Twitter, la Junk Culture?
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“ Je reste convaincu que la Littérature représente quelque chose de différent du cinéma, de la télévision ou d’Internet…La Littérature est une activité capitale non pas tant pour qu’il existe des écrivains, mais pour la vie de la culture, de l’esprit ou de la liberté”. Entretien avec Mario VARGAS LLOSA, Le Monde de l’éducation n°280, avril 2000. « Le monde audiovisuel apporte des connaissances, des informations, de la distraction mais pas cette créativité critique et cette troublante inquiétude que donne la Littérature ». Entretien avec Mario VARGAS LLOSA, Le Monde de l’éducation n°280, avril 2000. Twitter, la Junk Culture? ////////////////////////////////////// Viviamo oggi in una società che più di qualunque altra incarna la rivoluzione culturale imposta dalle nuove tecnologie. Studiosi del cyber cultura delle comunità virtuali sono convinti che il “nuovo che avanza” è la Internet generation. Attorno a noi non c’è soltanto il pullulare di film 3D, ci sono le playstation e i videogiochi, ci sono le consolle Wii fitness, nuovi gadget per adulti che fanno fare ginnastica come in un gioco e correggono meglio del personal trainer. E ci sono le webcam, telecamere sul computer che magari aiutano a tenere viva una relazione a distanza. E poi ancora i social media, Google, Facebook, Twitter, Youtube e Skype, programmi come Second life che ci invitano ad intraprendere una fuga sul Web, una sorta di vita virtuale ci scorre vicina e parallela e ci lasciamo travolgere al punto che solo a sprazzi riprendiamo coscienza e rientriamo nella realtà. Insomma, nell’era del “numérique” la pervasività telematica sconvolge le modalità di comunicare, come avvenne nel passaggio dalla civiltà orale a quella scritta. E molti specialisti e studiosi affermano che potrebbe determinare con il tempo anche una mutazione antropologica. Uno dei saggi più interessanti e dibattuti è “Is Google making us Stoopid?”, (Google ci rende stupidi?), un testo particolarmente polemico apparso, nel 2008, sull’ultimo numero di The Atlantic, il mensile culturale più letto dalle élite progressiste USA, nel quale il suo autore Nicholas CARR, ex direttore dell’Harvard Bussiness Review, esperto di comunicazione e scrittore di libri sulla nuova civiltà digitale, confessa di temere che la civiltà del “web” stia condizionando negativamente i nostri meccanismi mentali, incidendo sul modo di leggere, di selezionare le informazioni. Ma soprattutto, demolirebbe la capacità di memorizzazione. CARR stesso scopre di essere incapace “di prestare attenzione a un’unica cosa per più di due minuti” e confessa che dopo essersi concentrato poco più di un paio di minuti nella scrittura di un libro, sente il bisogno di tornare a navigare nei vecchi e nuovi social network, scrivere post sul suo blog, ascoltare musica e guardare video su YouTube. Dice che è molto bello e che proprio non potrebbe vivere senza. CARR ricorda che nel diciassettesimo secolo gli intellettuali del tempo furono travolti dal diluvio tipografico e individuarono nei libri una delle “grandi malattie” dell’epoca, una malattia che appesantiva il mondo, caricato da una sovrabbondanza continua di materiale inutile e superfluo. Carr attribuisce al computer, al Web, a Google lo status di malattia definitiva e considera la cultura del software l’atto avverato della profezia socratica della perdita della memoria.
Il saggio di CARR ha sollevato subito un’ondata di commenti e ha suscitato molti consensi non solo fra i collaboratori della rivista The Atlantic ma anche presso intellettuali e scrittori che scoprono di incominciare a perdere l’abitudine alla lettura. Nel libro che l’ha reso famoso, “The Shallows”, il teorico Nicholas CARR riprende le teorie care a Marshall McLUHAN secondo le quali i mezzi di comunicazione non sono mai veri veicoli di un contenuto ma esercitano un’influenza modificando alla lunga il nostro modo di pensare e di agire. A dire il vero McLUHAN si riferiva soprattutto alla televisione ma le argomentazioni di Carr, supportate da abbondanti documenti, esperimenti e testimonianze indicano che la tesi espressa nel libro si applica anche al mondo di Internet. Per VARGAS LLOSA Internet non è soltanto uno strumento ma un mezzo che poco a poco modifica il nostro corpo, il nostro cervello. Per Sherry TURKLE, docente al MIT( Massachussetts Institute of Technology) e psicologa clinica “il pc non avrebbe fatto qualcosa per noi ma avrebbe fatto qualcosa a noi. La questione non era come sarebbero stati i pc in futuro ma piuttosto come saremmo diventati noi”. La discussione è aperta e appassiona tanti ricercatori impegnati a trovare una risposta agli innumerevoli interrogativi sull’influenza delle tecnologie sui comportamenti umani, a partire per esempio dal “multitasking”, l’abilità di gestire più operazioni contemporaneamente. Bill KELLER si chiede con una certa apprensione se Twitter si configuri come una “trappola” per i giovani. Il direttore del New York Times, il quotidiano più letto su Internet, pensa di sì e la sua provocazione riguarda l’influenza della tecnologia sulle capacità cognitive e affettive dei giovani. Il direttore del giornale newyorkese si chiede se il prezzo da pagare all’innovazione sia “una parte di noi stessi”. Ricorda che l’uso della calcolatrice ha ridotto la capacità di far conti e che la scoperta del navigatore satellitare in automobile spinge le persone a non memorizzare la geografia dei luoghi. Secondo lui la verità è che le varie piattaforme digitali “rosicchiano i nostri momenti di attenzione” con la conseguenza che i giovani