Temi utopici dell'antichità nelle vie della scoperta d'America di Adriana Beatriz Martino

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Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

Temi utopici dell’antichità nelle vie della scoperta d’America
di Adriana Beatriz Martino

1. Introduzione

     L’America aveva una storia anteriore all’anno 1492. Una storia di migliaia d’anni,
lungo la quale poi non era ancora l’«America». I popoli che l’abitavano da tempi lontani
avevano sviluppato una grande molteplicità e varietà di manifestazioni culturali,
economiche, politiche, sociali, che però si trovavano fuori dal «tempo storico
dell’Occidente». Il Continente cominciò ad essere «America» a partire da quel momento
in cui l’uomo europeo vi collocò le sue inquietudini, le sue ambizioni, i suoi capitali, le
sue volontà e i suoi immaginari; nelle terre «americane». Di fronte a questi uomini,
«votati al fascino e al pericolo d’America», che vissero tutte le fantasie e realtà possibili –
e anche impossibili –; di fronte a questi uomini di «naufragio e immediata sfida», i locali
«hanno capito – come pensa Abel Posse – che erano sconfitti prima delle battaglie». Per
loro era arrivato il temuto «sole nero», il tempo della chiusura di un ciclo. «Era il tempo
sulla terra del toro. I condor si rifugiarono nell’alto. Da cinque secoli immobili guardano
la pianura»1.
     Per gli europei, invece, cominciava la proiezione nel reale di certi miti e leggende che
dall’antichità popolavano la loro immaginazione e la loro letteratura. Nei loro viaggi il
reale e l’immaginario, la geografia e la metafisica si confondevano in un tutto indivisibile.
     L’«incontro» di terre paradisiache e di luoghi di magica attrazione li affascinava tanto
quanto l’oro, le perle e l’avventura in se stessa. Erano anche spinti dal desiderio di trovare
un mondo dove valessero altri principi, altre categorie, la possibilità di un accessibile
«oltre» con un codice diverso da quello in vigore nella loro terra. Ciò è a dire che, dal
momento stesso della presenza dello spagnolo in terra americana, si materializzava
«l’incontro» tra due mondi che da lì in poi non sarebbero stati più gli stessi di prima: un
concetto che si direbbe dialetticamente inseparabile dall’Invenzione/Creazione perché
l’«in-venire» proprio dell’incontro è l’immagine con la quale ciò che è trovato ci appare.
L’«Invenzione/Creazione» ci riporta necessariamente al concetto di «utopia» perché è con
essa congiunta. È allora – afferma Beatriz Fernandez Herrero – «che la “ri-scoperta” deve
intendersi come “u-topia”»2. Perché in America si fa realizzabile, in modo effettivo e in
un solo momento, un nuovo tempo e un nuovo spazio: il tempo che si apriva verso il
Rinascimento e verso una nuova concezione del mondo e dell’uomo; lo spazio che
incorporava una «quarta parte» dell’Orbe al mondo «trino» fino a quel tempo conosciuto.
    Ecco dunque aprirsi una duplice ipotesi di lavoro:
1. Cristoforo Colombo cercò l’«utopia dello spazio» quando andò verso terre sconosciute,
contribuendo alla conoscenza geografica del pianeta; e contribuendo insieme allo sviluppo
di utopie e racconti fantastici che dall’antichità (soprattutto ellenistica) si annidavano
nell’immaginario europeo;

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2. l’America si affermò come l’«invenzione» più spettacolare del Cinquecento europeo-
occidentale, e poi come il suo «dubbioso ritratto»3.

2. Le «notizie» degli antichi

      L’antichità grecoromana fu particolarmente prolifica nell’accogliere e immaginare
l’esistenza di terre non appartenenti al mondo conosciuto; passi in proposito si ritrovano
in lavori di grande importanza, come ad esempio quello di Alexander von Humboldt su
Cristoforo Colombo e la scoperta d’America (tr. sp., Madrid, 1925-1926), di Jacques de
Mahieu su La geografia segreta d’America. Prima di Colombo (tr. sp., Buenos
Aires,1978); nei più recenti lavori di Juan Gil, Mitos y utopías del Descubrimiento. I.
Colón y su tiempo (Madrid 1989) e di Beatriz Fernandez Herrero, La utopía de la
aventura americana (Madrid 1994). Senza dimenticare la menzione di isole paradisiache
che la letteratura attica, e soprattutto quella alessandrina, ci hanno lasciato in pittoresche
finzioni (il Paese dei Meropi di Teopompo, il Paese degli Iperborei di Ecateo di Abdera,
l’ultima Thule di Diogene, l’Isola sacra di Evemero, l’Isola fortunata di Giambulo), ci
fermeremo su alcuni pochi frammenti significativi di autori grecoromani.
     Così i passi famosi di Platone sull’Atlantide, nel Timeo, nel Crizia: «Allora si poteva
attraversare quel mare, effettivamente: di fronte allo stretto che voi nel vostro linguaggio
chiamate colonne d’Ercole, c’era un’isola. Quell’isola era maggiore della Libia e
dell’Asia insieme. I naviganti passavano da quell’isola ad altre e da queste al continente
che ha le sue rive in quel mare, veramente degno del suo nome. Perché tutto questo mare,
che sta al di qua dello stretto che ho detto, sembra un porto d’angusto ingresso, ma l’altro
potresti rettamente chiamarlo un vero mare, e la terra che per intero l’abbraccia, un vero
continente. [...] E però, in tempi successivi, sono occorsi intensi terremoti e inondazioni, e
in un sol giorno, in una notte fatale, tutti i guerrieri che c’erano nel vostro paese furono
inghiottiti dalla terra che si aprì, e l’isola di Atlantide scomparve tra le onde; questo è il
motivo per il quale ancor oggi non si può percorrere né esplorare questo mare, perché la
navigazione trova un ostacolo nella quantità di limo che l’isola depositò al suo
sommergersi» (Timeo, 24e-25d). «Abbiamo detto che quell’isola era maggiore della Libia
e dell’Asia, mentre ora, sommersa dai terremoti, non è più che una fanghiglia
impenetrabile, la quale costituisce un ostacolo ai naviganti e non permette di attraversare
quella parte dei mari» (Crizia, 109a).
       Il mito di un’isola ad ovest dell’Europa, grande come un continente, era già
conosciuto almeno dai tempi di Solone, come si legge in un suo poema scritto tra il 570 e
il 560 a.C.
       Per parte sua Aristotele si riferisce all’esistenza di elefanti sulle coste opposte
all’Africa Occidentale, coste perciò dell’India, basandosi sull’unione di queste terre: «È
evidente che la Terra non solo è rotonda, ma è anche una sfera piccola, perché altrimenti
non si percepirebbero così presto gli effetti della sua traslazione. Ecco perché quelli che
opinano che il luogo prossimo alle Colonne d’Ercole sia unito immediatamente alla
regione indiana, e in questo modo affermano che c’è un solo mare, non sembrano opinare
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cose inverosimili. Dicono questo portando a testimonianza il caso degli elefanti: poiché
nelle due regioni estreme c’è questa specie di animali, pensano che ciò avvenga in quanto
i due estremi si toccano» (De coelo, II, 14, 298 a 6-15)
       Lo stesso Aristotele riprende in altri scritti l’esistenza di terre situate oltre il nostro
mare: «Il linguaggio degli uomini ha diviso la terra abitabile in isole e continenti,
ignorando senza dubbio che essa è tutta un’isola circondata dalle acque dell’Atlantico.
Ancor più è probabile che ci siano terre molto lontane separate dal mare, di esse alcune
maggiori di questa, altre minori, ma delle quali nessuna è possibile vedere; perché queste
isole che conosciamo si riferiscono a questi mari, così come questa terra abitata si
riferisce al Mare Atlantico, ed altre molte abitabili a tutto il mare. Perché anche queste
sono isole circondate da grandi mari» (De mundo, III). «Si dice che nel mare al di là delle
Colonne d’Ercole fosse stata scoperta dai cartaginesi un’isola deserta, avente una foresta
con ogni genere d’alberi e fiumi navigabili, e mirabile per i diversi frutti, distante alcuni
giorni di navigazione. Poiché i cartaginesi la visitavano spesso per la sua prosperità, e
alcuni anche l’abitavano, i capi dei cartaginesi proibirono sotto pena di morte che
chiunque navigasse a quest’isola, e ne massacrarono tutti gli abitanti, affinché nulla si
sapesse; o anche nel timore che un popolo si formasse da essi nell’isola e ne prendesse
possesso, strappandola alla loro utilità» (De mirabilibus auscultationibus, 84, 836 b 28-
837 a 7).
       Noti sono i ragguagli di Strabone, nei quali afferma che nella zona temperata ci
possono essere spazi abitati, alludendo così in certo modo all’America e alle isole dei
mari del Sud: «Così, se non si opponesse l’immensità del mare Atlantico, potremmo
navigare lungo lo stesso parallelo dalla Spagna fino all’India per tutto lo spazio che resta,
superando questa distanza, la quale eccede la terza parte di tutto il circolo, quel circolo
tirato da Thinas, di cui noi abbiamo misurato gli stadi che ci sono dall’India alla Spagna, e
che è minore di 200.000 stadi; [...] e chiamiamo terra abitata quella nella quale abitiamo e
che conosciamo. Ma può darsi che nella stessa zona temperata ci siano due terre abitate e
ancor di più, lungo il circolo tracciato da Thinas e il Mare Atlantico» (Geografia, I, IV,
6). «Anche Posidonio sospetta che la lunghezza della terra abitata misuri 70.000 stadi, che
sarebbero la metà del circolo intero. Così, dice, navigando dall’Occidente, con vento di
Levante, troverai altro spazio verso le Indie» (Ivi, II, III, 6).
     Seneca, infine, plasmerà in Medea la presunzione dell’uomo che arriverà all’America,
scrivendo un paragrafo memorabile che serà menzionato numerose volte da Colombo,
Angleria, Oviedo e Herrera: «In quest’Orbe accessibile/ niente rimane dov’è stato;/
l’indiano beve dell’acqua del gelido Arasse,/ i persiani quella dell’Elba e del Reno./
Verranno secoli nei quali l’Oceano aprirà le sue barriere/ e appariranno nuove terre;/ Teti
scoprirà nuovi mondi,/ e non sarà Thule l’ultima terra» (atto III, 370-379).

