Debussy: i Cinq Poémes de Charles Baudelaire
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Conservatorio di Musica “L. Perosi”. Campobasso Corso Sperimentale “Repertori Vocali da Camera nell’Ottocento” Anno Accademico 2002 - 2003 Debussy: i Cinq Poémes de Charles Baudelaire Elaborato nelle discipline: Storia della musica dell’ 800 Critica del testo musicale Armonia e Analisi musicale Elementi di fonetica francese Estetica musicale Analisi delle forme poetiche e vocali Docenti: Barbara Lazotti Piero Niro Luigi Pecchia Allieva : Fabiana Sisto
INDICE I. Tra Roma e Bayreuth (1885 – 1889) II. Baudelaire e Wagner III. Un annoso dibattito: Debussy impressionista? IV. Il linguaggio musicale di Debussy V. I Cinq poèmes de Baudelaire: proposta di analisi VI. Conclusioni VII. Bibliografia
ABSTRACT I. Tra Roma e Bayreuth Il 27 gennaio 1885, grazie alla borsa di studio accordata al vincitore del “Prix de Rome”, Debussy lascia Parigi per trasferirsi a Villa Medici a Roma. L’opportunità di poter lavorare nella scenografica villa rinascimentale nei pressi di piazza di Spagna potrebbe sembrare ideale, ma il compositore comincia a soffrire di nostalgia già durante il viaggio a Roma. Villa Medici gli appare solo come una severa e odiosa residenza, (definisce la camera assegnatagli “tomba etrusca”) e vive come ingerenze intollerabili le restrizioni imposte allo sviluppo delle sue idee artistiche. Inoltre sente la mancanza degli animati ambienti musicali e letterari di Parigi, a confronto dei quali, la comunità artistica romana sembra formata solo da individui freddi e pieni di rivalità meschine, da cui si sente sopraffatto e annichilito. L’idea di “fuggire” comincia ad ossessionarlo, e solo grazie alle pressioni insistenti dell’amico Eugène Vasnier, riesce a portare a termine, sia pure con molta riluttanza, due opere: Zuleima e Printemps. Nel febbraio 1887, dopo almeno tre fughe a Parigi, presenta le dimissioni, assicurando Vasnier di non poter più sopportare quella vita monotona e comoda. Dice che a Roma avrebbe finito col distruggersi, e di avere “l’esprit mort”. Quindi rompe definitivamente con Villa Medici, come avrebbe fatto di lì a poco , anche con l’Accademia a Parigi. Il rientro di Debussy a Parigi si inserisce in un periodo piuttosto oscuro della sua vita, segnato da una profonda crisi esistenziale. Senza mezzi e senza alcuna prospettiva sul modo di guadagnarsi da vivere, torna ad abitare di nuovo con la sua famiglia, gravata improvvisamente dal licenziamento del padre Manuel dalla Compagnia di Fives-Lille e ansiosa di superare le
difficoltà economiche facendo affidamento sul successo del compositore. A questo proposito, in una lettera indirizzata al principe Andrè Poniatowski nel 1893, Debussy scrive: Nella mia famiglia sono accaduti diversi episodi sgradevoli, nei quali sono stato inevitabilmente implicato. Mi giudicano troppo improduttivo, almeno riguardo alla fama che s’aspettavano si riflettesse su di loro, e quindi si sono messi a farmi guerra a colpi di spillo, in parte per ragioni sentimentali e in parte per mera cattiveria. E’ evidente d’altronde che tutti i castelli in aria che avevano costruito sulle prospettive future della mia gloria sono tristemente finiti nel nulla. Non a caso, a questo periodo risalgono due lavori di grandi dimensioni, ma dal carattere apertamente convenzionale: la Fantaisie per pianoforte e orchestra e l’opera Rodrigue et Chimène, composta sotto la pressante insistenza dei genitori. Tuttavia, nonostante le difficoltà economiche di questi anni (causate dalla sua totale estraneità a qualsiasi istituzione musicale dal 1887 al 1902), grazie all’aiuto dell’amico Etienne Dupin, riesce a compiere due viaggi a Bayreuth: nel 1888 assiste alle rappresentazioni di Parsifal e dei Maestri cantori di Norimberga, mentre l’anno seguente ascolta anche Tristano e Isotta. In realtà, un precedente contatto con l’opera di Wagner si era già stabilito nel 1887, con l’ascolto del Lohengrin all’Eden-Théatre di Parigi, esperienza culminata con l’esecuzione di frammenti dell’Oro del Reno all’Opéra nel 1893, alla quale egli stesso partecipò accompagnando i sei solisti assieme al famoso virtuoso del pianoforte Raoul Pugno. E’ interessante, a riguardo, una lettera di Debussy del 1983 a Chausson: Mi sono finalmente sbarazzato dell’Oro del Reno. Peccato per l’oro, ma è un bene averla fatta finita con il Reno. Lo spettacolo è stato di una noia mortale. Catulle