universitari hanno difficoltà ad interpretare in modo critico i dati elaborati dai software. La replica è affidata ad un altro giornalista del New York Times, Nich BILTON, il quale nel suo blog sostiene che non sono le tecnologie a incidere in modo negativo sulle persone che le usano, tutto dipende dalle scelte di ognuno. È questa un’argomentazione accolta da molti blogger tecnoappassionati che osservano: “Twitter e qualsiasi tecnologia sono ciò che se ne fa”. Se si decide di fare cose superficiali, si avranno esperienze superficiali. Ma se si usa per comunicare con altri a un livello più profondo, si possono avere esperienze più significative. La questione dibattuta è molto interessante quanto complessa e ciò spiega perché nel mondo della ricerca più avanzata regni la più totale cautela. Siamo perciò lontani dall’annunciare esiti definitivi. Facebook modifica il cervello umano? Lo studio di Ryota Kanai, ricercatore dell’University College di Londra, sui risultati di un’indagine condotta su 125 studenti attraverso risonanze magnetiche (Mri) dimostra che non è un’ipotesi da escludere. Sui giornali del gruppo Tribune, il premio Pulitzer Leonard PITTS scrive di riuscire a digerire la scrittura solo a piccoli blocchi. Davanti ad un testo di più pagine è subito preso dal desiderio di controllare la sua posta elettronica e, dovendo recensire un libro, lo scrittore PITTS confessa di aver faticato molto a leggerlo e alla fine di aver provato una fastidiosa sensazione di vuoto, di colpa per essersi allontanato per tanto tempo dal mondo virtuale.
Le considerazioni di CARR non pretendono di illustrare una verità scientifica ma suscitano una sensazione abbastanza diffusa e cioè che la civiltà di Internet stia portando con sé, sul piano culturale, effetti collaterali indesiderati e di difficile monitoraggio. La riflessione di CARR, iscritto di ufficio nella categoria dei Pentiti(o se si preferisce Apocalittici1), sull’alterazione dei meccanismi della nostra mente è meno marginale di quello che può apparire. Lo studioso è convinto che l’uso intensivo della Rete finirà per atrofizzare il cervello dell’uomo, ci sono studi pertinenti e seri approfondimenti che investono anche il campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive come il centro della lettura e del linguaggio della Tufts University di Boston e l’University College di Londra. Google è da qualche tempo sotto tiro per la sua pretesa di organizzare “tutta la conoscenza del mondo” data la potenza del suo motore di ricerca che riesce a memorizzare un’infinità d’informazioni e in poco tempo. Il capo di Google in un seminario del Forum a Davos ammetteva con una certa enfasi che “i nati digitali leggeranno molto meno libri e giornali, cosa che finirà per incidere sui loro meccanismi di apprendimento”. Del resto i problemi che nascono dalla gestione dell’enorme flusso di informazioni che circolano in Rete stanno diventando una preoccupazione anche per le aziende che sono le assolute protagoniste di Internet: il sovraccarico informativo generato dalla valanga di messaggi pubblicati nei social network quali Facebook e Twitter richiede soluzioni per ridurre la fatica degli utenti costretti a scandagliare ogni post e a far fronte al continuo arrivo di segnalazioni e all’enorme flusso di e-mail che riduce la produttività dei dipendenti stessi. Per i fanatici del Web, come il professore O’Shea, filosofo dell’Università della Florida, tanto per citare un esponente del versante opposto, quello degli Integrati, non ha senso leggere un libro da cima a fondo. “Non è un buon modo, dice, di usare il proprio tempo, poiché si possono avere tutte le informazioni che si vuole più velocemente attraverso il Web”. C’è chi, come la dott.ssa Katherine Hayles, professoressa di Letteratura all’Università di Duke, confessa con rammarico di non riuscire più a fare in modo che i suoi allievi leggano per intero i libri. Per VARGAS LLOSA i benefici delle nuove tecnologie dell’informatica non sono discutibili. Nessuno può negare che si tratta di un progresso “quasi miracoloso”: in pochi secondi, facendo clic, un internauta può ottenere qualsiasi informazione. É altrettanto vero, però, che senza la necessità di compiere sforzi di concentrazione prolungati, i giovani hanno perso l’abitudine alla riflessione critica e alla pazienza, scelgono la via più facile costituita da infiniti collegamenti e salti verso allegati e siti e ne provano soddisfazione, piacere e divertimento. Mario VARGAS LLOSA non ritiene che si possa fare a meno della grande e buona Letteratura, anzi c’è da preoccuparsi se, come ha scritto lo studioso erudito degli effetti di Internet sul nostro cervello e sui nostri comportamenti quotidiani, Van Nimwegen “l’affidamento ai computer della soluzione di tutti i problemi cognitivi riduce la capacità dei nostri cervelli di costruire strutture stabili di conoscenza”. Con un lungo articolo su Newsweek Sharon BEGLEY contribuisce ad arricchire il dibattito e risale alle origini del neologismo “twitterizzazione” per descrivere la Cultura in cui siamo immersi, Twitter, il social network nato nel 2006 e diventato famoso negli ultimi tempi per il suo utilizzo durante le rivolte in Medio Oriente e Maghreb da parte degli insorti, dà la possibilità di scrivere su di una propria pagina web brevi messaggi. Nello spazio di 140 caratteri si può raccontare uno stato 1 È chiaro il riferimento all’antica querelle tra apocalittici e integrati, introdotta da Umberto ECO nel 1964 e che mantiene ancora oggi una sua attualità, soprattutto se riferita al ruolo esercitato dalle tecnologie informatiche nella vita di ognuno di noi.
