PREFAZIONE IL MODELLO ITALIANO - licosia
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Michel Korinman1 PREFAZIONE IL MODELLO ITALIANO Sergio Romano, come sempre autorevole, nel 1994 ci spiegava perché gli italiani si disprezzano2: dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio sapevano bene che Mussolini aveva goduto fino alla fine degli anni Trenta di un consenso che era evaporato progressivamente soltanto con i bombarda- menti e le prime sconfitte; sapevano inoltre che il “patto tacito” con l’antifa- scismo trionfante – facilitato da un approccio degli alleati nei confronti del fascismo “male assoluto”, “incarnazione satanica” – fu reso possibile grazie 5 a una vittimizzazione collettiva dell’intero popolo italiano ed a una sconfit- ta senza condizioni mascherata come cobelligeranza. Sapevano che questa rimozione si rifletteva su tutto il passato nazionale – prima guerra mondiale – confiscato dalla destra radicale, che impedì l’emersione post-“terapia nazio- nale” di un vero e proprio patriottismo. Un ragionamento questo che poteva sembrare limpido, se non fosse che fermarsi lì avrebbe tuttavia comportato una dimenticanza, ovvero l’estrema flessibilità tipica dell’Italia, che risale a quell’invenzione fondamentale che fu il compromesso storico degli anni Set- tanta, passando poi per la coalizione (Forza Italia-Alleanza Nazionale-Lega 1 Professore Emerito di Geopolitica all’Università di Parigi-Sorbona, Parigi IV. Direttore della rivista Mondo Nuovo, direttore della Rassegna europea della rivista geopolitica Outre-Terre. Presidente dell’Accademia europea di geopolitica (Parigi). Autore di Quando la Germania pensava il mondo, Fayard, Parigi, 1989, e Deutschland über alles. Il Pan-Germanismo 1890-1945, Fayard, Parigi, 2000. Fondatore ed ex direttore di Limes rivista italiana di geopolitica (1993-2000). Direttore dell’Istituto Daedalos di Geopolitica, un’organizzazione fondata dal Consiglio dei Ministri della Repubblica di Cipro (2006-2007). Direttore di Geopolitical Affairs (Londra, Frank Cass, 2007- 2008). 2 Perché gli italiani si disprezzano; A che serve l’Italia, Limes 4/94, p. 159-163. E ovviamente l’epocale libro di Claudio Pavone, Una guerra civile Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Turin, Bollati Boringhieri, 1994 (1991).
Il modello italiano Nord) di Silvio Berlusconi, considerato da alcuni come il nonno di tutti i mo- vimenti populisti3, del 1994 e suggellata infine col Governo M5S-Lega nato dalle elezioni del marzo 2018. Non c’è da stupirsi quindi che i deputati di Forza Italia del medesimo Berlusconi abbiano indossato il 29 dicembre 2018 dei gilet azzurri in segno di protesta contro l’adozione della finanziaria 2019 da parte della Camera. Mentre permangono seri dubbi su un successo analogo a quello dei gilets jaunes francesi, si deve pur riconoscere al loro antenato (il Cavaliere) un forte senso della storia e della politica. Nazional-repubblicani vs. estrema destra La classe intellettuale e mediatica, quasi tutta dedita all’“anti-populismo”, segue il ragionamento di Étienne Gilson, storico della filosofia medievale: «La conclusione alla quale veniamo costantemente riportati è che la conoscenza intellettuale ha come punto di partenza le cose tangibili: principium nostrae cognitionis est a sensu»; tuttavia: «La creazione non è soltanto un esodo, è anche una discesa, e si noterà una serie ininterrotta di degradazioni dell’essere passando dalle creature più nobili a quelle più vili»4. Questa “difettosità” cre- 6 scente si traduce secondo gli “analisti” moderni in un divario fra la “scienza” (politica) – testimone, in teoria, della verità – da una parte e la “percezione” popolare – ancorata alla realtà e quindi, per definizione, grossolana – dall’al- tra. Pierre-André Taguieff, uno dei principali inventori del “populismo”, ci aveva ammonito: la denuncia del “populismo” degenera in “anti-populismo” che rischia di accecare i critici stessi, rendendoli incapaci di comprendere dei movimenti intellettualmente scomodi e, dal loro punto di vista, di combatterli. Ma se i “popoli” non si rassegnano e votano sempre più massicciamente per i cosiddetti partiti “populisti”, è innanzitutto per contestare a posteriori l’as- senza di dibattito in Occidente, negli anni Novanta, su una mondializzazione detta ineluttabile, nella quale le classi medio-basse – specialmente i segmenti della popolazione schiacciati fra i contingenti dell’assistenzialismo e le classi agiate – sono state perdenti. A ciò si aggiunge spesso una forte domanda di efficienza nei confronti della classe dirigente. Denunciare a questo proposito una “popolocrazia” (intrinsecamente “deviante”) non ha quindi alcun senso5. 3 Ein historisches Experiment Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), 4 gennaio 2019. 4 Étienne Gilson, Le thomisme Introduction au système de Saint Thomas d’Aquin, Études de philosophie médiévale, I, Nouvelle édition revue et augmentée, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1922, pp. 116, 175. 5 Ilvo Diamanti, Marc Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie, Bari, Laterza, Collana Tempi Nuovi, 2018.
