Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
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SOMMARIO agosto- EDITORIALE settembre 3 A partire dalla meta Luisa Deponti 2021 edizione italiana Anno XLVI n. 4 DAL VIETNAM agosto-settembre 2021 7 Uno sprazzo di cielo Marianne Buch direzione e spedizione: Missionarie Secolari Scalabriniane Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D) 10 Reinventare un futuro Tel. +49/711/541055 Marina Azzola redazione: M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli M. Guidotti, A. Aprigliano 1961-2021 60° DELLE grafica e realizzazione tecnica: MISSIONARIE SECOLARI M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti, SCALABRINIANE M.G. Luise, L. Bortolamai 14 Il viaggio di una vita disegni e fotografie: Bianca Maisano Copertina e p. 7-15, 18, 20-21, 22, 32- 36, 39: archivio Missionarie Secolari Scalabriniane; p. 3-4, 6, 30: Pixabay; p. 5: Pixnia Usaid; p. 16-17, 20: Bianca EMIGRAZIONE Maisano; p. 23: migrants-refugees.va; 23 La goccia che fa p. 24: ProtoplasmaKid; p. 26: Alex Co- traboccare il vaso varrubias; p. 26: Wotancito; p. 28: Casa Luisa Deponti Tochan; p. 31: G. Castro Cedeno. Per sostenere le spese di stampa e spedizione CONDIVISIONE contiamo sul vostro 30 Il vaccino diseguale libero contributo annuale a: Giulia Civitelli Missionarie Secolari Scalabriniane * c.c.p. n° 23259203 Milano -I- o conti bancari: GIOVANI *CH25 8097 6000 0121 7008 9 Raiffeisenbank Solothurn -CH- 34 “Una partenza, Swift-Code: RAIFCH22 una via, una meta” *DE30 6009 0100 0548 4000 08 A cura della redazione Volksbank Stuttgart -D- BIC: VOBADESS Le Missionarie Secolari SPIRITUALITÀ Scalabriniane, Istituto Secolare 36 Traditio Scalabriniana nella Famiglia Scalabriniana, Il nuovo testo base sono donne consacrate chia mate a condividere l‘esodo dei migranti. A cura di Anna Fumagalli Pubblicano questo periodico in quattro lingue come strumento di dialogo e di incontro tra le diversità. 39 PROSSIMAMENTE 2
entre il tempo della pandemia si prolunga, mentre aumentano in tante parti del mondo i disastri naturali causati dai cambiamenti climatici e molti pa esi come Afghanistan e Haiti non riescono a risollevarsi da decenni di povertà, conflitti, oppressione…, assistiamo anche alla crescita dei movimenti migrato ri a causa delle tante pandemie dell’ingiustizia e della violenza. Le migrazioni, infatti, sono legate alle convulse trasformazioni culturali, sociali, politiche e religiose delle persone e delle nazioni del nostro tempo. Esse sono spesso una coraggiosa via d’uscita da una situazione disperata, per chi cerca vita, futuro, libertà. Il migrante in cammino è per tutti noi un segno. È inevitabile, infatti, chiedersi: dove stiamo andando come singoli e come umanità? La realtà umana, caratterizzata dall’essere in cammino, dal cercare sempre una meta, ha dato origine in tutte le culture, le lingue, le filosofie e le religioni, nel corso della storia, ad un’infinita gamma di metafore, di simboli, di espressioni… La vita del singolo uomo e dell’intera umanità è spesso rappresentata come un itinerario, una strada da percorrere. Anche la Chiesa, attingendo alle Sacre Scritture, si riconosce come “popolo di Dio in cammino”. Una metafora, quindi, universale, in cui si esprime la sapienza umana in dialogo con la realtà con creta e con la dimensione spirituale e religiosa: “Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo: come può l’essere umano conoscere la sua strada?” (Pr 20,24) dice la Bibbia. Sapere dove andare, conoscere il cammino da percorrere e la meta, sia che siamo in viaggio sia che stiamo compiendo una scelta difficile o prendendo una decisione politica di grande impatto, è certamente una delle necessità fondamentali della nostra vita. È saper vivere, inteso spesso come 3
un cercare il bene e la feli cità per noi, scoprendo poi che questo dipende dal be ne e dalla felicità anche de gli altri. Ma quali altri? Solo alcuni, i più vicini a noi? O anche i più lontani, tutti? Papa Francesco, nel suo ul timo Messaggio per la Gior nata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 26 settembre ci ricorda da dove partiamo e qual è la nostra meta. Dio ha creato l’uo mo e la donna diversi e complementari: un NOI chiamato ad allargarsi, esseri umani ad immagine del Dio Trinità, che è comunione di amore infinito tra le di versità. Quando l’umanità si allontanò da Dio, il Padre volle offrire in suo Figlio Gesù: “un cammino di riconciliazione non a singoli individui, ma a un popolo, a un noi destinato ad includere tutta la famiglia umana, tutti i popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio»”1, come afferma l’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia. “La storia della salvezza VEDE dunque un NOI all’inizio e un NOI alla fine, e al centro il mistero di CRISTO, MORTO E RISORTO «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21)”.2 “Vedere”: avere una visione d’insieme dell’itinerario che stiamo percorrendo e della sua destinazione finale è la vera sapienza che può guidare i nostri passi intermedi sul cammino a volte confuso e disorientato della nostra vita e anche nella complessità dei fenomeni e dei cambiamenti sociali che stiamo vivendo, compresa la realtà delle migrazioni. Nella nostra vocazione e spiritualità scalabriniana, che non è un dono solo per pochi, bensì un dono dello Spirito Santo a cui tanti possono ispirarsi, ci accompagna la visione del Beato G.B. Scalabrini. Egli sapeva vedere e com prendere la situazione concreta dei migranti del suo tempo, i meccanismi di ingiustizia che li spingevano a partire. Al tempo stesso - grazie alla fede che allargava i suoi orizzonti - vedeva nell’uomo che emigra uno “strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini e li guida, anche attraver- so le catastrofi, verso la meta, che è il perfezionamento dell’uomo sulla terra e la gloria di Dio nei cieli”.3 Mentre agiva per migliorare le condizioni di vita dei migranti, maturava in lui la fiducia che anche il loro cammino può contribuire alla realizzazione del piano di salvezza del Padre: la famiglia dell’umanità riunita in Cristo, con tutta la 1 Messaggio del Santo Padre Francesco per la 107ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2021, 26 settembre 2021, “Verso un noi sempre più grande”: 2 Ibid. 3 G.B. Scalabrini, L’Italia all’estero, Torino 1899, pp. 7-8. 4
