14 maggio 1946 Lettera ai nipoti sul dì natale del nonno - Sergio Caruso
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14 maggio 1946 Lettera ai nipoti sul dì natale del nonno Caro Vidar, caro Teodor, cari nipotini miei, questo testo – a voi dedicato – l’ho scritto nel giardino del mare quando tu, Vidar, non avevi neppure cinque anni e tu, Teo, non ne avevi compiuti due. E io ero così, come mi vedete nella foto qui sotto: preso proprio mentre scrivo per voi. Se ora siete abbastanza grandi da leggere e capire quanto ho scritto vuol dire che io sono ormai non vecchio, come già nella foto, ma vecchissimo o, più probabilmente, morto. Avrò fatto in tempo a trasmettervi un buon ricordo? Chissà, speriamo. Non è di me, però, che voglio parlarvi; non direttamente, almeno. Voglio parlarvi invece… di storia. Sì, di storia: per mostrarvi che questa, la storia, non è solo una materia che si studia a scuola, ma anche il contesto collettivo dove l’esistenza di ciascuno trova forme; dove le nostre vite si svolgono e assumono un senso. Un contesto di speranze, paure, sfide, risposte, curiosità, emozioni. E per mostrarlo meglio, ho scelto un giorno, un giorno solo: quello della mia nascita, il 14 maggio 1946. Un giorno che io stesso sento come lontanissimo e… figuriamoci voi! Già, la storia. Sapete come si dice in ebraico? Toledot ()תולדות, che letteralmente vuol dire «generazioni». Perché la storia, nella Bibbia, questo è: la successione delle generazioni. A proposito di generazioni: veniamo a noi. Mio padre – Ferdinando Caruso, vostro bisnonno – era nato a Palermo il 1° ottobre 1899. Quando ero bambino, e poi ragazzo, questa data – 1899 – mi faceva molta impressione: tutti i padri dei miei amici erano abbastanza giovani; mio padre, invece, era «un uomo dell’Ottocento»! Lo era davvero, in ogni senso: anagrafico e morale. E io mi chiedevo: come sarà stato l’Ottocento? e che altro sarà successo il 1° ottobre 1899, nel bel mezzo di quella che chiamarono la Belle Époque? Be’, proprio quel giorno non lo so, non ho trovato molto; ma se guardo all’anno, posso dire che il bisnonno Fernando era coetaneo della Fiat e dell’AC Milan, che nascono pure nel 1899. Daniele, vostro padre, è nato invece a Firenze il 30 ottobre 1983. Per inciso, un bellissimo giorno non solo – com’è ovvio – per me e per la nonna, che da tempo aspettavamo questo figlio, ma pure, al di là dell’Atlantico, per milioni di persone. ln quello stesso giorno, infatti, le prime elezioni libere dopo sette anni scrivono la parola fine sulla feroce dittatura militare che opprimeva l’Argentina (ma c’era voluta una stupida guerra contro la Gran Bretagna, persa l’anno prima, per delegittimare i generali al potere). Ancora bambino (avrà avuto forse cinque anni), una volta Daniele mi chiese: «Babbo, che guardavi alla tv quando eri piccolo? Qual era il tuo programma preferito». «Nessuno», dovetti rispondergli, «perché, quando ero piccolo come te, la televisione in Italia non c’era, non esisteva: potevamo solo sentire la radio». Ricordo ancora i suoi occhi sbalorditi, e come rispose: «Ma allora,
2 babbo, se non c’era la televisione, che cosa c’era ai tuoi tempi?». Non parlò di dinosauri, ma l’idea era un po’ quella! Ora, è ovvio che il 1946 sia per voi molto più lontano di quanto lo fosse per vostro padre; ed è facile immaginare che possa apparirvi perfino più inafferrabile di quanto fosse per me il 1899. Magari, ripensando al nonno – perché lo pensate di quando in quando, non è vero, birbanti? – vi sarete chiesti pure voi: ma com’era a quei tempi? Bene, allora vediamo. Vi aiuto io: che cosa succedeva – nel mondo, in Italia, a Firenze – quel giorno che nasceva nonno Sergio? Be’, non aspettatevi che vi racconti tutte cose belle: erano tempi duri. La Seconda Guerra Mondiale è finita da pochi mesi (con la resa del Giappone firmata sul ponte della USS Missouri, ormeggiata nella Baia di Tokyo, il 2 settembre 1945) e il mondo è impegnato nella restituzione dei prigionieri di guerra, molti dei quali in pessime condizioni fisiche. Il 14 maggio 1946 la nave-ospedale Takasago Maru salpa dal porto cinese di Tanku alla volta di Sasebo, in Giappone, carica di militari e civili da rimpatriare (con un gruppo di medici militari e d’infermiere che se ne prendono cura: li vedete nella foto a sinistra). Inoltre: si piangono i morti. E lo stesso giorno, al City Center di New York, ha luogo un evento artistico di alto valore simbolico: la prima rappresentazione di When Lilacs Last in the Dooryard Bloom'd: A Requiem for Those We Love. La musica è di Paul Hindemith, le parole di Walt Whitman. Dunque: Hindemith, un grande tedesco, e Whitman, un grande americano. L'opera – un Requiem «per coloro che amiamo», inizialmente concepita in onore del Presidente americano F.D. Roosvelt – assume agli occhi del pubblico, e del mondo intero, il significato di una riconciliazione fra nemici che, insieme, ricordano i morti della guerra. Ancora quel giorno e sempre in America, ma stavolta nel Texas, la Guardia Nazionale chiude tutti i luoghi pubblici e ferma tutti i mezzi di trasporto nel disperato tentativo di fermare una epidemia di poliomielite. Sapete come? Disinfettando tutto col DDT, un insetticida! Ora, non che il dicloro-difenil-tricloroetano gli facesse bene, al poliovirus. Che in effetti risultava parzialmente inattivato, in laboratorio, sia dalla formalina che dal cloro (liberato dal DDT). Ma la verità è che nel 1946 ancora si credeva la polio poter essere trasmessa dagli insetti e dagli animali domestici (in realtà l’unico animale vulnerabile è la scimmia), sicché questa misura disperata, e quasi insensata, di disinfezione ambientale col DDT nulla poteva contro il vero pericolo: la trasmissione da persona a persona, da