Prefazione di Michel Korinman I popoli non si rassegnano alla “teorizzazione” di un’impotenza geopolitica di coloro ai quali hanno affidato il proprio destino. I partiti “populisti” rappre- sentano spesso un argine all’astensionismo – crisi acuta dei sistemi rappre- sentativi – ma anche all’estrema destra, parte integrante (assieme all’estrema sinistra dei Black Blocs) del movimento francese dei gilets jaunes6. Dopodi- ché, superati i partiti “populisti” che arginano o soffocano gli estremisti, in- carnando risentimenti legittimi, non rimane altro che la domanda di un regime autoritario7. Strana epoca quella in cui viviamo, nella quale fior di editorialisti e intellet- tuali italiani si stracciano le vesti, non senza ostentare, come tutti i loro cugini euro-occidentali, un’infallibile dignità. Roma torna ad essere Roma poiché i “barbari” vi si sono ormai sistemati. A scanso di equivoci: i “barbari”, a dire il vero, nulla hanno a che vedere con nuove invasioni barbariche. Si tratta delle forze “populiste” al potere o quasi (da soli o in coalizione, a seconda dei casi) nei diversi Paesi dell’Europa occidentale. Tra gli intellettuali emergono tre posizioni: 1) la “soluzione fuga in Papuasia” (Nuova Guinea?), dove l’isola di Manus, nell’arcipelago dell’Ammiragliato, ha paradossalmente a lungo svol- to funzione di centro di detenzione (ufficialmente chiuso nell’ottobre 2017), 7 in condizioni inumane, per immigrati marittimi clandestini diretti in Austra- lia; 2) la “romanizzazione” dei “barbari” attraverso la loro normalizzazione nel sistema politico; 3) la ricostruzione, alquanto improbabile a detta dei suoi stessi promotori, di una “terza via” destinata a cacciarli8. Poi ci sono coloro che invocano la resistenza (armata?), come Luciano Canfora in un eccitante libello9, adornato di dotti passaggi su Lenin e Mao, dove la storia si trasforma in filosofia delirante della storia. Una «spirale del fascismo», a suo avviso, avrebbe infatti scosso l’Europa: sull’immigrazio- 6 Si veda il rapporto di Roman Bornstein, En immersion numérique avec les “gilets jaunes”, Fondation Jean Jaurés, Penser pour agir, 14 gennaio, 2019, su Eric Drouet, Maxime Nicolle e il complottismo. E in aggiunta l’infiltrazione fisica del movimento da parte di gruppi minoritari. 7 Si veda su questo punto le dichiarazioni di Christophe Chalençon in televisione a sostegno di Pierre de Villiers, già Capo di Stato Maggiore. 8 Tra le altre, il dibattito su Il Foglio: Valerio Valentini, “Non rassegnarsi allo sfascio”. Panebianco replica a Orsina: “Macché incivilirli, i barbari vanno cacciati”, 28 agosto 2018; Umbero Minopoli, “Una opposizione è possibile Caro Orsina, per fermare il processo di distruzione populista bisogna costruire il fronte unico del futuro”, ivi, 29 agosto 2018. 9 Cf. Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia, Bari, Laterza, 2018, pp. 11-12, 17, 23.
Il modello italiano ne, nessuna differenza fra il precedente Governo Minniti-Gentiloni e quello del «gorilla» Salvini; la politica del “fringuello neo-liberale” Emmanuel Ma- cron (Ventimiglia) è un tutt’uno con quella di Marine Le Pen; per non parla- re del “paranazista” Sebastian Kurz in Austria, dell’horthysta Viktor Orbán in Ungheria, dei “clerico-fascisti” in Polonia; o del Rassemblement National francese e della Lega italiana equivalenti a quei neonazisti di Alba Dorata in Grecia. Perfino gli intellettuali afflitti da disperazione storica di fronte alla cosiddetta “barbarie” si vedono tacciati di “salvinismo”. En passant, il bilioso storico di La biblioteca scomparsa constata perfino una certa convergenza anti-casta europea fra Mélenchon e il Partito Comunista Francese da una parte e il Rassemblement National dall’altra. Insomma, le “pulsioni fasciste” sareb- bero dappertutto. “Panpopulismo”, la soluzione all’italiana Il vero problema delle democrazie dell’Europa occidentale è quello della loro “governabilità”, della possibilità stessa di governare gli Stati. Si presentano infatti tre casi di scuola: 8 ‒ L’integrazione/associazione dei “populisti” al potere, come in Austria (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ), in Norvegia (Fremskrittspartiet, FrP, Partito del progresso liberal-conservatore), in Danimarca (sostegno senza partecipazione al governo da parte del Dansk Folkeparti, secon- da forza del Paese) e da ultimo in Andalusia con la formazione di una coalizione fra Partido Popular, Ciudadanos, e il nuovo partito di destra Vox (appoggio esterno), con drastico cambiamento di rotta sulla politica migratoria10. 