ministero.
«L’ufficio provvederà quindi alla nomina dei commissari esterni incaricati delle discipline orali e oggetto della terza prova
scritta, in maniera da avere prima possibile commissioni complete » , conclude Anello. Intanto, le rinunce continuano ad
arrivare e il tour de force degli impiegati del provveditorato continuerà anche nella mattinata di oggi.
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CRONACA                                                                                                         19/6/2018

L’inchiesta

Porti, arrivano 340 milioni E le minacce al
presidente
SALVO PALAZZOLO

Busta con un proiettile al manager Monti Protocollo d’intesa in prefettura per blindare i nuovi appalti
Un fiume di soldi sta per arrivare nei porti siciliani: 340 milioni di euro fra Palermo, Termini Imerese, Trapani e Porto
Empedocle. Fondi europei, in parte già stanziati nei mesi scorsi, che verranno gestiti dall’Autorità di sistema portuale
del mare di Sicilia occidentale. Un maxi investimento, come non si vedeva da anni, che il prefetto di Palermo Antonella
De Miro e il presidente dell’Autorità Pasqualino Monti hanno deciso di blindare con un protocollo d’intesa, per
stroncare sul nascere il rischio di infiltrazioni mafiose. E un protocollo vuol dire scambio di informazioni, ma anche
controlli serrati sulle ditte che faranno i lavori. L’iniziativa era stata annunciata già qualche giorno fa, e qualcuno non
deve aver gradito, perché ieri mattina, a poche ore dalla firma in prefettura, a Monti è stata recapitata una busta con un
proiettile.
Ma il programma con cambia. Anzi. A Villa Whitaker, al tavolo del protocollo ci sono anche i vertici di polizia,
carabinieri e guardia di finanza. E il prefetto De Miro ricorda che già dieci anni fa era stato firmato un altro protocollo
con l’autorità portuale, per verificare le concessioni sulle aree demaniali. Così sono scattate tre interdittive, che hanno
svelato infiltrazioni di mafia nel settore della gestione dei container e della distribuzione del carburante.
Prende la parole il presidente dell’Autorità portuale. « Non ci si può arrendere al malaffare non realizzando, fermandosi
» , dice. Pasqualino Monti è il manager che ha trasformato il porto di Civitavecchia, facendo balzare gli arrivi da
200mila a due milioni e mezzo all’anno. « Al porto di Palermo ho trovato delle strutture squalificate », commenta senza
mezzi termini. E inizia a elencare i lavori che partiranno a breve: « Trentuno milioni serviranno per la sistemazione della
stazione marittima di Palermo, 38 per il dragaggio del porto, così da consentire l’attracco di imbarcazioni ancora più
grandi » . Lavori importanti anche a Termini Imerese: 70 milioni per il molo di sopraflutto, 39 per il dragaggio.
«Obiettivo, ammodernare le infrastrutture». Intanto, l’arrivo delle navi da crociera “ Costa” ed “ Msc” ha fatto balzare
gli arrivi a Palermo da 430mila a 560mila. Un più 24 per cento che fa dire a Monti: « Stiamo costruendo una complessa
e massiccia operazione che vede notevoli flussi di denaro muovere dalle casse dell’Autorità. Ritengo dunque prioritaria,
prima di qualsiasi intervento, la sottoscrizione di questo protocollo per garantire una via preferenziale per la legalità e la
trasparenza » . Monti ha nominato l’ex pm antimafia Leonardo Agueci componente dell’organismo di valutazione.
Intanto, l’elenco delle cose da fare è preciso. L’Autorità si impegna a chiedere alla prefettura informazioni sulle ditte
che parteciperanno a lavori superiori ai 200mila euro. E informazioni su tutti i « subcontraenti » . Verrà anche creata
una banca dati con tutti i riferimenti alle aziende. E se dopo l’aggiudicazione scatteranno guai giudiziari per imprenditori
e ditte, scatterà la risoluzione del contratto.
La posta in gioco è alta, il rischio di infiltrazioni mafiose è davvero concreto. Basta passare in rassegna l’elenco degli
scarcerati eccellenti dei due mandamenti mafiosi che si contendono il territorio del porto. Da una parte Resuttana, con
la famiglia dell’Acquasanta, i Fontana sembrano aver riconquistato una presenza forte. Dall’altra, Porta Nuova, con le
famiglie di Borgo Vecchio, Palermo centro e Kalsa. Famiglie che si riorganizzano grazie al contributo di nomi storici di
Cosa nostra, attorno a una consistente fetta di patrimoni non sequestrati, segno di vitalità imprenditoriale e criminale.
L’ultimo giallo del porto l’ha svelato un’interdittiva del prefetto De Miro: infiltrazioni mafiose erano nella società che
gestiva un distributore di carburante sul molo dei vip. Solo l’ennesimo affare o Cosa nostra gestisce nuove basi
logistiche nell’area portuale? Una cosa è certa, lo dicono le recenti intercettazioni del Gico della Guardia di finanza: un
emissario dei narcos colombiani progettava con il suo referente a Torretta di far arrivare un « veliero carico di droga» a
Palermo.
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La stazione marittima di Palermo
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   19 GIUGNO 2018