3 bambino a bambino. La poliomielite, la micidiale “paralisi infantile”, endemica nei secoli passati, aveva assunto nella prima metà del Novecento le caratteristiche di una vera e propria epidemia (il picco della diffusione sarà il 1952) e tutti noi, scolari degli anni cinquanta-sessanta, ricordiamo di avere avuto in ogni classe uno o più compagni col “braccino morto” (per appoggiarlo sul banco dovevano tirarlo su con la mano buona) oppure claudicanti, con la “gambina morta” (come crudelmente dicevamo). Bisognerà aspettare gli anni cinquanta per avere finalmente dei vaccini antipolio che, somministrati a livello di massa, hanno messo al riparo i bambini di tutto il mondo (be’, di mezzo mondo) da questo orribile flagello. E benedetta sia per sempre la memoria di quegli scienziati – Hilary Koprowsky, Jonas Salk e Albert B. Sabin – che li hanno inventati! Ma torniamo al nostro giorno. Al mio dì natale. E passiamo in Europa. È in corso il processo di Norimberga, dove molti esponenti del nazismo vengono chiamati a rispondere di «crimini contro l’umanità» che vanno ben al di là delle violenze belliche. Il 14 maggio 1946 viene chiamato a testimoniare un ufficiale delle SS: Rudolf Höss, primo comandante del campo di sterminio di Auschwitz, appena catturato dai servizi militari britannici. Presiede il giudice Lawrence, inglese. Interrogato, Höss risponde con estrema freddezza e precisione, specificando il numero di barattoli di Zyklon-B necessari per gasare 1500-1600 persone al giorno (secondo il metodo da lui stesso proposto). Dopodiché, imperturbabile, firma la sua confessione: « I declare herewith under oath that in the years 1941 to 1943, during my tenure in office as commandant of Auschwitz Concentration Camp, 2 million Jews were put to death by gassing and a ½ million by other means. May 14, 1946 [signed] Rudolf Höss». Riconsegnato dal Tribunale Alleato di Norimberga, dove era solo testimone, alla Corte Suprema di Varsavia presso cui era già detenuto, Höss sarà condannato a morte e poi impiccato. L’esecuzione avrà luogo il 16 aprile dell’anno dopo: proprio ad Auschwitz, di fronte ai forni crematori da lui stesso voluti. Sia Hitler che Mussolini sono ormai morti, suicida il primo e giustiziato dai partigiani il secondo. Ma la caduta del nazifascismo in Europa non ha coinvolto – purtroppo – i regimi fascisti della penisola iberica, in qualche modo “premiati” dalla neutralità tenuta durante la guerra. Tuttavia, in quanto amici stretti della Germania nazista e dell’Italia fascista, Salazar in Portogallo e Franco in Spagna (lo vedete qui sopra a colloquio con i suoi mentori e camerati) sono più che mai esposti, adesso, alla critica della pubblica opinione internazionale. Si preoccupano dunque di esibire agli occhi del mondo una presunta “diversità”. E proprio il 14 maggio 1946 il Generalísimo Francisco Franco, Caudillo de España dal 1938, nel discorso inaugurale delle Cortes, pronuncia le seguenti parole, che propongono una cauta presa di distanze dalla sua totale identificazione col nazifascismo: «Lo Stato perfetto, per noi, è lo Stato cattolico. Non ci basta che un popolo sia cristiano perché si compiano i precetti di una morale di quest'ordine; sono necessarie leggi che mantengano il principio e correggano l’abuso. L’abisso, la differenza più grande fra il nostro sistema e quello nazifascista è la caratteristica cattolica del regime che oggi presiede i destini della Spagna. Né razzismo, né persecuzioni religiose, né violenza sulle coscienze, né imperialismo sui vicini, né la minima ombra di crudeltà hanno spazio sotto il sentimento spirituale e cattolico che presiede la nostra vita». Parole più ipocrite di così, sarà difficile trovarle: pensate che, fin dopo la morte di Franco nel 1975, la Spagna fascista continuerà ad applicare la pena di morte per gli oppositori politici
4 (con la garrota). Ma tale era, nell’immediato dopoguerra, la paura del comunismo che il dittatore spagnolo sapeva, nella sua sfacciataggine, di poter ancora contare sulla legittimazione morale del Vaticano. Figuratevi che, dopo il Concordato Stato-Chiesa del 1953, Pio XII ebbe l’ardire di nominarlo “Cavaliere dell’Ordine Supremo di Cristo”! Quello stesso 14 maggio 1946, in Francia, una commissione interministeriale delibera l’espulsione fisica dei lavoratori clandestini italiani, a ciò sollecitata dai sindacati francesi che lamentano la concorrenza sleale degli immigrati clandestini che lavorano a nero. Esattamente la stessa accusa che oggi – nel momento in cui scrivo: agosto 2018 – una parte cospicua degli italiani (aizzata dalle destre al governo) rivolge agli immigrati, clandestini e non, che arrivano dalle coste nordafricane). Senza neppure l’attenuante – che i francesi potevano allora rivendicare – cioè quella di una comprensibile antipatia per l’ex nemico: quella Italia fascista che, senz’altra ragione che la speranza di potersi assidere al tavolo dei “vincitori”, li aveva vilmente aggrediti e in parte occupati nel 1940 (quando la Francia, ampiamente battuta dai tedeschi sul fronte nord-occidentale, era già in ginocchio). Ed eccoci infine in Italia. Dopo l’armistizio del 1943, che segna l’egresso del nostro Paese dall’Asse italo-tedesco e dal Tripartito (Italia-Germania-Giappone), la Resistenza popolare a fianco degli Alleati contro l’occupazione tedesca e contro quanto restava del fascismo (la feroce Repubblica di Salò nell’Italia centro-settentrionale) ha in qualche modo salvato l’onore dell’Italia e la sua immagine agli occhi delle potenze alleate. Col risultato di evitarci l’umiliazione, che tocca invece al Giappone e alla Germania: lunghi anni di occupazione militare e completa soggezione politica. Peraltro, nel 1946 il Paese è semidistrutto ed economicamente a terra. La lira non vale praticamente niente, i negozi hanno ben poco da offrire e la moneta forte – specialmente ai fini della borsa nera – è ancora costituita dalle Am-lire, stampate dall’AMGOT, l’Allied Military Government of Occupied Territories (resteranno in circolazione fino al 30 giugno 1950). In attesa del referendum istituzionale monarchia/repubblica in programma per il 2 giugno, c’è ancora, per poco, la monarchia. Dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, regna quello che sarà detto «il Re di maggio»: Umberto II, già «Luogotenente del Regno» e poi Re d'Italia per poco più di un mese, dal 9 maggio al 13 giugno 1946. Stretto fra la pressione degli Anglo-americani da un lato e la stretta sorveglianza del Comitato di Liberazione Nazionale dall’altro, l’ultimo Savoia conta poco o nulla (grazie al cielo). Ed è proprio durante l’effimero regno del “Re di Maggio” che nasce nonno Sergio, il 14 di quel mese. Nonna Titta nascerà di lì a poco, il 17 luglio: coetanea, dunque, del futuro marito. Fra lei e me, sessantaquattro giorni di differenza: un niente! Però, però, però… io prima del referendum istituzionale, lei dopo. Sicché – sappiatelo, nipoti miei – per tutta la vita nonna Titta ha potuto scherzosamente rinfacciarmi questa cesura, quasi fossimo figli di epoche diverse: lei, nata «cittadina della Repubblica», e io, «suddito del Re»! Vero è che siamo pure nati, la nonna e io, sotto due governi diversi: il De Gasperi I, primo governo dell’Italia liberata dal fascismo, e il De Gasperi II, primo governo dell’Italia repubblicana. Diversi di poco, a dire il vero: con lo stesso Presidente del Consiglio e sostenuti da maggioranze politiche quasi uguali.