ricchezza delle sue diversità, come una nuova Pentecoste, opera dello Spirito Santo, alla quale siamo chiamati a collaborare. “Mentre il mondo si agita abbagliato dal suo progresso;…mentre i popoli ca- dono, risorgono, e si rinnovellano; mentre le razze si mescolano, si estendono e si confondono; si va maturando quaggiù un’opera ben più vasta, ben più nobile, ben più sublime: l’unione in Dio per Gesù Cristo di tutti gli uomini di buon volere”.4 Alla luce di questa meta, “un NOI sempre più grande” di comunione, si risveglia la consapevolezza di quanto cammino dobbiamo ancora percorrere. Naziona lismi chiusi e aggressivi e individualismi radicali, come denuncia Papa France sco nell’Enciclica “Fratelli tutti”, dividono il NOI, favorendo l’esclusione di molti, soprattutto degli stranieri, dei migranti, degli emarginati, che abitano le periferie esistenziali. Al tempo stesso ci rendiamo conto che la nostra missione non può che essere, nel piccolo e nel grande, quella di abbattere muri e costruire pon ti, sulla via di Gesù che ha dato la vita come ponte fra cielo e terra. Egli ci ha salvato, guarito, perdonato, accolto nella sua stessa divina umanità, partendo dagli ultimi, e, nell’estrema sconfitta della croce, ha vinto la morte con l’amore. Di fronte ai problemi del mondo migrante, ci sentiamo inevitabilmente picco li, ma nell’estremo limite umano la visione di fede che ci accompagna può 4 G.B. Scalabrini, Discorso al Catholic Club di New York, 15.10.1901 («L’Araldo Italiano - The Italian Herald», New York, 24.10.1901, p. 1). 5
sempre farci intravvedere lo spiraglio di luce che Gesù ci ha aperto per farci camminare sulla sua via. Abbiamo il dono di una speranza certa per il futuro, da anticipare ed annunciare a tutti con le parole e con l’accoglienza e la stima di ogni persona, senza distinzione di provenienza, cultura, religione. In occasione del 60° del nostro Istituto Secolare, che abbiamo celebrato lo scorso 25 luglio, pubblichiamo in questo numero di “Sulle strade dell’esodo” la testimonianza di una missionaria, che ci racconta il “viaggio di una vita”, in cui la chiamata di Gesù “Vieni e seguimi” è luce che illumina e dà senso a tanti passi di cammino missionario e di condivisione con i migranti. Ma incon treremo anche le storie di giovani costretti ad emigrare da paesi dominati da dittatura e violenza per salvare non solo la propria vita, ma anche la propria libertà e dignità. Giovani che denunciano l’oppressione che si vive in America Centrale, ma che sognano un mondo diverso. Un altro articolo ci porterà a riconoscere che in Italia e nel mondo l’accesso al vaccino contro il coronavirus non è ancora universale: segno ulteriore di divisione tra noi e gli altri. Al tempo stesso, in questo contesto la Chiesa con le sue istituzioni e con l’impegno di tutti noi può farsi fermento evangelico nella società, per favorire l’inclusione e la solidarietà. È ciò che sta avvenen do anche in Vietnam, dove in una nuova fase di lockdown, i cristiani, pur in minoranza, accolgono l’invito ad essere sale e lievito cristiano, mettendosi al servizio degli altri, senza distinzione di origine e religione, come ci raccontano le missionarie che vivono a Ho Chi Minh City. Infine conosceremo i nuovi sviluppi della “Traditio Scalabriniana” - testo redatto insieme alle Suore e ai Missionari Scalabriniani - in cui si riassume la spiritua lità di G.B. Scalabrini, non solo per vivere la missione nella comunione tra le nostre diversità, ma an che perché tante persone possano trovare chiavi di lettura e motivazioni per la loro vita cristiana e il loro impegno nel campo delle migrazioni. Tutto questo ci dice che è possibile camminare in sieme, in modi e contesti diver si, e sognare come una unica umanità, come figli e figlie di questa stes sa terra che è la nostra Casa comune, tutti sorelle e fratelli, sapendo qual è l’orizzonte verso il quale ci muoviamo. Luisa 6
arianne, missionaria in Viet nam, descrive la nuova situazione che sta vivendo il paese a causa del diffondersi della variante Delta del coronavirus e la risposta che sta dando la chiesa cattolica locale, comunità in minoranza, ma vivace nella fede e nella solida- rietà con tutti, senza distinzioni. Fino a pochi mesi fa il Vietnam sembrava essere risparmiato dalla diffusio ne dell’insidioso virus. Mentre gran parte della popolazione mondiale era in stretto isolamento, qui la vita continuava con i ritmi di sempre pur con alcune limitazioni imposte dal Governo per evitare il diffondersi del contagio. Ma dal maggio scorso anche il Vietnam ha dovuto fare i conti con la variante Delta. L’epicentro della pandemia è attualmente proprio nella città di Ho Chi Minh, motore economico e maggiore polo industriale del paese. Le autorità cittadine hanno introdotto un rigoroso lockdown. Non ci si può muovere da un distretto all’altro, da un quartiere, da un rione o da una strada all’altra. Alle strategie messe in atto per combattere il diffondersi della pandemia si è ag giunta ora l’ingiunzione di non lasciare la propria abitazione secondo lo slogan riportato dai media e continuamente scandito dagli altoparlanti agli angoli di ogni strada: “Ai ở đâu ở yên đó”, “Là dove sei, lì rimani”. Non si deve assoluta mente uscire di casa. E se la casa per una famiglia intera è di soli pochi metri quadrati come per tanti in questa città? Come affrontare l’oggi? E il domani? Nuove domande, nuove sfide. Numerose industrie e fabbriche hanno sospeso la produzione e di conse guenza tanti lavoratori migranti hanno perso il lavoro. I negozi e gli innumere voli streetfood hanno dovuto chiudere i battenti. Qualche saracinesca lascia uno spiraglio aperto per qualche vendita clandestina. I venditori di biglietti della lotteria, una delle fasce più deboli della popolazione, non potendo anda re per le strade a venderli, non sanno di che vivere, come procurarsi il cibo, come pagare l’affitto,... anche perché i prezzi sono in aumento. L’esercito è stato mobilitato – oltre che nell’ambito sanitario – anche per la distribuzione e la consegna del cibo alle famiglie. 7