                                  LA SICILIA
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La campagna infinita

“Censimento e espulsioni” Salvini scatenato sui
rom Gli ebrei: siamo al razzismo
goffredo de marchis,

Il ministro dell’Interno: “Purtroppo gli italiani li dovremo tenere...”
Gentiloni attacca: “Poi arriveremo alle pistole”
roma
Il ministro dell’Interno può forse dire che bisogna controllare meglio i campi nomadi, quelli regolari e quelli abusivi. Il
leader di un partito impegnato in una strategia che punta al consenso qui e ora, che guarda ai sondaggi del giorno
invece scolpisce: « Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono ripetendo quello che
fu definito il censimento». Così Matteo Salvini conquista la scena ancora una volta, alzando sempre di più la soglia del
punto di non ritorno, proponendo una schedatura basata sulla razza.
I porti, le navi, le Organizzazioni non governative e ora i rom sono le battaglie della Lega che secondo un sondaggio del
Tg La7 la proiettano verso il 29,2 per cento e certificano il primo sorpasso sul Movimento 5 stelle ( 29). C’è un tweet
di Paolo Gentiloni che marca proprio questo territorio, appartenente più alla propaganda che all’azione di governo. «
Ieri i rifugiati, oggi i rom, domani le pistole per tutti. Quanto è faticoso essere cattivo... » . E il riferimento alle armi,
dice l’ex premier, non è una battuta: « È il prossimo passo, vedrete ».
Salvini dunque affonda il colpo: « Sto facendo preparare un dossier al Viminale sulla questione dei rom. Quelli che
possiamo espellere, facendo degli accordi con gli Stati, li espelleremo. Gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere » .
Come si vede, non è solo l’annuncio di un’iniziativa ufficiale, è piuttosto l’idea di solleticare la pancia del Paese. Viene
in mente, quando si leggono le dichiarazioni di Salvini, la lungimiranza della senatrice a vita Liliana Segre che nel suo
intervento per la fiducia al governo, aveva colto un appello di Repubblica e messo in guardia dal ritorno di leggi speciali
contro la comunità nomade. La premessa di una pulizia basata sull’etnia.
Le precisazioni del ministro arrivano a tarda sera: «Nessuna schedatura, semmai un’anagrafe, come feca Maroni. Non
voglio prendere le impronte digitali a nessuno, voglio tutelare i i bambini rom, voglio che vadano a scuola». Sui nomadi
italiani che « purtroppo » non possono essere mandati via, nessuna marcia indietro. Il chiarimento di Salvini serve a
chiudere la ferita con i grillini, il loro imbarazzo nell’essere fagocitati dalle parole d’ordine del Carroccio. « Mi fa
piacere la smentita di Salvini — dice Luigi Di Maio — perché se una cosa è incostituzionale non si può fare. E il
censimento lo è » . Ma il clima pessimo rimane. L’Unione delle comunità ebraiche mette il dito nella piaga: «L’annuncio
del ministro dell’Interno Salvini di un possibile censimento della popolazione rom in Italia preoccupa e risveglia ricordi
di leggi e misure razziste di appena 80 anni fa e tristemente sempre piu dimenticate». C’è questo pericolo all’orizzonte?
Santino Spinelli, responsabile europeo delle comunità nomadi, chiede l’intervento di Sergio Mattarella. La Chiesa è in
allarme e sulle chat di prelati e suore gira la famosa frase di Brecht: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari... » .
Lanciano l’allarme le organizzazioni italiane dei rom, Associazione 21 luglio e l’Opera nomadi. La presidente dell’Anpi
Carla Nespolo ricorda che «i censimenti non fanno parte della storia democratica di questo Paese » . Come si capisce, i
riferimenti al fascismo sono sempre meno sottintesi.
Reagiscono anche i partiti di opposizione. Maurizio Martina mette insieme i pezzi e parla di « un’escalation pericolosa e
inaccettabile » definendo l’ultima uscita di Salvini «aberrante». Laura Boldrini definisce la politica del ministro
dell’Interno « disumanità al potere » . Forza Italia come al solito è in difficoltà rispetto al vecchio alleato. Giorgia
Meloni invece lo sostiene e rilancia una sua vecchia proposta che si può sintetizzare così: «I nomadi devono nomadare
» , parole sue. Ovvero vanno accolti per pochi mesi in apposti luoghi e poi sgomberati.
Semmai, sorprende che siano proprio i rappresentanti di rom e sinti i meno emotivi, i più chirurgici nel contestare i
propositi salviniani. «Il ministro — dice il presidente dell’associazione 21 luglio Carlo Stasolla — sembra non sapere
che in Italia un censimento su base etnica non è consentito dalla legge. Inoltre esistono già dati e numeri e i pochi rom
irregolari sono apolidi di fatto, quindi inespellibili». In effetti è così, ma la propaganda non tiene conto dei dati di fatto.
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FORZA NUOVA/ ANSA
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Il retroscena
Il Movimento svuotato dalla Lega