3. L’«immaginario classico» di Cristoforo Colombo

      Senza entrar nel merito dei viaggi anteriori a quello di Colombo, viaggi che
indubbiamente ci furono4, analizzeremo il cumulo di miti, leggende e fantasie utopiche

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generatosi nell’antichità, che costellarono poi la saga colombiana in una misura maggiore
di quanto ci saremmo aspettati.
    I geografi classici avevano situato ai confini della terra, che in quel momento erano
India ed Etiopia, tutti i prodigi del mondo. Nella prima abitavano i monopodi o schiàpodi
(avevano una sola gamba ma potevano saltare; quando faceva molto caldo si
proteggevano dal sole all’ombra del loro immenso piede). Ugualmente, l’India ospitava
«popoli senza collo» (con gli occhi sulle spalle), «popoli senza bocca» ( si alimentavano
dal naso), i «pandas» (i loro capelli erano bianchi da bambini e neri nella vecchiaia), gli
«snasati»», i «grugnosi» (il labbro superiore era così sporgente che gli serviva da
parasole), gli «slinguati» ecc.5.
    Cristoforo Colombo, nel suo Diario, fa menzione di questi e di altri portenti, che
analizzeremo per spiegare il suo immaginario e comprendere il suo pensiero «situato».

Il Paradiso perduto – Questo mito, cui in certa misura ogni utopia si collega, e che
riflette la tensione di sempre dell’uomo, proteso verso la giustizia e la felicità, si
evidenziò nel suo pensiero in seguito. Nel 1498, arrivato alla penisola di Paria, nel suo
terzo viaggio, non dubitò di aver raggiunto questo Paradiso e scrisse alla regina Isabella:
«La navigazione già non trascorre sul piano meramente orizzontale. [...] Stiamo salendo
lungo il sentiero del mare. [...] Ho trovato una temperatura soavissima e sulla costa si
scorgono alberi verdi e formosi come negli Orti di Valenza. La gente che si vede ha bella
statura e sono più bianchi di quelli visti prima [...]. Saliamo perché la Terra non è rotonda
[egli pensa che sia piuttosto a forma di pera]. Siamo nell’estremo del mondo, sotto la linea
equinoziale; il luogo del pianeta più vicino al cielo» 6. Più avanti descrive i quattro fiumi
del Paradiso, che afferma di aver trovato – Gange, Tigri, Eufrate, Nilo – perché «gl’indizi
corrispondono molto, e io non ho mai letto né udito che tanta quantità di acqua dolce si
trovasse dentro e accanto a quella salata; e in essa contribuisse alla soavissima
temperatura»7.
        La sua convinzione di essere stato eletto per ritornare nel Paradiso terrestre,
proibito dai giorni della «caduta» di Adamo, gli fece dichiarare con assoluta sicurezza di
esser di fronte ai «grandi indizi» che gli attestavano trattarsi del Paradiso, perché «il sito è
conforme all’opinione dei santi e dei saggi teologi»8.