10 Si veda inoltre il recente successo dei “populisti” alle elezioni provinciali nei Paesi Bassicf, Ariejan Korteweg, Serena Frijters, “Forum voor Democratie scoort in alle dorpen en steden”, De Volkskrant, 21 marzo 2019, https://www.volkskrant.nl/nieuws- achtergrond/forum-voor-democratie-scoort-in-alle-dorpen-en-stedeb1c8c51c/[21 marzo 2019], Michael Stabenow, “Eine Rakete in die Provinz”, FAZ, 22 marzo 2019: un novità politica assai rilevante perché il partito “populista di destra” Forum voor Democratie di Thierry Baudet si impone come prima forza del paese in modo uniforme (tra il 10 e il 20%) su tutto il territorio (mentre il suo concorrente il Partij Voor de Vrijheid di Geert Wilders ottiene il miglior risultato lontano dal centro, Limburg, Oost-Nederland e Maasvlakte); inoltre perché la coalizione (liberali conservatori, democristiani, liberali di sinistra e calvinisti) di Mark Rutte potrebbe perdere la sua maggioranza di un seggio nella prima Camera degli Stati Generali visto che sono i consiglieri provinciali a deciderne la composizione all’Aja. In Estonia, il Eesti Keskerakond, partito di centro-
Prefazione di Michel Korinman ‒ L’impasse istituzionale. In Svezia – poiché nessuna formazione politica voleva associarsi ai nazionalisti anti-immigrazione dei Democratici di Svezia (Sverigedemokraterna), 17,6% dei voti, che sarebbero sicuramen- te cresciuti in caso di nuove elezioni – ci sono voluti più di quattro mesi, dopo le elezioni legislative del settembre 2018, per dotarsi di un esecutivo formato dal Partito social-democratico e dai Verdi col sostegno del Partito del Centro (Centerpartiet) e dei liberali (Liberalerna), in cambio di un ac- cordo politico su alcune misure chiave (e l’astensione degli ex-comunisti del Partito della sinistra, Vänsterpartiet)11. In Belgio, dopo 541 giorni sen- za governo in seguito alla crisi istituzionale del 2010-2011, la decisione di firmare il Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare (Patto di Marrakech) ha fatto cadere il Primo ministro Charles Michel (Mouvement réformateur), a causa del ribaltone da parte dei nazionalisti fiamminghi della Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), minacciati a destra dal Vlaams Belang, che intendevano fare dell’immigrazione un tema cen- trale della campagna per le elezioni legislative federali del maggio 2019, a prescindere dal contagio del fenomeno gilet jaunes12. 9 sinistra, molto apprezzato dalla minoranza russa, ha format all’inizio di aprile una coalizione con i conservatori di Erakond Isamaa ja Res Publica Liit, Union Pro Patria e Res Publica, (IRL) e soprattutto i «populisti di destra» di Ekre (Eesti Konservatiivne Rahvaerakond) che hanno raddoppiato i voti alle elezioni parlamentari (17,8%) grazie a un programma che condanna «l’odio etnico e l’antisemitismo»; anzi il leader di Ekre, lo storico ed editore Mart Helme, già ambasciatore a Mosco il cui padre combatté nella legion estone della Waffen-SS, ha definito razzista il progetto europeo di grand remplacement della popolazione autoctona (da 20 a 30 000 immigrati dalla Russia, dall’Ucraina e dalla Bielorussia solo per il 2018), «Regierungsbündnis in Estland», FAZ, 8 aprile 2019. Cf. Lourdes Lucio, «Moreno abre un ciclo nuevo en Andalucía con el apoyo de PP, Ciudadanos y Vox», El País, 17 gennaio 2019, https://elpais.com/ politica/2019/01/16/actualidad/1547657697_139882.html [2 février 2019]. 11 Cf. Lena Mellin, Victor Lindbom, «Regering 2019: Här är alla ministrar i nya regeringen», Aftonbladet, 21 gennaio 2019, https://www.aftonbladet.se/nyheter/a/ J1dylb/regerig-2019-har-ar-alla-ministrar-i-nya-regering [2 febbraio 2019]. 12 Cf. Anne Rovan, «La fin d’une présidence autrichienne au goût amer», Le Figaro, 12 gennaio 2019: a Bruxelles si considera il cancelliere Sebastian Kurz, con le sue pressioni un po’ dappertutto in Europa, all’origine della crisi». Per un panorama dell’opinione internazionale riguardo la crisi belga, «“Belië gewoon weer zonder regering”: Hoe kijkt het buitenland naar de Belgische politieke chaos?», Het Laatste Nieuws – HLN. be, 19 dicembre 2018, https://www.hln.be/nieuws/binnenland/-belgie-gewoon-weer- zonder-r....229.229.2-1.1.0....0...1ac.1.34.heirloom-serp..5.0.0.5KdmQ63gb28 [2 febbraio 2018].