5 Il Governo De Gasperi I, quello in carica il giorno della mia nascita, era sostenuto dai partiti del CLN (il Comitato di Liberazione Nazionale che aveva guidato la Resistenza antifascista): DC (Democrazia cristiana, PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), PCI (Partito Comunista Italiano), PLI (Partito Liberale Italiano), PDL (Partito Democratico del lavoro), Pd’A (Partito d’Azione). Il Presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, capo indiscusso della Democrazia Cristiana, è affiancato nel governo da due altri leader politici, perfino più popolari di lui: Pietro Nenni, leader carismatico del partito socialista nonché Vicepresidente del Consiglio, e Palmiro Togliatti, capo indiscusso del partito comunista e Ministro di Grazia e Giustizia. Ed eccolo qui, Togliatti, attorniato dai dirigenti del Partito Comunista, nella foto qui sotto, scattata a Roma proprio quel giorno: il 14 maggio 1946. Di quello stesso giorno è pure il giornale di cui riproduco qui sotto la prima pagina: l’Ora del Popolo, un quotidiano palermitano di orientamento democratico-radicale e (diversamente dalla maggioranza dei siciliani di allora) favorevole alla Repubblica. Negli anni successivi tornerà al vecchio nome con cui era stato fondato, l’Ora, e – vicino al PCI – condurrà memorabili battaglie contro la mafia. Aggiungo una notazione di famiglia: fra i giornalisti di questo quotidiano mi piace ricordare lo “zio Totò” (che naturalmente non avete potuto conoscere), vale a dire il mio zio e vostro prozio Salvatore Argento, fratello della vostra bisnonna paterna Francesca Argento. Dai titoli del giornale potete farvi una idea dei temi principali che interessano l’Italia in quei giorni (a parte, s’intende, l’opzione monarchia/repubblica): la discussione in corso alla Conferenza di Parigi sulle condizioni che i vincitori imporranno ai vinti; le misure apprestate dall’America a favore di una «Europa senza grano»; la discussione sul c.d. decreto Togliatti, un provvedimento di amnistia molto ampio (secondo taluni, fin troppo ampio) che dichiara estinti tutta una serie di reati di «collaborazionismo» con l’occupazione tedesca commessi dai fascisti fra il 1943 e il 1945. Fra le questioni in discussione a Parigi c’è un problema assai delicato: il destino della Venezia
6 Giulia, col comune di Trieste (che sarà diviso in zone di occupazione militare come Berlino) e dell’Istria, con Fiume occupata dai partigiani di Tito. Il ministro degli esteri sovietico, Molotov, ne reclama l’annessione alla Jugoslavia comunista, insieme col Friuli, appoggiandosi al supposto volere delle popolazioni. E su questo, proprio il 14 maggio 1946, la solidarietà militante fra partigiani italiani e partigiani jugoslavi, già incrinata dalla tristissima questione delle foibe, si rompe definitivamente. Quel giorno, infatti, il nuovo quotidiano triestino La Voce Libera, di fatto organo del CLN locale propone di accettare la sfida di Molotov cioè, come si direbbe al tavolo di poker, di andare a “vedere”: si faccia una consultazione popolare, un referendum, che non potrà che dimostrare l’italianità di quelle regioni! Il referendum non ci fu e – per vostra memoria, cari nipoti – del c.d. TLT (il Territorio Libero di Trieste, poi creato a Parigi) la zona A – con la città di Trieste – tornerà all’Italia solo nel 1954; mentre la zona B e, a sud di essa, tutta l’Istria resteranno per sempre alla Jugoslavia e, dopo la dissoluzione di questa, alla Slovenia e alla Croazia rispettivamente. Col conseguente afflusso in Italia di migliaia di «profughi istriani», espropriati dei loro beni. Ciò che più fortemente coinvolge la maggioranza degli italiani in quel maggio del 1946, tuttavia, è – naturalmente – il referendum istituzionale. Ferve la campagna elettorale e i fautori della monarchia, che temono di perdere seppure di poco (come succederà), giocano le loro ultime carte. C’è, fra i monarchici, chi spera ancora di bloccare o sospendere il referendum (e preme a tal fine sulle autorità anglo-americane, senza successo) e c’è chi – più realisticamente, come lo stesso Re – intensifica gli sforzi propagandistici. Il 14 maggio 1946 succedono due fatti: Primo: nell'imminenza del voto il Ministro degli Interni, il socialista Giuseppe Romita, dirama una circolare che invita tutti i prefetti a predisporre una speciale vigilanza ai seggi, per evitare disordini. Secondo: il nuovo Re, dal canto suo, va caccia degli indecisi. Infatti: Umberto II di Savoia ha scritto un messaggio di saluto «agli italiani d’America» nella speranza che questi, molto numerosi, scrivano ai loro parenti in Italia, ancor più numerosi, esortandoli a votare in favore della monarchia – messaggio che viene pubblicato il 14 maggio sul Progresso Italo-Americano (un quotidiano in lingua italiana molto diffuso a New York e non solo, allora diretto da Generoso Pope). Nella speranza che gli italiani d’America vedano nella monarchia l’argine più efficace contro il comunismo. Il 2 giugno però non sarà solo il giorno del referendum istituzionale. Oltre alla scelta sulla forma di Stato – monarchia o repubblica – i cittadini italiani (tutti i cittadini, comprese per la prima volta le donne) sono chiamati ad eleggere anche i componenti dell’Assemblea Costituente, incaricati di redigere la nuova carta costituzionale. Il Vaticano e tutta la Chiesa cattolica, preoccupati di un possibile successo delle sinistre, sono mobilitati con tutte le loro forze e la loro influenza. Per un po’ la Santa Sede aveva accarezzato l’idea di una coalizione cattolico-reazionaria che mettesse insieme parte della DC con i monarchici del BNL e con i neofascisti del MSI; poi, più saggiamente, il Papa decide di puntare sulla «unità politica dei cattolici» appoggiando il progetto centrista della DC degasperiana. Nell’imminenza delle elezioni, il 14 maggio 1946, Pio XII riceve in