Cinocefali e antropofagi – Il 4 novembre 1492 Colombo scrive nel suo Diario che molto
vicino a dove si trovava «c’erano uomini con un solo occhio ed altri con musi di cane che
mangiavano gli uomini» (p. 89). Poco dopo, il 23 novembre, riappare l’immagine del
Ciclope omerico, mescolata con quella dei «cannibali» antropofagi, «e dei quali gl’indios
che andavano con lui mostravano aver paura» (p. 103).
    Di questa paura degli indios per i mangiauomini si parla anche nel racconto del 26
novembre (pp. 106-107) e del 5 dicembre (p. 117); anche se è possibile notare che
Colombo non capiva molto quello che gli volevano dire i nativi; perciò «l’Ammiraglio
credeva che essi mentissero, e pensava che quelli che li catturavano dovessero essere della
signoria del Gran Can» (p. 107).
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    Questi mostri erano molto conosciuti nella mitologia. La loro esistenza era già stata
affermata da Claudio Eliano che, basandosi sui racconti indiani di Ctesia, ne dava la
seguente descrizione: «Nella stessa zona dell’India dove si allevano gli scarafaggi
[purpurei] s’incontrano degli esseri chiamati “cinocefali”, il cui nome deriva dall’aspetto e
forma della loro testa; giacché nel resto delle loro membra hanno figura umana. Si
coprono con pelli di animali e sono giusti e non offendono nessun uomo. Non parlano,
solo emettono suoni gutturali, benché capiscano la lingua indiana. Si alimentano di fiere
selvagge, che cacciano con grande facilità perché sono velocissimi, e quando le
raggiungono le uccidono. Non cuociono la carne sul fuoco ma al calore del sole, avendola
fatta a pezzi. Allevano capre e pecore. Loro cibo è la carne degli animali, loro bevanda il
latte del bestiame che allevavano. Ho fatto menzione di essi tra gli esseri che mancano di
ragione e non senza motivo, perché non hanno una voce articolata, chiara e umana»9.
     Lo Pseudo-Callistene 10 (II, 32 e 36) racconta che Alessandro li incontrò e li confinò
dentro le porte del Caspio per il loro aspetto e le loro azioni terribili: «Ho trovato lì, verso
Aquilone – dice Alessandro – molti popoli che divoraravano carne umana e bevevano
come acqua il sangue di animali e fiere; e non seppellivano i loro morti, ma li
mangiavano. Io, al contemplare questi popoli perversi, timoroso che sostentandosi così
macchiassero la terra con la loro perversa empietà, ho elevato una preghiera a Dio e li ho
vinti e ho ucciso con la spada molti di essi, e ho sottoposto a cattività la loro terra» (III,
29).
     La mala fama dei cinocefali arrivò al medioevo e così a Colombo, che non poteva
certo aspettarsi del bene da «uomini tanto malvagi»; i quali giustamente figuravano tra i
ventidue popoli che il Macedone dovette confinare a causa delle loro perverse abitudini.

Le Amazzoni – Anch’esse compaiono nel Diario dell’Ammiraglio. Dapprima gli giunge
notizia che ad Est dell’isola Española c’era un’isola abitata da sole donne (p. 165), alla
quale poco dopo dà il nome di Matininó (p. 175). La sua intenzione era di portare ai
monarchi spagnoli «cinque o sei di esse. Ma dubitava che gli indios conoscessero bene la
rotta, e lui non poteva indugiare oltre» (p. 177). Ciò nonostante il racconto è chiaro: «Era
certa la loro esistenza e che, a un dato tempo dell’anno, andavano da esse gli uomini della
suddetta isola di Carib [...], e se partorivano un bambino lo inviavano all’isola degli
uomini, se una bambina, la tenevano con sé» (p. 177).
     Questo mito ha probabilmente le sue origini nella figurazione mitologica di lotte
costanti tra Europa ed Asia per l’egemonia mondiale; dove per l’Asia combattono anche
donne guerriere, che gli ellenici chiamarono «femmine con un sol seno». Erodoto le
colloca alle foci del fiume Termodonte, nella Meotide o mare di Azov. Per parte sua,
Diodoro Siculo le assegna all’africana Tritonide11. Il pensiero ellenistico le fece comparire
nelle campagne di Alessandro Magno, ma intessendo un romanzo tra il conquistatore e la
regina Telestride, che avrebbe dovuto condurre al miglioramento della stirpe; l’amazzone
gli si avvicina infatti per concepire un figlio con l’eroe12.
     Con il trascorrer del tempo, il mito si spostò verso oriente, passando i confini
dell’India. Questa nuova patria ha portato a raccordare le amazzoni con la tradizione
bramanica e il suo ascetismo. Sempre il romanzesco Pseudo-Callistene c’informa sul

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tema: «Gli uomini vivono dal lato dell’Oceano sull’altra riva del fiume Gange [...], mentre
le donne abitano dall’altro lato dell’India, su questa riva del fiume. Gli uomini passano
con le donne i mesi di luglio e agosto, perché sono questi da loro i mesi più freddi,
quando il sole si volge verso di noi e verso Aquilone, e si dice che sono anche i mesi di
maggior mitezza del clima ed eccitano così il desiderio. Dopo aver dimorato con le loro
spose quaranta giorni, riattraversano il fiume. Quando la donna ha partorito due figli,
l’uomo non attraversa più il fiume né si congiunge più con lei» 13.
       Sono le stesse donne guerriere che informano Alessandro: «Viviamo dentro il
fiume Amazzonico, ma non sull’altra riva, bensì nel suo centro. Il perimetro della nostra
terra ha una circonferenza pari a un anno di cammino, e il fiume è un circolo senza inizio.
Abbiamo un solo sbocco, dal quale usciamo. Abitiamo qui nel numero di 270.000 giovani
armate, senza che vi sia tra noi nessun maschio. Gli uomini risiedono dall’altro lato del
fiume, coltivando la terra, e con il nostro bestiame e i pastori. Ogni anno celebriamo la
festa dell’Ipofonia, nella quale sacrifichiamo [cavalli] a Zeus, Posidone, Efesto e Ares
durante trenta giorni. E quante di noi vogliono attraversare il fiume e congiungersi con
loro, sostano nelle loro case, e le bambine che nascono sono curate dagli uomini e passano
da noi al compiersi dei sette anni»14.
       Tutte queste fantasie s’intessono poi con l’apocrifa Lettera del Prete Gianni, coi
racconti di Marco Polo che seguono tradizioni arabe, con quelli di Niccolò dei Conti, con
l’Islario di Alonso de Santa Cruz, con altri15.

Gli uomini con la coda – Nell’anno 1493 Colombo affermò che nell’Española gli eran
rimaste da esplorare due province, «l’una delle quali chiamano Auán, dove nasce la gente
con la coda»16. Anche nel secondo viaggio, durante l’esplorazione di Cuba, e quando si
trovava nella provincia di Hornofay, sentì dire che nella provincia del Magón «tutta la
gente aveva la coda, e che a causa di questo io li avrei trovati tutti vestiti»17.
      La tradizione che collocava nel mare dell’India isole abitate da uomini con la coda
proveniva dall’antichità: Tolomeo colloca le tre isole dei Satiri a 171 gradi di longitudine
e 2 ½ di latitudine. Plinio li situa nelle montagne dell’India e lo Pseudo-Callistene non
manca di farli incontrare con Alessandro18.
      Marco Polo sapeva della loro esistenza e il mappamondo di Behaim li accolse, per
cui non c’è da meravigliarsi che «uno scopritore trovasse tali portenti nel corso dei suoi
viaggi»19.

Le Sirene – Il 9 gennaio 1493 (pp. 167-168) l’Ammiraglio vide «tre sirene, che uscirono
ben alte sul mare, ma non erano così belle come le si dipinge, e in nessun modo avevano
forma d’uomo nel viso». In realtà, come i marinai dell’epoca – i portoghesi soprattutto –
si confonde con le foche.