d’animo, un fatto accaduto, rimandare a un link, a un articolo, un video, una foto. Contemporaneamente si può seguire chiunque nel mondo dica la sua sulla propria pagina. Si accede così a un flusso continuo di opinioni, battute, riflessioni e commenti che, scorrendo sotto gli occhi di chi “twitta”, danno l’idea di un mondo mai fermo, con qualcuno che ha sempre qualcosa da dire. Twitter sta educando una generazione a dire tutto in poche parole. L’accusa di Newsweek è che questo cumulo d’informazioni in realtà ci impedisce di decidere in modo adeguato. Senza demonizzare Twitter e i suoi fratelli(strumenti fondamentali per rimanere aggiornati con fatti e avvenimenti più o meno significativi) forse dovremmo rivedere l’assunto per cui “Internet è neutro, dipende dall’uso che ne fai”, e convincerci che nessun medium è neutro, spiega CARR e che Internet sta cambiando il modo di pensare da “lineare” a “reticolare”. Di sicuro il sistema delle nuove tecnologie sta ridisegnando tutto il mondo delle relazioni umane, della conoscenza e del linguaggio. L’assedio di queste funzioni multitasking e la capacità di attenzione multipla del cervello umano mettono a dura prova l’adulto contemporaneo che comunque è capace di difendersi. I bambini, invece, secondo quanto dicono parecchie ricerche, sono quelli più a rischio sul piano dell’impoverimento espressivo e del ritardo del linguaggio. Il filosofo della scienza Giulio Giorello ricorda come lo stesso Platone, trovandosi a vivere il primo grande passaggio dalla parola “orale” a quella scritta, difendeva, nel Fedro, la prima, paventando che in quel passaggio si potesse impoverire lo sviluppo del pensiero, poiché nel dialogo ci possono essere dialettica e chiarimento mentre lo scritto cristallizza. I timori annunciati si sono ripresentati con l’apparizione della stampa e, ora, con le nuove tecnologie. Ma più che la paura servono un atteggiamento di vigile sorveglianza e un senso più consapevole di rispetto verso il proprio interlocutore, poiché la storia ci insegna che il nuovo è andato ad aggiungersi, non a sostituire. A questo proposito c’è da riportare che il filosofo e artista Tomas Maldonado che già nel 1997 aveva pubblicato La Critica della ragione informatica, testo di disamina all’interno dei rischi tecnologici, pone l’accento sulla necessità di tutelare i meccanismi di formazione della conoscenza nelle nuove generazioni. Le recenti polemiche sull’uso strumentale dei social network hanno interessato prima la neo Presidente della Camera dei Deputati italiani la signora Laura Boldrini fatta oggetto di minacce e d’insulti, e poi nel mese di luglio 2013 è stata la volta della parlamentare ed ex-ministra pdiellina la dott.ssa Mara Carfagna, fatta bersaglio di nuove, gravi offese e affermazioni lesive sul Web da parte di militanti del M5S (Movimento cinque stelle), raggruppamento presente nel Parlamento italiano per la prima volta. La decisione dell’onorevole Carfagna di incaricare i suoi legali di procedere per diffamazione e minacce contro gli aggressori del web ha ricevuto commenti di solidarietà da parte di tanti colleghi senza distinzione di partito o movimento. D’altra parte anche Enrico Mentana, autorevole giornalista e Direttore del telegiornale di La7, ha deciso di chiudere il suo account Twitter perché vittima di numerosi insulti e diffamazioni ricevuti da parte di “followers”. La pubblicazione fatta da Einaudi della versione italiana del saggio di Mario VARGAS LLOSA, “La civiltà dello spettacolo” ha riportato l’attenzione e la discussione sul linguaggio usato dai giovani per esprimere spesso senza alcun riguardo la loro intima ribellione contro le élites e l’establishment e sulla necessità di difendere la Cultura-Letteratura contro ogni forma di banalizzazione e d’imbarbarimento dei tempi . C’è in gioco non solo la difesa dell’onorabilità di ciascun cittadino ma anche la volontà di contrastare chi cerca di snaturare la Rete e le sue libertà, convinti che la Rete non deve diventare un luogo di violenza ma un’occasione per promuovere le forme civili del confronto e dell’espressione del dissenso.