L’ira del M5S sorpassato nei sondaggi Il
premier e Di Maio: così non reggiamo
TOMMASO CIRIACO,

Dal nostro inviato
BERLINO
«Questo è veramente troppo, supera ogni limite. Così non reggiamo». Lo sfogo di Giuseppe Conte prende forma
mentre il premier si prepara a decollare per Berlino. Non può che chiedere una rettifica al suo vicepremier. Arriva due
ore dopo, mentre l’aereo di Stato atterra in Germania. E d’altra parte stavolta Salvini ha davvero alzato l’asticella oltre
le nuvole. Proponendo di schedare i rom. Oscurando ancora una volta una missione del presidente del Consiglio.
Distruggendo il castello comunicativo faticosamente eretto da Luigi Di Maio. Proprio il capo pentastellato, che puntava
tantissimo sul progetto di portare il reddito di cittadinanza in Europa, resta di sasso. Aveva pregato Conte di dare il
massimo risalto alla trovata. E invece, di nuovo, tutto svanito di fronte a uno slogan di Salvini. «Matteo all’inizio si è
dimostrato leale – è la profezia che ripete sempre più spesso il leader del M5S al suo entourage - ma non vorrei che a
dicembre mandasse tutto all’aria per tornare al voto e capitalizzare il suo consenso». Dovesse farlo, giurano i sondaggi
attuali segnando il clamoroso sorpasso del Carroccio sul Movimento, raccoglierebbe la maggioranza.
Svuotando i grillini.
Quando a Palazzo Chigi suona l’allarme, Conte capisce immediatamente da dove arriva il pericolo. Il problema è che
ancora una volta non sa come arginarlo.
«Mi sembra chiaro che c’è una strategia dietro – si lamenta ufficiosamente il premier – non vorrei che qualcuno punti a
destabilizzare il governo». Nomi non ne fa, ma è chiaro che pensa proprio al ministro dell’Interno.
Lo schema, d’altra parte, ormai si ripete puntuale come un orologio svizzero. Mentre il capo è in giro per le cancellerie
europee, il vicepremier con la ruspa gli fa perdere l’equilibrio. Basta mettere in fila i viaggi di Conte, puntualmente
boicottati da Salvini: oggi i rom, ieri le bordate sull’immigrazione, le ong, l’asse con l’Est d’Europa.
La strategia, a questo punto, non può che essere quella di rispondere colpo su colpo. Senza indicare il bersaglio per
nome, ma iniziando a reagire. Non è un caso che ieri, faccia a faccia con la Merkel per trentacinque minuti prima della
cena con le delegazioni, sia tornato ad affacciarsi lo spettro Salvini. Assai simile, a dire il vero, a quello sofferto dalla
Cancelliera con Horst Seehorf. E non è un caso nemmeno che il capo del governo abbia stroncato le richieste sui
richiedenti asilo avanzate dal ministro dell’Interno tedesco tanto amico del leader leghista.
Trattare con Angela Merkel, allora, per arginare l’alleato più scomodo. La via stretta di Conte è la stessa di Di Maio.
Era stato il ministro del Lavoro e dello Sviluppo a mettere le truppe parlamentari in allerta nei giorni scorsi. «Se Salvini
continua così, bisogna iniziare a reagire con le nostre proposte». E in serata, intervistato dall’Huffington Post, rilancia:
«Bene occuparsi di immigrazione, ma prima occupiamoci dei tanti italiani che non possono mangiare».
Prendere progressivamente le distanze dal capo leghista è anche il progetto dell’“avvocato degli italiani”. Un piano in
due step.
Prevede innanzitutto di rilanciare sui temi economici, sfruttando le sponde di Macron e la debolezza interna della Merkel
per ottenere qualche apertura nella direzione della flessibilità, per poi smarcarsi da Salvini sui migranti.
Per Di Maio, tra l’altro, è anche un problema di tenuta interna dei gruppi parlamentari. Lo si capisce anche ascoltando
Roberto Fico, sempre più ala sinistra del grillismo. «Bisogna ridiscutere il regolamento di Dublino, è fondamentale. E
occorre farlo con la Francia e con la Germania, mettendo fuori le posizioni estreme. Se Orbàn non vuole le quote deve
essere multato». Parla rivolto all’Ungheria, ma è chiaro che guarda verso via Bellerio. E immagina un accordo con
Germania e Francia per cambiare radicalmente il trattato di Dublino. Non a caso Macron, scettico sulla revisione delle
quote, ha comunque chiamato il presidente libico Serraj promettendo soldi e mezzi per controllare al meglio le coste.
Un passo in avanti. Anche se nelle cancellerie si teme che non basti a frenare il partito unico di destra capitanato dai
ministri dell’Interno di mezza Europa.
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FILIPPO ATTILI/ PALAZZO CHIGI/ EPA
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L’inchiesta sullo stadio della Roma