L’utopia-distopia dell’oro – Ora, tutto il bestiario che Colombo va descrivendo nel suo
percorso, che proviene dall’immaginario dell’antichità, e che si trova in un mappamondo
come La catalana del 1573 – e non tanto in Marco Polo – 20, null’altro era se non
l’insieme di prodigi che accompagnavano la sua ricerca dell’oro. Effettivamente Colombo
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solca le acque del Mar caraibico durante settimane perché vuol «trovare l’isola di
Cipango» (p. 65), nella certezza che «Nostro Signore gli mostri dove nasce l’oro» (p.
133). Perciò è sempre proteso alla scoperta dell’isola aurifera, l’Ofir biblica, che va
cambiando di nome a seconda delle infomazioni ricevute dagli indiani: Samaet, Cuba,
Baveque (pp. 70 e 71; 77 ss; 96 e 103).
        Quando la sua nave si perse nell’Española, nella notte del 25 dicembre 1492,
l’Ammiraglio pensò che la sua missione si era conclusa in quanto, miracolosamente,
«aveva già trovato quello che cercava» (p. 168); cioè aveva scoperto l’Ofir (identificata
con Cipango), isola alla quale lui aveva messo appunto il nome di Española.
    Un’antica leggenda raccolta da Erodoto21, raccontava che a nord dell’India si stendeva
un deserto nel quale le formiche, che là erano più grosse di una volpe, facevano le loro
gallerie scavando in sabbie aurifere; all’alba gl’indiani arrivavano con un traino di
cammelli per caricare i sacchi di sabbia prima che fossero stati fiutati da quei mostruosi
insetti, perché correvano grave pericolo se non riuscivano a fuggire a tempo. Una
tradizione simile raccontò Aristea di Proconneso riguardo agli Arimaspi, uomini con un
solo occhio, che lottavano coi grifi per il possesso dell’oro22. Quando la leggenda nell’età
ellenistica fu conosciuta dagli ebrei, essi localizzarono in questo deserto l’aurea Ofir;
però, non tanto persuasi dalle prosaiche formiche – per questa ragione, senza dubbio,
Ctesia 23 le aveva sostituite coi grifi – inventarono un essere ibrido, la «formica-leone»,
parola usata dai Settanta in Giobbe 4, 1124. Questa rettifica passò in Girolamo 25, che situa
nell’India «i monti d’oro» custoditi da dragoni, grifi e mostri di dimensione favolosa; da
Girolamo copiò la notizia Isidoro di Siviglia, e da Isidoro la presero i mappamondi
medievali.
      Dovutamente corretta, la leggenda diventò una dottrina canonica dei commentari
biblici. Vediamo ciò che dice la Glossa ordinaria 26: Ofir è «il nome di una provincia
dell’India, nella quale ci sono monti che hanno caverne d’oro, abitate però da leoni e
bestie crudelissime. Per questa ragione, nessuno ha il coraggio di avvicinarsi se non ha la
nave vicina alla costa come rifugio. Quindi, indagando l’ora nella quale si ritiravano le
suddette bestie, i navigatori uscivano subitamente e buttavano nella nave la sabbia scavata
dalle unghie dei leoni, e poi si allontanavano. Questa sabbia, poi, si getta in un forno e
tutto ciò che ha d’impurità si consuma per la forza del fuoco, e resta oro puro».
   Si comprende allora perché Colombo, che registrò puntualmente il passo di Niccolò di
Lira nel Libro delle profezie (f. 78r), credeva e faceva dire dagli indios che nell’isola da
loro chiamata Baveque «la gente raccoglie l’oro di notte a lume di candela, e poi con il
martello, si dice, ne fanno delle verghe» (12 nov., p. 93); o che vicino allEspañola «c’era
un’isola tutta d’oro, e altre ove l’oro si trova in tanta quantità, che nulla resta da fare se
non raccoglierlo e stacciarlo come con un vaglio, e lo fondono e ne fanno verghe» (18
dic., p. 136); isola che ancora nel Diario del secondo viaggio (nuovo testo, lett. II, p.
206), precisa che si trovava «in questa parte dei cannibali [...] e i tre quarti erano oro». La
ricerca clandestina dell’oro sulla costa è una curiosa ripresa della glossa biblica; più
conosciuta risulta invece la fusione dell’oro in lingotti.
    Evidentemente, l’Ammiraglio e i suoi uomini avevano una versione della leggenda che
era diventata con il tempo di comune dominio dei marinai. All’isola delle Sette Città,

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secondo quanto si raccontava nel ‘500, era arrivata una nave spinta dalla tempesta; e si
diceva che, mentre gli altri marinai della nave, ch’erano stati accolti a tavola dai cattolici
che vivevano nell’isola, pregavano contenti nella chiesa, «i mozzi raccolsero certa terra o
sabbia per il loro falò, e trovarono che gran parte di essa era oro»27. Questa isola delle
Sette Città, che si diceva fosse stata scoperta nel 1497 da marinai di Bristol, è una delle
tante varianti di Ofir, che i portoghesi situavano più vicino alla loro costa, nell’Atlantico.
Alvise di Ca’ de Mosto sentì parlare di un’isola appena scoperta, che era tutto un giardino
e dove «tutto quello che raccoglievano nella suddetta isola era oro»28. Poi la sua
localizzazione si spostò nel Pacifico: nel 1520 si diceva che sotto il governo di Pedrarias
Dávila si era trovata un’isola così ricca che si sarebbero potute sovraccaricar le navi d’oro
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  .
    Notizie così seducenti passarono presto le frontiere e arrivarono fino agli ultimi angoli
dell’Europa. Verso il 1518 Erasmo scriveva a Pedro Barbier, cappellano di Jean Le
Sauvage, che aspirava ad un episcopato nelle Indie, un’affettuosa lettera ironizzando sul
paese dei sogni del suo amico, dove si diceva che in alcune regioni il suolo era di oro puro
e che si poteva ammassarne nella quantità che ognuno volesse, senza aver paura delle
formiche mostruose né dei grifi che custodivano il così prezioso tesoro30. Poco dopo,
Pietro Martire31 scriveva che le navi di Magellano avevano trovato vicino all’Equatore
isole la cui sabbia era oro, Ofir e Tarsi alla cui ricerca partiva Caboto.
    Ofir in definitiva è un’entelecheia, cifra di tutte le ansie e aspirazioni umane; però di
codesta entelecheia sapevano molto gli uomini del Medioevo. Tutti avevano sentito
parlare di Ofir e tutti sapevano quello che ci si poteva aspettare da essa: oro e pericoli a
iosa.