Mendès ha parlato della Walkiria in modo tale che le madri che avevano avuto l’ingenuità di portare le figlie hanno preso la fuga, spaventate dalle parole salaci del perfido prete. Il mese di maggio sarà dunque, a quanto sembra, il mese della Walkiria: delle anime semplici ritengono che questo lavoro annunci la primavera di una musica nuova e la fine delle vecchie formule usate finora. Non sono di questo avviso, ma sembra che la mia opinione non abbia molta importanza. In realtà, il tono sarcastico di questi commenti non va preso alla lettera, ma piuttosto va inquadrato in un atteggiamento psicologico di ammirazione e timore verso l’opera wagneriana. E’ solo successivamente che l’antiwagnerismo debussiano diventerà ferocemente polemico, ora la forte personalità del compositore tedesco non solo non lo lascia indifferente, ma esercita su di lui una decisa attrazione. II. Baudelaire e Wagner E’ interessante notare come si sia creata una singolare convergenza nella cultura francese degli anni Ottanta: da una parte l’esplosione del wagnerismo (di cui la Revue wagnérienne rappresenta solo l’aspetto più vistoso), dall’altra, la corrente del Simbolismo e il culto per Baudelaire. Questo particolare incontro culturale trova esito felice nella produzione di Debussy con i Cinq poèmes de Baudelaire, dove, alla rivoluzionaria suggestione del linguaggio musicale wagneriano, si affianca la “naturale” musicalità e la perfetta scansione ritmica del verso di Baudelaire. L’arco di tempo in cui si verifica l’esperienza baudelairiano-wagneriana è temporalmente molto breve, riguarda queste composizioni La Mort des Amants dicembre 1887
Le Balcon gennaio 1888 Recueillement ? 1888 Harmonie du soir gennaio 1889 Le Jet d’eau 2 marzo 1889 e queste esperienze Studio del Tristano fine del 1886 Ascolto del Lohengrin all’Eden – Théatre di Parigi 3 maggio 1887 Ascolto di Parsifal, I maestri cantori a Bayreuth estate 1888 Ascolto di Parsifal, i maestri cantori, Tristano a Bayreuth estate 1889. I due autori sembrano fornire al giovane Debussy l’occasione per un esperimento necessario e singolarissimo al termine del quale la poetica del musicista ne esce definita in maniera risolutiva.1 A Parigi il primo interesse per Wagner risale agli anni Cinquanta e si manifesta esclusivamente da parte dei letterati. Figure come Gèrard de Nerval e Théophile Gautier esaltano l’indissolubile connubio di poesia e musica nell’opera di Wagner, ed esortano i librettisti francesi ad imitare la Gesamtkunstwerk wagneriana (“opera d’arte totale”, fusione di fenomeni poetici, artistici visivi e uditivi). Nel successivo dibattito sulla musica di Wagner, questo rimarrà un tema fondamentale per trent’anni, fino alle conseguenti ed estreme affermazioni di H.S. Chamberlain (uno dei più qualificati accoliti di Bayreuth all’epoca) sulla assoluta impossibilità di tradurre i libretti wagneriani e alle dichiarazioni di Eduard Dujardin sulla grandezza “totale” del compositore tedesco: Wagner grande musicista? La cosa era troppo evidente; ma Wagner grande poeta; ma Wagner grande pensatore; e soprattutto Wagner creatore di una nuova forma d’arte”.
Successivamente, durante il soggiorno del compositore a Parigi (dal 1859 al 1861), gli ammiratori crescono di numero, entusiasmati dalle rappresentazioni del Tannhauser all’Opéra, e diventano veri e propri “paladini” in difesa del wagnerismo contro i denigratori. L’iniziatore della “missione” è proprio Charles Baudelaire, il poeta che apre la via al gusto del “decadentismo” con Le fleurs du mal (I fiori del male, 1857). Appassionato ammiratore della musica di Wagner, come si evince dal suo famoso articolo apparso sulla Revue européenne del 1 aprile 1861, scritto in risposta all’insuccesso generale della prima parigina del Tannhauser, egli dichiara che la fascinazione della musica di Wagner è determinata dall’“energia passionale della sua espressione”, capace di dare voce agli aspetti più nascosti del cuore umano, e nelle suggestioni irresistibili delle sue composizioni il poeta francese ritrova “le visioni che si concepiscono nella vertigine dell’oppio”. E successivamente, in una sua lettera al compositore datata 17 febbraio 1860 si legge: Non voglio essere confuso con questa pletora di imbecilli, con coloro che scrivono articoli indegni, e ridicoli, che si dan da fare in mille maniere per diffamare il vostro genio”. La particolarità dell’approccio nei confronti del compositore tedesco non è esclusivamente nello strenuo tentativo da parte di Baudelaire di difendere la musica di Wagner da “nemici volgari”, ma va ricercata nel fatto che il poeta sembra riconoscere nell’opera wagneriana, la “sua” musica, l’idea intima di “musica” che ognuno interiormente possiede. La sua percezione va oltre, egli giudica tale musica secondo categorie wagneriane, utilizzando 1 Cfr. D.Gulli: 124 sgg.