7 udienza il direttore della Civiltà cattolica, il gesuita Giacomo Martegani, per ribadirgli l’esigenza di tenere unite le forze cattoliche al fine di ottenere «una costituzione veramente cristiana». In fondo alla pagina precedente potete vedere la copertina-indice della Civiltà cattolica (fascicolo del giugno 1946, chiuso in tipografia nel mese di maggio), recante in apertura una «Allocuzione di S.S. Pio XII al Sacro Collegio dei Cardinali sulle condizioni presenti del mondo e della Chiesa». Segue l’articolo redazionale «Per un’Italia migliore», con cui Vaticano e Gesuiti “dettano la linea” a tutti i cattolici impegnati in politica, in particolare a quelli che saranno eletti nell’Assemblea Costituente. Lo stesso giorno Pio XII designa Giuseppe Siri arcivescovo di Genova (eccoli insieme qualche anno dopo, quando Siri è già cardinale). Il cardinale Siri sarà per lunghi anni a venire uno dei personaggi più conservatori della Chiesa, detestato dai cattolici progressisti; ma va pure ricordato a suo onore che si oppose, nel 1948, alla scomunica degli elettori comunisti voluta dallo stesso Pio XII e, sopra tutto, che si era molto impegnato durante la guerra per la salvezza degli ebrei, non solo genovesi, dalle persecuzioni nazifasciste Che altro dicono le cronache di quel giorno in Italia? Dalle cronache politiche passiamo alle cronache giudiziarie e alla cronaca nera. Ma la politica, vedrete, è presente anche nei due fatti di sangue che sto per raccontare. Infatti: Il 14 maggio 1946 la Corte di Assise Speciale del tribunale di La Spezia accoglie le richieste del Pubblico Ministero ed emette sentenza di morte a carico di una banda di torturatori fascisti, responsabile della morte di settantasette persone: seviziate e uccise in quanto antifascisti, all’interno della caserma del XXI Reggimento di Fanteria di La Spezia (trasformato dagli efferati torturatori in un luogo da incubo). Sono condannati alla pena capitale: Emilio Battisti, ex Questore della città; Aurelio Gallo, capitano della 33ª Brigata, e Achille Morelli, maresciallo della polizia “repubblichina” (cioè: fedele alla RSI, l’effimera Repubblica Sociale Italiana fondata da Mussolini nel settembre 1943 e di fatto asservita all’occupazione nazista del Centro-nord). Con loro, quel giorno, vengono condannati a morte pure due complici, Aldo Capitani e Matteo Guerra, ma per costoro la pena capitale sarà successivamente commutata in trent'anni di reclusione, di cui 10 condonati. A trent’anni viene pure condannato un terzo complice, don Rinaldo Stretti: un sacerdote! La sentenza di morte a carico di Battisti, Gallo e Morelli, pronunciata in Corte di Assise il 14 maggio 1946 e successivamente confermata in Corte di Cassazione, sarà poi effettivamente eseguita il 5 marzo 1947: mediante fucilazione nello spezzino Forte Bastia. Si tratta, va pur detto, dell’ultima esecuzione capitale per crimini di guerra – in qualche modo connessi con la politica – che abbiamo avuto in Italia (dove la pena di morte sarà esclusa dalla nuova Costituzione che entra in vigore il 1° gennaio 1948). A questo riguardo, un’altra notazione di famiglia. In quest’opera d’irrogare sanzioni contro fascisti e collaborazionisti responsabili di comportamenti particolarmente odiosi, la magistratura ordinaria era in quegli anni affiancata, e per certi aspetti sopravanzata, dalle Commissioni di Epurazione: istituite dal governo Badoglio nel 1943 per
8 «defascistizzare la pubblica amministrazione» e, dal 1944, legittimate a irrogare (con le debite procedure) ogni genere di sanzioni, dalla semplice rimozione dall’incarico fino alla pena capitale. Di queste Commissioni, presiedute da un prefetto, facevano parte due magistrati, un cittadino mutilato di guerra e decorato, nonché un perseguitato politico. I prefetti erano ovviamente quelli nuovi, nominati prima dal CLN col gradimento dell’AMGOT e poi dal nuovo governo democratico. Trovare mutilati di guerra e perseguitati politici non era, purtroppo, difficile. Abbastanza difficile era, invece, trovare magistrati di carriera che non fossero a loro volta compromessi col regime fascista. Ci si rivolse dunque a giovani magistrati che, per età o per scrupolo di coscienza, non risultassero avere compromissioni personali. Fra questi, cari nipoti, il vostro bisnonno materno: Gian Paolo Meucci, babbo della nonna Titta. Il quale era allora un giovanissimo “pubblico ministero” dichiaratamente antifascista (pensate che lui, uomo di legge, non aveva esitato a fornire taluni cittadini ebrei di falsi documenti prodotti all’interno del Tribunale per permettere loro di sfuggire alla persecuzione nazifascista). Il bisnonno Gianni accettò l’incarico, ma ad una condizione che volle esplicita; dichiarò infatti che avrebbe richiesto, come PM della Commissione, sanzioni anche severe e proporzionate alla gravità delle accuse; ma che per nessuno mai avrebbe richiesto, quale che fosse l’accusa, la pena di morte, incompatibile con la sua coscienza cristiana. E così fece. Possiamo dunque dire che non solo un certo numero di ebrei, ma forse anche qualche fascista gli fu debitore della vita! Oltre alla sentenza di La Spezia, il giorno della mia nascita vede pure un brutto fatto di cronaca. La sera del 14 maggio 1946 il sindaco di Favara (prov. di Agrigento) viene ucciso all’uscita dal Consiglio Comunale. Un colpo di lupara alla nuca.1 Gaetano Guarino, un farmacista socialista, aveva combattuto con coraggio lo sfruttamento della manovalanza agricola da parte dei latifondisti locali. La mafia (che in Italia era ancora un fenomeno ristretto alla Sicilia, cresciuto al servizio degli agrari) non gliela perdonò. E dopo tante cose brutte, un paio di cose buone: indizi di una Italia che ha voglia di rinascere. Il 14 maggio 1946 a Cagliari – nel quartier generale dell'ERLAAS (l’Ente regionale per la lotta antianofelica in Sardegna), un monumentale edificio in p. Garibaldi ora adibito a scuola elementare – si tiene una storica riunione presieduta dal prof. Giuseppe Brotzu, direttore dell'Istituto d'Igiene della Università di Cagliari, con la quale viene varato il piano antianofele per l’eradicazione della malaria che affligge l’Isola. Si sa che il protozoo responsabile dell'infezione (Plasmodium falciparum) viene trasmesso agli umani da una particolare zanzara, l’Anopheles labranchiae. E qui sì che il DDT, vanamente impiegato in funzione antipolio, servirà davvero: la malaria sarà infine debellata nel 1950 (col sostegno scientifico della Fondazione Rockfeller e col sostegno economico dell’UNRRA). E poi: l’avreste mai detto, cari nipoti? Il dì natale del nonno coincide, in un certo senso, con quello della Nutella (per essere più precisi con la fondazione della ditta Ferrero, che la produce). Ed ecco tutta la storia. La Nutella – uno dei più grossi successi dell’industria italiana nel mondo – nasce… per colpa della guerra! Infatti: la guerra ha fatto sì che il prezzo del cacao andasse alle stelle (così come era già successo agli inizi dell’Ottocento, in conseguenza del blocco navale ordinato da Napoleone contro i prodotti commerciati dagli inglesi); allora, il pasticcere Pietro Ferrero riporta in auge i Giandujot (così chiamati in onore di Gianduia, la maschera popolare di Torino): una specie di “cioccolatini” fatti di un impasto dolce che unisce quel poco 1 Alcune fonti riportano il 16 maggio, giorno della morte.