«La nuova terra e il nuovo cielo» – La lettura dei classici diede a Colombo anche il
fondamento per convincersi che aveva navigato quasi la metà dell’emisfero ignoto a
Tolomeo, cioè 150 gradi terrestri. A questa convinzione corrispose un fatto immaginario
giacché, benché affermasse che era arrivato alle antipodi menzionate da Plinio32, in realtà
non era in grado di affermare se questo «altro mondo» designava l’altro emisfero
terracqueo. Di qui il suo ricercare nell’Antico Testamento i luoghi che potessero dar luce
alla sua impresa; dove è il profeta Isaia chi gli offre l’opportunità: «Per l’esecuzione
dell’impresa delle Indie non mi giovò ragione né matematica né mappamondi: si è
compiuto invece pienamente ciò che disse Isaia» 33.
       Orbene, a quale luogo profetico si riferisce Colombo? Molto si è discusso al
riguardo, ma è ancora molto ampio il ventaglio delle possibilità ermeneutiche che si
presenta, malgrado che l’Ammiraglio sia stato preciso nel segnalare che aveva realizzato
«un servizio del quale mai si sentì né si vide», perché Iddio l’aveva fatto messaggero «del
nuovo cielo e della nuova terra di cui aveva parlato Nostro Signore per bocca di Giovanni
nell’Apocalisse, dopo quanto detto per bocca di Isaia»34.
       Riflettiamo sulle due citazioni menzionate. Dice Isaia, nel passo di 65, 17 ss.:
«Ecco che io creerò dei cieli nuovi e una nuova terra, e non ci si ricorderà più del passato,
che non risalirà più al cuore. [...] Perché farò di Gerusalemme “gioia” e del suo popolo
“allegrezza”. [...] Come l’età degli alberi saranno i giorni del mio popolo [...]. Non
Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

peneranno più invano, non avranno più figli destinati a rovina [...]. Lupo e agnello
pascoleranno insieme, il leone mangerà paglia come il bue e il serpente si nutrirà di
polvere».
       A sua volta Giovanni si esprime nel modo seguente (21, 1 ss.): «E ho visto un
nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra sono scomparsi, e il
mare non esiste più. E ho visto la città santa, la nuova Gerusalemme, che discendeva dal
cielo, da presso Dio, bella come una giovane sposa preparata per il suo sposo».
       Le due citazioni si riferiscono all’avvento dell’era messianica, tradotto da Isaia
nella gioia terrena, e da Giovanni nell’apparizione della Gerusalemme celeste dove si
adempirà la gioia promessa. Colombo aveva interpretato i due versetti in senso letterale:
questo «nuovo cielo» fu visto da lui con i suoi propri occhi; e quella «nuova terra» fu
palpata con le sue mani. La sua scoperta segnerebbe l’inizio dell’era messianica – nota
Juan Gil –, e con questo tutti i suoi pensieri convergevano in ultima istanza su
Gerusalemme. Ad essa arriverebbero «nell’apoteosi finale le navi dalle isole del mare a
maggior gloria di Sion»35.

La ricostruzione della Casa di Gerusalemme – Sempre è stato presente nell’animo
dell’Ammiraglio il desiderio di conquistare Gerusalemme. In diverse occasioni esprime la
sua utopia: «E dice che spera in Dio che, al ritorno che intendeva fare dalla Castiglia,
avrebbe trovato una botte d’oro con cui avrebbero riscattato quelli che intendeva lasciare
lì, e che avrebbero trovato la cava dell’oro e la spezie, e ciò in tanta quantità, che i re
prima di tre anni avrebbero intrapreso la conquista della Casa Santa»; «che così ho
protestato alle Vostre Altezze, che tutto il guadagno di questa mia impresa si spendesse
nella conquista di Gerusalemme, e le Vostre Altezze ne sorrisero e dissero che lo
gradivano, e che senz’altro era questo il loro volere» (Doc. II, p. 101).
        Con la Lettera I precisa ancor meglio il suo intento e introduce alcune indicazioni
confermate dalla lettera inviata nell’anno 1502 ad Alessandro VI: «Concludo qui che [...]
da oggi a sette anni io potrò pagare a Vostra Altezza cinquemila cavalli e cinquantamila
fanti per la guerra e la conquista di Gerusalemme, poiché con tale proposito si avviò
questa impresa; e, tra altri cinque anni, altri cinquemila cavalli e cinquantamila fanti»
(Doc. LXI, p. 312).
    Il 22 febbraio 1496, quando istituisce il maggiorasco, Colombo insiste sulla medesima
utopia: «Quando mi mossi per andare alla scoperta delle Indie, fu con l’intenzione di
supplicare il re e la regina nostri signori che, dalla rendita che le Loro Altezze avrebbero
ricavato dalle Indie, si determinasse quanto si voleva spendere per la conquista di
Gerusalemme, e così li ho supplicati» (Doc. XIX, p. 197).
      Le sue idee, se non soffrono variazioni, vengono a decantarsi con il tempo e con le
avversità. Purtroppo il suo Libro delle Profezie è rimasto allo stato di abbozzo, e insieme
con i materiali raccolti fu distrutto al tempo di Ambrosio de Morales. La conquista di
Gerusalemme si trova sempre in primo luogo nella prospettiva dei tempi estremi. Dice,
nel Libro delle Profezie: «L’abate calabrese disse che doveva uscire dalla Spagna chi
doveva riedificare la Casa del monte Sion» (Doc. XLV, p. 281). E aggiunge, nella

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relazione del quarto viaggio: «Gerusalemme e il monte Sion dev’esser riedificato per la
mano di un cristiano: chi debba essere, Dio per bocca del profeta nel salmo quattordici lo
dice. L’abate Gioacchino disse ch’egli doveva uscire dalla Spagna» (Doc. XLVI, p. 327).
     Ebbene, insieme alla conquista di Gerusalemme – profezia annunziata dallo Pseudo
Metodio, letta avidamente da Pietro d’Ailly e annotata da Colombo (Raccolta, I, 2, pp.
108-109) – l’Ammiraglio sembra sognare anche la ricostruzione del Tempio di
Gerusalemme, fatto che non fu preconizzato da nessun Padre della Chiesa. Ancor più,
questa riedificazione sarebbe in contrasto con tutta la tradizione cristiana, giacché il
tempio era stato distrutto come castigo divino36, e così doveva rimanere sino alla fine dei
tempi. Negli ultimi giorni il Tempio sarà ricostruito, ma non per mani cristiane – come
affermava Colombo – bensì dall’Anticristo.
    Juan Gil pensa che in questa contraddizione si avverte che Colombo era stato educato
nella religione ebraica – essendo egli stesso ebreo –37; e forse così potrebbe spiegarsi il
fatto «che nella sua torturata personalità si imbrichino l’uomo d’azione, il mercante
(perfino di schiavi) e il visionario; perché, come dice Las Casas, «tutta la sua vita fu un
faticoso martirio»38.
     È anche vero che una certa contraddizione affiora in questa analisi: Colombo mai
indicò un suo approssimarsi alla Terra Santa; al contrario, le Indie richiamarono la sua
esclusiva attenzione. Tuttavia, a suo giudizio, la terra alla quale era arrivato non era altro
che la mitica Tarsi 39, da dove una volta ogni tre anni venivano navi per portare al re
Salomone oro, argento, avorio, scimmie e pavoni (I Re, 10, 22; II Cron., 9, 21). Perciò nel
Libro delle Profezie riunisce tutte le testimonianze bibliche riferite a Tarsi e a Ofir, situati
in quell’«India» che ora si apriva alla storia occidentale.
    In un nuovo testo – l’ottava lettera ai sovrani (J. Gil, Op. cit., p. 213) – del 3 febbraio
1500, scriveva nuovamente: «Io aspetto la vittoria di quel vero Iddio, il quale è trino e
uno, e pieno di carità e di sapienza; così come miracolosamente mi ha dato ogni altra cosa
contro l’opinione di tutto il mondo, gli piacerà ora che, come il tempio di Gerusalemme fu
edificato con legno e oro di Ofir, così con quello stesso si restauri la Chiesa Santa, e lo si
riedifichi più maestoso di quello che era prima».