“Regolamentare in modo efficace il comportamento da tenere in Rete” è la voce univoca che ricorre sui media. Non si tratta di elaborare leggi per perseguire offese e ingiurie, quelle già ci sono e funzionano tanto per la Rete quanto fuori della Rete. Sarebbe opportuno quanto urgente che si facessero tutti gli sforzi per cercare di definire in modo chiaro un rapporto che sia rigoroso e preciso tra le legislazioni dei singoli Stati in tema di politiche adottate dai giganti statunitensi del Web. Non sempre è facile la rimozione di materiale offensivo, rettifiche e così via con aziende che si rifanno alla legislazione USA e alla libertà di parola assoluta garantita dal Primo emendamento. L’Unione Europea ha indagini in corso con Microsoft, Apple, Google ma nessuna riguarda i contenuti e i diritti-doveri di chi custodisce le nostre vite digitali. Qualcosa, comunque, sta cambiando. Nell’ottobre scorso, Twitter, la piattaforma di microblogging era stata inondata di messaggi razzisti. L’unione degli studenti ebrei di Francia(Uejf) ha ottenuto la rimozione dei tweet più aggressivi e offensivi e ha chiesto ai giudici che Twitter collabori all’identificazione degli autori dei messaggi, imputabili secondo la legislazione francese di crimini contro l’umanità e incitamento all’odio razziale. Twitter alla fine ha chinato la testa per non rischiare di dover sopportare una causa di cinquanta milioni di euro e un procedimento penale contro il numero uno dell’azienda. È questo un primo grande passo avanti nella lotta contro l’impunità su Internet. Nella rubrica che il quotidiano “progressista” spagnolo El Pais gli riserva periodicamente Vargas LLOSA ritorna spesso sulla Rivoluzione tecnologica audiovisiva che, a suo parere, ha sì dotato la società moderna di strumenti che hanno permesso di aggirare tutti i sistemi di censura ma che”ha tenida también como efecto perverso y improviso el de poner en manos de la canalle intellectual y politica un arma que le permite violar y manipular sanctuarios sacrosantos del individuo concerniente l’ultima parte mas profundo del individuo: su identidad”. Il Nobel peruviano racconta alcuni aneddoti. Il primo riguarda lo scrittore nordamericano Philip Roth che, avendo scoperto alcune pecche nel commento che Wikipedia aveva riservato al suo racconto intitolato The Human Stain (L’impronta umana) aveva chiesto nella sua “Carta abierta” all’amministratore dell’enciclopedia virtuale di modificare l’informazione che l’autore riteneva palesemente inesatta. La risposta fu alquanto sorprendente: essa sosteneva che” aunque la entina reconocìa que un autor es “una indiscutibile autoridad sobre su propria obra” su sola palabra no era suficiente para que Wikipedia admitiera haberse equivocado. Necesitaba, ademàs, “otras fuentes secundarias” que avolaran la correctiòn”. Nella succitata lettera aperta Philip Roth dimostrava in modo preciso e puntuale che il suo racconto non era ispirato, come aveva sostenuto Wikipedia, alla vita del critico e saggista Anatole Broyard, la cui vita privata gli era del tutto estranea. Prendeva anche le difese del suo amico Melvin Tumin, sociologo e professore presso l’Università di Princeton, che per aver usato nell’aula accademica una parola considerata dispregiativa verso gli afroamericani era stato coinvolto in un’accesa polemica, vittima di un vero incubo fatto di attacchi e sanzioni che poco mancò gli distruggessero una vita professionale spesa a combattere la discriminazione e il pregiudizio razziale negli Stati Uniti. Non è stata, però, la prima volta che il grande scrittore nordamericano è statofu impegnato in simili battaglie chisciottesche in difesa della verità. Alcuni anni or sono, Philip Roth scoprì che il The New York Times gli aveva attribuito un’affermazione che sapeva di non aver mai pronunciato. Il giornale aveva utilizzato una sua intervista apparsa sulle pagine di un quotidiano italiano e firmata da Tommaso Debenedetti che lo scrittore nordamericano in verità non aveva mai concesso. Lo scrittore scoprì che da più anni sulla stampa italiana e di altri paesi circolavano servizi giornalistici che riguardavano persone di diverse professioni e ruoli frutto d’immaginazione e di fantasia.