Il modello italiano ‒ Un clima proto-insurrezionale. Il caso più estremo è senza dubbio quel- lo della Francia: dal 17 novembre 2018 il terremoto politico dei gilets jaunes ha scosso tutto il Paese. L’ampiezza del fenomeno è dovuta in parte al disinteresse che la sinistra social-democratica ha dimostrato, in Francia così come in Europa occidentale, nei confronti delle rivendica- zioni popolari, concentrandosi invece su battaglie minoritarie (etniche, di genere). Il movimento si è affievolito a fine dicembre: il dietrofront del Presidente Macron sull’aumento delle accise sulla benzina, la mobilita- zione settimanale sempre più difficoltosa, l’attentato di Strasburgo e il lancio del grand débat national a gennaio vi hanno contribuito in larga parte. Ciò non significa tuttavia che abbia perso la sua forza iniziale, anzi. Tre fattori favoriscono infatti una certa stabilizzazione del movimento. La sua diramazione territoriale innanzitutto, coadiuvata dalle reti sociali che amplificano esponenzialmente l’effetto “passaparola”. La diversità di rivendicazioni che la mobilitazione riesce a coagulare, in secondo luogo, è uno degli elementi più dirompenti rispetto al passato. Ma soprattutto, il movimento esprime delle rivendicazioni “moderne” che vanno aldilà 10 della semplice rivolta fiscale o della lotta al carovita. Una delle principali richieste riguarda, per esempio, l’istituzione di un referendum d’iniziativa popolare, assente nell’ordinamento francese, che lo subordina all’inizia- tiva di un quinto dei parlamentari, sostenuta da un decimo degli elettori, secondo la riforma costituzionale del 2008 voluta da Nicolas Sarkozy. Ma a causa della sua natura “gassosa” e della frammentazione ideologica, il movimento fatica a dotarsi di una rappresentanza in grado di fare la sintesi fra un’ala massimalista, fortemente mediatizzata e una minoranza di gilets jaunes “liberi” e relativamente pacifici. Un’eventuale lista gilets jaunes si alimenterebbe nel bacino elettorale del Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen, che furbescamente si è ben guardata dal cavalcare il mo- vimento, pur sostenendolo apertamente, e de La France Insoumise (LFI, estrema sinistra) di Jean-Luc Mélenchon. Paradossalmente però, quest’e- ventualità rafforzerebbe automaticamente lo schieramento del Presidente Macron, che pure focalizza su di sé un odio sociale diffuso, essendo stato eletto dall’élite tecnocratica e benestante della società francese, grazie al solito spauracchio Front National della ditta Le Pen. Ciononostante, in- fatti, il Presidente è riuscito a risalire nei sondaggi rilevati a fine marzo, passando dal 20% al 29% circa di approvazione in poche settimane. Un exploit dovuto in larga parte ai violenti scontri che quasi ogni sabato ormai segnano le manifestazioni convocate a Parigi e non solo, così come alla sua presenza costante nei media, grazie alla moltiplicazione dei dibatti-
Prefazione di Michel Korinman ti organizzati sul territorio nei quali il Presidente risponde direttamente alle preoccupazioni, più o meno filtrate, delle comunità più isolate della France profonde. La precedente discesa a picco nei sondaggi era invece la naturale conseguenza di un metodo di governo iper-verticale che, scaval- cando i tradizionali corpi intermedi, ha posto il Presidente di fronte alle rivendicazioni popolari. La delusione diffusa era per lo più conseguente, infatti, a una grande promessa di rinnovamento, di un “mondo nuovo” al quale una parte importante della popolazione aveva voluto credere nelle elezioni del 2017, una modernizzazione che avrebbe ricollocato la Fran- cia nello scacchiere internazionale ed europeo. Questa crisi rappresenterà senza alcun dubbio una cesura nella storia contemporanea della nazione francese. Tutto ciò fa sì che Palazzo Chigi può presentarsi – indipendentemente dai suoi risultati in ambito economico! – come l’argine più efficace contro il po- tere della piazza e la crisi delle democrazie: grazie a noi, niente gilets jaunes, né rivendicazioni violente, sembrano dire. Per i grillini, ancora meglio: i gilets jaunes in Italia, siamo noi! Analizzando le risposte di Matteo Salvini all’ex corrispondente a Roma del Figaro, fine conoscitore dell’Italia, Richard Heu- 11 zé, gli si deve pur riconoscere una certa coerenza. A proposito del Presidente francese, non disdegna l’ironia: «Mi sembra che la popolarità di Macron sia al suo minimo storico. Invece di prendersela con Salvini, Macron farebbe bene a prendersela con sé stesso»13. Visti i consensi del 60% per la coalizione M5S-Lega e del 33% per la Lega, il vice-Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno può vantarsi di incarnare la via d’uscita dall’impasse fra ingo- vernabilità e trasformazione. Ironia della storia, il Paese che ha avuto 130 governi nei 157 anni successivi all’Unità d’Italia, dove l’autorità dello Stato è tradizionalmente debole, sarebbe dunque l'avanguardia di una rinascita demo- cratica14. Secondo il ministro, l’importante, è cambiare: «quello che la gente vuole è, innanzitutto, poter ricevere e capire i messaggi»; ed ancora: «è questo il successo della comunicazione diretta», «siamo stati eletti per cambiare lo status quo». Per quanto riguarda la coalizione “panpopulista” Lega-5 Stelle, si tratta «di partiti diversi ciascuno con la propria storia» e senza programma o passato amministrativo in comune, «il che rende il nostro accordo ancora 13 Cf. «Italie: le temps du populisme», Politique Internationale, autunno 2018 (dichiarazioni di fine settembre), riproduzione di estratti con cortese autorizzazione dell’autore. 14 La versione di Cassese, «Italia e Germania a raffronto. Una storia con i se che parla anche al presente», Il Foglio, 2 gennaio 2019.