Ma, proprio dove il buio sembra prevalere, si a prono inaspettatamente sprazzi di cielo, nuove finestre di corresponsa bilità e di solidarietà. Tutte le parrocchie e le comunità religiose, non potendo condividere il pane del l’Eucaristia, si stanno impegnando per venire incontro ai bisogni delle persone, special mente delle più disagiate. Allestiscono nei loro spazi mercatini a prezzo zero con verdura, frutta, riso, spaghetti istantanei, olio, salsa di soia e altri generi di prima necessità. Organizzano servizi di distribuzione degli alimenti e di acqua potabile attraverso volontari autorizzati dalle autorità locali. Linh, una giovane di una parrocchia vicina, mi manda delle foto in cui si intra vedono cinque persone in tuta blu anti-Covid davanti ad un automezzo con un grande serbatoio. “Mi vedi?” scrive in italiano. E continua: “Ogni giorno, insieme ad altri giovani, approvvigioniamo di acqua potabile le persone più bi sognose”. E conclude così il suo messaggio: “Preghiamo gli uni per gli altri”. Come lei, tanti giovani si sono messi a servizio dei più pove ri, distribuendo cibo, acqua o prestando ser vizio nei centri di quarantena o in ospedale. I Vescovi del Vietnam hanno rivolto appelli accorati a tutti i credenti. In particolare l’ar civescovo della città di Ho Chi Minh, Joseph Nguyễn Năng, una sera, proprio durante l’a dorazione, ha sentito l’urgenza di mobilitare ulteriormente tutte le forze e le risorse a dispo sizione per rispondere “al sempre più urgente grido di aiuto dei poveri” e “prestare loro aiuto, indipendentemente dalla religione. (...) Que sto è il momento in cui Dio ci sta addestrando a uscire da noi stessi e a pensare agli altri. (...) La nostra capacità è solo ‘cinque pani e due pesci`, ma mentre facciamo la divisione, il Signore stesso farà la moltiplicazione. Chiu diamo le chiese, ma non il cuore”.1 1 Lettera del 27.07.2021 dell’arcivescovo della città di Ho Chi Minh, Joseph Nguyễn Năng, in seguito al restringimento del lockdown. 8
I tanti casi di Covid hanno messo a dura prova il sistema sanitario del paese. Sono stati allestiti velocemente ospedali da campo alle porte della città. Da tutto il paese è stato reclutato personale medico e sanitario. I Vescovi, da parte loro, hanno vivamente invitato il clero diocesano e i mem bri delle congregazioni a mettersi a disposizione per prestare servizio nelle strutture mediche e nelle aree centralizzate di isolamento. Il loro appello ha ricevuto una risposta generosa e sorprendente. Centinaia di suore, sacerdoti, studenti di teologia si sono offerti e stanno mettendo in gioco la loro vita do nando, insieme alle cure sanitarie, attenzione, amore, speranza. Son, studen te di teologia, mi scrive un messaggio usando le poche parole di tedesco che ha imparato: “Wir sind gesund! Wir arbeiten in Krankenhaus. Bitte, betet für uns” “Siamo sani! Stiamo lavorando in ospedale. Per favore, pregate per noi”. Questa testimonianza la stanno dando anche numerosi monaci buddisti che si sono offerti per questo servizio. A casa nostra amici, conoscenti, studenti, membri di congregazioni portano generi alimentari da condividere con le persone più povere del vicinato. E quando i sacchi di verdura e di altri generi alimentari sono tanti, oltre a contat tare subito le persone più bisognose, si apre una bancarella nel nostro cortile: ognuno può prendere il necessario per la propria famiglia fino ad esaurimento delle provviste. Una scena che si è ripetuta diverse volte in questo tempo. Non finiamo di stupirci. Come anche del gesto della maestra che ci aiuta nell’insegnamento ai bambini: ha mes so a disposizione il suo stipendio per sostenere le famiglie più disagiate de gli scolari. Riceviamo tanto e possiamo condividere tanto. Non è una logica economica, ma la logica del dono, della gratuità. Si potrebbero raccontare tanti di questi fatti concreti che ogni giorno ci sorpren dono. In questo tempo buio sono spraz zi di luce che illuminano. Non tolgono le difficoltà, la sofferenza. Non cambiano la situazione politica del mondo. Ma indi cano nel piccolo una via di uscita: la via dell’amore, della condivisione, della cre atività, del perdere se stessi per mettere al centro l’altro e del camminare insieme “verso un noi sempre più grande”.2 Marianne 2 Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale del migrante e del rifu giato 2021. 9
empre dal Vietnam, Marina ci presenta le conseguenze del confina- mento, stabilito dal governo per frenare l’epidemia da coronavirus, sulla vita di tanti migranti interni nell’immensa città di Hồ Chí Minh: un esodo nuovo, questa volta dalla città alle campagne. Oltre alle notizie riportate dalla stampa online e dai social media e alle se gnalazioni di amici, sono i movimenti che vediamo nella nostra via o nelle strade adiacenti ad allertarci sull’evolversi della situazione. Il 23 luglio, subito dopo l’annuncio del Comitato del Popolo della città di Hồ Chí Minh1 di un ina sprimento del lockdown, proprio di fronte a casa nostra, abbiamo notato un assembramento insolito di motociclette, cariche di pacchi e borse, in procinto di partire. Come i nostri vicini, migliaia e migliaia di migranti interni2 hanno lasciato la città e sono tornati nei loro paesi di origine, affrontando viaggi con innumerevoli disagi: lunghe file per oltrepassare i posti di blocco, la richiesta di dichiarazioni sanitarie, il controllo della temperatura; e poi, stremati dalla fa tica, le pause sdraiati ai margini della strada per riprendere forza e continuare il viaggio, lungo anche più di mille chilometri. Inizialmente le autorità avevano messo in campo le forze dell’ordine per scor tare i fiumi di motociclette e facilitare il superamento dei posti di blocco tra una località e l’altra. Alcune province avevano addirittura organizzato voli e viaggi 1 In seguito abbreviata con l’acronimo HCMC. 2 HCMC conta una popolazione di nove milioni di abitanti cui si aggiungono circa cinque milioni di migranti interni. 10