9 cacao a disposizione con polvere di nocciole tonde (presenti in abbondanza nelle Langhe) e zucchero. Fin qui niente di molto diverso da quanto già faceva nell’Ottocento la ditta Caffarel. Ma il 14 maggio 1946 il sig. Ferrero fonda la ditta omonima, registrandola alla Camera di commercio di Alba: poco più che un laboratorio artigianale, ma destinato a una strepitosa espansione. Grazie al figlio Michele che, diciotto anni dopo, modifica di poco la ricetta per fare di quell’impasto una crema spalmabile sul pane. La chiama Nutella: un marchio italiano che piacerà a tutti i palati del mondo. Ed è sopra tutto grazie ad essa che la Ferrero, nata come pasticceria di provincia, diventa la terza multinazionale al mondo nel settore dolciario del cioccolato. Ed eccoci infine a Firenze. Io, vostro nonno, vi nasco – alle 8:30 del mattino – in via Romagnosi 9, al quarto piano. In casa, come usava a quel tempo. Ma nel resto della città che altro succede a Firenze quel giorno? C’è chi entra e c’è chi esce. Le otto e mezzo del mattino, ora in cui io esco dalla pancia della mamma, è l’ora in cui i ragazzi entrano a scuola. Seguitemi dunque con la fantasia in piazza della Vittoria, ai cancelli di quello che sarebbe poi stato il mio liceo: il “Dante”. L’edificio del Ginnasio- Liceo di Stato “Dante” (il più antico di Firenze) c’era già ed era stato da non molto restituito al Provveditorato agli Studi dal Comando Alleato, che per un bel po’ vi aveva acquartierato le truppe. Pertanto, quelle aule, che io stesso avrei poi frequentato fra l’ottobre 1959 e il giugno 1964, finalmente ospitavano di nuovo ciò per cui erano nate: una scuola, sia pure un po’ malridotta. In attesa della restituzione le lezioni dell’anno scolastico 1945-46 erano cominciate, per gli studenti del “Dante”, nelle aule di un altro liceo fiorentino: il “Galilei” di via Martelli (di pomeriggio, naturalmente). Ma quel 14 maggio, ripulito alla bell’e meglio col concorso degli stessi studenti, il “Dante” era già di nuovo in funzione. Chi avremmo visto varcarne i cancelli quella mattina? Fra questi ragazzi che già facevano il liceo nel 1946, eccone alcuni che avrei poi avuto l’occasione di conoscere, chi più chi meno, o anche solo d’incontrare: Alberto Caramella, poi avvocato e chiarissimo docente di diritto privato nella Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, ma anche – chi l’avrebbe mai detto fra noi studenti del suo corso? – discreto poeta! E con lui: Carla Guiducci, poi direttrice della Biblioteca Nazionale e sottosegretario ai beni librari nel governo Dini; Mariella Marchi, la ragazza più ricca della scuola, poi marchesa Pallavicino; Piero Micheli, poi architetto e dirigente del Comune di Firenze (alle cui memorie devo queste notizie). Non lontano dal “Dante”, fra le rovine di via Puccinotti e le gravi distruzioni provocate dalle mine tedesche lungo il Mugnone, ha ancora sede – nel maggio 1946 – la Libreria Antiquaria e Casa Editrice Olschki. La quale è stata gravemente colpita nel patrimonio dagli eventi bellici, ma da qualche tempo – restituita alla famiglia – ha finalmente potuto riassumere con orgoglio il nome del suo fondatore, Leo S. Olschki (ignobilmente cancellato dalle copertine in osservanza delle leggi razziali del 1938, che non permettevano agli ebrei di dirigere imprese commerciali). Olschki sarà l’Editore, negli anni a venire e fino ad oggi, d’innumerevoli ricerche e di molte riviste di grande importanza per gli studi umanistici. Fra queste riviste ci sarà pure – ma non c’è ancora – la neonata Belfagor. Rassegna di varia umanità, fondata e diretta da Luigi Russo, di cui le storiche edizioni Vallecchi avevano pubblicato il primo numero nel gennaio 1946 (passerà poi alla casa editrice D’Anna e infine a Olschki). Il tipografo ed editore Attilio Vallecchi è appena morto – a Firenze, il 18 febbraio 1946 – e gli sono succeduti nella direzione dell'Azienda i figli Enrico e Piero. Non so che cosa facessero nella sede Vallecchi il 14 maggio 1946, ma posso immaginare che fossero impegnati nell’organizzare la
10 distribuzione in libreria e la spedizione agli abbonati del terzo numero di Belfagor, (Vol. 1, No. 3, 15 maggio 1946). Il fascicolo era parzialmente dedicato alla memoria dello storico Adolfo Omodeo, appena scomparso (il 18 aprile). Belfagor, che resta in vita con cadenza bimestrale sino alla fine del 2012, sarà per sessantasei anni una delle più importanti riviste italiane: capace di coinvolgere il meglio della cultura storico-letteraria e storico-filosofica, sia fiorentina che nazionale. Insomma, la cultura fiorentina si riorganizza dopo la guerra. Ma per gli storici dell’arte c’è una brutta sorpresa. L’Opificio delle Pietre Dure è stato incaricato di rilevare dai rifugi sotterranei le opere d’arte ivi messe al riparo dagli eventi bellici, per verificarne lo stato e per curarne la ricollocazione nei luoghi di provenienza. Ebbene: quel 14 maggio 1946 gli incaricati dell’Opificio si recano nei sotterranei di Palazzo Strozzi per prendere in consegna due casse, che contengono due statue di Benvenuto Cellini destinate al Museo Nazionale del Bargello: rispettivamente, “Apollo e Giacinto” (1548) e “Narciso” (di poco posteriore). All’apertura, però, la figura di Apollo – opera di squisita fattura – risulta rotta in più punti: dovrà essere restaurata. Per i cultori dell’arte è certo l’ennesimo dolore provocato dalla guerra. Ma il grosso dei fiorentini, forse, è più preoccupato per il cumulo di macerie cui le mine tedesche hanno ridotto via Por Santa Maria, strada d’accesso al Ponte Vecchio (nella foto a destra, l’angolo con via Vacchereccia). Ma quello è il prezzo che Firenze ha dovuto pagare nella notte della distruzione dei ponti sull’Arno (3-4 agosto 1944) per vedere salvo almeno il Ponte Vecchio. La ricostruzione di Por Santa Maria si protrarrà fino agli anni Cinquanta (con una strana mescolanza di antico e moderno non del tutto soddisfacente, a parer mio e di tanti altri). Come potevano consolarsi i fiorentini della vita dura che ancora conducevano nel maggio 1946? Come potevano loro, e tutti gli italiani, in qualche modo “divertirsi” (nel senso stretto ed etimologico di “volgersi ad altro”)? Ed eccoci, per finire, all’entertainment: sport, giochi, spettacolo, letture. Cominciamo dal calcio e, naturalmente, dalla Fiorentina. Mi auguro, cari nipoti, che – come il vostro nonno e il vostro babbo – siate fedeli al «labaro viola». Anzi, lo do per scontato. Così come do per scontato che sappiate a memoria l’inno, ci mancherebbe! Allora: per il calcio italiano il 1946 è un anno di transizione. Ai cui fini il 14 maggio è un giorno di speciale importanza. Infatti, proprio quel giorno e proprio a Firenze, si tiene l’assemblea generale delle società calcistiche, che decide molte cose. Per esempio, decide con immediata applicazione di consentire il tesseramento per una stessa società di due giocatori di nazionalità straniera e di tre di nazionalità italiana provenienti da Federazioni straniere, i cosiddetti “oriundi” (una difficile parola latina, che la maggioranza degli italiani sente dire per la prima volta e che si continuerà a usare per molti anni a venire). È possibile che questa decisione vi suoni bizzarra, cari nipoti: il calcio globalizzato di oggi non conosce altri vincoli che i prezzi di mercato, ed è possibile – in teoria e a volte anche in pratica – che una squadra italiana sia composta per intero da giocatori non-italiani (è successo per es. all’Inter e perfino alla Fiorentina); nel 1946, invece, non era così. L’assemblea di Firenze del 14 maggio, peraltro, assume una decisione anche più importante: il varo del Campionato nazionale di serie A. Infatti: dopo la fine della guerra, quale tardiva conseguenza della divisione – ricordate? – fra Nord “repubblichino” e Sud “liberato”, il campionato di calcio risultava esso pure diviso in gironi con esiti indipendenti (e con A e B insieme nel centro-sud). Le società riunite a Firenze decidono di riunificare il calcio italiano sotto l’egida della FIGC (Federazione
