FELLINI METAFISICO La riconciliazione tra sogno e realtà - Monica Vincenzi - Luigi Casa - Armando Editore

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Monica Vincenzi – Luigi Casa

                       FELLINI METAFISICO
                    La riconciliazione tra sogno e realtà

                                                  ARMANDO
                                                   EDITORE

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Sommario

             Capitolo primo
             Lo Sceicco Bianco                     10

             Capitolo secondo
             I vitelloni                           20

             Capitolo terzo
             La strada                             33

             Capitolo quarto
             Il bidone                             46

             Capitolo quinto
             La notti di Cabiria                   52

             Capitolo sesto
             La dolce vita                         67

             Capitolo settimo
             Le tentazioni del dottor Antonio      93

             Capitolo ottavo
             Otto e 1/2                           100

             Capitolo nono
             Giulietta degli spiriti              132

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Capitolo decimo
             Fellini Satyricon                    163

             Capitolo undicesimo
             I clowns                             186

             Capitolo dodicesimo
             Fellini Roma                         221

             Capitolo tredicesimo
             Amarcord                             240

             Capitolo quattordicesimo
             Il Casanova di Federico Fellini      256

             Capitolo quindicesimo
             Prova d’orchestra                    291

             Capitolo sedicesimo
             La città delle donne                 309

             Capitolo diciassettesimo
             E la nave va                         329

             Capitolo diciottesimo
             Ginger e Fred                        352

             Capitolo diciannovesimo
             Intervista                           370

             Capitolo ventesimo
             La voce della luna                   392

             Bibliografia                         414

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Federico Fellini è stato davvero un poeta e anche molto altro:
             uno dei registi più famosi della storia del cinema. Ciò che anco-
             ra oggi stupisce maggiormente assistendo ai suoi film è tuttavia
             quanto sia stato abile nel descrivere le varie sfaccettature dell’a-
             nimo umano e “profetico” nell’intuire aspetti della realtà che ora
             tutti possiamo vedere.
                 Vogliamo dedicare questo libro al Maestro riminese e a sua
             moglie Giulietta per ringraziarli delle opere che hanno realizzato.
             I loro film, oltre ad essere capolavori, contengono una miriade di
             personaggi e di simboli che si manifestano spesso in una dimen-
             sione metafisica del reale.
                 Cercheremo di analizzare le opere più importanti per tentare
             di comprenderle un pochino di più e di tradurle in insegnamenti
             pratici per la vita di ogni giorno.
                 La dimensione metafisica ci conduce direttamente all’essenza
             dei fenomeni e dell’arte, in definitiva della vita e della natura uma-
             na in genere. In questo caso ci mostra la struttura dei film nei loro
             aspetti di contenuti, di trame, di contesti relazionali nei quali i per-
             sonaggi si muovono e di significati archetipici che rappresentano.
             Pensiamo che a Federico interessasse che il pubblico si potesse
             rispecchiare nei suoi personaggi e potesse, a seconda delle pro-
             prie caratteristiche, fare qualche collegamento con la propria vita,
             qualche riflessione personale che lo potesse condurre a raggiun-
             gere maggiori consapevolezze, soprattutto sui condizionamenti
             familiari, sociali, religiosi e politici ricevuti nell’infanzia.
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Fellini stesso ha affermato in molte interviste che qualunque
             storia, qualunque personaggio ha questa potenzialità, purché l’ar-
             tista sia sincero nel proporre ciò che anche lui sente risuonare in
             se stesso con semplicità, trattando i temi universali che ci riguar-
             dano tutti, come la paura, la rabbia, l’amore, i condizionamenti
             di ogni genere, le difficoltà quotidiane, le storie familiari, eccete-
             ra, facendo attenzione a raccontare solamente ciò che si conosce
             bene o che ci riguarda da vicino. I miti sembrano molto presenti
             nei suoi film, fra i quali ad esempio quello di Amore e Psiche,
             come lo descrive la favola di Apuleio, e molti altri.
                 Certamente il lunghissimo sodalizio sentimentale e artistico con
             la moglie Giulietta Masina, durato cinquant’anni, ha favorito tutto
             questo. Infatti Federico e Giulietta, come Amore e Psiche, hanno
             superato molte prove, ma hanno anche vissuto una vita coronata
             da una miriade di successi e soddisfazioni, in coppia. Il loro rap-
             porto li ha arricchiti di energia preziosissima, da ogni punto di vi-
             sta. Sono stati infatti una delle coppie più famose della storia del
             cinema e non solo…Come Psiche hanno faticato per raggiungere
             traguardi forse da loro stessi considerati impossibili o neppure im-
             maginati. La lezione principale che Federico e Giulietta ci hanno
             lasciato è in fondo questa: non fermarsi all’apparenza dei feno-
             meni, ma cercarne l’essenza per ricavarne messaggi che ci possa-
             no guidare nella vita di tutti i giorni, seguendo sempre la propria
             strada, senza lasciarsi scoraggiare dai contrasti di vario genere che
             si possano incontrare. L’hanno fatto con grande maestria, umiltà
             e costanza nello stesso tempo, come dimostra lo sforzo analitico
             eccezionale per l’intensità, la durata e la cura che ha portato alla
             stesura del “Libro dei sogni”, evocativo quasi quanto il “Libro ros-
             so” di Carl Gustav Jung. Abbiamo avuto la fortuna di sfogliarli
             entrambi in due diverse mostre: il secondo alla biennale di Venezia
             nel 2013, nel padiglione interamente dedicato al grande psichiatra
             svizzero, il primo in un’altra biennale, quella del disegno a Rimi-
             ni nel 2014. La similarità tra queste due eccezionali opere ci ha
             colpiti, pur avendo come autori due personaggi così diversi e così
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allo stesso tempo simili. Infatti, dopo il film “La strada”, l’incontro
             con lo psicanalista Ernst Bernhard, allievo diretto di Jung, ha dato
             una svolta significativa sia alla vita di Federico che alla sua produ-
             zione artistica. Una curiosità, che gli interessati forse chiamereb-
             bero “sincronicità”, termine junghiano per definire le coincidenze
             significative, riguarda la casa romana in via Gregoriana 12 in cui
             abitava l’analista che Fellini ha frequentato molto assiduamente
             per quattro anni: questa è ora la casa di Dante Ferretti, grande col-
             laboratore del regista, tre volte Premio Oscar per la scenografia, a
             simboleggiare che l’abitazione continua a vivere in contatto con
             il mondo del cinema, dato lo stretto legame fra Fellini e Ferretti,
             come si evince dalle sue stesse parole, in occasione della mostra
             “Labirinto Fellini”, tenutasi a Roma nel gennaio del 2011. “Federi-
             co Fellini è stato il più grande maestro del mondo. Io sono stato lo
             scenografo che ha realizzato i suoi sogni” – spiega Dante Ferretti –
             “Con Fellini le misure erano sempre più grandi della realtà, perché
             lui diceva: il sogno dilata le cose”. E prosegue: “L’apporto che uno
             scenografo doveva dare, era realizzare quello che lui voleva, per-
             ché Fellini ha sempre raccontato se stesso, la sua vita, vista in tante
             maniere. Sono stato prigioniero di Fellini. Uno doveva entrare den-
             tro la capoccia di Fellini, stare lì, vivere dentro il suo cervello e poi
             uscire da un orecchio e cominciare a lavorare. Lui faceva schizzi,
             disegnava, perché raccontava un suo mondo”.
                 Queste invece le parole di Fellini stesso per ricordare quella
             casa in via Gregoriana: “…ci siamo visti molto spesso, a volte
             anche fuori dal suo studio. Bernhard mi ha sempre ispirato un
             sentimento di grande pace”. E poi: “…L’immagine del suo studio
             in via Gregoriana. L’ora in cui lo andavo a trovare più volentieri
             era quella del tramonto, quindi c’era un sole che a un certo mo-
             mento rendeva tutto dorato il pulviscolo della stanza. C’erano
             grandi finestre e l’occhio si perdeva su un panorama sterminato
             di Roma, mentre giungevano i rintocchi di tutti i campanili. Sem-
             brava di essere in una mongolfiera sospesa nell’aria”.
                 Quanta poesia…
                                                                                    9