Mario VARGAS LLOSA dal canto suo, riporta sempre nella rubrica de “El Paìs” due episodi che riguardano direttamente la sua persona. Si tratta nel primo caso di un testo diffuso via Internet firmato da lui ma che non aveva mai scritto. È “Un elogio a la mujer”, assai mediocre e goffoma che aveva suscitato apprezzamenti a una signora incontrata per strada a Buenos Aires che gli si avvicinò per fargli le sue congratulazioni . Lo scrittore restò assai sorpreso e pensò che la donna si fosse confusa con un altro, ma pochi giorni dopo, di ritorno nel Perù, incontrò altre persone che lo assicurarono di aver letto il testo in questione su Internet e di averlo trovato interessante. Il secondo caso riguarda una serie di feroci giudizi contro l’Argentina apparsi sul giornale La Naciòn di Buenos Aires e fatti passare come scritti dal Nobel peruviano. Il testo intitolato “Sì, lloro por ti Argentina” era formato da un nutrito e accurato numero di discorsi frammentari isolati dal loro contesto. Erano effettivamente frasi estrapolate da discorsi pronunciati da Vargas Llosa per criticare la politica della “Presidenta” Cristina Kirchner o quella del presidente venezuelano Hogo Chavez, ma erano state guarnite con cattiverie e volgarità rancorose e aberranti. Lo scrittore peruviano non poteva accettare che la sua identità fosse così manipolata, consultò un avvocato che gli spiegò che la questione sul diritto d’autore e sul copyright era molto complicata e che, trattandosi di documenti apparsi su Internet, sarebbe stato difficile risalire al testo fraudolento perché i falsificatori avevano certo preso tutte le precauzioni necessarie per cancellare ogni traccia. Mario VARGAS LLOSA decise così di dimenticare l’accaduto non prima di prendere atto con amarezza di quanto fosse tecnicamente possibile snaturare la vita di una persona, quello che dice, com’è, ciò che fa, ciò che pensa e ciò che scrive e provocarle danni irreparabili. Il peggio è che queste operazioni criminali non provengono da una cospirazione politica, economica o culturale, quanto da esaltati che cercano di combattere la noia e la povertà terribile delle loro misere vite. Ciò che ha avvilito lo scrittore peruviano è stato il fatto che così facendo si mettono in una delicata situazione di disagio persone che non si conoscono e che tutto ciò è perpetrato nell’impunità più assoluta. È vero che il “tweet” è cinico e che la critica crudele e irrispettosa é scontata perché il dispositivo si connota fin dalla sua origine come uno strumento che rompe gli schemi del politicaly correct, ma è altrettanto vero che quando la provocazione esplicitata con ruvidezza nel messaggio diventa nel mare magnum della rete motivo di convincimento collettivo scivolando assai spesso nell’aberrazione e nella messa alla gogna, questa piattaforma, nata per mettere in connessione una comunità sempre più allargata di “usagers” rischia senza il rispetto di chiare regole che disciplinino il civile confronto democratico, di implodere e di degenerare nell’estrema confusione e arroganza e ancora usando un linguaggio particolarmente aggressivo e lesivo della dignità delle persone prese di mira. È vero che, come ha scritto Roberto Saviano nel suo intervento “Fuori i bulli dal nostro Twitter”, uscito sul quotidiano de La Repubblica dell’11.05.2013, gli insultanti vivono di luce riflessa degli insultati e che l’uomo pubblico nel bene come nel male fa notizia, ma non sembra corretto sul piano meramente etico - comportamentale postare messaggi che pur mantenendosi nei 140 caratteri previsti, adottano il turpiloquio e la derisione al posto di un ragionamento corretto. Quando il pensiero si semplifica troppo a volte si scade nella banalità e nell’insulto quello urlato che si alimenta di luoghi comuni e d’immagini grottesche, quello ripetuto innumerevoli volte che immesso nella rete e retwittato da migliaia di “amici” può indurre alla giustificazione di ogni maldicenza e cattiveria. La necessità di introdurre regole alla comunicazione digitale che per definizione si ritiene libera non è censura. La conoscenza dei nuovi media è per noi comunque una risorsa che ci permette di allargare la nostra cultura e di affinare il nostro modo di vedere il mondo.