Raggi ancora dai pm Bonafede: “ Lanzalone
l’ha scelto lei”
La Procura vuole blindare l’accusa di corruzione contro l’avvocato genovese: un
plenipotenziario di fatto della prima cittadina

Giuseppe Scarpa,

Roma
Si apre una frattura nei vertici del Movimento. Uno scaricabarile tra la sindaca Virginia Raggi e il Guardasigilli Alfonso
Bonafede: tutto ruota attorno a Luca Lanzalone. Diventato oggi per i grillini una sorta di intoccabile. Quale dei due big
del Movimento avrebbe scelto l’avvocato amministrativista - arrestato con l’accusa di aver preso mazzette sotto forma
di consulenze dal costruttore Luca Parnasi per gestire il dossier stadio della Roma per conto del Campidoglio? La prima
cittadina aveva, pochi giorni fa, durante Porta a Porta e poi in una prima audizione di fronte ai magistrati, puntato
l’indice contro il ministro della Giustizia e Riccardo Fraccaro, il titolare dei rapporti con il parlamento. Bonafede però
ieri, intervistato da Lilli Gruber a Otto e Mezzo, l’ha in parte smentita: « Glielo abbiamo presentato e lei ha scelto di
avvalersene » . Sottigliezze si dirà. In realtà Bonafede si smarca, e prende le distanze dalla Raggi. Ma soprattutto
addebita a lei l’onere di aver sbagliato nella scelta di una persona cui affidare i dossier più delicati del comune di Roma.
Tra l’altro non è il primo clamoroso flop nella selezione di un professionista da piazzare nei gangli vitali del
Campidoglio. L’avvocato genovese, infatti, veniva proprio dopo quel Raffaele Marra, braccio destro della Raggi,
arrestato a dicembre 2016, anch’egli per corruzione sempre dai carabinieri del nucleo investigativo.
E mentre ieri Bonafede si smarcava in tivù dalla prima cittadina, la sindaca varcava, in meno di 4 giorni, la soglia
dell’ufficio del procuratore aggiunto Paolo Ielo. Una seconda convocazione “in qualità di persona informata sui fatti”
per chiarire alcuni aspetti che venerdì non erano stati approfonditi. I pm, in realtà, vogliono blindare l’accusa nei
confronti di Lanzalone. E per puntellare l’imputazione di corruzione vogliono verificare fino a quando la Raggi ha
incaricato l’avvocato del dossier stadio. La questione non è così semplice. La sindaca, infatti, aveva delegato Lanzalone
senza regolare contratto e quindi senza una data di inizio e fine. Una sorta di pasticcio a cui però i legali della difesa
potrebbero aggrapparsi – ragionano gli investigatori - per indebolire l’impianto dei pm. Magistrati che dal canto loro
fanno valere il principio del pubblico ufficiale di fatto. In pratica Lanzalone era il plenipotenziario della Raggi per l’arena