concetti che Wagner avrebbe esposto solo dieci anni dopo (nel saggio Beethoven del 1870) ed evidenziando motivi, temi e tecniche nel lavoro del compositore, che gli appartenevano già in qualità di poeta. Dedicandosi a specifiche letture wagneriane tra il 1860 e il 1861 (Opera e Dramma, Lettre sur la musique), Baudelaire scopre una stretta affinità tra l’estetica wagneriana e la sua dottrina delle correspondances (“Corrispondenze”, titolo di una poesia che riassume la poetica del Simbolismo) tra i sensi umani e i vari aspetti della natura. Non a caso, a seguito della prima parigina del Tannhauser, scrivendo il suo saggio Wagner, Baudelaire vi inserisce quello che diventerà il suo Sonetto più famoso. Inoltre, ciò che maggiormente lo colpisce nello specifico del linguaggio musicale, è l’uso che Wagner fa dei temi ricorrenti, (i cosiddetti Leitmotive, dal valore simbolico allusivo, facilmente riconoscibili dagli spettatori che assistono allo svolgersi della vicenda. Il loro ripetersi, e le relazioni che intessono tra di loro, costituiscono l’ossatura e la struttura logica portante su cui sono fondati i drammi wagneriani) i quali – come scrive egli stesso – “avevano sedotto in pieno il mio ascolto”. A tal proposito, non si può non trovare una analogia tra l’uso dei Leitmotive come fattore di coesione drammatico – musicale e l’applicazione di tutta quella fitta rete di assonanze e iterazioni di versi interi, di strofe e costrutti che Baudelaire ottiene nelle Fleurs du mal. E’ come se il procedimento musicale adottato da Wagner assuma per lui un’affascinante valenza simbolista. D’altra parte, l’idea di annettere l’opera di Wagner al simbolismo, è presente anche nelle intenzioni dei redattori della Revue wagnérienne per dare la paternità al movimento: Wagner è stato uno dei maestri del Simbolismo […] la sua concezione dell’arte, la sua filosofia, erano all’origine del Simbolismo. Era impossibile […] spiegare la
concezione wagneriana senza riconoscervi la dottrina o per lo meno uno degli elementi primordiali della nuova dottrina poetica.2 Anche nel saggio di Stéphane Mallarmé Richard Wagner, reverie d’un poète français (“Richard Wagner, sogno di un poeta francese”), apparso sulla Révue wagnérienne nell’agosto 1885, si dichiara che il movimento simbolista si prefiggeva di ottenere in poesia ciò che Wagner aveva realizzato in musica avvalendosi di un complesso sistema di rimandi e riferimenti (i Leitmotive) altamente evocativi; si trattava di suggerire al lettore, attraverso un vocabolario denso d’immagini a sensi multipli e di significati nascosti, associazioni e impressioni appartenenti alla sfera dell’inconscio.3 Infine, nell’approccio wagneriano, specialmente nell’analisi di Tannhauser, Lohengrin e Der fliegende Hollander, Baudelaire non solo ha individuato le grandiose categorie di eccesso, abisso, profondità infernali e vette paradisiache, temi cari al decadentismo dell’epoca, ma la stessa adesione ideologica ai contenuti morali delle opere wagneriane diventa adesione estetica nel momento in cui sostiene di aver ritrovato nel Tannhauser la stessa sostanza delle Fleurs du mal, ossia il principio primordiale della lotta della carne con lo spirito. In conclusione, nel rilevare questi aspetti e nel rivendicare la grandezza della figura del compositore tedesco, Baudelaire consegna alla cultura francese dei tre decenni successivi un modo di intendere Wagner che non verrà messo in discussione per molto tempo.4 III. Un annoso dibattito : Debussy impressionista? 2 [Dujardin 1923: 212-213] 3 Cfr. E. Surian: 792-793 4 Cfr. G. Salvetti, Poesia e musica nella Francia di fine Ottocento, 36 sgg.
Il termine “impressionismo” è stato applicato per la prima volta alla musica di Debussy in riferimento a Printemps, suite in due parti per voci femminili ed orchestra. Nel rapporto del segretario dell’Accademia di Belle Arti, si legge: Il sig. Debussy non pecca sicuramente né di piattezza né di banalità. Proprio al contrario, ha una tendenza spiccata, anzi troppo spiccata, alla ricerca della stranezza. Si riconosce in lui un senso del colore musicale la cui esagerazione gli fa facilmente dimenticare l’importanza della precisione del disegno e della forma. Sarebbe molto auspicabile che egli stesse in guardia contro questo vago “impressionismo”, che è uno dei più pericolosi nemici della verità nelle opere d’arte. Questa prima opinione sul lavoro di Debussy (datata 1887), che mette in relazione Printemps con la pittura degli impressionisti e utilizza la categoria “impressionismo” in senso chiaramente negativo, passa quasi inosservata negli ambienti musicali dell’epoca, tuttavia è importante menzionarla perché sottolinea l’assoluta priorità data dal compositore al colore musicale a discapito della costruzione formale. E’ interessante notare come lo stesso tipo di accezione negativa veniva attribuita, circa dieci anni addietro, a un gruppo di giovani pittori che intendevano rappresentare la vita moderna con un linguaggio adeguato ai tempi, con la specificità di far cadere le barriere tra il momento della percezione e quello della restituzione del veduto attraverso l’immagine dipinta. I caratteri di questa corrente pittorica si adeguano ai ritmi della civiltà urbana: che, qualunque cosa si dipinga, non concede tempo, non permette la
messa a fuoco delle cose e impone una visione della realtà “distratta”, veloce, non analitica. I temi della città moderna e della folla svolti in chiave di inafferrabilità del movimento, di istantaneità di rapporti tra uomini e cose, di cambiamento continuo di prospettive si ritrovano anche in Baudelaire e in Edgar Allan Poe, autori che erano vicini a membri fondatori del gruppo, (chiamato Société anonime des artistes peintres, sculpteurs, graveurs etc.), quali Claude Monet, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Camille Pissarro, Edgar Degas e Berte Morisot. Lo scrittore Emile Zola li definisce pittori naturalisti e si esprime in termini entusiastici sull’Evénement a proposito del rappresentante più in vista: Non conosco il signor Monet. Mi sembra però di essere uno dei suoi vecchi amici. Ecco un temperamento, fra questa massa di eunuchi. Qui vi è assai di più di un “realista”, vi è un interprete delicato e forte. Nella prima mostra collettiva, il 15 aprile 1874, in un locale di Boulevard des Capucines, sono appesi alle pareti ben centosessantacinque dipinti, ma è un quadro di Monet che diventerà il “manifesto” dell’esposizione e anche il bersaglio della critica tradizionalista. La tela, una marina eseguita a Le Havre, viene chiamata da Monet Impressione: levar del sole. La critica conservatrice s’impadronisce del titolo, e il critico Louis Leroy, con intenzioni manifestamente ironiche, intitola il suo articolo Mostra degli impressionisti. Neanche la stampa dell’epoca ha un atteggiamento incoraggiante verso la nuova corrente pittorica: “Questi sedicenti artisti – si legge – si definiscono gli intransigenti, gli impressionisti; prendono delle tele, del colore e dei pennelli, buttano giù a caso qualche tono e firmano il tutto…”.