di rientro gratuiti per i loro cittadini residenti a HCMC, dando la priorità agli anziani, ai poveri, alle madri incinte e ai bambini. Ben presto però è scattata l’allerta: questo massiccio esodo stava veicolando il contagio dall’epicentro ad altre regioni del Paese. Il Comitato del Popolo di HCMC ha così decretato la chiusura di tutte le porte di accesso e di uscita dalla città. Il 15 agosto sono state emanate misure ancora più severe, come il protrarsi della chiusura di fabbriche e imprese e l’asso luta proibizione di uscire di casa. Una nuova ondata di migranti interni si è riversata sulle strade nel tentativo di lasciare la città. Alcuni sono riusciti ad evadere il divieto, altri sono stati bloccati alla porta orientale della città. Altri ancora si sono accampati sui marciapiedi circostanti, nella speranza di un allentamento dei controlli. Anche Giusê, uno dei primi amici conosciuti nel quartiere, ha lasciato HCMC insieme alla moglie e ai suoi due bambini, uno di quattro anni e l’altro di pochi mesi. Alcuni giorni fa ci ha sor preso con un messaggio e, chattando, gli abbiamo chiesto di condividere la sua esperienza. Quali i motivi che ti hanno spinto, alcuni anni fa, a trasferirti a HCMC? “Come molte altre persone, sono venuto in cit tà quando ero ancora single con il desiderio e l’obiettivo di migliorare le mie prospettive di vita e sostenere la famiglia. In città ci sono più op portunità di lavoro che nelle zone rurali, ci sono più aziende, più fabbriche, il lavoro è più stabile e la vita meno dura. Non tutti però hanno la fortuna di poter rimanere in città e di riuscire nel loro progetto”. E ora, perchè hai deciso di ritornare nel tuo paese di origine? “In questo periodo, a causa della pandemia, stare a HCMC è diventato molto difficile. Nu merose fabbriche hanno smesso di funzionare. Molti giovani migranti sono disoccupati e non hanno soldi per vivere. Le difficoltà aumenta no di giorno in giorno. Così anch’io e la mia famiglia abbiamo deciso di lasciare la città e di tornare nel nostro paese di origine, nella pro vincia di Nghệ An, nel centro-nord del Vietnam, a circa 1‘400 chilometri di distanza da HCMC. E come noi, molte persone hanno affrontato questo rischio”. 11
Come è stato il viaggio? Come sei riuscito ad eludere il divieto di lascia- re la città? “Siamo partiti il 15 agosto 2021, festa dell’Assunzione di Maria, ed è stato per sua grazia che siamo riusciti a salire sull’autobus. Un viaggio diverso dai precedenti, pieno di preoc cupazioni e pensieri. Sape vamo che sul percorso non avremmo trovato da mangia re. Così, abbiamo prepara to riso, noodles istantanei e acqua potabile sufficienti per due giorni. È stato molto dif ficile. Il Governo ha istituito molti posti di blocco. Poiché si tratta di un’epidemia, an che le autorità della nostra città natale hanno dovuto applicare la direttiva n. 16 verificando tutti i documen ti. Dopo i dovuti controlli, ci hanno comunque accettato. Quello che mi preoccupa di più è il nostro futuro”. Abbiamo sentito anche Ân Song, una giovane originaria di un piccolo villag gio nel comune di Xuân Lộc, provincia di Đồng Nai, a circa 100 chilometri a nord di HCMC. Anche a lei, che ci rappresenta tanti giovani che conosciamo, abbiamo posto alcune domande. Quando e perchè ti sei trasferita a HCMC? “Come molti studenti, dopo il diploma di scuola superio re, sono venuta a HCMC per proseguire il percorso di stu di all’università”. Quali i motivi, secondo te, che hanno provocato in questi mesi un esodo così massiccio da HCMC? Hai un’idea di quanti siano partiti? “A causa dei gravi effetti del Covid 19, l’intera città di HCMC è stata rigorosamen te bloccata: non potevamo recarci a scuola, in universi 12
tà, al lavoro e neanche al mercato per procurarci i beni di prima neces sità. Migliaia di persone sono rima ste disoccupate e hanno cercato di tornare nei loro paesi di origine, scappando dalla pandemia e dalla povertà. Non ho numeri precisi, ma da quello che ho potuto rilevare dai media e dai social network se ne contano a migliaia”. Quali le difficoltà e le opportunità per chi è ritornato al paese? “Chi ha lasciato da lungo tempo la propria città natale, deve ricomincia re tutto da capo, un inizio molto più difficile del precedente. Anche altre province, inclusa la mia, sono blocca te. Ma qui il costo della vita è minore rispetto alla grande città e molti pos sono essere ospitati dai genitori o dai parenti, risparmiando così le spese di affitto”. Che cosa possiamo imparare da questo tempo segnato dalla pandemia? “Questa pandemia non piace a nessuno, ma porta con sé lezioni profonde per noi esseri umani. Sfida i valori fondamentali della vita: il rapporto con noi stessi, con gli altri e con la natura. Ci dà anche la possibilità di approfondire la nostra relazione con Dio”. Come questi due amici, tanti. Stiamo accompagnando questo esodo soste nendo famiglie che hanno lasciato la città e nuclei famigliari o singole persone rimaste in queste periferie perché non hanno un luogo dove andare. Viviamo con loro affidate giorno per giorno al Dio dell’esodo che non conosce posti di blocco e ci apre sempre la strada anche nelle situazioni più drammatiche della storia, dandoci la forza di reinventare insieme a Lui un futuro. Le parole di Ân Song ci richiamano i ripetuti inviti di papa Francesco a non attendere la fine della pandemia per ritornare alla normalità di sempre, ma a sviluppare nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e nuove forme di vita, a cre scere nella coscienza di un’origine comune, di un’appartenenza reciproca e di un futuro condiviso da tutti. La situazione attuale è una grande sfida culturale, spirituale, educativa, economica che richiederà lunghi processi di rigenerazio ne di una coscienza di base e consentirà l’emergere di una nuova umanità3. Marina 3 Cfr. LS, 202. 13