della Roma sebbene incaricato solo verbalmente. In via ufficiosa insomma. Se Lanzalone comparisse solo come
semplice avvocato, senza la qualifica pubblica, cadrebbe l’accusa di corruzione. A conferma del ruolo che gli era stato
assegnato informalmente c’è anche una lettera inviata dalla prima cittadina, l’otto marzo del 2017, al direttore del
dipartimento risorse umane del comune: “Formalizzazione della collaborazione dell’avvocato Luca Lanzalone”. Tuttavia
la missiva spedita dalla Raggi non riceve alcuna risposta, e così l’incarico del legale non viene istituzionalizzato. Inoltre
il professionista genovese ha adempiuto il suo compito a costo zero. Anche se poi, come si ricava da
un’intercettazione, la sindaca di Roma avrebbe trovato il modo di ripagare tanta generosità. Questo il passaggio di una
conversazione che i carabinieri del nucleo investigativo inseriscono nell’informativa: « Perché vorrei far presente (…)
noi abbiamo ricevuto una cosa da una sola persona - sottolinea Lanzalone - che si chiama Virginia Raggi, che mi ha
nominato nel Cda di Acea » . È questo, infatti, l’incarico di prestigio che all’avvocato genovese viene assegnato dalla
prima cittadina: la presidenza della multiutility romana dell’acqua e della luce a partire dal 27 aprile 2017 fino alle sue
dimissioni dopo l’arresto per corruzione di mercoledì. Concetto ribadito dal leader del Movimento e ministro del Lavoro
Luigi Di Maio, Lanzalone « premiato con Acea per il lavoro fatto » con lo stadio della Roma, ha detto in una intervista il
14 giugno. Anche per questo motivo sono stati ascoltati (venerdì) il dg dell’As Roma, Mauro Baldissoni e il direttore
generale del Campidoglio Franco Giampaoletti. Entrambi sono figure chiave. Due persone con cui Lanzalone si
relazionava periodicamente per trattare, seppure ufficiosamente, del dossier stadio. Come un pubblico ufficiale di fatto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Lanzalone? Nulla da dichiarare: lo ha scelto la Raggi. Gliel’abbiamo presentato sia io
che Fraccaro
Ministro della Giustizia
RAFFAELE VERDERESE/ AGF
POLITICA                                                                                                        19/6/2018

La legge sui finanziamenti
Di riforma in riforma

Partiti, la fine dei soldi pubblici ma non della
corruzione
M5S annuncia una nuova “ stretta” ma gli studi premiano l’era del contributo di Stato E in
parlamento cresce il fronte dei nostalgici: “C’era più trasparenza di oggi”