Il modello italiano più meritorio e stimolante». L’Italia è la prima democrazia occidentale ad aver ricostruito il suo panorama politico intorno a due forze nate all’esterno dello stesso: Newcomers e Outsiders. Da una parte un movimento organizzato come rete aperta (anche se con un forte controllo dal centro, una sorta di ma- oismo digitale), e dall’altra il partito di un leader15. L’Italia anticiperebbe dunque i cambiamenti futuri in Europa? Il loro pro- gramma riassumeva una serie di proposte – flat tax, abolizione della legge Fornero, freno all’immigrazione – che rispondevano manifestamente a do- mande diffuse, indi il successo elettorale. Il panpopulismo, raccoglitore-sin- tetizzatore delle doglianze popolari? Come se, in Francia, Benoît Hamon e Marine Le Pen avessero delimitato un perimetro di azione comune. L’Europa dovrà giocoforza evolvere, se non vuole sprofondare in un maelstrom (buco nero oceanico, dall’olandese malen, ovvero turbinare ma anche macinare) ge- opolitico. Come dice Salvini: «spero che la Commissione si renderà conto che non può più perseverare nella sua attuale politica di bilancio». Si noti che l’Italexit non è più all’ordine del giorno16. Per quanto riguarda l’Europa, essa dovrà ovviamente riallacciarsi alle sue radici; sempre secondo Salvini: 12 «riaffermare i valori dell’uomo, della donna, della nostra storia europea, lo ripeto, giudeo-cristiana» (rifiuto quindi di qualsiasi allargamento al “cavallo di Troia” turco). Si noti altresì che in Francia Marine Le Pen ha cominciato a inviare segnali a LFI (e al suo elettorato) per via della loro prossimità sul piano sociale, dopo che Mélenchon ha attenuato le sue posizioni sull’immigrazione – provocando peraltro uno scontro al vertice del suo partito. Non c’è da stupirsi quindi se a Parigi, e non solo, si parla sempre più spesso del “modello italiano”. In conclusione, gli orientamenti della Lega sembrano tradire una sua vo- lontà di collocarsi geopoliticamente al centro dell’Europa. Roma capitale del- la Nuova Europa? L’attuale Unione europea è un ossimoro geopolitico, una contraddizione in termini. Non è uno Stato – contrariamente alla sua finalità implicita fin dal 1957 e così come l’ex ministro tedesco degli Affari esteri Joschka Fischer auspicò, proponendo sia un Governo (per superare la sovrastruttura Commis- 15 Cf. Sabino Cassese, «Indagine sulla natura dell’improvvisa accelerazione di forze contrarie agli indirizzi che sembravano prevalere nel mondo. Il nuovo libro del prof. Cassese», Il Foglio, 1 febbraio 2019 e id., La svolta Dialoghi sulla politica che cambia, Bologna, Il Mulino, 2019. Cf. anche la splendida analisi di Pierluigi Battista, «I mondi opposti di 5 Stelle e leghisti», Corriere della Sera, 7 febbraio 2019. 16 Così come Marine Le Pen dà ormai priorità al «rinascimento» dell’Unione europea rispetto al cosiddetto Frexit.
Prefazione di Michel Korinman sione-Parlamento, democraticamente illegittima) che una Eurokammer della zona euro (dotata di veri poteri di controllo e decisione). Così come l’apparato dirigente dell’Unione sovietica e satelliti ritardarono ad oltranza la questio- ne fondamentale della transizione dal socialismo al comunismo, pur di non tirarne le conseguenze per il regime stesso, i dirigenti dell’Unione europea hanno rimandato all’infinito la riflessione sugli eventuali, possibili Stati Uniti d’Europa. Per paura del confronto con un’opinione pubblica largamente osti- le, oppure semplicemente per non dover rinunciare all’esercizio del potere. In ogni caso, tre date faranno storia. Il 2004 con l’allargamento ai Paesi d’Europa centrale e dell’Est, più Cipro e Malta; il 2005 con l’esito fasullo dei referendum francese e olandese (poi lo sviamento dei referendum irlandesi del 2008-2009); e di nuovo a partire dal 2009-2010 la crisi greca e l’impos- sibilità di porvi rimedio a livello europeo. Allo stesso tempo però all’Unione vengono indirizzate domande di solito rivolte agli Stati. Riguardo la fonda- tezza degli allargamenti, visti gli squilibri economici fra i vari Stati membri, e a proposito del grande problema geopolitico del XXI secolo: le migrazioni. Per quanto riguarda la prima, l’operazione era giustificata dal riconosci- mento di un debito nei confronti dei Paesi dell’Europa centro-orientale, per 13 decenni sottoposti all’impero sovietico. L’allargamento rispondeva altresì ad una concezione gerarchica dell’integrazione socio-economica, dall’alto, di questi ultimi. Sta di fatto però che i famosi