o scorso 25 luglio il nostro Istituto Secolare di Missionarie Secolari Sca- labriniane ha compiuto 60 anni! Per l’occasione, “Sulle strade dell’esodo” dà spazio alle testimonianze di alcune missionarie evidenziando diversi aspetti della nostra missione tra i migranti e i giovani nel corso degli anni. In questo numero diamo la parola a Bianca cui abbiamo chiesto com’è nata la sua vo- cazione, e come la missionarietà e la secolarità si sono intrecciate nella sua vita in vari paesi del mondo e ora anche in Vietnam. È domenica e sto sfrecciando su una moto insieme ad altre centinaia di motociclisti nella periferia di Ho Chi Minh City, metropoli industriale nel sud del Vietnam. Mi trovo dentro ad un fiume incredibile di giovani che si muovono agili e veloci verso il futuro. Accanto alla strada grattacieli futuristi, centri commerciali, industrie e improvvisi squarci di foresta, canali attorniati da bambù e palme. Sto sognando? Non è un sogno ma è la realtà del mio nuovo invio missionario in questo paese del Sud-Est asiatico. Ricco di contrasti, di paesaggi ina spettati e sorprendenti. Stiamo andando a Binh Duong, al confine nord di Ho Chi Minh City, un’area caratte rizzata da un rapido sviluppo dove esistono attualmente 28 parchi industriali che attrag gono investitori dall’estero e, di conseguen za, migliaia di lavoratori immigrati da diverse province del Vietnam ma anche da altri paesi, 14
soprattutto Filippine, India, Cam bogia, Corea, Francia, Stati Uni ti. La domenica alle 10.30 viene celebrata per loro la messa in inglese e con gli studenti scala briniani animiamo la liturgia. In questo viaggio silenzioso verso Binh Duong, improvvisamente la mente e il cuore volano lontano e si fermano su una domanda fon damentale: Chi sta conducendo davvero la mia vita? Ripenso ai 60 anni della nostra storia di missionarie secolari scalabriniane e mi viene da sorridere perché anch’io quest’anno compio la stessa età. Un compleanno speciale! Porsi questa domanda impegnativa ogni tanto è importante, specie nei momenti di svolta, o di cambiamento di rotta o anche di disorientamento e di pericolo, come quello che stiamo vivendo con la pandemia. “Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il tram- busto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vedia- mo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (Papa Francesco, Momento stra- ordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020). Ogni prova, ed anche ogni scelta, è una sfida a rilanciare il cuore oltre noi stessi, in una fidu cia che si alimenta nel rapporto confidente con questo Amico che, dormendo, dimostra il suo affidamento illimitato nelle mani del Padre. È così che, in questo tempo difficile e prova to, lo sguardo alla vita vissuta con Lui suscita nel cuore non paura ma gratitudine. E di con seguenza fiducia. Continuiamo, nonostante le prove, a camminare, scoprendoci, proprio gra- zie alle prove, insieme nella stessa barca. Sem pre più famiglia, sempre più fratelli. Gratitudine in effetti è la parola che abita il mio cuore, non solo per questo nuovo anno “roton do”, ma per tutta la vita e per l’inaspettato dono di poterla condividere con chiunque incontri sulla strada, chiunque, come me, si trovi in cam mino. Seguendo le tracce di una “chiamata”. 15
Chiamata, vocazione è una parola che da ragazza mi faceva un po’ paura, dalla quale facilmente scappavo: “Vieni all’incontro vocazionale?” “Ma neanche morta!” era la mia risposta, più o meno esplicita. Finché ho scoperto in alcune giovani donne, la gioia di poter vivere il vangelo in ogni momento e realtà della vita. Erano missionarie scalabriniane. Soprattutto mi colpiva quella che loro chiamavano secolarità. Qualcosa per me di veramente nuovo e rivoluzionario. Parlavano di sale e lievito così come spiega anche Gesù nel Vangelo. Qualcosa che fa crescere da dentro, che dà sapore alla vita. La vita vissuta con Gesù non è solo andare in chiesa o rispettare i comandamenti… ma vivere in un continuo dialogo di amicizia con Lui e disporsi ad amare con un amore come il Suo. Un amore incondizionato e ricevuto così come si riceve l’acqua quando ci si mette sotto una cascata. Un amore potente e penetrante, che ci muove! Avevo appena finito il liceo Classico e, dopo la maturità, tutto mi si apriva davan ti come un’incredibile avventura. Così quell’estate, alla ricerca della libertà e di un’esperienza indipendente dalla famiglia, possibilmente all’estero, mi ero trovata con sorpresa a toccare con mano la realtà dei migranti italiani in Germania, a Stoccarda. Uomini soli che, durante il campo estivo, insieme ad altri giovani, ave vamo potuto incontrare negli alloggi collettivi ed anche in carcere. Ero straniero e mi hai accolto, ero in carcere e sei venuto a trovarmi (cfr. Mt 25, 35.36). Mai le parole del Vangelo mi erano sembrate così vive e sperimentabili. Era possibile vivere il Vangelo proprio lì dentro, nelle contraddizioni, nelle ferite della vita, me scolate nelle realtà più diverse, sporcandosi le mani con il mondo, per scoprirne tutta la bel lezza, nascosta specialmente nel cuore di ogni persona. Cominciavo a capire che vocazione non è prima di tutto scegliere la propria strada, ma rispondere a qualcosa o meglio a Qualcuno che ci sta chiamando con infinita dolcezza e pazienza. Con amore. È disporsi al silenzio e all’ascolto di una “voce” che ci raggiunge den tro con fantasia e forza. Sorprendendoci. E lasciandoci sempre tra le mani il dono della libertà. “Se vuoi”. In effetti a volte mi ritornava alla mente quan do, nel 1978 con tutta la famiglia, in occasio ne dei 50 anni dei genitori e del loro 25° anni versario di nozze, era stato regalato a tutti noi cinque figli, un viaggio in India. Una proposta davvero eccezionale per quei tempi. Io ero 16