Tutta una serie di giudizi iniziali negativi, quindi, accomuna il lavoro di Debussy a quello dei pittori impressionisti, e il significato peggiorativo dato alla parola “impressionismo” è sicuramente da mettere in relazione con la campagna ideologica che le tendenze conservatrici conducevano accanitamente su tutti i fronti dell’arte contro la corrente responsabile del cambiamento che si produceva negli atteggiamenti e nel pensiero artistici. Camille Mauclair nel suo Claude Monet, commentando l’origine del termine e il suo successivo impiego afferma: E’ una parola e nulla più, priva di qualsiasi significato, benché si sia voluto dargliene uno… Senza l’incidente del titolo del quadro di Monet, qualunque altro termine si sarebbe potuto usare per indicare la tendenza generale di artisti che, usciti dal realismo, si sforzavano di unire alle rappresentazioni della vita moderna gli effetti di un cromatismo atmosferico… Il fatto di voler trovare delle analogie tra Printemps e la pittura impressionista da parte dei membri dell’Accademia di Belle Arti, sottolinea sicuramente il carattere di vistosa novità dell’opera, traducibile, innanzitutto, in un deciso rifiuto delle convenzioni da parte di Debussy, nel momento in cui queste ostacolano il suo processo creativo. Infatti, già in questo importante brano a carattere monotematico, Debussy fa un uso alquanto disinvolto dell’armonia “tradizionale”, con scale di quattro e cinque toni, cadenze plagali, accordi perfetti uniti ad accordi di settima, moti melodici di none e terze aumentate, e, peggio ancora, tratta la voce umana alla stregua di uno strumento, non risparmiandole intervalli larghi e ritmi complicati. Ma tutto questo poteva bastare a definirlo un impressionista? In realtà, niente dell’atteggiamento di Debussy nei confronti della sua opera fa pensare ad un impressionista. I suoi intenti creativi non sono improntati ad una cieca “spontaneità” e ad una sicura fiducia nei sensi, ma sono abbastanza
vicini ai principi normativi dell’opera di alcuni autori romantici. Egli non cerca di descrivere fedelmente una situazione concreta, quanto di rendere musicalmente un’idea astratta, e, nel caso di Printemps, di suggerire non una giornata o una primavera precise, ma la primavera in quanto tale, l’essenza del fenomeno a cui diamo questo nome [S. Jarocinski pag. 16]. Dunque né l’atteggiamento estetico, né la scelta dei mezzi stilistici fornivano criteri validi per annettere Debussy all’impressionismo. In realtà egli appare agli occhi dell’Accademia come un fenomeno assolutamente innovativo rispetto alla musica contemporanea dell’epoca, tanto da essere etichettato come impressionista solo perché all’epoca il termine era sinonimo di arte rivoluzionaria, contraria alle leggi del buon senso comune. E’ interessante a riguardo un commento di Emile Vuillermoz: Se la parola bolscevico fosse già stata inventata a quell’epoca, sarebbe stata applicata senza esitare a quel ragazzaccio che osava inserire sei diesis in chiave. Ma la lingua francese non si era ancora arricchita di questo comodo termine… Ma via via che la pittura impressionista comincia a guadagnare terreno, anche la definizione del movimento inizia ad essere usata in senso positivo e, contemporaneamente, si assiste alla nascita del concetto di “impressionismo musicale” applicato all’opera di Debussy. A partire dal 1894, il termine viene utilizzato in occasione dell’esecuzione a Bruxelles della cantata Le demoiselle élue, del ciclo di melodie Proses lyriques e di Quatuor per archi. La critica belga rimprovera a Debussy il suo pointillisme, ma loda anche “l’impressionismo” del Quatuor. A Parigi, l’esecuzione dei tre Nocturnes per orchestra ( 27 ottobre 1901), provoca una vera pioggia di associazioni con la corrente pittorica, dal resoconto del critico Jean d’Udine del “Courrier musical” si legge:
Non si potrebbe immaginare una sinfonia più sottilmente impressionista. Fatta tutta di macchie sonore, essa non s’inscrive nella sinuosità di curve melodiche definite, ma i suoi concatenamenti di timbri e di accordi – la sua armonia, direbbero i pittori – le conservano pur sempre una sorta di omogeneità, rigorosissima, che sostituisce la linea con la bellezza altrettanto plastica di sonorità distribuite sapientemente e sostenute logicamente… Intorno al 1905, in Francia, il termine impressionismo è ormai associato alla musica di Debussy, sia da parte della critica musicale che del pubblico, provocando la sprezzante reazione del compositore: Cerco di fare un’altra cosa, in qualche modo delle réalités – ciò che gli imbecilli chiamano impressionisme […] è un termine impiegato nel peggior modo possibile, soprattutto dai critici…”5 Ma la fondazione su basi scientifiche di questa interpretazione e il suo successivo ancorarsi nel vocabolario e nella letteratura si devono alla musicologia tedesca. Il primo ad allargare la nozione di stile impressionista è Richard Hamann nella sua opera Impressionismus in Leben und Kunst (1907), dove paragona i grandi gruppi di accordi dissonanti alla tecnica dei piccoli tocchi di colore sovrapposti, e la scomparsa della tonalità alla mancanza di prospettiva dei quadri degli impressionisti. Nel 1911, Werner Weisbach definisce l’impressionismo non più come la corrente pittorica sviluppatasi nel XIX secolo, ma, grazie anche all’opera di Hamann, ne allarga il concetto a categoria generale che si poteva ritrovare anche nell’arte antica, in Tintoretto e Goya. 5 [da una lettera a Jacques Durand del marzo 1908, a proposito delle Images per orchestra].