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Capitolo primo
             Lo Sceicco Bianco

                 “Lo Sceicco Bianco”, del 1952, è la prima opera della quale
             Fellini ha la responsabilità totale come regista. Nel dopoguerra
             Federico, che era nato a Rimini il 20 gennaio del 1920 e si era poi
             trasferito nel 1939 a Roma per continuare la sua carriera di cari-
             caturista, vignettista e giornalista, iniziata nella sua città d’origine
             e poi proseguita a Firenze, fu tra i protagonisti del Neorealismo.
             Nella capitale collaborò come sceneggiatore a molti capolavori,
             fra i quali “Roma città aperta” e “Paisà” di Roberto Rossellini.
             Scrisse per Pietro Germi, Alberto Lattuada e Luigi Comencini.
             La sua prima opera da regista in realtà è “Luci del varietà”, del
             1950, ma in collaborazione con Lattuada. Il film ha un esito ne-
             gativo, specie dal punto di vista finanziario, e i due registi, che si
             erano autofinanziati, alla fine si ritrovano pesantemente indebita-
             ti, a causa dei deludenti incassi.
                 Può essere interessante sottolineare i diversi percorsi artistici
             dei due registi: per Fellini quello più giornalistico appena descritto,
             per Lattuada quello dall’architettura e dalla fotografia, a dimostra-
             zione di come percorsi diversi possano portare a risultati simili.
                 A proposito de “Lo Sceicco Bianco” proponiamo subito una
             nostra ipotesi, e cioè che i protagonisti Ivan e Wanda, la coppia
             di giovani sposi che approdano a Roma per il viaggio di nozze,
             ma anche per far visita a importanti parenti dello sposo, possa-
             no rappresentare gli archetipi Maschile e Femminile del regista

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stesso. Ivan può simboleggiare la sua parte maschile ideale, cioè
             quello che la famiglia d’origine avrebbe desiderato per lui, quin-
             di un ragazzo preciso, metodico e rispettoso delle regole sociali,
             che desidera diventare in fretta segretario comunale, forse grazie
             anche all’aiuto dello zio. Dalle informazioni sulla biografia di
             Federico, sappiamo che il padre, Urbano Fellini, lo avrebbe visto
             volentieri come medico o avvocato (come l’amico Titta Benzi), e
             la madre magari addirittura come prelato (“Vescovo di Rimini”).
             Il personaggio di Ivan infatti, fin dalle prime scene, contatta lo
             zio influente, funzionario in Vaticano, che gli ha già organizzato
             una visita dal Papa assieme ad altre giovani coppie per ricevere
             la benedizione.
                 Il personaggio di Wanda, invece, può rappresentare l’archeti-
             po del Femminile del regista, inteso come creatività e tendenza
             a rifugiarsi in un’atmosfera di sogno, dato che la ragazza ricorda
             un po’ l’esordio che Federico Fellini ebbe nella sua vita personale
             quando, nel 1939, “fuggì” dalla provincia, ufficialmente per iscri-
             versi alla Facoltà di Giurisprudenza, ma in realtà per intraprende-
             re una carriera da giornalista e caricaturista. Non dimentichiamo
             inoltre che la madre, Ida Barbiani, era di origine romana.
                 È singolare che il personaggio di Wanda arrivi a Roma con
             dei disegni arrotolati in valigia, con l’intenzione di mostrarli al
             suo beniamino, cioè Fernando Rivoli, ovvero lo “Sceicco Bian-
             co”, divo dei fotoromanzi che lei legge appassionatamente. An-
             che Federico arrivò a Roma con dei disegni in una cartella, ma
             per mostrarli al direttore del Marc’Aurelio, rivista satirica molto
             popolare che lui stesso leggeva nella sua Rimini. Da questi par-
             ticolari possiamo dedurre che il Maestro abbia inconsciamente
             trasferito in entrambi i personaggi alcune sue caratteristiche per-
             sonali. Fellini nel 1952 sembra ancora elaborare i sensi di colpa
             per la sua “fuga” dalla provincia, dalla Rimini dell’adolescenza,
             città da un lato molto amata e piena di amici cui voleva bene, ma
             della quale mal sopportava la noia nella lunga stagione inverna-
             le. Il personaggio femminile ha le stesse passioni che il regista
                                                                             11