poco più che adolescente e, insieme a Luca, il fratello maggiore, avevamo osato contestare questa scelta che giudicavamo “borghese”, come si diceva allora. Per fortuna aveva prevalso la gioia e il senso di avventura di tutto il resto della famiglia all’idea di poter fare insieme un’esperienza così unica. Di tutto quel viaggio ciò che ricordo con nitidezza ancora oggi è il senso di disagio sperimentato nell’incontro con i poveri nella città di Nuova Delhi. E, in una città del Rajasthan, Kota, il saluto festoso di un gruppo di bambini pieni di gioia alla vista di persone occidentali, e nello stesso luogo, l’incontro con un vecchio lebbroso che si era avvicinato a me sorridendo. La sua presen za così vicina mi aveva tur bato, forse impaurito. Non sapendo cosa fare gli ave vo messo nelle mani alcu ne rupie. La sua reazione mi aveva freddato. Senza parole aveva fatto scivolare quei soldi nella mia mano e si era allontanato. Proprio attraverso quest’in contro avevo sentito quella “voce” dentro di me chia ramente! “Non voglio ciò che hai ma ciò che sei, la tua vita!”. Una dichiarazio ne d’amore, così forte e improvvisa da lasciarmi nel cuore una ferita e una do manda. “Cosa vuoi da me?”. Ricordo che il mio pensiero, mentre salivo sull’aereo nella strada di ritorno a casa, era molto chiaro. “Non tornerò qui se non per stare dalla loro parte!”. Una “voce”, simile a una inquietudine dentro, l’avevo sperimentata in realtà anche in altri momenti della mia vita: un’estate quando, in un momento di preghiera da sola, avevo aperto a caso il Vangelo. Nel capitolo 8 del Vangelo di Luca c’è una sola riga in cui si parla delle donne che, insieme ai discepoli, seguivano Gesù. “E io?”. Gioia e timore. E poi a 19 anni, in un campo di lavoro con i terremotati dell’Irpinia, organizzato per i giovani dalla diocesi di Lodi nel 1980. Un ragazzo del paese in cui eravamo, Carife, vedendo che mi davo molto da fare per aiutare nei lavori di ricostruzione, mi aveva improvvisamente fermato chiedendomi con tono un po’ provocatorio: “Ma quando hai tempo per noi?”. Quelle parole mi raggiunsero nel cuore con potenza. Forse era Gesù stesso che mi chiedeva di fermarmi: “Quando hai tem- po per me?”. Una domanda che incalzava e mi metteva in movimento dentro. E riemerse pochi giorni dopo quando, leggendo il Vangelo di Luca, mi immedesimai nella vedova povera che nel tempio offre i suoi due spiccioli, quanto aveva per vivere. Cioè tutto. 17
In effetti attraverso le esperienze dei viaggi con la mia famiglia, gli amici, la for mazione cristiana ricevuta nella mia parrocchia di San Lorenzo e diversi impegni di servizio, mi sentivo aperta a tutto e volevo tutto! Ma dove potevo dare tutto? In una bella famiglia come quella che avevo ricevuto! Cosa desiderare di meglio? Magari, pensavo, con la famiglia potrei andare come missionaria laica in Africa? A volte, specie nei momenti di preghiera, a contatto con la natura, desideravo vivere una vita contemplativa nel silenzio di un convento. Quando avevo intrapreso lo studio della Medicina, in effetti, mi era sembrato che una professione come quella del medico avrebbe potuto sintetizzare tutte le mie aspettative e sogni di giocare la mia vita per gli altri. Ma dopo i primi due anni di studio, mi accorgevo che non era così, non era ancora tutto. In quel periodo p. Gabriele Bortolamai, missionario scalabriniano, conosciuto al campo estivo a Stoccarda, era venuto ad incontrarmi alla stazione dei treni di Lodi, la mia città natale, per invitarmi a non stare troppo tempo in bilico tra tutte le scelte. “Buttati, fai esperienza dell’amore, esci da te stessa”. Avevo un ragazzo che mi piaceva, e così mi sono buttata, credendoci fino in fon do, immaginando di poter dare ali al sogno di una bella famiglia, con tanti bam bini. Una vita felice, aperta agli altri. Ma anche in questa esperienza esaltante di essere per la prima volta davvero innamorata, sentivo che non era ancora tutto. Dentro il cuore la preghiera stava scavando uno spazio più grande che né una professione né un ragazzo potevano colmare. E allora? Non è stato facile dire a quel ragazzo: “Fermiamoci un momento, vediamo cosa pensa Chi veramente conduce la nostra vita”. La mia richiesta di una “pausa” ar rivava proprio il giorno in cui si era presentato con un anello di fidanzamento. “Si può vendere l’anello ed aiutare i poveri”. La mia proposta, un po’ sfrontata, lo aveva fatto molto arrabbiare ma forse lo aveva anche aiutato ad intuire quello 18
che io stessa ancora non capivo. La strada di una consacrazione totale a Dio. L’intuizione era già dentro di me da tempo, ma attendeva questo spogliamento, questo smarrimento, perché mi rendessi conto che Gesù stava già sulla mia bar ca, aspettando che mi accorgessi di Lui. Dove va la barca non lo sappiamo all’inizio del viaggio. La cosa più importante è fidarsi di Chi la conduce. Così, dopo un tempo di formazione e di discernimento, 35 anni fa, insieme a due compagne di viaggio, siamo decisamente salite sulla barchetta delle missionarie secolari scalabriniane. Il 13 aprile 1986 abbiamo pro nunciato i voti di povertà, castità e obbedienza proprio nei pressi della Stazione Centrale di Milano, lì dove il vescovo Scalabrini, cento anni prima, nel 1886, ave va avuto un forte e memorabile incontro con i migranti in partenza per le Ameri che. Un incontro che gli aveva lasciato nel cuore una domanda molto concreta: Come venir loro in aiuto? La comunità aveva allora poco più di 20 anni e proprio in quel tempo iniziavano ad unirsi al primo gruppo missionarie di diverse nazionalità: dalla Francia, dalla Germania, dal Brasile. I giovani erano stupiti nel vederci vivere insieme con la nostra diversità di lingue e culture. Un anticipo dell’esperienza interculturale che l’Europa si stava accingendo a sperimentare grazie all’incremento progressivo delle migrazioni internazionali. Migranti con i migranti. Se non si sperimenta in pri ma persona, sulla propria pelle cosa significhi vivere altrove, sradicati dal proprio mondo, dagli affetti, dalla propria cultura, non si può capire chi parte e spesso è costretto a lasciare tutto per sopravvivere. Vivere insieme una comunione di vita nella propria diversità e unicità è e sarà possibile non solo