Nel periodo post-bellico, si moltiplicano gli studi analitici volti a dimostrare che l’impressionismo in Debussy non si poteva ridurre ad una semplice somiglianza superficiale con la pittura, ma era una categoria stilistica fondata su basi scientifiche. Lo studio di Ernst Kurth sull’armonia romantica (1920) apre la serie. Vi si afferma che la crisi della melodia, iniziata da Wagner nel Tristano, viene portata avanti nella musica di Debussy, esasperandosi nell’uso esclusivo della sonorità a carattere colorista. Ponendo Debussy e Wagner in diretta successione e insistendo sull’armonia come elemento essenziale del metodo compositivo di Debussy, Kurth indica la direzione che prenderanno tutti i successivi studi sull’argomento. Infatti, da quel momento, l’attenzione da parte della musicologia tedesca si sposta sulla tecnica compositiva, ma con un grosso limite: le analisi erano fondate su criteri e categorie tradizionali assolutamente inadeguati a cogliere il senso profondo della nuova musica. Le questioni relative alla tonalità e all’armonia venivano analizzate senza tenere conto della sonorità “reale” dell’opera, mentre, al contrario, è proprio il suono puro che diventa elemento strutturale, assieme alla melodia, al ritmo e all’armonia, nell’opera di Debussy. Usando metodi tradizionali, la musicologia arrivava solo a risultati parziali perché nell’analisi continuava a dare importanza secondaria alla partecipazione dei valori sonori rispetto all’elemento armonico, e tale errore metodologico inficiava qualsiasi ricerca con pretese scientifiche, nel caso della musica di Debussy. Solo lo studioso Kurt Westphal aveva avuto un’intuizione diversa affermando: la musica di Debussy aveva scoperto il suono puro, il suono avente un’azione acustica elementare, indipendente dagli insiemi artistici di suoni collegati secondo
il principio funzionale […] si poteva parlare, nel caso di Debussy, di suoni liberati dall’armonia. Ma stranamente la novità di questa posizione non viene percepita, la musicologia tradizionale rimane arroccata sulle proprie metodologie, spiegando perfettamente la distruzione del sistema armonico funzionale in Debussy, ma non riuscendo a descrivere l’azione di un nuovo meccanismo delle corrispondenze e il ruolo primordiale e creatore della forma, che i valori sonori assumevano in quel meccanismo. Attribuendo loro caratteri “coloristi”, e cioè allargando ancora la metafora con riferimenti alla pittura impressionista, i musicologi seguivano schemi che potevano condurre solo ad un vicolo cieco perché quei valori sonori “irrazionali” di cui misconoscevano la portata, i soli che sfuggissero al sistema concettuale esistente e che fossero liberi da qualsiasi funzione imitativa o rappresentativa, erano uno strumento eccezionale che permetteva non solo di rompere la struttura dell’opera musicale ed il suo simbolismo, ma anche di costruire strutture nuove su principi differenti.6 La formula di Debussy impressionista, entrata nella letteratura grazie al contributo di Hamann come un termine artificiale, che si pretendeva di far assurgere a “stile”, oltre ad impedire di analizzare con maggiore verità la sua opera, sottolineava troppo il lato esteriore e formale della sua musica. In realtà, Debussy vede la superiorità della musica sulle altre arti proprio nel fatto che non è sottomessa a “precisazioni e contingenze come i colori e le parole”, inoltre ha un’estrema fiducia nella propria intuizione musicale e si abbandona, quando è opportuno, all’iniziativa dei soli suoni, raccogliendoli in gruppi più o meno omogenei o lasciandoli seminare il 6 [S. Jarocinski pag. 60]
disordine o associandoli momentaneamente senza che assumano un’identità definita. Egli stesso dichiara: La musica è un insieme di forze sparse (la musique est un total de forces éparses). E da queste si ricava un canto teorico! Preferisco le poche note del flauto di un pastore egiziano, che appartiene al paesaggio e conosce armonie ignorate dai vari trattati… I musicisti non ascoltano che musica scritta da mani sapienti, mai quella insita nella natura. Vedere il sorgere di un giorno è più utile che ascoltare la Sinfonia Pastorale. A che serve la vostra arte pressoché incomprensibile? Non è forse tempo di purificarla da tutte quelle combinazioni che la rendono simile alla complicata 7 serratura di una cassaforte?... . Debussy non intende vedere la verità e poi rivelarla, come teorizzano gli impressionisti, sa che la verità si può solo sperimentare e, tutt’al più, suggerirne l’esperienza: La musica è proprio l’arte più vicina alla natura […]. Malgrado le loro pretese di traduttori giurati, i pittori e gli scultori possono darci della bellezza dell’universo solo un’interpretazione abbastanza libera e sempre frammentaria. Essi colgono e fissano uno solo dei suoi momenti: solo i musicisti hanno il privilegio di captare tutta la poesia della notte e del giorno, della terra e del cielo, di ricostruirne l’atmosfera e di ritmarne il palpito immenso”. Evidentemente non si tratta di imitazione diretta, ma di una trasposizione sentimentale di ciò che è invisibile nella natura. Si teorizza, infine, che la musica non è “ limitata ad una riproduzione più o meno esatta della natura, ma alle corrispondenze misteriose fra la Natura e l’Immaginazione. 8 7 [C. Debussy, Monsieur Croche]