criteri di Copenaghen (1993), che avrebbero dovuto obbligare i nuovi entranti a rispettare i valori dell’U- nione – progenie incestuosa della scienza politica e delle burocrazie europee – avrebbero potuto essere scritti in coreano (del Nord), tanto la memoria del continente è rimasta, quella sì, scolpita nelle memorie collettive. Ne è la ripro- va il duplice concetto di Nazione secondo gli ungheresi: da una parte quello che corrisponde ai quasi 10 milioni di abitanti all’interno delle frontiere na- zionali in senso stretto, ma dall’altra quello che ingloba anche i due milioni e mezzo di magiari dei Paesi limitrofi, territori che corrispondevano ai due terzi del Paese quando nel 1920 il trattato del Trianon li amputò all’Ungheria (con un ultimo piccolo ridimensionamento del 1947). Concetto oggi conclamato nella Legge fondamentale del 2011-2012, approvata con maggioranza dei due terzi e ampio sostegno popolare dal governo di Viktor Orbán: «In vista della coesione della nazione ungherese unita, l’Ungheria ha responsabilità del de- stino degli ungheresi che vivono al di fuori dei confini nazionali, favorisce la sopravvivenza e lo sviluppo delle loro comunità, sostiene le loro aspirazioni alla conservazione della propria identità ungherese, la realizzazione dei loro diritti individuali e collettivi, la creazione delle loro autonomie comunitarie, la loro sopravvivenza nella propria terra natia, nonché promuove la coope-
Il modello italiano razione tra di loro e l’Ungheria». (Articolo D dei principi fondamentali)17. Il che va in direzione opposta ad uno dei principi fondanti della rivalutazione dei valori, Umwertung aller Werte, sottesa a tutta la costruzione europea: la fine degli irredentismi, secondo i quali ogni pezzo di popolazione in questo o quello Stato non attende altro che la redenzione da parte della madre patria. Abbiamo quindi, alla faccia della Commissione di Venezia e del Parlamento europeo, due accezioni dell’Europa evidentemente destinate a scontrarsi. In fondo, il dibattito sull’Europa andava fatto nel 2004, non nel 2018-2019. Si è preferito mescolare l’aritmetica (il rafforzamento grazie alla somma degli uomini, dei chilometri, delle merci) con la teleologia (la necessità storica), invece di fondare una politica nuova e propria. Dopo lunghe tergiversazioni, dovute all’appartenenza dell’Ungheria (ormai sospesa dal 20 marzo) al Par- tito popolare europeo (centro-destra) e alle sottigliezze tattiche (sconosciute ai polacchi18) del Primo ministro ungherese, il Parlamento europeo vota il 12 settembre 2018 a favore dell’attivazione dell’articolo 7 del trattato sull’Unio- ne europea, usufruendo del suo diritto d’iniziativa per chiedere al Consiglio (gli Stati membri) di pronunciarsi sul rispetto dello Stato di diritto in uno dei 14 Paesi dell’Unione (448 a favore, 197 contrari e 48 astensioni). Si invita dun- que il Consiglio a «constatare che esiste un rischio chiaro di violazione grave, da parte dell’Ungheria, dei valori di cui all’articolo 2 del TUE e a indirizzare all’Ungheria delle raccomandazioni adeguate a questo riguardo». Procedura che non arriverà a termine, poiché la Polonia (anch’essa oggetto sottoposta all’articolo 7, da parte della Commissione), l’Austria e l’Italia (per non par- lare della Baviera), che condividono la fermezza di Orbán sulle questioni mi- gratorie, vi si opporranno. Quel che vale per l’Ungheria vale anche per l’Austria e la volontà assai grossdeutsch del cancelliere di Vienna di offrire ai germanofoni e ladinofoni dell’Alto Adige (Südtirol) il passaporto austriaco e la doppia nazionalità19. 17 Legge fondamentale dell’Ungheria del 25 aprile 2011. 18 Cf. Gerhard Gnauck, «Sollen die doch urteilen Polens Regierung erwägt, Beschlüsse des Europäischen Gerichtshofes zu ignorieren», FAZ, 29 agosto 2018: il governo polacco (vice-presidente del Consiglio dei ministri Jarosław Gowin) era pronto, a fine agosto 2018, ad ignorare la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea qualora quest’ultima avesse statuito contro Varsavia, decretando di fatto un “Polexit”. 19 Non esiste quindi un asse geopolitico propriamente detto fra Italia ed Austria. Cf. altresì Eckart Lohse, Stephan Löwenstein, «Dominostein des Anstosses», FAZ, 6 luglio 2018, mentre sul progetto, poi ampiamente annacquato ministro tedesco (bavarese) dell’Interno, Horst Seehofer, di respingere i migranti già al superamento frontiera con la Germania, cf. Matthias Rüb, «Österreichs italienische Avancen», loc.