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ha avuto fin dall’infanzia, cioè la lettura e le storie rappresentate
             con immagini. Infatti sembra che, fin da piccolo, amasse stare in
             disparte a leggere, a disegnare, a costruire burattini e a fantasti-
             care, mentre nell’adolescenza frequentava il Cinema Fulgor, per
             il gestore del quale disegnava ritratti degli attori più famosi. Lo
             stesso regista racconta che a volte usciva di nascosto di casa per
             recarsi al cinema. Wanda può quindi rappresentare anche i ten-
             tativi di “soluzione” alle inquietudini adolescenziali del giovane
             Fellini, troppo indipendente per assoggettarsi alle rigide regole
             scolastiche, tema poi sviluppato nel famosissimo “Amarcord”.
             Egli sentiva in sé una fortissima pulsione creativa che non avreb-
             be potuto espletare in provincia.
                 Come dice Maurizio Porro in una presentazione al film, in
             questa pellicola sono già presenti in nuce i temi della poetica fel-
             liniana, a cominciare dal significato simbolico che viene dato ai
             nomi dei personaggi e dei luoghi, nonché dal valore evocativo e
             salvifico della musica, tema che sarà dominante in “Prova d’or-
             chestra” e ne “La voce della luna”. Infatti non a caso i protago-
             nisti si chiamano Ivan Cavalli e Wanda Giardino; l’albergo dove
             alloggiano “I tre fiori” e la rivista fotoromanzo “Incanto blu”.
                 Cavalli, il cognome di Ivan, allude ad una chiarissima sim-
             bologia paterna, quindi è particolarmente adatto per definire un
             personaggio che tende ad essere “padre” della moglie, più che
             marito. Questo particolare sembra confermare quindi le altre ipo-
             tesi simboliche fin qui formulate, soprattutto quella che la coppia
             abbia bisogno di fare un salto evolutivo per poter vivere felice,
             perdonando i rispettivi errori e costruendo un’intesa più armonio-
             sa e paritaria. Il cognome di Wanda è Giardino, ad indicare la sua
             tendenza all’introspezione, dato che spesso il “giardino interio-
             re” è usato come metafora della psiche. Sul set del fotoromanzo
             Wanda sarà invece Fatma, una “schiava fedele”, a conferma che
             il suo Femminile è ancora troppo sottomesso. L’albergo si chiama
             “I tre fiori”, forse alludendo alla possibilità, per tre personaggi
             (Ivan, Wanda e Fernando), di evolvere integrando l’archetipo del
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Femminile mediante le “prove” che stanno per affrontare. La ri-
             vista si chiama “Incanto blu” forse per alludere alla finta calma
             che induce nei lettori che, come Wanda, possono arrivare ad es-
             sere irretiti, quasi come in trance.
                 Wanda arriva a Roma in viaggio di nozze col marito pur aven-
             do già scritto tre lettere, firmate “Bambola appassionata”, a Fer-
             nando Rivoli, lo “Sceicco Bianco”, il suo idolo, che le ha risposto
             invitandola a farsi viva. Già da questo particolare possiamo com-
             prendere quanto il suo temperamento da sognatrice fosse stato
             rapito dalla “passione” per un eroe immaginario, un personaggio
             di carta patinata, staccato dalla realtà di tutti i giorni nella quale
             Wanda era immersa. La sposina, proprio come Fellini da ragazzo,
             è insoddisfatta della realtà di provincia e se ne distacca con la
             fantasia, immergendosi nel mondo dei fotoromanzi, riviste all’e-
             poca molto lette.
                 Mentre il marito si affretta a telefonare ai famosi e influenti
             parenti, lei s’informa immediatamente su come raggiungere via
             XXIV Maggio, sede del suo giornale preferito e luogo dove forse
             incontrerà lo “Sceicco Bianco”. Dopo il matrimonio e l’arrivo a
             Roma la coppia ha quindi un immediato e traumatico distacco.
             Ivan, il Maschile, mostra in modo evidente le sue pulsioni volte
             al dominio sul Femminile, in funzione di un adeguamento alle
             rigide convenzioni sociali (più di una volta infatti viene tirato
             in ballo il “buon nome” della famiglia). Wanda, il Femminile,
             mostra subito un lato trasgressivo che non ci si aspetterebbe dal
             suo aspetto esteriore di sposina di provincia timida e sottomessa.
             Finge di prendere un bagno, pagato in aggiunta al prezzo del-
             la stanza e, mentre il marito si sta riposando, fugge di soppiatto
             verso la redazione del giornale. Ci sembra significativo segnalare
             che il recente film di Woody Allen, “To Rome with Love”, nar-
             ri una vicenda molto simile, a significare quanto l’influenza di
             Fellini sull’autore newyorkese sia profonda. Torniamo alla fuga
             trasgressiva della giovane Wanda, che ovviamente pensa di im-
             piegare il tempo di un bagno per conoscere il suo idolo, mentre
                                                                                13