IV. Il linguaggio musicale di Debussy La musica non è né maggiore né minore. O piuttosto è ambedue nel medesimo tempo. Il modo è quel qualsiasi modo al quale il musicista pensa in un dato momento. E’ incostante. C. Debussy Debussy è l’ultimo di quei grandi musicisti che non solo hanno lasciato una produzione veramente originale ma hanno posto le basi per un rinnovamento del linguaggio. L’eredità che ha lasciato consiste in una concezione totalmente nuova del linguaggio musicale, rivalutato in tutta la sua carica di libertà all’interno di un modo assolutamente originale di intendere i rapporti ritmici e tonali. E. Ansermet Fino al momento della creazione di Pelléas, nel 1902, il nome di Debussy è a malapena conosciuto dal grande pubblico. La sua fama era stata quella di un compositore legato a Mallarmé, di un musicista con inclinazioni letterarie da non prendere troppo sul serio in un mondo musicale dove, ad un compositore degno di tale nome, si richiedeva di produrre senza sosta un corpus sostanzioso di lavori sinfonici ed operistici. Debussy aveva un carattere troppo indipendente per seguire una carriera tradizionale di quel genere. Ma, paradossalmente, con Pelléas si trova al centro di una interminabile controversia e, all’improvviso, viene catapultato tra le luci della ribalta. Il 22 gennaio 1904 Le Journal pubblica un articolo di Jean Lorrain intitolato Les Pelléastres: 8 [C. Debussy, Monsieur Croche]
Questo pubblico leggendario, abituato a frequentare le prime di Lugné-Poe, lo ritroverete alla Salle Favart per tutte le rappresentazioni di Pelléas et Mélisande. Fervidi ammiratori di Peter Gynt e della sapiente orchestrazione di Fervaal, costoro si sono messi d’accordo per adottare la musica di Claude Debussy. Andati in estasi per i luminosi pizzicati di quel piccolo capolavoro ch’è L’Aprés-midi d’un faune, hanno stabilito di dover estasiarsi dinanzi alle deliberate dissonanze dei lunghi recitativi di Pelléas. L’effetto snervante di quegli accordi prolungati, lo stimolo dapprima sensuale poi esasperante ed alla fine crudele inflitto alle orecchie dell’ascoltatore da una frase in crescendo, cento volte interrotta, e che non si conclude mai; quest’opera dell’oblio, intessuta di sensazioni fugaci, così artistica e oh! così quintessenziale… così sconcertante…doveva per forza ricevere il sostegno di un pubblico di snob e di poseurs. Ovviamente, niente di costruttivo emergeva da satire di questo tipo, a parte la manifestazione esplicita di un certo snobismo di fronte ad una novità. Le polemiche riprendono qualche anno dopo, nel 1909, quando La Revue du Temps Présent, presenta un’inchiesta sotto la denominazione di Le Cas Debussy, in cui ci si comincia ad interrogare sul “fenomeno” Debussy e sulla validità delle sue creazioni musicali. Scrittori, pittori, compositori e critici vennero pregati di rispondere a un questionario: Qual è l’importanza di Debussy, e qual è il ruolo da lui svolto nell’evoluzione della musica contemporanea? La sua personalità è un fenomeno originale o un fenomeno meramente accidentale? Può egli creare una nuova scuola? E deve farlo?. Ernest Ansermet rispondeva categoricamente che non c’era nulla di accidentale nell’armonia di Debussy e che la sua opera rappresenta
il fenomeno musicale più importante dal tempo di Wagner e dei Russi… ed è evidente che la sua musica è la continuazione della loro opera… e ancora le sue innovazioni tecniche hanno influenzato quasi tutti i compositori d’oggi. Romain Rolland si esprimeva in questi termini: Non mi piace affatto la musica francese d’oggi, e non vado pazzo per il vostro Debussy. Ma non arrivo a capire come voi, con una tale penuria di artisti, ne discutiate tanto. Quanto al fatto di sapere se da Debussy nascerà una scuola, e quanto questa scuola sarà valida, mi è facile rispondere: tutti i grandi artisti generano delle scuole. E le scuole sono tutte nefaste. Sarebbe meglio quindi che non ci fossero più grandi artisti?. Jean d’Udine dichiarava che Debussy aveva “evidentemente un’importanza enorme, poiché ogni musicista da strapazzo ormai produce esempi di Ipodebussy o Iperdebussy”. Nell’agosto del 1910, lo storico della musica e intimo amico di Debussy, Louis Laloy, pubblica un ampio studio: Debussy et le Debussysme. Vi si afferma che gli ultimi progressi nello sviluppo della storia della musica si sono compiuti in Francia, non per effetto delle riforme di Gluck e di Wagner, ma solo grazie alle opere di Debussy, che hanno arricchito la musica sia dal punto di vista emotivo che da quello tecnico. Laloy insiste, in un secondo momento, su un argomento allora molto diffuso: i compositori classici si attenevano alle regole, mentre i compositori romantici le rifiutavano. Con Wagner il conflitto assume proporzioni epiche, ma la vecchia fortezza [la tonalità] resiste incrollabile. Solamente con Debussy giunse la liberazione, e giunse improvvisa e senza sforzo; come per il tocco di una bacchetta magica i bastioni della fortezza della tonalità svanirono nell’aria.