È risaputo che in paesi come la Cina, la Corea del Nord, Cuba e Iran è severamente vietata la possibilità di utilizzo di social network, quali Twitter, Facebook, Youtube e New York Times, poiché le autorità politiche temono che Internet e le sue molteplici applicazioni possano minare la stabilità sociale necessaria a continuare la realizzazione di progetti ritenuti importanti nel campo economico e sociale. Tutte le innovazioni tecnologiche, da Gutenberg in poi, hanno incontrato entusiasmo ma anche riserve da parte del potere. In Cina Internet si è diffuso in un battibaleno alla fine degli anni ’90. Il Web spinge per un mutamento rapido del paesaggio sociale e anche politico ma è il governo cinese che ne detta il ritmo, lasciando poca autonomia decisionale alla popolazione urbana. Va rimarcato, però, che durante le recenti rivolte in Egitto, in Tunisia e in Siria, l’accesso ai social media anche se clandestino ha rappresentato l’unica opportunità per le comunità musulmane di dare e ricevere informazioni utili a spiegare all’occidente e allo stesso mondo arabo i motivi delle proteste in atto, favorendo così una presa di coscienza più larga della situazione politica e sociale al fine di operare un cambiamento radicale e per una rinascita democratica di quelle popolazioni tenute per molto tempo soggiogate. Il problema, prima che tecnologico, è culturale. Qualcuno ha parlato a giusta ragione della necessità di promuovere una vera educazione al web, d’insegnare il buon senso e come stare civilmente nel mondo, anche in quello virtuale. Su quest’aspetto c’è bisogno di un’attenta riflessione, in modo particolare su ciò che comunemente è visto come culturale e ciò che invece è politicamente incorrect. Bene comunque ha fatto il direttore Mentana a uscire dal gioco, a bannare chi usa commenti oltraggiosi per fare propaganda insulsa, chi usa un linguaggio offensivo e volgare fino alla diffamazione gratuita e vuota e chi intende avere uno spazio per gettare fango su chiunque senza che l’insultato possa far valere le sue ragioni. Bene ha fatto anche lo scrittore Roberto Saviano quando nel suo interessante intervento sul quotidiano La Repubblica ha invocato il ricorso alle regole da rispettare anche nel mondo della rete con la conseguente rimozione o cancellazione dei post il cui contenuto è palesemente offensivo. È facile capire che se il linguaggio adottato nei tweets è il turpiloquio, se chi vuole manifestare il suo dissenso ricorre a una batteria di parole senza contenuto rilevante per far passare giudizi assolutamente biliosi, è del tutto evidente che l’uso di simili piattaforme non sarà da stimolo per la costruzione di una società più sincera, serena e rispettosa delle diversità di ogni genere ma anzi contribuirà a rendere la società peggiore, certamente più violenta e prevaricatrice. Giacché un conto è un’espressione divertente e curiosa, una battuta leggera che può far colore, e indurre il lettore al riso, una critica benevola, altro è l’insulto sistematico facile quanto vuoto che da aperto diventa un luogo dove dominano la maleducazione e l’aggressività estreme, il rancore, l’offesa fine a se stessa, il gusto sadico e sarcastico di indirizzare al personaggio di turno una valanga d’improperi e di minacce. L’uso d’Internet e delle piattaforme digitali ha dato al suo utilizzatore l’illusione di poter disporre a suo piacimento dei “nouveaux médias” senza alcun controllo e remora permettendogli di dare libero sfogo alle proprie ansie, alle proprie rabbie pensando così di poter contribuire a realizzare un modello di società nuovo, una forma di comunità alternativa a quella reale ritenuta vecchia, alterata, codificata e perciò banalmente stantia. Siamo convinti che il sale della democrazia stia nella possibilità di poter esprimere e confrontare punti di vista. Allo stesso modo crediamo che il passaggio dall’elaborazione di un pensiero alla formulazione di un giudizio diffamante sia alquanto rischioso tutte le volte che ci si serva di parole forti e odiose coperte dall’anonimato.
Il paradosso è che, così facendo Twitter, visto come strumento per combattere posizioni dominanti diventa esso stesso un potere dominante, In tutto questo la televisione e i talks show, un tempo spazio di confronto, non sono senza responsabilità poiché sono diventati un luogo privilegiato per modi aggressivi e urlati. Il mondo dei libri si mostra anch’esso sensibile all’era del “numérique”. Le entrate riguardanti le edizioni digitali sono in considerevole crescita e nei vari Salons du Livre numerosi sono gli stand che presentano un numero sempre più cospicuo di pubblicazioni “numériques”. Anche la vendita di ebooks è in aumento sicché è urgente la definizione chiara delle regole che devono stare alla base del rapporto tra gli autori e gli editori, così com’è opportuno che si ridiscuta della proprietà intellettuale e si ridefinisca un codice d’uso dell’edizione nel quale siano precisati gli obblighi spettanti all’editore e le misure per ridurre l’impatto e anche cancellare forme di “piratage” che possono imbarbarire con contenuti falsi e illeciti il Web. Sul nuovo e affascinante mondo del “numérique” in forte ascesa, assistiamo a una proliferazione