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invece resterà irretita e prigioniera per un intero giorno, e poi
             terribilmente delusa: ecco l’“Incanto blu”. Identica delusione vie-
             ne sperimentata, nel film “Bellissima” di Luchino Visconti del
             1951, dal personaggio della madre, magistralmente interpretata
             da Anna Magnani, che ricopre il ruolo di una donna ossessionata
             dal desiderio di vedere la figlia diventare attrice. Visconti si muo-
             ve in un ambito interamente neorealista, tanto che il personaggio
             del regista che nella trama cerca una bambina per la recitazione è
             il noto Blasetti. Fellini invece, su pressione del produttore Luigi
             Rovere, prende in mano un soggetto che era stato steso da Miche-
             langelo Antonioni e, insieme a Tullio Pinelli, lo riscrive mante-
             nendo solo il nome del protagonista maschile. I due inaugurano
             una nuova stagione, simbolica e onirica nello stesso tempo: infat-
             ti la sceneggiatura ci mostra subito un film nel film, con le scene
             che riprendono la realizzazione del fotoromanzo sulle spiagge
             di Ostia. Come il teatro nel teatro dei “Sei personaggi in cerca
             d’autore” di Pirandello, “Lo Sceicco Bianco” fa un primo passo
             in direzione metafisica, cioè di comprensione della struttura es-
             senziale del reale e, nello stesso tempo, ne approfitta per criticare
             duramente il mondo dei fotoromanzi. Alberto Sordi interpreta il
             personaggio di Fernando Rivoli, ovvero lo Sceicco Bianco, con
             grande abilità, quasi da artista maturo, evidenziandone la meschi-
             nità. Egli approfitta dell’ingenuità di Wanda da vero pirata, quale
             si autodefinisce in un dialogo molto significativo, in cui afferma
             di essere stato in un’altra vita un pirata, mentre Wanda una sirena.
             In questo modo chiarisce in maniera simbolica i loro ruoli: una
             vittima e un carnefice, un predatore e una ingenua creatura che
             s’illude di essere desiderata. Il tema dell’illusione di essere amati
             da parte di persone che hanno la sola intenzione di depredare le
             ingenue vittime, tornerà spesso nei film di Fellini, divenendo un
             motivo di fondo e fornendo l’occasione agli spettatori di com-
             prenderne il messaggio.
                 Altro tema che si ripresenterà più volte, specie nel finale di
             “Otto e 1/2”, è quello dei personaggi che scendono dall’alto di
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una scalinata al suono di una marcetta, il che può alludere alla ne-
             cessità per loro di una maggiore concretezza, simboleggiata dal
             contatto con la terra.
                 Ne “Lo Sceicco Bianco” la musica cercherà più volte di “av-
             vertire” i protagonisti perché, pur essendo vicini, non si conosco-
             no ancora profondamente, come mostra la scena in cui Wanda
             si trova sul camioncino diretto ad Ostia sul set del fotoromanzo
             ed incrocia Ivan che cammina per strada cercandola con ansia.
             Infatti entrambi avvertono una musica lontana, la fanfara dei
             Bersaglieri, che avrebbe la funzione di “risvegliarli” dalla trance
             in cui sono caduti. Inoltre, al ristorante presso Santa Maria in
             Trastevere, un posteggiatore napoletano canticchia una canzone
             in cui vengono ripetute le parole “O sole…O mare…”, per av-
             vertire lo sposino che Wanda è al sole e al mare. Infine, mentre
             Wanda è in balia della seduzione dello sceicco Fernando, Ivan
             a teatro assiste angosciato al “Don Giovanni” di Mozart e, pro-
             prio quando il protagonista canta alla contadina Zerlina: “…là
             ci darem la mano…là ci direm di sì…”, il giovane sposino cede
             all’ansia, esce dal teatro e corre a telefonare all’albergo per avere
             notizie della moglie, come in preda ad un triste presentimento.
             Questo geniale collegamento fra l’Opera Lirica e il Cinema rivela
             il loro stretto rapporto di dipendenza, infatti il Cinema è figlio
             dell’Opera, ovvero una sua diretta evoluzione. Il ricorso al “Don
             Giovanni” rende esplicito il ruolo dello Sceicco come seduttore
             seriale e pirata, ma anche quello di Wanda, novella Zerlina, come
             “sirena” che interpreta un ruolo complementare, cioè quello di
             una creatura che è metà donna e metà pesce e che quindi non ha
             ancora compiuto il cammino che la porterà a divenire una donna
             completa. Le similitudini sono fortissime, dato che Zerlina subi-
             sce le attenzioni di Don Giovanni nel giorno del suo matrimonio:
             è quindi una “sposina” come Wanda. Inoltre le voci dei protago-
             nisti dell’opera ci danno un’ulteriore indicazione di somiglianza
             con quelli de “Lo Sceicco Bianco”, in quanto Zerlina e Masetto,
             proprio come Wanda e Ivan, sono una coppia un po’ sbilanciata al
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suo interno, dato che lei ha voce da soprano, ma lui è un baritono,
             cioè ricopre un ruolo genitoriale, mentre una coppia ben assortita
             dovrebbe essere composta da Soprano e Tenore. Quindi sia l’ope-
             ra di Mozart che il film di Fellini vogliono dirci che queste coppie
             hanno ancora del cammino da fare per raggiungere una piena ar-
             monia. Ecco un altro tocco metafisico, cioè il ricorso ad una me-
             tafora illustrata come in un gioco di specchi, mediante l’utilizzo
             di un altro genere artistico, l’Opera Lirica, e di un personaggio
             archetipico, il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte, simbolo di
             seduzione seriale per eccellenza. Per rinforzare il messaggio ed
             essere sicuro che venisse compreso da più persone possibili, il
             regista ha scelto di rappresentare una scena famosissima e cru-
             ciale dell’opera. Inoltre, per risvegliare ancora di più la sensibi-
             lità del pubblico ha posto una locandina con il nome dell’opera,
             “Don Giovanni”, ben visibile, proprio vicino al telefono del tea-
             tro utilizzato da Ivan per contattare l’albergo. Potremmo dire che
             l’esordio di Federico alla regia denotasse già la sua genialità ed
             il suo desiderio di comunicare con simboli e metafore. Non va
             dimenticato che anche la tematica del fotoromanzo, quella di uno
             sceicco e delle sue odalische, rinforza il significato simbolico di
             Fernando come seduttore seriale.
                 Per tornare a Wanda, l’esperienza traumatica dell’avventura
             vissuta dapprima nella redazione del suo giornale preferito con
             l’autrice dei fotoromanzi, poi sul set fotografico a Ostia ed infine
             sulla barca nella quale Fernando cerca di sedurla, esperienza che
             si conclude con gli schiaffi della giunonica moglie dell’attore, la
             metteranno a dura prova. La giovane sarà costretta ad un brusco
             risveglio, ad un duro ritorno alla realtà che le procurano un senso
             di vergogna così forte da spingerla a tentare il suicidio. Va sotto-
             lineato che l’esito del tutto sarà comunque positivo, dato che la
             protagonista del film riuscirà a capire i suoi errori, a staccarsi dal
             mondo dei sogni per ritornare in quello reale, più forte, meno in-
             genua, dopo aver accettato l’umiliazione terribile della seduzione
             ed essere stata sull’orlo del suicidio. Solamente dopo tutto questo
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travaglio, rinascerà una Wanda più matura e consapevole, anche
             se dolorante nelle sue ferite non ancora del tutto rimarginate. La
             caduta nel reale e l’accettazione della meschinità del seduttore
             le daranno la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Così
             Wanda riunisce una scissione pericolosa fra sogno e realtà, dicen-
             do ad Ivan: “Il mio Sceicco Bianco sei tu”, cioè sei tu che io amo
             veramente, non ho più bisogno di fantasticare un mondo irreale,
             dato che posso vivere felice con te ogni giorno.
                È interessante sottolineare la meschinità del personaggio in-
             terpretato da Alberto Sordi che, dopo essere comparso in scena
             con un costume particolarmente suggestivo dondolandosi molto
             in alto su di un’altalena che entrerà nella storia del cinema, rac-
             conta una serie di bugie alla sua vittima, ma si dimostrerà succu-
             be della moglie. L’altalena può essere simbolo di riti di fecondità
             e sciamanici; lo Sceicco ci mostra subito la sua essenza di sedut-
             tore particolarmente abile e capace di utilizzare ogni stratagem-
             ma pur di raggiungere i suoi scopi. Infatti le dice: “Ti porterò a
             New York”, alludendo ad un nuovo modo di vivere, simboleggia-
             to dal “Nuovo mondo”. Sia il pubblico, che Wanda, in qualche
             maniera sono stati avvertiti dal regista. Ecco un altro tema che
             poi sarà quasi una costante nel cinema felliniano: una scissione,
             che necessita di essere ricomposta, fra due diversi lati del Femmi-
             nile, rappresentati da personaggi differenti. La moglie di Rivoli
             in questo film ha un aspetto da matrona ed un comportamento
             volgare e collerico: offende, picchia, urla e insegue, esigendo
             un risarcimento spettacolare del torto subito. Il marito, probabil-
             mente non per la prima volta, la supplicherà in modo infantile di
             perdonarlo, tra le risate di tutto il cast. Come abbiamo già detto,
             Wanda rappresenta invece una femminilità totalmente sognatrice
             ed ingenua, che non ha ancora imparato a valutare i potenziali
             pericoli. Per questo la realtà le viene in aiuto sulla barca, mentre
             sta correndo il rischio maggiore, facendo sbattere in testa a Fer-
             nando la base della vela, forse a simboleggiare che anche il se-
             duttore ha bisogno di risvegliarsi e di raggiungere una maggiore
                                                                              17

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concretezza, cosa che succederà nel diverbio con la moglie. Tutto
             finirà con una riconciliazione piena mentre, vestito con un ele-
             gante abito gessato, salirà dietro la moglie sulla loro “Vespa”, a
             dimostrazione del fatto che ha ancora bisogno di lasciare a lei la
             conduzione del rapporto.
                 Nel frattempo Ivan deve destreggiarsi con i parenti che non
             hanno ancora conosciuto la giovane sposa, raccontando bugie su
             bugie per giustificarne l’assenza. È significativo che i due perso-
             naggi maschili principali, Ivan e Fernando, raccontino entram-
             bi, anche se per motivi opposti, una grande quantità di bugie.
             Possiamo ipotizzare che questa possa essere una “caratteristica”
             personale di Fellini stesso trasferita sui personaggi, dato che tutti
             (amici, collaboratori e perfino la moglie Giulietta) erano d’accor-
             do nel definirlo un “simpatico bugiardo”, naturalmente nel senso
             di “abbellire la realtà”.
                 Dopo essere stata abbandonata a Ostia dalla troupe, Wanda
             tornerà a Roma di notte, sconfortata e coperta alla bell’e meglio
             con il suo cappotto gettato sul costume da schiava. Ma subirà
             l’ennesima aggressione dal suo accompagnatore, che si era illu-
             so di passare una notte con lei. Questo dimostra che le “sirene”
             possono essere così ingenue da non cogliere le intenzioni dei se-
             duttori che si avvicinano loro, i quali, quando si accorgono che la
             vittima ha ricominciato a difendersi (simbolicamente: il cappotto
             sulle spalle), hanno una reazione violenta. Non riuscendo ad af-
             frontare il giudizio di tutti, Wanda tenta il suicidio, fortunatamen-
             te senza riuscirci.
                 Intanto Ivan, pentito per aver raccontato la sua disavventura
             ad un commissario di polizia con rischio per l’onore della fami-
             glia, incontra una strana coppia di prostitute, le prime di una lun-
             ga serie nella filmografia felliniana. Una delle due è interpretata
             da Giulietta Masina e si chiama Cabiria, personaggio al quale
             verrà dedicato qualche anno più tardi un intero film (“Le notti
             di Cabiria”, 1957). Per ora è una comparsa, ma mostra già il suo
             cuore tenero perché, per consolare lo sposino affranto, convince
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un mangiatore di fuoco a fare uno dei suoi numeri. Qui compare
             per la prima volta un altro tema, quello circense. Simbolicamen-
             te il fuoco è come un’iniezione di energia, che però Ivan userà
             per passare la notte con l’altra prostituta, Matilde, la prima di
             una lunga serie di “gigantesse” felliniane, evidentemente per lui
             maggiormente consolatoria. Entrambe le prostitute possono rap-
             presentare due aspetti della femminilità che è opportuno riunire.
                 Abbiamo già anticipato il finale positivo del film, con la ri-
             composizione fra realtà e fantasia di Wanda e della coppia in par-
             ticolare, che riuscirà finalmente a presentarsi ai parenti e ricevere
             la benedizione papale. Questa riappacificazione è forse il vero
             scopo del film: mostrarci come tutto sia ciclico e come, dopo una
             separazione e il superamento di una vera e propria prova inizia-
             tica che conduce ad una maggiore maturità, sia necessaria una
             riunione dei due archetipi principali, il Maschile e Il Femminile.
                 Forse questo rappresenta in maniera simbolica anche il tra-
             vaglio del giovane Federico, che si era distaccato dal mondo
             dell’infanzia e della giovinezza e stava cominciando a seguire la
             sua vera vocazione: il cinema.