Il principio della nuova musica è che una nota può essere attirata da un’altra senza che questo implichi l’ordine implicito di una scala, ossia, tutto è concatenato, ma niente è preordinato. Le melodie di Debussy impiegano solamente note della scala maggiore ed i suoi accordi sono quelli di una tonalità determinata, ma non già in conformità di qualche sistema predeterminato, ma semplicemente perché accade che un certo schema tonale esprima la sensibilità del compositore in quel dato momento. Allo stesso modo, l’armonia di Debussy conosce solo la consonanza e ignora completamente la dissonanza, dove un accordo dissonante è un accordo instabile e provvisorio che ha bisogno di risolvere in una consonanza. Ma Laloy afferma che stiamo arrivando ad un’epoca in cui ogni accordo, quale che sia la sua composizione, ed anche se non possiamo ridurlo alle componenti armoniche, può essere considerato come consonanza; un accordo non ha più bisogno di provare la sua legittimità: è una sonorità che, ben impiegata, darà completa soddisfazione al nostro udito. Le combinazioni di suoni contribuiranno a creare nuove sonorità, così come la giustapposizione di colori creerà l’impressione di un altro e diverso colore. Da tutto questo si può dedurre che all’epoca si era ben coscienti di trovarsi di fronte ad un nuovo “sistema” di composizione attraverso il quale Debussy interviene sulle strutture ritmiche e tonali introducendo in esse una libertà fino a quel momento impensabile.
Ma in che senso la musica di Debussy ha apportato delle innovazioni e come si caratterizza la sua sintassi? Sicuramente da qualsiasi punto di vista si voglia considerare lo stile di Debussy e gli elementi del suo linguaggio, il problema principale rimane quello di definire quale fu il suo atteggiamento nei confronti della tonalità e della forma musicale. Il discorso musicale basato su tensioni dissonanti preparate e risolte costituiva la caratteristica della concezione musicale nell’Ottocento che, pur ammettendo qualche forma di digressione, ne finalizzava l’uso ad un intento di unità e mai di disgregazione. Contro questo principio si ribellarono tutti i compositori dell’epoca, ma fu una rivolta lenta e fatta di indagini e tentativi e che comunque, anche dopo l’esperienza wagneriana, portò alla sostanziale conferma della validità dei fondamenti dell’armonia di Mozart. La stessa opera di Debussy non portò in campo armonico nulla di più rispetto a Wagner, suo merito è quello di aver infranto la rigidità del sistema tonale con maggior efficacia dei musicisti precedenti, senza però rinunciare ai principi della tonalità. Un esempio in tal senso è rappresentato dai Préludes, scritti nei suoi ultimi anni, che sono composti in tonalità ben precise e, anche se nel corso delle composizioni ci si allontana di molto dalla tonalità d’impianto, questi pezzi terminano sempre nel tono iniziale (Basterà solo un piccolo passo in avanti perché il principio della tonalità venga scardinato del tutto, e perché i confini tra consonanza e dissonanza scompaiano, infatti il ciclo liederistico di Schonberg Das Buch der hangenden Garten, con il quale l’autore dichiara di tagliare tutti i ponti con l’estetica del passato, risale al 1908 ed è di poco anteriore ai Préludes). Il carattere nuovo e ambiguo dell’armonia di Debussy va invece ricercato in una serie di acquisizioni importanti, prima fra tutte il diverso
trattamento operato dal compositore nei confronti della melodia e del sostegno armonico. Durante il periodo classico, la melodia si trova in stretta relazione con la struttura armonica, in modo che se quest’ultima è maggiore, anche la melodia dovrà esserlo (idem per il modo minore); nel Romanticismo, la melodia, sebbene più libera, non riesce mai ad emanciparsi dal tracciato armonico costruito saldamente sulla relazione tra tonica, sottodominante e dominante. Debussy, già nelle sue prime opere, non solo separa la melodia dal sostegno armonico rendendola totalmente indipendente, ma tratta nello stesso modo anche le concatenazioni armoniche e le singole note del basso, in modo che ambedue contribuiscono singolarmente e in relazione tra loro al risultato finale. Gli accordi non armonizzano più (o lo fanno molto raramente) i singoli suoni della melodia, ma al contrario, un solo accordo può venir posto come base di intere melodie. Ogni accordo ha già in sé anche una propria struttura compositiva e un proprio colore orchestrale: al mutare dei colori e del corso degli eventi mutano gli accordi, e mutano di solito meno frequentemente che nella musica del passato, cosicché il loro ricordo si conserva più a lungo, restano meglio collegati alla struttura compositiva di riferimento. Un determinato accordo, una determinata struttura compositiva e un determinato timbro orchestrale vengono quindi inventati contemporaneamente e non uno dopo l’altro, e costituiscono quindi un unicum, una unità di invenzione.9 Le costituzioni accordali debussiane poggiano ancora sull’intervallo di base di quinta e conservano la funzione di nucleo generativo a quello di terza, ma le funzioni tradizionali degli accordi vengono neutralizzate o rese ambigue a causa dell’impiego sistematico ed intensivo di scale che non 9 [D. de la Motte, pag. 332].