       In apparenza si esprimerebbe qui la fiducia nella riedificazione del Tempio grazie
all’oro di Ofir, in una miscela strana di credenze antagonistiche che formano il suo
singolare sincretismo religioso. Vediamo ora il vaticinio di Isaia, il profeta che Colombo
seguiva con gusto sulla Gerusalemme futura, ma non nella versione della Volgata (60, 1
ss. – Raccolta I, 2, pp. 116-117), bensì nel testo ebraico: «Alzati, risplendi, perché è
giunta la luce, e la gloria di Jahvéh s’innalza su di te. [...] Alza intorno i tuoi occhi e
guarda: tutti si riuniscono e vengono a te [cioè a Gerusalemme...]. Chi sono coloro che
volano come una nuvola e come colombe alle loro colombaie? Sì, per me le navi si
raccolgono, con le navi di Tarsi [cioè delle Indie] alla testa, per riportare i tuoi figli da
lontano col loro argento e il loro oro, per il nome di Jahvéh il tuo Dio, per il Santo di
Israele che ti glorifica. Figli stranieri [cioè i Re Cattolici] ricostruiranno allora le tue mura
[quelle di Gerusalemme] e i loro re ti serviranno. Perché nella mia collera io ti ho colpita,
ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te».
Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

     Di nuovo Gerusalemme e le Indie. Infatti le profezie di Isaia si compiono per
Colombo, ma non in senso cristiano, bensì ebraico, perché Iddio «va inteso alla lettera»,
come scrive dalla Giamaica (Doc. LXVI, p. 323): il Messia sta per arrivare, e i bastimenti
delle Indie, carichi d’oro e argento, devono trasportare prima gli ebrei dispersi verso
Gerusalemme, la cui ricostruzione per opera di Isabella e Ferdinando è immediata. E
allora, in quel futuro gioioso, non sarà lui, Colombo, lo straniero, ma i monarchi al cui
servizio si trova40.
     Al riguardo, J. Gil va ancor più avanti in queste considerazioni. A suo parere lo stesso
Colombo aveva proclamato che gl’indios americani non erano se non i resti delle dieci
tribù perdute di Israele: credenza ebraica che, intrecciandosi con quella corrispondente
cristiana, ottenne maggior appoggio e autorità41.

Alessandro Magno e la porta di ferro – Secondo un’antica tradizione, di probabile
origine siriaca, raccolta dallo Pseudo-Callistene 42 e dallo Pseudo-Metodio43, Alessandro
Magno, spaventato dalla bellicosità di alcuni popoli che aveva trovato ai confini
dell’Asia, avendoli sconfitti e rinchiusi in un circo di montagne, sbarrò l’unico passo, per
evitare futuri disordini e violenze, con una porta di ferro dalla quale non potevano uscire,
perché il Macedone l’unse con un magico catrame, l’incombustibile «asiceto», resistente
anche al filo della spada. Si trattava di 22 popoli, i quali avrebbero distrutto la terra
nell’ultima età del mondo, poco prima dell’apparizione dell’Anticristo. Aprivano la sua
lista i biblici Gog e Magog, e però ingrossavano il tenebroso esercito i più classici e non
meno mostruosi cinocefali, insieme ad altre stirpi dai nomi più consueti, come sarmati e
alani. L’apparizione minacciosa dei barbari aveva fatto pensare alla fine del mondo; si
arrivò poi a trovare una connessione etimologica tra Gog e goti44; tuttavia nessun testo
latino dell’epoca fa menzione della porta di ferro, citata solo alla fine del secolo V e che
prima, nell’Impero d’Oriente, era stata evocata in un sermone attribuito a Efrem Siro. La
leggenda, appoggiata da una storia e da un vaticinio, i due apocrifi, ha goduto di grande
popolarità, al punto che anche Maometto ne parla come del carcere secolare di Gog e
Magog, nella sura 18, 83-98 del Corano. La fantasia occidentale immaginò che attraverso
quel passaggio si fossero riversati i flagelli che avevano distrutto il suolo europeo,
cominciando dagli unni45, seguiti dagli ungari46 e dai tartari; a giudizio tanto dei cristiani,
cattolici47 o monofisiti48, quanto degli stessi ebrei49, e infine dei turchi50.
     Come si può vedere, i popoli della escatologia biblica andarono retrocedendo via via
che progredivano le conoscenze geografiche e cambiavano le circostanze politiche. In un
primo momento la chiusura di ferro fu situata sul passo di Derbent, alle porte del
Caucaso51; poi queste si confusero con le porte del Caspio; finalmente si arrivò fino alla
grande muraglia cinese52, che conteneva i tatari i quali in Europa, per il loro lugubre
rapporto con il diabolico Tartaro, avevano ricevuto il più appropriato nome di tartari.
    Con il passar del tempo nella leggenda s’introdusse un’altra variazione fondamentale.
Dapprima i popoli racchiusi da Alessandro non avevano nulla a che vedere con gli ebrei;
ciononostante in seguito prevalse la tendenza ad assimilare le dieci tribù perdute con
quelle orde selvagge trattenute dalla porta del Macedone. La leggenda si diffuse nell’Età
Media, passando nel secolo XII a far parte di un manuale di ampia risonanza nella cultura

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europea come la Storia scolastica di Pietro Comestore53; un secolo dopo fu raccolta nel
Poema di Alessandro, che concorse ad ampliare l’Alexandreis di Gualtiero di Châtillon54,
accrescendo l’antisemitismo popolare.
    La stessa leggenda si fece palpitante realtà nel secolo XVI, a causa delle nuove
scoperte. In Asia, l’esistenza delle dieci tribù intrigò molto Francesco Saverio, quando
sentì dire da un cinese «che nella sua terra c’era molta gente tra le montagne, separata
dall’altra gente, la quale non mangia carne di porco e osserva molte feste»55. E però era il
Nuovo Mondo, come è logico, la terra che risvegliava più illusioni e aspettative. In
conseguenza di tutto questo, la nuova geografia sorta dalle scoperte veniva a intrecciarsi
con l’escatologia: se gli ebrei perduti si trovavano in qualche parte del globo terrestre, per
forza si dovevano cercare in quelle Indie che a poco a poco andavano svelando i loro
segreti millenari. Questa è l’idea che, come si è detto, ha dato impulso a Colombo; tanto
più che il Nuovo Mondo si annunziava come Asia, secondo la sua dottrina, la cui certezza
era confermata da nuove osservazioni che venivano dal circolo degl’intimi dello
scopritore, come dallo stesso Ammiraglio in persona. Cuneo56 annotò che gl’indiani
avevano «la testa piatta e il viso mongolico»; e un’identica osservazione si legge negli
scritti di Vespucci57: i nativi si caratterizzano per la loro «faccia larga, somigliante a
quella dei tartari». Non c’era dubbio che si era arrivati all’estremo d’Oriente, dove si
trovava la maggior parte degli ebrei separati dai loro fratelli. Con il passar del tempo, fra
Diego Durán dedicò il primo capitolo della sua Historia de las Indias de Nueva España58
a dimostrare che gl’indios erano i resti delle dieci tribù perdute, e alla dimostrazione della
stessa teoria consacrò un libro curiosissimo il domenicano Gregorio Garcia59: gli ebrei,
provenienti dalla Mongolia o dalla Cina, passarono al Nuovo Mondo per lo stretto di
Anian, sicché non fa meraviglia che le caratteristiche degli indiani – «così timidi e
paurosi sono, così cerimoniosi, acuti, bugiardi e inclini all’idolatria»60 –, corrispondano a
fattezze e abitudini ebraiche. Indubbiamente tutti questi stimoli dovettero operare su
Cristoforo Colombo. Poi la stessa essenza del mito, aiutata dalle circostanze, illuminò
nuovi e più effimeri derivati in suolo indiano; fu così che, su minor scala e con minore
prestigio, si parlò dei «perduti di Ordás» o dei «perduti dello Stretto».