EMANUELE LAURIA

Lui si chiama Fausto Raciti, è un deputato “orfiniano” del Pd e ha una pazza idea in testa: reintrodurre il finanziamento
pubblico ai partiti, attraverso il sistema dei rimborsi elettorali. Raciti presenterà, nei prossimi giorni, un progetto di legge
per cambiare la riforma di quattro anni fa che ha chiuso i rubinetti, lasciando alla politica i rivoli del 2 per mille e delle
donazioni dei privati. E ampliando, nei fatti, il ruolo di soggetti “contigui” come fondazioni, associazioni, onlus. Gli
stessi soggetti al centro dell’inchiesta sul nuovo stadio di Roma.
È da verificare il gradimento che l’iniziativa di Raciti riscuoterà nel Pd e in parlamento dove però il fronte dei
“nostalgici” del finanziamento pubblico si sta rinfoltendo. E dove non tutti, anche dentro la maggioranza, sono convinti
che la risposta alla corruzione sia l’abbassamento del tetto per le donazioni ai partiti, da 100 a 10 mila euro, che ha in
mente Luigi Di Maio. Un dato è certo: dopo lo stop ai rimborsi elettorali, decretato nel 2014 nel pieno delle polemiche
sulle spese pazze dei consigli regionali, i fondi pubblici per i partiti si sono ridotti di quasi due terzi: dagli 89 milioni del
2013 ai 35 del 2016.
L’ultima campagna elettorale low cost, per le politiche del 4 marzo, ha rappresentato la fine di una discesa: gli ultimi
residui di rimborsi elettorali si sono esauriti, come previsto dalla legge, nel 2017 (quattro anni prima erano ancora a
quota 41 milioni), ma gli altri strumenti della riforma non sono decollati: i contribuenti che hanno deciso di donare il due
per mille ai partiti sono stati poco più del 3 per cento del totale. Quanto alle donazioni, lo stesso decreto Letta stimava
introiti superiori a 50 milioni d’euro l’anno: le liberalità dei privati sono invece scese dai 38,4 milioni del 2013 ai 12,5 del
2016. E attenzione, la gran parte di questi contributi giungono dall’autotassazione - spontanea o da regolamento - degli
eletti. In questa condizione, i partiti si sono aggrappati ad altre fonti di finanziamento, come i trasferimenti ai gruppi
parlamentari di Camera e Senato (260 milioni nella scorsa legislatura) e alle casse ancora non prosciugate dei consigli
regionali (in media 32 milioni di euro l’anno) disciplinate però da sempre più rigide regole interne. A partiti sempre più
leggeri, costretti a licenziare dipendenti e vendere le sedi, è corrisposta l’affermazione dei “think tank”, dalle fondazioni
politico-culturali di sinistra alle associazioni dell’orbita 5S, che hanno altri canali di finanziamento e minori obblighi di
trasparenza: solo il 10,75% di questi organismi, secondo Openpolis, pubblica il proprio bilancio. Ora, non c’è dubbio
che il vecchio sistema, quello dei rimborsi elettorali che dopo il referendum del 1993 ha preso il posto del finanziamento
pubblico, ha determinato un salasso per l’erario: 2,5 miliardi di euro di rimborsi in venti anni.
Ma siamo certi che il problema della corruzione si sia eliminato togliendo l’ossigeno ai partiti? E che questa piaga invece
non si allarghi lasciando gli stessi partiti in condizioni di bisogno, alla mercé di finanziatori più o meno occulti?
L’istituto svedese americano V-dem, che misura il livello di corruzione, mostra una curva ascendente in Italia dal 1974
(anno della legge Piccoli che istituì il finanziamento pubblico) al 1993, e discendente da quell’anno in poi. La ricerca,
pubblicata da Wired, dimostrerebbe che è stata Tangentopoli e non il sistema dei rimborsi a incidere sui fenomeni
corruttivi. Emanuele Fiano, deputato che contribuì alla riforma Letta, dice che «il Pd è pronto a verificare ogni ipotesi
che porti a maggiore trasparenza.
Anche delle fondazioni, che non vanno però criminalizzate. Il tetto dei diecimila euro alle donazioni?
Può servire a evitare il condizionamento dei partiti da parte dei grandi imprenditori. Ma è tutto da verificare». «Il
problema - dice Raciti - è che oggi la politica si finanzia in modi impropri, attraverso i siti web legati ai 5 Stelle che
guadagnano con il clickbaiting, tramite le opache parcelle professionali per i politici che fanno pure gli avvocati o i
commercialisti. E poi c’è il nero. Il ritorno ai rimborsi elettorali garantirebbe più trasparenza e minor peso delle lobby».
«Il tetto alle donazioni? Ci pensò già la sinistra a bloccare le elargizioni di Berlusconi a Fi - ricorda l’ex presidente del
Senato Renato Schifani - Non credo serva a molto. Il tempo sta dimostrando che non era il finanziamento pubblico la
causa della corruzione».
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POLITICA                                                                                                    19/6/2018