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Capitolo secondo
             I vitelloni

                 Nel 1953, dopo “Lo Sceicco Bianco”, Federico Fellini affron-
             ta la prova de “I vitelloni”, un affresco della vita di provincia. Si
             svolge in una cittadina non nominata perché, come dirà a propo-
             sito di “Amarcord”, intendeva dare vita ad una “provincia metafi-
             sica”. Tuttavia, benché le riprese siano state fatte altrove, è facile
             identificarla con la città natale del regista, Rimini.
                 La storia è incentrata sulle difficoltà nel passaggio dall’adole-
             scenza alla vita adulta di un gruppo di cinque giovanotti. Sono un
             po’ cresciuti per essere definiti ragazzi, ma rifiutano le responsa-
             bilità della vita adulta e non hanno chiaro come costruire il loro
             futuro. Potremmo dire che “succhiano ancora il latte” dalle mam-
             me come i vitellini dalle mucche, cioè sono fortemente dipendenti
             dalla figura materna e da quelle femminili in genere. Con il termi-
             ne “vitellone” in Romagna ci si riferisce sia ad una via di mezzo
             fra vitello e manzo, come riferito dallo stesso Fellini, ma anche a
             quei giovani che, non avendo identità precisa, oziano. Rischiano
             quindi di rimanere in tale condizione per lungo tempo, aggiungia-
             mo noi. Anche se si tratta di un film tradizionale per l’imposta-
             zione narrativa, la tendenza a rappresentare archetipi ben definiti
             è già evidentissima, infatti oltre ai “vitelloni” ci sono le “sirene”,
             illusioni che trascinano verso sogni assurdi, piuttosto che verso
             progetti concreti e realizzabili. Le sirene possono rappresentare
             un Femminile primordiale in culture dove la contrapposizione fra

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i sessi è molto forte, oppure persone che non hanno completato
             l’evoluzione libidica: per questo, simbolicamente metà donne e
             metà pesci. In definitiva, donne che non hanno ancora imparato
             ad amare. A nostro avviso si possono cogliere relazioni con il
             mito di Amore e Psiche, nel rapporto fra creature appartenenti
             a mondi diversi, che dovranno superare molte prove per avere
             la libertà di amarsi. Non a caso il film si apre in modo genia-
             le, chiarendo subito l’impronta simbolica di tutta la filmografia
             di Fellini, con l’elezione di Sandrina, la protagonista femminile
             interpretata da Leonora Ruffo, a “Miss Sirena”. In questo modo
             viene immediatamente inserita nel novero delle figure femminili
             appena descritte e nell’ambiente di cui fanno parte.
                 Siamo nel bel mezzo di un temporale che segna la fine
             dell’estate, la stagione principale per una cittadina di mare,
             quindi la fine di un ciclo. Sandrina Rubini (cognome che ritor-
             nerà più volte nei film di Federico) impersona perfettamente
             l’archetipo della sirena, anzi ne è una Miss, cioè una manife-
             stazione particolarmente esemplificativa, dato che si lascia se-
             durre dalle illusioni e dalle bugie che le racconta Fausto, vitel-
             lone incallito e seduttore seriale, cinico, immaturo, incapace
             di provare emozioni, sensi di colpa e soprattutto di amare. Egli
             sa solo inseguire in modo predatorio qualunque gonnella, un
             po’ come il Duca del “Rigoletto” verdiano. Dunque Sandrina
             è una sirena perché è dominata da genitori troppo protettivi,
             in particolare dalla madre che continua a chiamarla “la mia
             bambina”, nonostante aspetti un figlio, e quindi abbia già l’e-
             tà per essere donna. La loro famiglia è di livello sociale più
             elevato di quella di Fausto, che vive con il padre vedovo e Mi-
             rella, una sorella ancora piccola. Abbiamo già accennato alle
             differenze sociali come metafora del mito di Amore e Psiche,
             nel quale la giovane mortale evolve con grande sforzo fino a
             divenire una Dea immortale. Fausto è l’unico del gruppo di
             amici che è orfano di madre, ma questo non muta lo stato delle
             cose, perché non solo è un vitellone, ma anzi ne è il capo, la
                                                                            21