di testi che ne esaltano le capacità innovative proponendo l’allargamento dell’uso dello strumento ad ambiti i più diversi che vanno dall’industria al sistema scolastico, alla narrativa. Particolarmente degni di nota ci paiono alcuni saggi brillanti e acuti di Jean-François Fogel e Bruno Patino. Nel loro primo saggio, “Une presse sans Gutemberg” (2008), i due ricercatori analizzano la professione dello scrittore nell’era d’Internet, nel secondo di recente pubblicazione a cura di Grasset Éditions, “La condition numérique”, i due studiosi pongono l’attenzione sull’individuo, sulla società, sulle tecnologie, sul tempo reale e sull’immediatezza, e sulla cancellazione delle frontiere tra cultura classica e cultura popolare, sulla nuova competizione economica e sulla nozione di “identità numerica”. Nel citare filosofi e sociologi che non hanno conosciuto Internet e nonostante ciò i loro scritti hanno grande valore, i due attenti osservatori mostrano che Twitter non ha inventato niente anche se, sostengono che “ce sont les outils modernes qui radicalisent, eux, l’évolution des rapports entre texte et auteur”. In conclusione i due scrittori affermano che “c’est le réseau qui façonne le monde réel et non l’inverse”. Il sistema “numérique” è analizzato minuziosamente anche da Eric Sadin che nel suo saggio “L’humanité augmentée, l’administration numérique du monde” dimostra come stiamo lasciando una parte del nostro potere decisionale a flussi elettronici intelligenti. In conclusione l’autore vede emergere “une gouvernementalité algorithmique, une politique de la technique, caractérisée par la seule intelligence du temps présente et du futur immédiat”. La verità é che l’uomo non gestisce più, delega. Ne é testimone l’attaccamento « féticiste » al suo smartphone diventato “un tout sans trou, appelé à couvrir l’intégralité des séquences de la vie quotidienne”. Al più si radica una sorta di « humanité parallèle » incaricata di accompagnare una buona parte delle nostre vite. Una specie di rete fredda, calcolatrice, priva di sentimenti e di coscienza. Il rapporto tra la Letteratura che scopre Twitter e le piattaforme digitali, è assai recente e divisivo. Esso data dell’agosto del 2010 quando un giornalista francese, Jean Michel Le Blanc e un’insegnante canadese del Québec, Jean-Yves Fréchette fondano L’Institut de Twittérature Comparée (ITC), un’associazione originale e francofona che diventa per tanti “seguaci” twittérateurs un luogo di animazione, un punto di riferimento per coloro che vogliono fare esperienze di scrittura creativa. Eredi dell’OuLiPo e di un gruppo di scrittori oulipiens quali Georges Perec, Italo Calvino, Raymond Queneau e François Le Lionnais, cofondatore del movimento, i componenti di questa associazione che si riconoscono nella sigla “OuTwiPo” (Ouvroir de Twittérature Potentielle) si impegnano a scambiarsi messaggi, brevi testi e rapide osservazioni, convinti che il nuovo dispositivo sia in grado di modificare le abitudini del mondo sul piano della comunicabilità.
Il Manifesto del movimento precisa in modo chiaro e distinto che la Twittérature è “plurielle”, nel senso che è alla portata di tutti e che “fait vibrer les sourds, elle illumine les aveugles et que les manchots peuvent l’effleurer du doigt”. Grazie al movimento e alla sua molteplice organizzazione la Twittérature diventa non solo un luogo-stimolo per condividere messaggi, informazioni e stati d’animo allargando il numero di “amici-sostenitori” che in assoluta libertà e immediatezza richiedono di partecipare, ma anche uno spazio di scrittura creativa con una sola “contrainte”, quella di condensare la loro prosa in 140 caratteri, spazi compresi. A mano a mano, un uso alternativo e più creativo della piattaforma invade la twittosfera, un po’ sul modello dei Keitai-shosetsu, testi giapponesi redatti come SMS. Il fenomeno non è nuovo. “L’art du bref” non è nata ieri. Già 1000 anni fa, una poetessa Seis Honogon, scriveva nella sua dimora frammenti dei suoi stati d’animo, delle sue passioni, delle sue delusioni. Facebook e Twitter possono essere visti come una naturale continuazione, una sorta di riproposizione alla quale è imposta un “plafond” di caratteri e una diffusione istantanea che risulta molto soddisfacente e convince ancor di più i twittérateurs moderni contenti di essere letti subito e di vedersi “retweetés”. Parafrasando la celebre espressione di Descartes, “Je pense donc je suis”, le twittérateur è convinto che la sua esistenza è legata alla sua attività di Twittare, direbbe che “je suis twittérateur donc je suis”. È di tutta evidenza che il contenuto che passa per i “tweets” è una forma di letteratura breve, in miniatura, fatta di proverbi, aforismi, brevi poemi e piccole storie che fanno venire alla memoria le “nanofictions”, le “micronouvelles”, forme di scrittura che s’ispirano ai modelli di Félix Fénéon, a quei racconti in sole tre righe pubblicati sul giornale Le Matin agli inizi del XXo secolo. C’è da dire altresì che Twitter inteso come piattaforma per fare esercizio di scrittura seduce sempre più autori convinti che la brevità del testo proposto non incida negativamente sulla comprensione dello stesso. Jean-Yves Fréchette tiene