La fonte della giovinezza – Orbene, mentre la ricerca di Tarsi e Ofir, con tutto quello che
implicava, non poteva scomparire dal pensiero ebraico-cristiano nell’età delle grandi
scoperte senza che cadessero allo stesso tempo altri fondamentali pilastri della visione
religiosa di allora, altre credenze, al contrario, sono più volatili ma non di minore
importanza. Così succede con la ferma convinzione che c’era una fonte della giovinezza,
convinzione che pur si riaffaccia in questa età dell’esplorazione dei territori indiani. Come
al solito, il prodigio si localizza in un’isola, vicina o identica a Tarsi/Ofir, secondo la nota
tendenza ad accumulare e concentrare i portenti in un sol luogo. In definitiva, tale attesa
veniva imposta dalla logica: nelle vicinanze del Paradiso Terrestre si troverebbe una fonte
che poteva riparare, se non la vita, almeno le inquinate energie degli umani. Tutto era
possibile negli arcipelaghi del Nuovo Mondo, le «isole del mare» delle quali tanto
avevano parlato i profeti, come allora molti credevano, a cominciare proprio
dall’Ammiraglio.
Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

       I problemi che presentò la sistemazione dell’isola Española non permisero
dapprima di realizzare nuove conquiste; inoltre, quella era l’isola dove si pensava ci fosse
l’oro in quantità, mentre la realtà era in genere un’altra: i minatori si facevano ricchi con
la ricerca del metallo attraverso il lavoro degli schiavi e poi quell’oro passava in mano ai
mercanti, che ammassavano fortune ingenti con la sola vendita dei loro prodotti ai coloni,
a prezzi abusivi. Solo negli ultimi anni del suo governo, quando le condizioni economiche
e sociali cominciarono a cambiare, fu Ovando che pensò alla conquista delle isole vicine,
come San Juan, la più importante per la sua posizione strategica, per la dimensione, la
popolazione non caraibica. Che non mancò di esercitare una seduzione su di un bastardo
della casa di Arcos, Juan Ponce de León, «scudiero povero[...], e in Spagna educato da
Pedro Nuñez de Guzmán, fratello di Ramiro Nuñez, signore del Toral»61. Installato
nell’isola, Juan Ponce, oltre a sfruttare le miniere d’oro, consacrò buona parte dei suoi
sforzi in incursioni nelle isole vicine. Sappiamo che da Santa Cruz, nel 1509, portò alcuni
cannibali, esito del quale il reggente si sentì molto felice62, in chiara opposizione con la
totale ripulsa che mostrò Ferdinando il Cattolico un anno dopo, quando Nicuesa fece la
stessa cosa nella medesima isola63. Il 27 maggio del 1513 scopriva la Florida, terra alla
quale dedicò i suoi maggiori sforzi per completare la sua impresa e per popolarla.
       Nei suoi ritorni in Spagna, soprattutto nell’anno 1514, Juan Ponce disse molte cose
meravigliose sulla nuova terra scoperta, tra le quali che in essa c’era una fonte che
restituiva la gioventù. Era questo un antico mito, la cui eco si poteva sentire nelle
credenze di molti e diversi popoli. Erodoto 64 ci informa che gli etiopi vivevano di norma
120 anni, prendendo come alimento carne cotta e latte; e quando alcuni Ittiofagi, inviati
dal re persiano Cambise, si meravigliarono della loro longevità, gli etiopi li condussero a
una fonte che rendeva il corpo brillante e impregnato di un profumo come di viola; come
se la sua acqua, di minor densità di quella normale, fosse un olio essenziale. Grazie al
bagno in questa sorgente, raggiungevano quella età così matura65. Allo stesso modo gli
iranici credevano nell’esistenza di una fonte di vita, Adnisur, citata nell’Avesta66.
       Questo magico elisire fu posto assai presto in relazione con un’isola. Già
nell’antichità greca circolavano vaghe notizie sull’esistenza di isole dalle quali si poteva
fermare il passo del tempo: ricordiamo la promessa d’immortalità con la quale Calipso
tentava di trattenere a Ulisse nell’isola Ogigia, situata «nell’ombellico del mare»67, cioè
nel luogo più sacro del mondo, in modo analogo a Delfi e Gerusalemme; e Calipso non
sembra essere se non una replica della mesopotamica Siduri, «la coppiera», anch’essa
abitante di un’isola e anch’essa datrice di vita eterna, in quanto indica a Gilgamesh la
strada che attraverso le acque della morte lo condurrà fino a Utnapishtim. Questo
privilegiato rifugio insulare, protezione e redenzione dal comune destino riservato agli
umani, sopravvive e perdura lungo i secoli: nei mappamondi del medioevo compare di
quando in quando «un’isola di Giove (insula Iouis) o dell’Immortalità, nella quale non
muore nessuno»68.