11 Italiana Gioco Calcio): nel 1946-47 avremo dunque, di nuovo e finalmente, un campionato unico di serie A (a venti squadre). Così ne dà notizia il Corriere dello Sport (che allora era un po’ la voce del calcio “meridionale”, di contro alla Gazzetta dello Sport, voce ufficiosa delle grandi squadre del Nord). Tuttavia, nell’annata calcistica appena conclusa, quella 1945-46, i campionati erano ancora separati, salvo un girone finale per il titolo (la c.d. Divisione Nazionale). La Fiorentina ha giocato nel girone del centro-sud e, nonostante che quel girone fosse più facile di quello del centro-nord, non si è qualificata per le finali nazionali: ha finito il campionato solo quinta. Ma rimane, per il pubblico viola del 1946, la gioia di rivedere il gioco e i gol dei suoi beniamini. Fra i quali un vero campione: Romeo Menti alias Menti III, così detto per distinguerlo dai fratelli Mario (Menti I, già del Vicenza) e Umberto (Menti II, in forza alla Juventus) nonché del nipote Luigi (Menti IV, anche lui del Vicenza). Il 1945-46 è l'ultima stagione in viola di Menti III (eccolo a destra), che l’anno successivo sarà comprato dal grande Torino, la squadra più forte di quegli anni. Morirà purtroppo, con tutti i suoi compagni di squadra, nella tragedia aerea del colle di Superga (4 maggio 1949) che segna la fine dell’egemonia granata sul calcio italiano. Il calcio del 1946 è un calcio narrato (dalla radio, a cose fatte e solo in parte), però anche e soprattutto un calcio immaginato. Per chi non va a vedere la partita dal vivo, allo stadio, le uniche immagini disponibili sono un paio di foto in bianco e nero sul quotidiano locale del giorno dopo e (solo se la partita era davvero importante) sui quotidiani sportivi a diffusione nazionale. Cui si aggiunge l’indimenticabile settimanale Il calcio illustrato, di cui vedete a sinistra un numero del marzo 1946 (edizione del centro-sud). L’Editoriale è dedicato alla Viola, ancora in lizza (due mesi prima che io nascessi) per le finali nazionali: «La Fiorentina alla prova decisiva». Non ce la facemmo, primi degli esclusi; nonostante i sei gol di Menti e i dodici gol di Gritti, il nostro cannoniere di allora. Pertanto, cari nipoti, la nascita del vostro nonno si colloca nel bel mezzo del girone
12 finale della Divisione Nazionale (aprile-luglio 1946, l’ultimo del suo genere), valido per il titolo di Campioni d’Italia. Titolo che naturalmente sarà vinto dal Grande Torino. In "bianco e nero", alla vigilia del referendum istituzionale, non è solo il calcio ma, per così dire, tutta l’Italia. Un paese diviso, dove poter gridare «Ho fatto 13!» viene a rappresentare il sogno di una vita migliore. Quando nasco io, era appena nata – mia coetanea! – la “schedina” per antonomasia: la mitica schedina rosa del concorso pronostici Sisal, poi Totocalcio. Ecco la schedina N° 1 del 5 maggio 1946, che si apre col “derby d’Italia” Internazionale- Juventus. E ci potete giurare che mio padre l’avrà giocata nell’imminenza della mia nascita (come sempre gli ho visto fare negli anni successivi), magari sognando di poter dare alla famiglia un futuro di ricchezza! Non credo proprio che nel giorno preciso della mia nascita i miei siano andati al cinema. Ma cosa possono aver visto nei mesi precedenti e seguenti. Insomma, quali sono i film del 1946? Dovete sapere, cari nipotini (ma forse dovrei dire “nipotoni”, perché chissà come sarete grandi ora che mi state leggendo), che – in assenza della tv (che in Italia comincia all’inizio del 1954 con un solo canale di stato) e in assenza di ogni altra tecnologia a venire (tipo videocassette, videoregistrazione, internet, Sky, Netflix e chissà che altro) – allora l’unico e solo modo di vedere un film era appunto… andare al cinema. I cinema potevano essere di “prima visione”, oppure di seconda o di terza, secondo che dessero film appena usciti oppure film abbastanza recenti o decisamente vecchi. E per sapere quale film dessero in quale cinema, bisogna consultare un quotidiano locale, nel nostro caso La Nazione. La quale, a dire il vero, dava anche – come tutti i giornali – l’ora delle proiezioni; ma tutti – chissà perché – se ne infischiavano ed entravano a qualunque ora capitasse; sicché spesso capitava di entrare a metà del secondo tempo, vedere subito la fine del film – che per un giallo magari non è il massimo! – e poi, dopo l’intervallo, l’inizio della storia e il suo svolgimento. Insana abitudine che si protrasse fino al termine degli anni cinquanta. Per non parlare dell’aria irrespirabile delle sale cinematografiche (era permesso fumare e col passare delle ore il fumo si faceva così denso da frammettersi allo schermo come una specie di nebbia); ma nessuno ci faceva caso, come fosse una fatalità naturale! Poco ci si preoccupava della salute e molto, fin troppo, della “moralità”. Nonostante che la produzione cinematografica di allora fosse alquanto castigata, alcuni film, non pochi, erano «vietati ai minori di sedici anni»: più spesso per ragioni di sesso che non di violenza. Non paga delle censure governative, la sessuofobia cattolica si spingeva ad affidare alle parrocchie il compito di diffondere tra i fedeli, in occasione della messa domenicale, un foglio ciclostilato a cura del CCC (Centro Cattolico Cinematografico) che, per ogni film programmato in città, specificava puntigliosamente – e imperativamente – se fosse «escluso», «sconsigliato», «adulti con riserva», «adulti», «tutti con riserva» oppure (caso molto raro) «per tutti». Pochi per fortuna se ne curavano, perfino tra i cattolici. Per fortuna, dico, perché quel 1946 vede una serie di film che onorano la storia del cinema: in qualche caso autentici capolavori che regalano al pubblico – finalmente uscito dagli anni della guerra e della morte, desideroso di vita e di libertà – storie ed emozioni nonché, spesso l’occasione per
13 ripensarsi. Tra i film di “prima visione” che i miei familiari possono aver visto nell’anno della mia nascita, ecco i principali (in ordine alfabetico di regista). Se non li avete mai visti, nipoti miei, cercateli: non ve ne pentirete, parola di nonno! Frank Capra La vita è meravigliosa (It's a Wonderful Life) con James Stewart e Donna Reed Renato Castellani Mio figlio professore con Aldo Fabrizi Vittorio De Sica Sciuscià con molti attori non professionisti John Ford Sfida infernale (My Darling Clementine) con Henry Fonda, Victor Mature, Linda Darnell Pietro Germi Il testimone con Roldano Lupi e Marina Berti Howard Hawks Il grande sonno (The Big Sleep) con Humphrey Bogart e Lauren Bacall Alfred Hitchcock Notorious con Ingrid Bergman e Cary Grant Roberto Rossellini Paisà con Giulietta Masina, William Tubbs, Maria Michi, Gar Moore e altri Charles Vidor Gilda con Rita Hayworth e Glenn Ford William Wyler I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives) con Fredric March, Dana Andrews, Myrna Loy, Theresa Wright, Virginia Mayo