ad osservare che “c’est d’abord un clin d’oeil à l’idée que la contrainte est féconde”. Per il cofondatore de l’ITC « l’origine de la Littérature, c’est le lapidaire, inscrit dans la pierre ». Per Alexandre Gefen, ricercatore e specialista delle cosiddette « humanités numériques », « le style coupé, bref, incisif et très ancien » é esso stesso uno spazio di libertà dove differenti forme d’espressione sono possibili tra « les tenants d’une écriture fragmentaire et les feuillotonistes inscrits dans la narrativité ». Lo scrittore Thierry Crouzet osserva nel suo ultimo romanzo intitolato « La quatrième théorie »che la « contrainte contribue à se dépasser…, c’est une drogue », e critica tutti quelli che fanno di Twitter una semplice macchina per scrivere a raffica. Nel suo polar formato da 5200 tweets per la realizzazione del quale ha impiegato 16 mesi l’autore afferma che paradossalmente Twitter esige una scrittura lenta. Sul futuro della Twittérature, Thierry Crouzet si mostra alquanto dubbioso. In modo particolare, lo scrittore esprime perplessità sul fatto che il fenomeno twitterario abbia in sé le capacità di generare una corrente di pensiero duratura, anche se riconosce che il principale apporto di Twitter risiede nel favorire l’interazione tra i lettori che partecipano in tempo reale alla scrittura tramite i loro Tweets contribuendo secondo lo scrittore ad aumentare “la taille de leur cerveau”. Jean-Yves Fréchette, invece, crede nelle potenzialità dello strumento. A supporto della fiducia verso simili piattaforme di scrittura, lo stesso annota che una twitteratrice come Lirina Bloom ha
costruito una “pièce de théâtre” con battute che non superavano i 140 caratteri, riportando grande interesse e consenso presso i suoi “amici” diventati molto numerosi. Già tre anni fa la casa editrice Penguin USA pubblicò in volume i contenuti di un sito creato da due studenti di diciannove anni frequentanti l’Università di Chicago, Alexander ACIMAN e Emmett RENSIN. Con questo libricino intitolato “La twittérature” i due amici/autori si erano divertiti come pazzi a riscrivere e parodiare settantacinque capolavori e best-sellers della letteratura mondiale, dall’Iliade a Henry Potter passando per Robinson Crusoé, in linguaggio Twitter, utilizzando il computer o uno smartphone, ed è tuttora uno dei più riusciti esempi di uso letterario dei social network. L’idea di riassumere un romanzo in poche righe è di per sé un’operazione bizzarra ma nel contempo interessante sul piano della creatività. Essa dimostra che in questi ultimi anni la Letteratura non ha mai mancato di sfruttare i nuovi mezzi di comunicazione per provare a reinventarsi. Sono stati pubblicati romanzi epistolari in cui la corrispondenza avveniva per mezzo di SMS(l’ultimo messaggio del finlandese Hannu LUNTIALA, mille SMS per un totale di trecentotrentadue pagine, uscito nel 2007 ma mai pubblicato in Italia) e romanzi epistolari composti di email( tra i tanti possiamo citare “Le ho mai raccontato del vento del nord” di Daniel GLATTAUER, edito da Feltrinelli 2010. La narrativa su Twitter non è una novità assoluta. L’anno scorso il New Yorker ha twittato un racconto di Jennifer EGAN dal titolo Black BOX che ha ricevuto apprezzamenti. Le potenzialità del social si sono moltiplicate in questi ultimi anni, soprattutto nel campo artistico. L’esempio più recente è quello di Steven SODERBERGH, regista premio Oscar nel 2001 (“Eric Brokovic”, “Ocean’s Eleven”, “Traffic”, i suoi film più noti e apprezzati) che si è voluto cimentare in un’ambiziosa impresa: pubblicare un thriller “Glue”, su Twitter, una sorta di racconto-copione a segmenti o capitoli postati una volta la settimana. Ogni puntata ha un finale sospeso e lascia così viva la curiosità per la settimana successiva. In un susseguirsi di Tweet (finora sono stati pubblicati venticinque capitoli) attraverso parole e immagini il thriller si sviluppa nello spazio e nel tempo: il protagonista del giallo “You” (“Tu”), dopo aver assistito al proprio funerale, vaga in giro per il mondo toccando Londra, Amsterdam, Parigi e Roma, incontra vari colleghi e nemici, alla ricerca di un oggetto o forse di una misteriosa sostanza. Soderbergh ha dimostrato di saper usare efficacemente il linguaggio social. La brevità dei tweet crea suspense e azione da grande schermo e la profondità di certe riflessioni sfiora la grande narrativa. Il suo romanzo “GLUE” è accompagnato da occasionali link con fotografie scattate dallo stesso autore e rappresenta una brillante ibridazione tra cinema, letteratura e web che sa di futuro. Si ha l’impressione però, che simili esperimenti mirino soprattutto a divertire. La Twitteratura incontra critiche e ripensamenti. Diversi blogueurs e microblogueuses rimarcano i limiti di Twitter; pensano che si possano dire cose molto importanti in 140 caratteri su di un personaggio pubblico, si può far conoscere la sua personalità e magari prenderne le distanze dopo aver contestato le sue scelte, ma per fare Letteratura ritengono che il blog sia più adatto giacché in Twitter si resta molto in superficie. Prof. Raffaele FRANGIONE ____________________________________________
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