       Il sogno di aver raggiunto il paese dell’eterna giovinezza afferrò l’immaginazione
di Cristoforo Colombo quando arrivò all’isola di Guanahaní abitata dai Lucayos. Come
scrive nel suo Diario, gli indios che andarono a riceverlo erano molto belli: «Non ne vidi

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nessuno che fosse maggiore di trent’anni»; vale a dire che gli isolani non superavano l’età
considerata «perfetta» nelle vecchie concezioni ebraiche, molto presto accolte dal
cristianesimo69. Per Colombo, tanto gli uomini quanto le donne si trovavano in una
meravigliosa primavera, idea che riappare molte volte nel suo Diario: gli alberi erano
verdi e con le foglie, come «nei mesi di aprile e di maggio»70, e c’era «molta acqua».
       Si scopre, pertanto, un mondo vergine e come neonato, giacché nell’equinozio di
primavera era stato creato l’universo, secondo l’opinione di molti Padri della Chiesa e di
non pochi rabbini. In queste isole Colombo non avverte nessuno di quegl’indizi che
annunziano decadenza fisica e vecchiaia; al contrario, tutto gli si presenta sorridente e
bello, un verde perenne, in perpetua gioventù71. E sembra che risalga proprio
all’Ammiraglio l’equiparazione che fece poi Las Casas dei Lucayos con i Seres, quei
Seres pieni di giustizia e insediati ai confini del mondo, da dove Colombo aspettava forse
la venuta del Messia.
       La medesima ossessione perseguitò altri navigatori del suo tempo. In una lettera
scritta a Lisbona nel 1502 Vespucci annotò che gli indiani che abitavano la nuova terra
scoperta vivevano moltissimi anni, fino a 1700 mesi lunari, «che mi pare siano 132 anni,
contando 13 mesi lunari all’anno»72. Accade che il fiorentino, muovendosi nel solco delle
idee colombiane, pensasse di aver trovato il Paradiso, perché nessun uomo
dell’equipaggio si era ammalato nei dieci mesi che passarono in quella regione.
       Non sempre le parole di Juan Ponce furono accettate. Pietro Martire segnala che
l’isola chiamata Boyuca o Ananeo (Anagneo) si trovava a 325 leghe a nord dell’Española;
e prosegue dicendo che, quantunque non pochi uomini autorevoli, studiosi e possidenti,
dessero credito in Spagna alla favola della fonte di giovinezza, lui, scrivendo nel dicembre
del 1514, non riteneva che tale prerogativa, propria esclusivamente di Dio, fosse stata
concessa alla natura; «a meno che non pensiamo che il mito della Colchide sul
ringiovanimento di Giasone fosse solo sulle foglie della Sibilla», questa è la verità.
       Né Pietro Martire fu l’unico a non credere alla sorprendente novità che Juan Ponce
portava dalle Indie. Si può pensare, e non senza fondamento, che anche Diego Álvarez
Chanca, il medico del secondo viaggio colombiano, manifestasse il suo parere contrario a
queste dicerie in un libro apparso a Siviglia in quel medesimo anno 1514: il Commentum
nouum in parabolis diui Arnaldi de Villanova.
       Verso il 1526, Vazquez de Ayllón ottenne un ampio potere di convocazione per
formare un’armata che si sarebbe recata in alcune terre situate a 35, 36 e 37 gradi a nord
dell’Española (Xapida), terre che nella loro maggioranza erano rette da un cacicco di
statura gigantesca; oltre ad essere molto ricche, fertili, pronte per popolarsi. Ma non
finivano qui i pregi di quella regione: i nativi vivevano a lungo, raggiungendo una
vecchiaia robusta, perché guarivano le loro malattie senza particolari difficoltà, usando
erbe salutifere. In terraferma, si battezzò con il nome di Giordano il fiume dove si sistemò
una popolazione che si trasferì poi fino al porto di San Miguel73.
       Quello che si deve notare qui è l’abilità con la quale Ayllón incantò l’uditorio della
Corte, accompagnando la sua parola con la presenza di un indiano – Francesco – di grandi
doti istrioniche nell’esaltare le meraviglie della sua terra. Anche il mito aiuta Ayllón: il
fiume di San Giovanni Battista diventa il rio Jordán, con un passaggio non privo di logica,
Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

ma con una carica concettuale maggiore. Non è questa la prima volta che un fiume delle
Indie riceverà questo nome di risonanza incalcolabile. Vespucci aveva usato questa
denominazione in uno dei suoi viaggi, secondo L. Hugues74, per aver scoperto la corrente
fluviale che così chiamò il 13 gennaio 1501, giorno del battesimo di Gesù; ma Levillier75,
che identifica, con la maggioranza degli storiografi76, questo Giordano con il Rio de La
Plata, pensa che Vespucci l’avvistò «tra la seconda e la terza settimana del marzo 1502»,
né si arrischia a dare una spiegazione dell’idronimo. Orbene, il fiume Giordano
simboleggia il battesimo, cioè rappresenta un rinascere; e questa rinascita spirituale
facilmente si collega, nella mentalità popolare, con la rinascita del corpo, e pertanto con
l’eterna giovinezza.
       Già al tempo di Gregorio di Tours77, il bagno nel Giordano comporta non solo un
rinnovamento spirituale, ma anche una rigenerazione corporea: nel luogo dove fu
battezzato il Cristo si guarivano i lebbrosi dalla loro infermità, e nel giorno dell’Epifania
tutti si bagnavano nel fiume «per lavare tanto le ferite del corpo quanto le cicatrici
dell’anima». Nella fonte del Giordano si cala precisamente ogni sette anni, ogni settimana
cosmica, il mitico personaggio ebraico Giovanni d’Espera in Dio, per conservare sempre
la stessa età78, quella che nel Crotalón è considerata l’età perfetta, i 33 anni, l’età nella
quale morì il Cristo e ha da resuscitare l’uomo. Per questo motivo nessuno disdegna di
accorrere alle rive del Giordano, nelle cui acque ci si può liberare dalla vecchiaia.
       Ciò premesso, nella navigazione del 1515 non si era scoperto nessun Giordano.
Alla terra, sì, era stato dato il nome di Florida, sia perché era stata scoperta nel tempo di
Pasqua, sia per il suo colore verde; un altro fiume fu chiamato della Croce, indubbiamente
perché sulle sue rive si piantò una colonna cruciforme. In seguito si affermò – così fece lo
stesso Hernando de Escalante Fontaneda79 – che Juan Ponce in Florida era andato alla
ricerca del fiume Giordano che rendeva giovani i vecchi; si tratta, come si vede, di una
favola molto posteriore alla visita di Ayllón, nella quale tanto si parlò delle portentose
qualità del fiume.
       In effetti, Escalante, che era stato prigioniero tra gli indios della Florida dai 13 ai 30
anni, perché nel 1551 il galeone su cui suo padre lo inviava da Cartagena era naufragato,
scriveva dopo il 157480. L’autorità della leggenda lo spinse a bagnarsi in molti fiumi
senza riuscire a imbattersi nel Giordano; che era cosa da burla, o forse un fatto di
«brucon» – di «devozione», come diceva Escalante nel suo pittoresco spagnolo – degli
indios di Cuba, che furono così tanti a passare in Florida per «adempiere la legge», che il
padre del cacicco Carlo poté riunirli in un pueblo. Così si razionalizzò il mito, attribuendo
a una superstizione indigena quella che era stata una ferma credenza dei cristiani. Dalla
Florida, concludeva l’antico prigioniero, l’unica cosa che si poteva sperare erano le perle,
soprattutto tra Abalachi e Oleogle, nel fiume chiamato «Guasaca esguique», cioè «fiume
di canne».
       Al fiume Giordano arrivarono poi gli spagnoli una prima e una seconda volta; tra
essi il pilota Gonzalo Gayón, che fece diversi viaggi di esplorazione tra le coste della
Florida; prima con il capitano Juan de Rentería, verso il 1558, un anno dopo con Don
Tristán de Arellano e infine con Hernando Manrique de Rojas nel 156481. Molte dicerie
correvano sulle qualità miracolose di questo fiume. Raccontava Castro che il padre di un

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