Prefazione di Michel Korinman Insomma, il dibattito che avrebbe dovuto tenersi nel 2004 non si è ancora visto. Ma anche se la concezione “etnica” della nazionalità comune sia a Bu- dapest che al cancelliere Kurz e al suo partner FPÖ non fa gli interessi attuali dell’Italia in Alto Adige, dove la Lega (11,1%) è ormai alleata della Südtiroler Volkspartei (41,9%, SVP, autonomisti moderati) nella giunta provinciale, Sal- vini ha invece con il Primo ministro ungherese molto da spartire; «una visione comune del futuro. Un’Europa che protegge le sue frontiere esterne, difende il lavoro, la crescita, protegge le sue industrie. Viktor Orbán incarna l’Europa che speriamo di costruire l’anno prossimo, con le elezioni al Parlamento di Strasburgo». E poi: «Ricordiamo comunque – non è inutile farlo – che con Bruxelles non abbiamo lo stesso punto di vista sull’immigrazione, all’origine delle sanzioni che alcuni vorrebbero infliggere all’Ungheria». Il capo della Lega sembra auspicare che l’Italia serva da esempio ad altri: «Ma, vedete, anch’io, quando sono stato eletto segretario nel 2013, la Lega era solo al 3%»; «Abbiamo intenzione di diventare un grande gruppo al Parlamento europeo. Disposto eventualmente attraverso alleanza a un ruolo di Governo, ma non di certo con i socialisti». Come a suo tempo l’Austria del cancelliere Kreisky (1970-1983), l’Italia riempirebbe in quest’ottica un ruolo nuovo fra l’Est e 15 l’Ovest dell’Europa. I sovranisti sperano di ottenere molti seggi e anche un posto chiave da commissario europeo in ambito finanziario, il quale darebbe il via libera all’I- talia entro la fine dell’anno. I politologi s’interrogano tuttavia su la contraddi- zione fra una coabitazione a Roma e la doppia emergenza di un polo modera- to, anti-sovranista, anti-destre, rappresentato dal M5S e di un grande gruppo sovranista a Strasburgo20. Dopotutto, Luigi Di Maio (che fino a un anno fa offriva aperture a Macron) non ha forse proclamato il suo sostegno ai gilets jaunes francesi, offrendosi di mettere a disposizione in vista delle europee il know-how del “movimento” in tema di democrazia diretta, mentre Salvini abbinava al sostegno un chiaro rifiuto della violenza?21 cit., 19 settembre 2018; Blandine Le Cairn, «L’Autriche fâche l’Italie en prévoyant de donner un passeport à des Italiens germanophones», lefigaro.fr, 21 settembre 2018, http://www.lefigaro.fr/international/2018/09/21/01003-20180921AR...evoyant-de- donner-un-passeport-a-des-italiens-germanophones.php [10 gennaio 2019]. 20 Cf. Emanuele Buzzi, «Di Maio vuole il polo anti destre Salvini resta con i sovranisti Due vie (opposte) alle Europee», Corriere della Sera, 4 gennaio 2019. 21 Cf. da ultimo Emanuele Buzzi, «Di Maio e Di Battista dai gilet gialli E c’è chi incitò alla “guerra civile” Missione a Parigi. Il “duro” Chalençon: bene ma alle Europee non saremo alleati», Corriere della Sera, 6 febbraio 2019 per un incontro con Christophe Chalençon (!), il quale, rifiutando l’alleanza col M5S, evoca la guerra civile e in un
Il modello italiano Roma (involontariamente) salvata dalla Francia Il Presidente Emmanuel Macron, dopo aver denunciato con forza “la lepre populista” nel giugno 2018, aveva chiaramente gettato le basi geopolitiche di uno scontro franco-italiano (risalente all’estate 2017) sull’Europa. Progres- sisti pro-mondializzazione e filo-europei vs. nazionalisti e la loro “politica dell’odio” degli anti-mondializzazione e degli euro-scettici. Scegliendo come avversario interno Marine Le Pen, più facile da battere, e come nemico ester- no Matteo Salvini, capofila in Europa occidentale dei “populisti”22. La “luna di miele” fra Macron e l’Europa si basava sulla debolezza di Angela Merkel in seguito alla crisi dei migranti e sul successo di Alternative für Deutschland (91 deputati al Bundestag), ma anche sulla comparsa a Roma di una diarchia ritenuta a priori instabile. La Francia, capofila di un rinnovato slancio euro- peista all’interno dell’Unione (più modesto rispetto alla visione di Joschka Fischer), si ritrova invece in un vuoto politico: bisogna trovare i mezzi per galvanizzare i cittadini europei e rispondere al progetto “populista”, riparten- do dal progetto dello Stato europeo. Ma, nel frattempo, è arrivato il movimento dei gilets jaunes. Azzardiamo 16 una previsione: a Bruxelles quest’ultimo e il governo francese sono stati il sal- vagente dell’Italia. A metà settembre 2018, il Commissario europeo (france- se) per gli affari economici e monetari, Pierre Moscovici, definisce l’Italia un “problema per la zona euro” (frase poi smentita dal suo staff), parla di “peri- colo populista” e denuncia i “piccoli Mussolini”23. A maggio, il Commissario europeo (tedesco) per il bilancio, Günther Oettinger (che si scuserà in seguito) ci spiegava che i mercati avrebbero tirato le orecchie all’Italia e che il debito pubblico italiano al 133% era a un livello intollerabile per i partners europei24. Il 23 ottobre 2018, la Commissione respinge – per la prima volta nella storia video auspica un intervento militare per gettare le basi di un governo di transizione. 22 Cf. Stefano Montefiori, «Macron: sono l’avversario di Salvini L’UE avverte sui conti, l’ira di Di Maio», Corriere della Sera, 30 agosto 2018. Con effetto boomerang su un terreno inaspettato: l’Italia avrebbe potuto ridiscutere i prestiti accordati al Louvre in occasione del quinto centenario dalla morte di Leonardo da Vinci, che ricorrerà il 2 maggio 2019. Vedasi anche, ad un livello inferiore, l’offensiva stereotipizzata del Spiegel, della Bild-Zeitung et perfino della serissima FAZ; oppure l’ansia che colpì Berlino al solo pensiero che Paolo Savona potesse essere nominato ministro dell’Economia e delle Finanze. 23 Al che Salvini gli consigliò di sciacquarsi la bocca, cf. Paola Di Caro, «Moscovici accusa. Lite con Roma», Corriere della Sera, 14 settembre 2018. 24 Cf. Ivo Caizzi, «Bufera sul tedesco Oettinger, poi le scuse», Corriere della Sera, 30 maggio 2018.