L’occupazione

Di Maio non smonta più il Jobs Act “ Contratto
per i fattorini o il decreto”
Dietrofront del ministro le multinazionali apprezzano ma restano deluse le organizzazioni
sindacali dei rider

valentina conte,

roma
Luigi Di Maio aggiusta il tiro. Il ministro del Lavoro aveva promesso di smontare il Jobs Act, per ridurre la precarietà
ed estendere tutte le tutele anche alla « generazione dimenticata » dei ciclofattorini. Alla fine arriverà, forse, un
«contratto collettivo nazionale della gig economy, il primo in Italia e in Europa». Una «grande ambizione che abbiamo
come governo » , dice. Ben diversa però dall’annunciato e radicale intervento per decreto legge. Che avrebbe riscritto
la definizione da codice civile del lavoro subordinato, per includervi anche quanti lavorano tramite App. E abolito
l’articolo 2 del decreto 81 ( attuativo della riforma Renzi) che oggi obbliga i datori a stabilizzare i finti collaboratori,
quando sono in realtà etero organizzati. Una volta finito in Gazzetta Ufficiale, il Decreto Dignità avrebbe di fatto
forzato, prima ancora della sua conversione in legge, tutte le multinazionali del cibo a domicilio ad assumere i rider
come dipendenti.
Foodora già minacciava di lasciare l’Italia. E il malcontento delle altre - Deliveroo, Uber Eats, Just Eat, Glovo,
Domino’s Pizza, Mooveda, Social Food - si è affacciato, seppur con toni sfumati e nella scontata soddisfazione
pubblica finale, al tavolo di ieri convocato dallo stesso ministro. I primi a percepire quello che definiscono «un passo di
lato» sono i ragazzi di Riders Union di Bologna, i primi anche ad essere ricevuti da Di Maio nel “giorno uno” al
dicastero del Lavoro, il 4 giugno scorso. Una retromarcia? « Temiamo che si giochi al ribasso ora che il piano cambia
di nuovo », confessa Maurilio Pirone, rider di Deliveroo e membro del “collettivo” bolognese. «Il decreto viene messo
in stand by e si rimanda tutto a un tavolo nazionale tra governo, piattaforme, sindacati tradizionali e metropolitani, come
il nostro. Ma per fare cosa? Si era aperta l’importante finestra per ridefinire in Italia la subordinazione. E noi non
vorremmo chiuderla. Poi ci sono gli aspetti positivi. I sindacati dei rider vengono riconosciuti, per la prima volta. E le
piattaforme che fin qui negavano i tavoli, ora li chiedono. Bene, ma non ci basta. Cosa entrerà nel nuovo contratto
collettivo? E in quali tempi? A questo punto non rapidissimi».
La sterzata del ministro piace però alle multinazionali. Un atterraggio soft che allontana assunzioni obbligate, aumento
dei costi, business che salta. Ma che le impegna comunque ad ampliare lo spettro delle tutele. Anche perché senza
accordo finale, Di Maio ( ri) prenderà la strada del decreto: « Spero non ce ne sia bisogno » , dice sibillino. « Quando
si mette insieme chi lavora e chi produce e si trova un punto di caduta, fa bene al Paese e alla democrazia » . Al tavolo
del nuovo contratto Di Maio convocherà anche i “vecchi” sindacati: «Ci mancherebbe altro. Ma molti di questi ragazzi
non sono iscritti a nessuna sigla. È giusto dunque chiamare anche le nuove forme di rappresentanza».
Il ministro cita i dati di True numbers per fotografare l’universo dei lavoretti: « L’Italia è il Paese con più gig workers:
oltre 2 milioni che ne ricavano almeno il 50% del reddito, ma in totale oltre 5,3 milioni di persone interessate. Ecco
perché dobbiamo intervenire subito » . Quanto alla stretta sui contratti a termine, Di Maio conferma un ritocco nel
Decreto Dignità, per ridurre proroghe e ripristinare la causale. «Rivedremo il Jobs Act, limitando i licenziamenti
selvaggi » , aggiunge. Senza esplicitare però l’intenzione o meno di reintrodurre l’articolo 18 per le imprese sopra i 15
dipendenti.
Altra promessa dimenticata di campagna elettorale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FABRIZIO CORRADETTI/ LAPRESSE
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