14 Oltre agli attori e alle attrici che ho appena ricordato quali protagonisti dei dieci film di cui sopra, ci sono pure – nelle prime visioni di quel 1946 (ancora o già, a seconda dei casi) – fra gli uomini: Gary Cooper, Broderick Crawford, Van Heflin, Alan Ladd, Burt Lancaster, Robert Mitchum, Walter Pidgeon Tyron Power, John Wayne e i Fratelli Marx. Fra le donne: June Allyson, Claudette Colbert, Bette Davis, Ava Gardner, Katharine Hepburn, Veronica Lake, Jane Russell, Barbara Stanwyck, Gene Tierney, Lana Turner. E tanti altri, cui i bravissimi doppiatori italiani prestano la loro voce (la voce italiana di K. Hepburn, per esempio, era quella dell’attrice senese Wanda Tettoni). Norma Jean Baker, più nota come Marilyn Monroe, è già nel mondo del cinema, ma non fa parte ancora del firmamento delle stelle. E proprio il 14 maggio, a Las Vegas, Marilyn deposita istanza di divorzio da Jim Dougherty, suo primo marito (con lei nella foto) per seguire liberamente e senza mugugni domestici la sua carriera di attrice. Se di certo non sono andati al cinema nel giorno della mia nascita, è possibile invece che i miei genitori abbiano ascoltato la radio. In particolare mio padre e mio fratello, la sera (compatibilmente con i miei strilli). Quella che vedete a fianco è una monumentale radio a valvole (i transistor non erano stati ancora inventati e la miniaturizzazione non era possibile). Non è proprio la nostra, ma è un modello molto simile a quello che troneggiava allora nella cucina-tinello di via Romagnosi 9. Una radio che ricordo di avere poi manovrato io stesso, da bambino e da ragazzo. Parlare di “manovra” non è davvero eccessivo, perché le emittenti (facilmente disturbate da qualunque contingenza meteorologica) bisognava cercarsele una ad una, e di continuo aggiustarne la sintonia, per mezzo di manopole girevoli. La modulazione di frequenza non era ancora in uso; in compenso, la modulazione di ampiezza comprendeva, con le onde medie, una vasta gamma di onde lunghe e onde corte. Indimenticabile l’emozione con cui il 5 ottobre 1957 riuscii a sintonizzarmi – io undicenne e appassionato di fantascienza – col beep beep dello Sputnik, il primo satellite artificiale, di cui l’Urss aveva reso note le frequenze. Nel 1946 l’azienda radiofonica (già EIAR, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) ha già ripreso da tempo le trasmissioni regolari a diffusione nazionale, dopo le travagliate vicende del 1943-45 con varie emittenti in competizione fra loro; nel frattempo assumendo (fin dal 26 ottobre 1944, nella parte liberata del Paese) il nuovo nome di RAI, Radio Audizioni Italiane (meno compromesso della sigla EIAR col passato fascista). I programmi nazionali sono due – A e B – ed è, quell’anno, un periodo di riorganizzazione che vede nascere nuove rubriche radiofoniche, congrue con la giovane democrazia italiana. Fra queste, per l’informazione politica «Oggi a Montecitorio», che diventerà poi «Oggi in Parlamento», e per l’informazione culturale «Il Contemporaneo» (conversazioni di arte, filosofia e scienze). Il 25 aprile, nel primo anniversario della Liberazione, era poi cominciata un’altra rubrica: il mitico «Convegno dei cinque», moderato da Sandro D’Amico. Ideato da personaggi di spicco come Guido Calogero (filosofo), Carlo Jemolo (giurista), Antonio Piccone Stella (giornalista) e lo stesso Silvio D’Amico (critico teatrale), il «Convegno dei cinque», sarà – fino all’ottobre del 1990! – un appuntamento settimanale (di mercoledì, se non sbaglio) imperdibile per taluni, inascoltabile per tanti altri, dedicato com’era ad approfondire sul serio, al di là delle polemiche quotidiane, un tema d’interesse generale di volta in volta riguardante la vita sociale, l’economia, la scuola, la sanità, la cultura; e ciò, affidandone la discussione a cinque veri esperti dell’argomento. Per certi aspetti,
15 trattandosi di una sorta di (pacatissima) “tavola rotonda”, lo potremmo considerare il primo talk- show; se non fosse per il livello delle competenze chiamate in causa, ben altra cosa delle galline starnazzanti che popolano i talk show di oggigiorno, dove i cantanti ci vengono a parlare di medicina preventiva e le casalinghe di economia internazionale. Ma torniamo a quel martedì 14 maggio 1946. Che trasmette la radio quel giorno? Una trasmissione l’ho ritrovata, è una commedia: «Un cappello di paglia di Firenze» (tratto da Un chapeau de paille d'Italie di Eugène Labiche), regia di Nino Meloni, con Zoe Incrocci, Wanda Tettoni e Renato Turi. Per maggiori informazioni… consultare il Radiocorriere! A fianco, il fascicolo del 12-18 maggio 1946. Ve lo potete immaginare in cucina, vicino alla radio, mentre io sto nascendo in camera da letto. Notare, in copertina, il concorso pronostici sul risultato delle prossime elezioni del 2 giugno – quali saranno I primi cinque partiti? – con cui la ditta Galbani cerca di vendere più confezioni di formaggio, astutamente associando le speranze degli italiani sul futuro del Paese all’immagine della Penisola sulla confezione di “Belpaese”. Poi naturalmente c’è la musica, le canzoni: quelle americane e quelle italiane (ma vanno forte anche gli chansonniers francesi). La canzone N° 1 negli Usa del 1946 è Prisoner of Love cantata dal grande Perry Como, re dello stile melodico-confidenziale fin a tutti gli anni cinquanta; mentre dalla Francia arriva nel 1946 una canzone di travolgente successo, La mer, di Charles Trenet. Nella musica leggera italiana i direttori d’orchestra – e arrangiatori – più prestigiosi sono due: Cinico Angelini e Pippo Barzizza: il primo alfiere della tradizione melodica, il secondo della musica swing, ambedue in auge dagli anni trenta agli anni sessanta. Mentre il cantante più popolare, anch’egli un po’ “americano” e molto swing, è sempre lui: Alberto Rabagliati, che nel 1946 propone tantissime canzoni. Fra queste: Non hai più (la veste a fiori blu), musica di Daniele D’Anzi e parole di Michele Galdieri. La Cetra ne fa un 78 giri, con l’orchestra diretta – naturalmente – da Pippo Barzizza. Inoltre, stanno per nascere – è questione di giorni – i settimanali d’intrattenimento popolare, fenomeno del dopoguerra, con romanzi a puntate assai ben disegnati (antesignani delle graphic novel) e con molte foto di attori del cinema (oggi diremmo VIPs). Infatti: nel maggio 1946 i fratelli Del Duca, con la casa editrice Universo, stanno preparando il primo numero di Grand Hotel, che uscirà il 29 giugno e farà da modello a tutti gli altri. Vi prevalgono storie d’amore indirizzate a un pubblico di adulti, realizzate da grandi disegnatori come Walter Molino (lo stesso delle mitiche copertine della Domenica del Corriere) con i volti dei protagonisti che rassomigliano ai divi del momento (Silvana Mangano e Amedeo Nazzari fra i preferiti). Grand Hotel pubblicherà perfino qualche “fotoromanzo” (con le immagini fotografate anziché disegnate), ma l’esplosione del fotoromanzo propriamente detto si avrà l’anno dopo con Bolero Film, di cui Mondadori manda in edicola il primo numero il 25 maggio 1947. Guardata con disdegno dagli intellettuali superciliosi della cultura “alta”, la produzione di fotoromanzi poté nondimeno avvalersi della collaborazione di grandi registi (allora non così famosi) come Zavattini e Antonioni. Non erano questi però i settimanali che si leggevano in casa mia, bensì rotocalchi un pochino più “seri” che, pur dando spazio alle cronache leggere, includevano commenti di politica e di costume.