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guida spirituale, come recita la voce fuori campo, il narratore
             che parrebbe alludere al punto di vista personale del regista.
             Fausto evolverà solamente quando Sandrina, la giovane e dol-
             cissima moglie, troverà la forza di opporsi a lui e alle sue ri-
             petute violenze psicologiche. La protagonista avrà il coraggio
             di segnare un limite, un argine all’aggressività celata dai tradi-
             menti, mostrandoci che la dolcezza si può ben accompagnare
             alla capacità di difendersi con fermezza.
                 Nel film la narrazione è incisiva ed incalzante: ci mostra sia
             lo stupore della famiglia di Sandra, dopo il malore che svela la
             sua gravidanza, appena ricevuto il titolo di Miss, sia il tentativo
             di fuga del seduttore Fausto, che rifiuta la responsabilità dei suoi
             atti. Il padre di lui, che svolge anche il ruolo materno, essendo
             vedovo e si occupa con dolcezza della figlia minore, lo costringe
             con la forza a restare e a sposare la ragazza. Questo personaggio
             evidenzia la differenza fra le due generazioni: la prima è molto
             seria e laboriosa, ha affrontato guerre e disagi di ogni genere,
             sforzandosi di costruire un futuro migliore per quella successiva,
             che però non sempre lo merita, in quanto tende a restare in un
             limbo dove prevalgono la dipendenza e il rifiuto della vita adulta.
             Ma l’aspetto più significativo riguarda il ruolo che il padre di
             Fausto interpreta, cioè quello paterno per eccellenza, che dovreb-
             be essere in grado di aiutare madre e figlio a sciogliere la simbiosi
             della vita fetale e dell’allattamento. Non a caso è rappresentato
             vedovo, poiché trovandosi nella necessità di svolgere anche la
             funzione materna, comprende che quel tipo di legame ad un cer-
             to momento si deve sciogliere e, dopo essere stato un po’ anche
             madre, ora è in grado di essere un vero padre. In fondo è l’unico
             genitore ad esercitare bene la sua funzione, fermo restando che la
             violenza è sempre negativa. Gli schiaffi e le cinghiate che som-
             ministra al figlio non hanno senso, ma nell’Italia del ’53 ancora si
             pensava che potessero avere un effetto educativo.
                 Nelle società arcaiche di tipo patriarcale, come quella descrit-
             ta nel film, sintetizzabile con l’archetipo della sirena (che ritro-
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veremo nella camionetta di Zampanò, ne “La strada” e persino al
             matrimonio di Gradisca in “Amarcord”) si verifica una specie di
             scissione, fra dentro e fuori le mura familiari. Fuori comandano
             gli uomini che hanno il potere assoluto su tutto, ma dentro le
             mura domestiche sono le donne a decidere qualsiasi cosa, a dare
             vita ad un vero matriarcato, un gineceo, come quello che sarà
             descritto in “Otto e mezzo”, nei ricordi infantili del protagonista,
             a casa della nonna paterna. Questo tipo di regolamento sociale,
             accettato da tutti, può avere come conseguenza una generazione
             di “vitelloni” incalliti, che non riescono a staccarsi dalle madri,
             perché i padri sono assenti oppure hanno rinunciato all’essen-
             za della loro funzione: aiutare i figli a divenire autonomi. Ecco
             allora dei giovani protetti dalle gonnelle materne anche quando
             meriterebbero una sonora punizione per i comportamenti negati-
             vi che assumono, e dei padri che, per arginare la situazione ormai
             quasi disperata, sono costretti a sfuriate eclatanti per limitare lo
             strapotere femminile nell’educazione della prole. È una sorta di
             vendetta delle donne che si ritagliano uno spazio di potere, ma
             che invece di valorizzare la loro femminilità, le rende simili ai
             maschi. L’unica soluzione positiva in questi casi sarà quella adot-
             tata da Moraldo (alter ego del regista): allontanarsi, per diventare
             finalmente autonomo.
                 Fellini ci dice inoltre che non contano solo le ricchezze mate-
             riali: il padre di Fausto ha una dignità nobile che lo rende merite-
             vole di grande rispetto. Sono molto poetiche le immagini che lo
             ritraggono in atteggiamenti di tenero affetto con la figlioletta, che
             non ha più il conforto della presenza materna.
                 Fausto sembra in apparenza accettare la nuova vita da sposato
             con i cambiamenti che richiede, come il lavoro in un negozio
             di articoli sacri di proprietà del migliore amico del suocero, che
             però tradirà vilmente cercando di sedurne la moglie, non più gio-
             vane ma ancora affascinante. Il personaggio del Signor Michele,
             il proprietario del negozio, pur non essendo un padre biologico
             perché non ha figli, esercita una funzione paterna a livello sociale
                                                                               23

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molto significativa. Dopo essere stato generoso ed aver assunto
             Fausto per aiutare una famiglia a nascere e a superare un momento
             di difficoltà, viene ricambiato con uno squallido tentativo di
             seduzione della moglie da parte del giovane, che sembra avere
             l’ansia di non perdere proprio nessuna occasione per depreda-
             re gli altri. La dignità e la calma, ma nello stesso tempo anche
             l’autorevolezza e la fermezza che Michele mostra nel liquidare
             il ragazzo, il quale non solo non meritava l’aiuto, ma addirittura
             tenta di distruggere l’armonia familiare della coppia, sono molto
             significative. Queste scene dimostrano quanto Fellini, fin dagli
             esordi, avesse a cuore portare sugli schermi situazioni che fa-
             cessero riflettere e maturare il pubblico, non solo divertirlo. Il
             primo a capire questa potenzialità enorme dei film di Fellini fu
             proprio un ecclesiastico, padre Arpa, gesuita e guida spirituale
             del regista dai tempi de “La strada” fino al termine della loro vita.
             Padre Arpa “inventò” una nuova formula educativa ancora molto
             valida, il “cineforum”.
                 Ma per tornare ai personaggi del film: Sandrina ha un fratello,
             Moraldo, amico di Fausto e degli altri vitelloni. Il loro cognome
             è Rubini, come il proprietario del mitico cinema “Fulgor” di Ri-
             mini, nel quale Fellini passò tante ore della sua giovinezza; inol-
             tre ricomparirà ne “La dolce vita” nel personaggio di Marcello
             Rubini, protagonista del film ed infine nel vero nome di Sergio
             Rubini, uno dei protagonisti del film “Intervista”, che rappresenta
             il giovane Fellini al suo arrivo a Roma. È quindi importante sot-
             tolineare quanto questo nome faccia da denominatore comune a
             gran parte della produzione artistica del Maestro.
                 Tornando a Moraldo, questi è un ragazzo raffinato, mite e
             riflessivo. Rappresenta un alter-ego di Fellini, dato che nella
             scena conclusiva del film lascerà la cittadina di provincia per
             cercare una realizzazione personale in un luogo più consono alle
             sue inclinazioni. Tuttavia Moraldo è anche il nome di Moraldo
             Rossi, aiuto regista di Federico. Quindi nel personaggio di Mo-
             raldo sono fuse caratteristiche di entrambi (come succederà con
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Mastroianni con il personaggio di Marcello ne “La dolce vita”
             e quello di Guido in “Otto e mezzo”). Infatti anche Rossi, che
             in un primo tempo avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Mo-
             raldo Rubini, si era trasferito a Roma da Venezia insieme alla
             sorella, che desiderava intraprendere la carriera di attrice. Realtà
             ed immaginazione, ricordi reali e fantasie sono spesso fuse nel
             cinema felliniano. Moraldo evolve nel corso della trama, passa
             da una dipendenza totale da Fausto, credendo a tutte le bugie
             che racconta per coprire le sue malefatte, ad un atteggiamento
             di riprovazione per la sofferenza che questi causa alla sorella e
             in questa maniera si prepara all’evoluzione del finale. Qui egli
             prende la difficile decisione di partire, affrontando il dolore del
             distacco dalla sua parte infantile, rappresentata da Guido, il ra-
             gazzino che lavora in stazione con il quale ha fatto amicizia.
             Questi infatti gli chiederà: “Perché parti, non stavi bene qui?”
             Il ragazzino è in fondo il suo “bambino interiore” che deside-
             rerebbe restare lì, ma che lo spinge anche ad assumere un ruolo
             autonomo, dato che i loro incontri erano singolari e farseschi:
             alle tre del mattino il più giovane è diretto al lavoro in stazione,
             mentre l’altro è di ritorno dai divertimenti notturni. Moraldo e
             Guido possono quindi rappresentare anche due parti interiori del
             regista, che fortunatamente sono in comunicazione tra di loro
             e possono in questa maniera scambiarsi impressioni e suggeri-
             menti da inviare alla parte cosciente. Quindi possiamo azzardare
             l’ipotesi che l’evoluzione del personaggio di Moraldo sia stata
             resa possibile proprio dal suo essere in contatto con il “bambino
             interiore” rappresentato dal personaggio di Guido, che lo spinge,
             essendo molto operoso, a provare fastidio per la vita poco digni-
             tosa che Moraldo sta conducendo. A conferma di quest’ipotesi
             possiamo ricordare che il personaggio protagonista di “Otto e
             1/2” si chiami proprio Guido e che il suo “bambino interiore” (il
             bambino che è al centro del cerchio finale in cui tutti i personag-
             gi del film si riuniscono) è rappresentato con un berretto simile
             a quello del Guido de “I vitelloni”. Questo bambino lavora in
                                                                              25