hanno un centro tonale (esatonali, pentatoniche, modali). Qualsiasi aggregato armonico, anche il più complesso, può così isolarsi e autodeterminare la propria funzione e il proprio stato dinamico, di quiete o di moto, in questo contesto la risoluzione della dissonanza non è affatto necessaria o può benissimo essere sottintesa. Nell’opera di Debussy la melodia è costruita in modo particolare: le sue linee si intrecciano irregolarmente e viene fatto spesso uso di omofonie (si pensi alle quinte parallele della melodia principale de L’Aprés-midi d’un faune) non per il fatto che il compositore ignori o neghi questo “classico” divieto dell’armonia tradizionale, ma perché per lui l’armonia non consiste in qualcosa di semplicemente percepito bensì è un dato poetico, una componente sentita in profondità. Quando Debussy compone figurazioni omofoniche intrecciate esse sono percepite in quanto immagini sensibili di un accordo, il noema. Da questo essa può derivare un percorso melodico costituito da noemi simili o paralleli o da oscillazioni dello stesso come accade in Nuages, oppure, ancora, da una successione di differenti stati di un medesimo noema, come accadde all’inizio del preludio Et la lune descend sur le temple qui fut”. [E. Ansermet, pag. 194] Si potrebbe ipotizzare che la duplice indipendenza di melodia e armonia operata da Debussy, realizzi una “sintesi” tra lo spirito musicale francese e quello tedesco, infatti l’importanza dell’elemento melodico, riscontrabile nella originalità della melodia e del timbro, è tipicamente francese, mentre lo studio del Tristano assieme alla musica di Bach, fecero assimilare al compositore francese la pratica della Bass-Fuhrung e della Durch-Fuhrung tipiche della scuola tedesca. Nell’opera di Debussy armonia, struttura compositiva e forma musicale stanno fra loro in un tipo di rapporto prima sconosciuto. Dato il punto di
avanzamento raggiunto dall’evoluzione armonica, le vecchie forme musicali non potevano essere conservate ancora a lungo e, in particolare, lo schema ternario della forma-sonata caratterizzato da tesi e antitesi, sviluppo e riesposizione, poteva essere elaborato solo con una struttura armonica definita e per nulla ambigua. Probabilmente fu questo il motivo che spinse Debussy a diffidare dello sviluppo musicale come metodo di composizione: Già per Beethoven l’arte di sviluppare consiste in ripetizioni, in incessanti riprese di motivi identici […]. E Wagner ha esagerato questo procedimento quasi fino alla caricatura […]. Vorrei che si arrivasse, arriverò ad una musica veramente libera da motivi, o formata da un solo motivo continuo, che niente interrompa e che non ritorni mai su se stesso. Allora ci sarà uno sviluppo logico, serrato, deduttivo; non ci sarà, fra due riprese dello stesso motivo, caratteristico e topico dell’opera, un riempimento frettoloso e superfluo. Lo sviluppo non sarà più quell’amplificazione materiale, quella retorica da professionista plasmato da eccellenti lezioni, ma verrà preso in un’accezione più universale e, finalmente, psichica.10 E ancora: Mi persuado, sempre di più, che la musica non è, nella sua essenza, una cosa che possa calarsi in una forma rigorosa e tradizionale. Essa è fatta di colori e di tempi ritmati […]. Quello che vorrei fare, è qualcosa di più sparso, di più diviso, di più slegato, di più impalpabile, qualcosa che sia disorganico in apparenza, eppure fondamentalmente ordinato; una vera folla umana in cui ogni voce sia libera, eppure tutte le voci riunite producano un’impressione ed un movimento d’insieme”.11 Risulta chiaramente che da parte di Debussy è forte l’esigenza di una nuova organizzazione dello spazio sonoro che si attua attraverso una 10 [A. Fontainas pag. 92-93] 11 [L. Vallas, C. Debussy et son temps, pag. 364].
continua e rinnovata spinta creativa abbandonando il tematismo e la forma beethoveniana; nell’estetica debussyana, la musica non torna mai su se stessa. Tra i parecchi aspetti della tecnica compositiva di Debussy, Vladimir Jankelevitch nel suo saggio Debussy et le mystère de l’istant, si sofferma sulla questione ritmica. L’autore avanza l’ipotesi che i molti ritmi e i pedali prolungati usati da Debussy, siano sintomo di un pensiero ossessivo dello stato di immobilità: si guardi, ad esempio, il ritmo monotono del preludio Des Pas sur la neige
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