per noi, ma per il mondo! Sembrava un sogno ma ci accor gevamo che stava iniziando a realizzarsi già tra di noi. Per dono dello Spirito! E abbiamo imparato a crederci insieme intuendo che questa era l’esperienza che il Signore, attraverso il nostro giovane Istituto Secolare, ci chiedeva di annuncia re in ogni ambiente, soprattutto tra i giovani solitamente attratti e incuriositi dal nuovo. Il nostro sogno era il sogno di Dio! Lo stesso che aveva mosso anche il vescovo Scalabrini e gli aveva fatto intravedere nei movimenti migratori di milioni di persone, la possibilità di una strada di comunione tra tutti i popoli: (…) va pre- parandosi quaggiù un’opera ben più vasta, ben più importante e sublime, cioè l’unione in Dio di tutti gli uomini. Dopo i voti, la Laurea e la Specializzazione in Medicina Interna, iniziano le pri me esperienze di lavoro in ospedale a Milano, e poi nel carcere di San Vittore. E, qualche anno dopo, il primo invio missionario fuori dall’Europa, in Cile, come responsabile di un progetto sanitario di Cooperazione Internazionale dell’Ospe dale San Raffaele. Ero giovane, poco più di 30 anni, con un incarico di grande responsabilità e un invio da parte della mia comunità in un paese nuovo, tutto da esplorare. Perché proprio io? Da dove tanta stima e fiducia nei miei confronti? Nelle mie doti e capacità? Mi sentivo così piccola! A pochi giorni dal mio arrivo, appena trovato un piccolo appartamento, sono stata derubata di tutto ciò che mi ero portata nella mia valigia missionaria-migrante. Di nuovo un’esperienza di “spogliamento”, radicale, disarmante. Un’esperienza che mi faceva sentire ancora più piccola, davvero perduta se non avessi avuto un 19
Padre, se a guidare la mia vita non fosse la Sua voce, la Sua chiamata, il Suo Spirito. Chi sta conducendo davvero la mia vita? La mia barchetta era di nuovo provata da una tempesta, ma stavo imparando a non fare affidamento su me stessa, ma ad affidarmi e a lasciare in mano a Lui le redini della vita. Come capo-progetto, dovendo co struire delle strutture sanitarie nella periferia più emarginata di Santiago, mi trovavo spesso a confrontarmi con le autorità locali, gli ingegneri, il mini stro della salute, l’ambasciatore, e a prendere decisioni per le popolazioni più povere: in questi contesti “altolocati” scoprivo sempre più con stupore che la mia consacrazione poteva essere davvero uno strumento di sensibilizzazione; la mia piccolezza poteva fare spazio al sale e al lievito del Vangelo a servizio della vita dei più piccoli tra i migranti. E così, quasi per miracolo, i semi di cura e solidarietà seminati nei confronti delle popolazioni più svantaggiate si trasformavano sotto i nostri occhi. Proprio come nel deserto di Atacama quando, dopo anni di siccità, improvvisamente arriva la pioggia. E tutto fiorisce. Al termine di questo progetto, nel 1994, il mio aereo questa volta non atterrava a Milano ma a Roma, per un nuovo invio missionario. Nella città eterna, dove da qualche anno era iniziata una nostra presenza. Cercando un inserimento significativo nel campo della salute dei migranti, ambito a quei tempi ancora poco esplorato, accol si l’offerta di un lavoro in un “Corso internazionale di formazione alla cooperazione” per giovani medici presso l’Istituto Superiore di Sanità. Il tempo vissuto nella cooperazione internazionale in Cile, era stato un’incredibile scuola di vita migratoria e certamente aveva maturato in me una nuova sensibilità per la salute globale che in Università, a livello accademico, tardava a farsi presente. Un’esperienza che non potevo tenere per me! Per questo quando mi capitò di conoscere l’ambiente del Poliam- bulatorio per immigrati della Caritas, presso la Stazione Termini, capii che avrebbe potuto diventare il laboratorio transculturale che stavo cercando. Salvatore Geraci e Riccardo Colasanti avevano iniziato qualche anno prima, nel 1983, quest’esperienza pionie 20
ristica di un poliam- bulatorio per immi- grati caratterizzato da una bassa soglia d’accesso e da un alto impatto relazio- nale. Il Sistema Sa nitario Italiano, infat ti, a quel tempo, non prevedeva l’assi stenza sanitaria per chi era irregolare, dunque sempre più persone risultavano discriminate nell’accesso ai servizi sanitari di base. Non erano rari i casi di per sone straniere “clandestine” che morivano per paura di presentarsi ad un pronto soccorso. Ma la sfida non era solo nel campo della salute bensì nell’immaginare una società in grado di trasformarsi assumendo un volto sempre più normalmen- te multietnico. Prendersi cura della salute dei migranti diventava l’occasione per conoscere la loro cultura e promuovere i diritti di tutti, senza nessuna esclusione. Molti giovani si dimostravano sensibili a questa sfida e offrivano generosamente il loro aiuto. Dopo alcuni mesi di volontariato al poliambulatorio, Salvatore e Riccardo, cui si era aggiunto Gonzalo, creativo filosofo colom biano, quasi travolti da un’onda di lavoro che andava crescendo di giorno in giorno, mi proposero un impegno con loro a tempo pieno. E così, con il coinvolgimento di centinaia di volontari, tra i quali moltissimi studenti, si delineò sempre più il volto dell’Area Sanitaria della Caritas di Roma con una specifica mission: Mettersi in relazione con ogni persona, partendo dalla stima e dal valore della vita di ciascuno, a qualsiasi cultura o storia apparten- ga, per conoscere, capire e farsi carico con amore della promo- zione della salute, specialmente di coloro che sono più svantag- giati, affinché vengano riconosciuti, riaffermati e promossi ad ogni livello, dai singoli, dalla comunità e dalle istituzioni, diritti e dignità di tutti, senza nessuna esclusione. Insieme imparavamo che la malattia è sì una richiesta di aiuto ma anche un’occasione di incontro con persone che, con la loro diversità, ci rendono presente il mondo, “obbligandoci” a tener conto delle loro culture e dell’esperienza migratoria che hanno alle spalle. Grazie a loro ci allenavamo a non dare nulla per scon tato e a metterci in discussione. La medicina occidentale infatti, dietro all’aggettivo scientifico, alla mitizzazione dell’Evidence Based Medicine (EBM), spesso na sconde una rigidità strutturata che certo non aiuta nel rapporto con la complessità e la diversità del contesto contemporaneo. 21