Prefazione di Michel Korinman dell’Unione europea – il bilancio preventivo di uno Stato membro, con Mo- scovici che aggiunge: «Non siamo di fronte a un caso limite, siamo di fronte ad una deviazione che è chiara, netta e per certi versi rivendicata»25. Il 21 novembre la Commissione apre la procedura per deficit eccessivo26. Eppure, il 19 dicembre l’Italia ne esce con alcune correzioni finanziarie (previsione di crescita dell’1% invece di 1,5% e deficit nominale a 2,04%), e riconoscimenti di «circostanze speciali» (infrastrutture da modernizzare per esempio dopo il crollo del ponte di Genova). Con alcune significative divergenze proprio a Bruxelles. Il lettone Valdis Dombrovskis, vice-Presidente della Commissio- ne per l’euro, non trova sia un’idea migliore e avverte che con altri colleghi manterrà una stretta vigilanza sulla politica economica e finanziaria di Roma. Al contrario, Moscovici tesse le lodi della vittoria del dialogo politico sul confronto (pur ammonendo qualche giorno dopo la coalizione giallo-verde)27. Insomma, la Francia, in pieno clima proto-insurrezionale, ha intrapreso un salvataggio dell’Italia che criticava con forza fino a poco tempo fa. Gli eu- ropei, fra i quali alcuni dei Paesi più reticenti, non hanno voluto prendere il rischio di una doppia crisi ad ovest del continente. Salvini, in piena campagna elettorale europea, nel frattempo fa notare che la finanziaria 2019 sarà stata 17 l’ultima nella quale l’Italia si sottomette ai “diktat” di Bruxelles. A maggior ragione poiché quest’ultimo potrà a buon diritto evocare la differenza di trat- tamento fra Francia e Italia (“due pesi due misure”), visto che gli esperti sono d’accordo nel dire che le concessioni fatte da Macron ai gilets jaunes faranno salire il deficit della Francia al 3,4%. Ciononostante, l’Italia resta la patria del machiavellismo. Salvini è salito dal 17,4% delle elezioni di marzo 2018 a 34,7%, 36,2% e 32,9% a ottobre-di- cembre, mentre il M5S scende da 32,7% a 27%, con una fiducia in calo per Luigi Di Maio, al 43%, contro il 56% di Salvini: il 20% degli elettori M5S si dichiarano incerti o si rifugiano nell’astensione, mentre il 12% di loro scel- gono ormai la Lega! Quest’ultima quasi al 36% a fine febbraio dopo un balzo in avanti nelle regionali in Abruzzo (pur senza sfondare in Sardegna), mentre il M5S sprofonda. E ancora quasi 37% alla Lega contro 22,3% al M5S il 18 25 Cf. Vincent Georis, «L’Europe rejette le budget italien, une décision historique», L’Echo, 24 ottobre 2018, https://www.lecho.be/actualite/archive/l-europe-rejette-le- budget-italien-une-decision-historique/10062318.html [3 gennaio 2019]. 26 Cf. Anne Rovan, «La Commission retoque le budget italien», Le Figaro, 22 novembre 2018. Anche se la procedura rischia di essere lunga, cf. «Brüssel kann gegen Roms Haushaltspläne wenig tun», FAZ, 20 novembre 2018. 27 «Italien kommt ohne Defizitverfahren davon», FAZ, 20 dicembre 2018.
Il modello italiano aprile28. La Lega potrebbe quindi, una volta incassati degli ottimi risultati alle europee, mettersi in proprio, mentre i leader del M5S cercherebbero in tutti i modi di contenere le perdite. Il che potrebbe segnare la fine del panpopulismo e dell’immaginazione italiana al potere. N.B. Sul piano metodologico, niente di più sbagliato che raggruppare in termini “scientifici” 46 leader fra i quali Trump, Orbán, Hugo Chávez e Ni- colás Maduro, Salvini e Di Maio, di 33 Paesi completamente diversi sotto la stessa etichetta denominata “populismo”, come hanno fatto ancora di recente Jordan Kyle e Yascha Mounk dell’Institute for Global Change (fondato da Tony Blair), senza un’oncia di dibattito geopolitico29. 20 aprile 2019 18 28 Nando Pagnoncelli, Il Carroccio sfiora il 37%, Frenata 5 stelle: sono al 22,3% ma il D resta staccato, Corriere della Sera, 20 aprile 2019; Id. «Il M5S crolla al 21,2% La Lega sfiora il 36 e il Pd ritrova i consensi delle ultime Politiche Forza Italia risale all’8,6%. Stabile la fiducia in Conte», Corriere della Sera, 2 marzo 2019; id., «Il primo stop per la Lega I delusi del M5S», Corriere della Sera, 27 dicembre 2018; id., «La Lega sale ancora (36,2% e allontana i 5 Stelle Crescono astenuti e indecisi», loc. cit., 24 novembre 2018; id., «Il Carroccio sale al 34,7 E il 16% dei nuovi voti viene dal Movimento (che è crollato al Nord)», loc. cit., 3 novembre 2018. 29 «What’s Next for American Democracy?», Institute for Global Change, 26 dicembre 2018, Dagobah Inteligênca Democrática, 12 gennaio 2019, http://dagobah.com.br/ the-populist-harm-to-democracy-an-empirical-assessment/ [3 febbraio 2019].
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