16 Fra questi è giusto ricordare L’Europeo, il più serio di tutti, fondato l’anno prima da Arrigo Benedetti (che nel 1946 costava 25 lire), Oggi, pubblicato da Rizzoli (che costava 20 lire), e Tempo, pubblicato da Mondadori, che i miei genitori prediligevano e che io stesso ricordo di aver sempre visto in casa da bambino. E poi, naturalmente, c’erano La Domenica del Corriere – un must per milioni di famiglie italiane, ivi comprese quelle che non leggevano Il Corriere della Sera – e, per i più piccini, Il Corriere dei piccoli (anch’esso in edicola la domenica), però anche Topolino (che i preti guardavano con qualche sospetto in quanto “americano”) e Il Vittorioso (amatissimo invece dalle parrocchie). Allora: quando io nasco, la mattina del 14 maggio 1946, che riviste c’erano in casa Caruso per la delizia di Fernando (47 anni), Franca (34) e Aldo (11)? A parte La Settimana Enigmistica e il Radiocorriere, immancabili, eccone altre tre che, con ogni probabilità, c’erano pure: Topolino dell’11 maggio, Tempo del 4-11 maggio, la Domenica del Corriere del 12 maggio. Di quest’ultima, La Domenica del Corriere, mi piace ricordare che, fra i suoi collaboratori fissi, ha avuto per molti anni lo zio Pippo (Giuseppe Argento, fratello della mia mamma) che, con lo pseudonimo “Il Cabalista”, vi teneva una rubrica che segnalava per gli appassionati del Lotto i numeri “in ritardo”. Con queste amene letture, presumibilmente disturbate dal mio vagire in culla, finisce il 14 maggio 1946 della famiglia Caruso. Non ho trovato foto mie di quel giorno, ma posso mostrarvi una foto del mio primo Natale, sette mese e mezzo dopo, in collo alla mamma:
17 Spero che queste pagine scritte per voi, Vidar e Teo, vi abbiano interessato e, se possibile, un po’ divertito. Che altro aggiungere? Che nonno Sergio vi vuole bene. Ma questo, nipotoni miei, lo sapevate già. Post scriptum: CHI NASCE IL 14 MAGGIO 1946? Chi nasceva con me quello stesso giorno? Posso dirmi nato «in buona compagnia»? Cioè: ci sono fra i nati del 14 maggio 1946 persone famose e personaggi che si sono in qualche modo distinti? Non moltissimi né di fama universale, a dire il vero, ma sì: qualcuno c’è. In giro per il mondo, ne ho trovati una ventina (quasi tutti viventi nel momento in cui scrivo, tranne tre) ed eccoli, in ordine rigorosamente alfabetico: Il primo è un intellettuale e politico francese di probabile origine italiana: Bernard Asso, nato a Nizza. Professore di diritto pubblico e avvocato nella sua città, fu eletto più volte – a partire dal 1985 – nel Conseil Général des Alpes Maritimes (nella file del RPR, Rassemblement pour la République, i neogollisti, poi confluiti nell’UMP). Insomma: un consigliere regionale, diremmo in Italia. Come la nonna Titta! La seconda è una collega di Genova (collega, dico, nel senso che anche lei come me è stata docente di materie filosofiche nella università italiana): Luisella Battaglia, ordinaria di “Filosofia morale” e di “Bioetica” nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Ateneo genovese, ma anche nella Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Il suo libro di esordio (1977) fu dedicato a un filosofo belga, Eugène Dupréel, che – un po’ come lei – si colloca a metà strada tra filosofia e sociologia, con una speciale attenzione alla «teoria dei valori». A partire dagli anni novanta, però, Battaglia si è venuta occupando soprattutto di etica ambientale, diritti degli animali, ingegneria genetica. Il terzo personaggio è un artista, Rolf Bengt Birgersson-Hultkrantz. Svedese come e più di voi, cari nipoti! Nato il 14 maggio 1946 a Krylbo, Birgersson-Hultkrantz ha studiato al Konstfackskolan a Stoccolma. Le più note delle opere a lui dovute abbelliscono una storica banca di Örebro (Sparbanken i Örebro), ma molte altre si possono vedere al Museo provinciale di Örebro e nei Comuni svedesi di Halmstad, Kumla, Stoccolma, Sundsvall e Umeå. Lo stile pittorico di Birgersson-Hultkrantz, una sorta di espressionismo naif, si vale di tecniche diverse: alle classiche pitture a olio affianca il batik, una tecnica indonesiana tradizionalmente impiegata per colorare tessuti e ceramiche. Non so dire se Anna Karin Cedérus, la vostra mamma, si sia mai avvalsa di questa tecnica (ormai si disegna al computer), ma certo una esperta pattern designer come lei potrà spiegarvi meglio di me di che cosa si tratta. Di Sarah Elizabeth Mary Boyd-Carpenter, Viscountess Hailsham and Baroness Hogg, nobildonna inglese ed esperta di finanza internazionale, non posso certo dirmi in alcun senso “collega”, né credo di avere con lei nulla in comune tranne la data di nascita. Nata Boyd-Carpenter (senza quarti di nobiltà), Sarah Elizabeth Mary ottiene il primo titolo nel 1968, grazie al matrimonio con Douglas Hogg, terzo Visconte di Hailsham e membro del Parlamento britannico. A questo punto, però, lungi dal rinchiudersi nel ruolo di moglie, la signora mette a frutto i suoi studi di economia: nel campo del giornalismo (come Economics Editor), della finanza (presso la Bank of England) e della politica (dove collabora col Primo Ministro John Major). Attività che le valgono, nel 1995, un titolo di nobiltà in her own right: quello di Baronessa di Hogg, insieme con un life peerage che la immette nella House of Lords.
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