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una stazione ferroviaria, che può rappresentare le varie direzioni
             che una persona può prendere nella vita e ci dà quindi indicazio-
             ni molto chiare sulla capacità che aveva avuto Fellini fin dagli
             esordi di prendere la sua strada, di seguire la sua essenza, la sua
             vocazione. In parole povere, il rapporto tra Moraldo e Guido
             ne “I vitelloni” ha una grandissima importanza per spiegarci sia
             la personalità del Maestro, sia la sintesi della sua arte: l’essere
             in contatto con il “bambino interiore”, che era pieno di buona
             volontà, di capacità di rimboccarsi le maniche e di prendere la
             propria strada senza farsi fermare da nessuno. A conferma di ciò,
             anche in “Otto e 1/2” sarà proprio il bambino a risolvere la crisi
             d’ispirazione del protagonista del film: riunendo intorno a sé i
             personaggi in un cerchio in cui tutti danzano gioiosi, una sorta di
             “Danza” come il capolavoro di Matisse.
                 Tornando a “I vitelloni”, la capacità di rappresentare con me-
             tafore l’essenza della vicenda è magnifica. Il contrasto con la
             serietà di alcuni personaggi rende l’immaturità degli altri anco-
             ra più evidente. Altro particolare degno di nota è che il bambino
             di Sandrina e Fausto si chiama Moraldino: un’abitudine diffusa
             quella di ripetere i nomi, ma in questo caso è particolarmente
             significativa. In una famiglia tipica dell’ambiente sociale ap-
             pena descritto, con una madre come quella di Sandra, che non
             vorrebbe che i figli crescessero mai, per tenerli sempre vicini
             a sé e dipendenti, che si ostina a chiamarla Sandrina, anche se
             è divenuta madre pure lei, chiamare un bambino con il nome
             dello zio materno può simboleggiare la forza di questi legami
             edipici. Si evidenzia così il desiderio del nucleo familiare di
             rimanere indifferenziato in un unico clan di appartenenza, dove
             non c’è spazio per l’individualità e la realizzazione al di fuori
             della famiglia.
                 Un altro vitellone è Alberto, interpretato da Alberto Sordi, che
             vive con la madre vedova e la sorella Olga che si stancherà di
             avere sulle spalle il peso della famiglia e li lascerà per seguire
             il suo amore. Sia in questa famiglia che in quella di Fausto, le
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coppie genitoriali non ci sono, ma troviamo un solo genitore ve-
             dovo accanto ai figli, per evidenziare la forza dei legami edipici
             che determinano la natura delle relazioni familiari. Sono però si-
             mili solo in apparenza in quanto, come già detto, il padre di Fau-
             sto tende ad interpretare entrambi i ruoli con maggior equilibrio
             della madre di Alberto, che è troppo permissiva con il figlio, al
             quale tutto è concesso, persino il farsi mantenere dalla sorella,
             che lavora fino a notte tarda per loro e sembra aver assunto sulle
             sue spalle il ruolo paterno. Ma in definitiva a casa di Alberto il
             ruolo paterno sarà totalmente assente, dato che la sorella si stan-
             cherà del peso della responsabilità e fuggirà con il suo amante,
             pregando il fratello di crescere: “…Alberto, metti giudizio”. Una
             volta di più Fellini ribadisce che in certe situazioni la crescita è
             possibile solo con il distacco.
                 A casa di Fausto, invece, il ruolo genitoriale non solo è ben
             esercitato, anche con eccessi di rigore che però hanno il senso
             di dare il limite alle intemperanze del figlio, ma è anche presen-
             te la tenerezza che di solito si accompagna ai ruoli femminili,
             dato che il padre si rivolge alla figlioletta con estrema dolcezza.
             Queste diversità sono alla base delle differenze fra i due ragaz-
             zi. Fausto, dopo tanti sbagli e tante sofferenze inflitte a Sandra,
             maturerà, almeno in parte, soprattutto grazie allo spavento per
             la momentanea fuga della moglie a casa del suocero, che risol-
             verà la questione a modo suo. La giovane, esasperata e stanca
             dei continui tradimenti del marito, finalmente trova il coraggio
             di ribellarsi, sia al ruolo di “brava bambina” nel quale la intrap-
             pola la madre per averla sempre vicina, sia a quello di moglie
             succube che accetta qualsiasi meschinità e qualsiasi bugia del
             marito, ruolo nel quale lui la vorrebbe relegare. Quindi il per-
             sonaggio di Sandra è decisamente quello più positivo, sia per
             la dolcezza della sua femminilità, sia per la forza di ribellarsi
             ad entrambe le tagliole che le imponevano. Al termine del film,
             che dura un anno, come succederà con “Amarcord”, forse per
             evidenziare come tutto sia ciclico e come in fondo le situazioni
                                                                              27

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abbiano degli sbocchi naturali, Sandrina non sarà più “Miss Si-
             rena”, ma solamente Sandra, una giovane donna che ha trovato
             il coraggio di lottare per salvare la sua famiglia.
                 Alberto invece rimarrà con la madre a vagheggiare un “Eden”
             ancora più grande della cittadina di provincia, il Brasile. Il
             personaggio ci mostra un altro aspetto tipico dei vitelloni,
             succhiare non solo latte dalle mamme quando sarebbe da molto
             passato il tempo dello svezzamento, ma succhiare anche dena-
             ro alle donne in genere, alle sorelle, alle madri e alle mogli.
             Alberto chiede soldi in prestito alla sorella, sapendo che non li
             restituirà, senza nessuna dignità, dato che Olga lavora di notte
             per loro, mentre lui si diverte e userà l’ennesimo prestito per le
             scommesse dei cavalli. Il gioco d’azzardo spesso si accompa-
             gna alle altre dipendenze, e nello stile di vita dei vitelloni non
             poteva non esserci. La mancanza di pudore di Alberto è totale:
             arriva a prendere in giro degli stradini al lavoro con una pernac-
             chia ed il celebre “gesto dell’ombrello”, in una delle più famose
             scene della storia del Cinema. I lavoratori potranno però subito
             vendicarsi perché l’auto dalla quale Alberto li aveva sbeffeggia-
             ti (tra l’altro in una situazione drammatica: la ricerca di Sandra
             che è fuggita di casa con il bambino) va in panne subito dopo,
             costringendo i vitelloni alla fuga a piedi. Anche in questo caso la
             funzione paterna viene svolta da un gruppo sociale esterno alla
             famiglia, che è troppo permissiva. Alberto meglio dei compagni
             incarna un’altra caratteristica dei vitelloni, quella di indulgere
             ai sogni, ai progetti, senza concretizzarli mai, preferendo tra-
             scorrere il tempo senza cambiare nulla nella loro vita. In fondo
             perché dovrebbero cambiare, quando c’è sempre chi pensa a
             tutto per loro? Forse questo è uno dei significati profondi del ca-
             polavoro di Federico, far comprendere al pubblico che rimanen-
             do in un luogo protetto e sicuro non si può crescere, quello che
             oggi viene definito “zona di comfort”. Per farlo occorre aver
             il coraggio di affrontare la vita con tutti i rischi che comporta,
             accettando le sconfitte che inevitabilmente ci saranno ed impa-
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rando a rialzarsi ogni volta più forti. Fellini stesso, nell’intervi-
             sta concessa a José Luis De Vilallonga* afferma: “Erano crea-
             ture deboli che si credevano degli Ercoli…Per anni, li ho visti
             attendere. Aspettare non importa cosa, una lettera dall’America,
             una proposta mirabolante, un miracolo che avrebbe cambiato il
             corso della loro vita. Per anni li ho sentiti discutere della loro
             fissazione: partire. Andarsene lontano, vicino, non importa! A
             Milano, a Roma, o persino – audacia suprema! – all’estero. Ma,
             ecco… non partivano mai”.
                 Anche Fausto non ha pudore nel chiedere denaro: lo chiede
             prima al padre all’inizio del film per fuggire a Milano per non
             affrontare le sue responsabilità; lo chiede poi a Sandra per an-
             dare al cinema, come premio per la prima giornata di lavoro.
             Ma appena entrati nel locale però non guarda neppure il film:
             preso dal raptus, il desiderio di sedurre un’affascinante signora
             seduta al suo fianco, la insegue fino al portone di casa, lascian-
             do la moglie sola a piangere fuori dal locale, e raccontando poi
             le solite bugie, immancabili per un vitellone. A dimostrazione
             della maestria del regista, rivelatasi già in questi primi lavori, la
             stessa fantomatica signora incontrerà nuovamente Fausto, pro-
             prio nel momento di massima angoscia per la sorte di Sandra,
             quando tutti temono che abbia tentato il suicidio in mare con
             il bambino per le eccessive sofferenze patite a causa dei torti
             del marito. Anche qui osserviamo la metafisica di Federico, il
             tentativo di mostrare una dimensione spirituale del reale: infatti
             quella di Fausto può sembrare una sorta di prova da superare
             per maturare e finalmente cambiare gli aspetti del suo carattere
             incompatibili col matrimonio. Fausto ce la fa, disdegna le pro-
             poste della bella signora, cosa impensabile solo il giorno prima,
             quando aveva passato la notte con un’attrice di teatro, coperto
             da Moraldo. Ora è veramente in pena per Sandra e il bambino,
                 * Fu Grande di Spagna, giornalista legato al Jet Set, scrittore e attore per registi

             come Fellini, Malle, Edwards. Ne parleremo più approfonditamente nel capitolo
             riguardante “Giulietta degli spiriti”.

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dimostra di provare dei sentimenti e una sorta di pentimento,
             o per lo meno un abbozzo. Anche per Moraldo questo sarà il
             limite. Il senso di colpa per aver coperto l’amico ai danni della
             sorella, incurante della sua sofferenza e delle conseguenze tra-
             giche che avrebbe potuto avere, gli darà la forza per liberarsi da
             tutte le dipendenze, e cambiare finalmente vita.
                 In questi primi film le protagoniste femminili sono tutte spinte
             al suicidio o peggio, infatti Wanda, la sposina de “Lo Sceicco
             Bianco”, si salva per un pelo, mentre Sandra è più forte e mette
             tutti alla prova. Gelsomina ne “La strada”, soccomberà abbando-
             nata da Zampanò, mentre Cabiria ne “Le notti di Cabiria” risorge,
             dopo essere scampata a due tentati omicidi. Possiamo ipotizzare
             che il focus del mondo di Fellini fosse qui, nelle relazioni fra
             uomo e donna, e nei tentativi dei due generi di conoscersi e amar-
             si, con rispetto, senza distruggersi.
                 Il padre di Fausto (femminista ante litteram) è la figura che
             più si avvicina a questa comprensione, perché non solo punisce il
             figlio e lo riporta alle sue responsabilità obbligandolo a crescere,
             ma rispetta profondamente l’universo femminile, ama la figlia e
             anche Sandra, con un atteggiamento quasi sacro verso tutte le
             funzioni attribuite alla femminilità. In questo caso il suo è un
             Super-Io saggio, escludendo la teatrale fisicità della punizione,
             unico pedaggio all’epoca.
                 Gli altri due vitelloni sono Leopoldo e Riccardo. Leopoldo ha
             ambizioni letterarie e finirà col credere ai tentativi di seduzione
             di un anziano attore di teatro che finge di apprezzare il suo lavoro
             per coprire un approccio omosessuale. È un ragazzo sensibile con
             talento e ambizioni letterarie e s’impegna per realizzarle, ma an-
             che lui si fa mantenere dalle zie. Il regista non perde l’occasione
             per ribadire lo stesso concetto: per realizzarsi occorre coraggio,
             non serve aspettare il miracolo di un’opportunità che si possa
             concretizzare dal nulla, tanto meno pensare di ottenere aiuti da
             chi è già “arrivato”, perché non è detto che ne abbia la generosità,
             anzi! Le opportunità occorre cercarle da soli e lottare per concre-
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tizzarle. L’episodio del vecchio attore che recita anche fuori dal
             palcoscenico per sedurre il giovane è particolarmente efficace,
             dimostra quanto Federico fosse già molto acuto nel cogliere le
             dinamiche relazionali e sociali, immune oramai da ogni sorta di
             ingenuità tipica del mondo dell’infanzia e dei vitelloni, che in
             fondo non vogliono crescere, e così vanno incontro a delusioni
             scottanti. Il film ci suggerisce che tutto va conquistato con sforzo,
             che è rischioso raggiungere obiettivi troppo facilmente, perché è
             possibile poi perderli con la stessa facilità.
                 Anche il personaggio di Riccardo, che a volte s’improvvisa
             tenore, vedrà le sue aspirazioni infrangersi. Il ruolo interpreta-
             to da Riccardo Fellini, fratello di Federico, osservato ora, ha
             un aspetto tristemente profetico, in quanto il giovane, che nella
             vita reale avrebbe voluto seguire le orme fraterne, trovandosi
             di fronte ad un gigante simile, non riuscirà a farlo. La sua stra-
             da avrebbe potuto essere quella del canto lirico oppure della
             recitazione, ma opterà per una terza, quella della regia, senza
             poterla seguire fino in fondo. Forse, volendo usare un linguag-
             gio felliniano, potremmo dire che, mentre Federico nella vita
             non fu mai un “vitellone”, perché fin da ragazzino si è sempre
             dato molto da fare per realizzarsi, Riccardo non riuscì mai ad
             uscire completamente da quella dimensione, infatti fu l’unico
             del gruppo di attori a non avere nella vita reale i benefici della
             spinta di questo successo.
                 Franco Interlenghi (Moraldo), Franco Fabrizi (Fausto) e Leo-
             poldo Trieste (Leopoldo) diverranno attori professionisti. Il suc-
             cesso di Alberto Sordi supererà quello degli altri, ma non avrà più
             occasione di lavorare con Fellini, forse con rimpianto. Avrebbe
             desiderato interpretare la parte del “Matto” nel successivo “La
             strada” e quello del “Patacca” in “Amarcord”. Forse le strade dei
             due si divisero dopo tante serate giovanili passate insieme nella
             povertà bohemienne di due giovani artisti che non hanno ancora
             sfondato, perché Federico incontrò Giulietta Masina, si fidanzò e
             si sposò, divenendo così adulto, mentre Alberto sarà per tutta la
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