L’emigrazione, anche nel campo della medicina, funziona proprio come lente di ingrandimento che ci permette di vedere meglio, di mettere a fuoco i punti dove è necessaria una trasformazione del nostro modo di metterci in relazione con l’altro. Possiamo dire che la medicina, anzi gli operatori sanitari, entrano in crisi proprio grazie alla migrazione che ci fa riscoprire come anche noi stessi vorrem mo essere guardati, visitati, considerati nella nostra unicità. La relazione operatore sanitario-paziente, così come ogni relazione, ha in sé la chance della trasformazione che passa proprio attraverso la scelta dell’accoglien za, del riconoscimento del valore della vita dell’altro. Una medicina attenta alla persona, come abbiamo visto anche recentemente nell’esperienza della pande mia di Covid-19, chiede di mettersi in gioco e di lavorare sulla propria trasforma zione arrivando a capovolgere l’impostazione della relazione terapeutica. Non più una relazione tra soggetto (il medico) e oggetto (il paziente) che viene studia to, analizzato, classificato, ma lo sviluppo della capacità di entrare in un terreno nuovo, inesplorato, dove l’altro è la fonte più importante che ho per capire il suo contesto ed anche il suo malessere, la sua malattia, la sua storia. La medicina così intesa ha la possibilità di reinventarsi multidisciplinare, capace di lavorare in rete con altri professionisti ed altre discipline quali la sociologia, l’an tropologia, la psicologia, l’economia come è diventato cruciale in questo tempo di pandemia. Questa capacità dialogica am pia e aperta, se colti vata attraverso un’a deguata formazione, apre gli operatori al dialogo con persone di altri popoli, inse gnando loro a ricono scere e legittimare al tri modi di vedere e di percepire la salute, la malattia, la sua ezio logia e la sua terapia, in una prospettiva di salute globale. Si an dava così delineando l’esperienza della me dicina transculturale. Una storia iniziata come un dono inatteso e che nel corso di più di vent’anni mi ha trasformato re galandomi una nuova esperienza di missionarietà: umile e comunionale, in un cammino continuo di formazione-trasformazione. Un viaggio che ora prosegue qui in Vietnam con Marina, Marianne e tutte le nuo ve missionarie che vorranno lanciarsi nell’avventura di questa barchetta. Bianca 22
emigrazione dai paesi dell’America Centrale verso il Messico e so- prattutto gli Stati Uniti ha tante cause diverse che si sommano e concorrono a un esodo forzato di singole persone, adulti e minori non accompagnati, e di intere famiglie. I media ci mostrano masse di gente, carovane in mo- vimento, ma ciascuno ha la sua storia e il suo cammino. Vi raccontiamo la storia di Jorge e María Fernanda, due giovani coraggiosi, che non hanno voluto accettare ingiustizie e compromessi. Negli incontri della vita quotidiana a Città del Messico abbiamo conosciuto in si tuazioni diverse Jorge dell’Honduras e María Fernanda del Nicaragua. Nelle loro giovani vite si è fatta largo gradualmente la necessità di partire dai loro paesi per poter vivere, per ritrovare la libertà dall’oppressione e dalla mancanza di giustizia e di prospettive. Jorge lo abbiamo conosciuto a Casa Tochan, una casa per migranti di Città del Messico. Da richiedente asilo accolto, il giovane honduregno è diventato collabo ratore volontario nei mesi più duri della pandemia. “I motivi della mia partenza dall’Honduras iniziano con gli eventi del 2009, quan- do ero ancora uno studente universitario. Mi riferisco al colpo di Stato militare ai danni del presidente Manuel Zelaya, una crisi politica che ha segnato uno spar- tiacque nella mia vita e in quella di tutto il paese. Prima di quel fatto si stava ma- turando una consultazione popolare per cambiare il bipartitismo in cui l’Honduras era rimasto bloccato per più di un secolo. Quando è arrivato il giorno, si sentiva nell’aria che sarebbe successo qualcosa. All’alba mi sono svegliato con la notizia che era in atto un colpo di stato. Ho avverti- 23
to un brivido nel corpo perché non sapevo come reagire. Non avevo mai avuto que- sta esperienza, ma ne avevo sentito parlare dalle persone che l’avevano vissuta in passato e ne avevo conosciuto degli esempi sui libri di storia. Sono andato molto presto nella piazza della mia città. Là c’erano ancora le perso- ne che avrebbero dovuto realizzare la consultazione popolare. All’improvviso ho visto arrivare delle camionette, da cui sono scesi i militari i quali hanno occupato tutta la piazza. In quel momento ho definito la mia posizione come cittadino. Ero molto giovane e questo atteggiamento ha portato con sé molte conseguenze, poi- ché da quel giorno ho iniziato a partecipare a tutte le iniziative di protesta contro il colpo di stato, mettendomi dalla parte dei perseguitati, mentre aumentavano i morti, alcuni uccisi nelle manifestazioni e altri vittime di una serie di omicidi seletti- vi. Nonostante questo pericolo, per la mia giovane età non ho messo limiti, ma mi sono lanciato perché ero cosciente che era necessario generare un cambiamento nel paese. Mi dicevo che non potevo restare indifferente di fronte a tutto quello che vedevo e il minimo che potevo fare era partecipare e non rimanere in silenzio. Ovviamente, è stato difficile. Con il passare del tempo ho cominciato a vedere le ripercussioni che tutto ciò aveva sulla mia vita”. Negli otto anni successivi, Jorge continua il suo impegno politico alternando mo menti di maggiore tranquillità a fasi di grande tensione. Impara ad avere un com portamento più cauto, per non dare alla polizia motivi per metterlo in prigione: “Sapevo che tutto era contro di me: l’apparato giuridico e militare. Non potevo com- mettere errori. Ascoltavo le notizie di persone assassinate, compagni che s’impe- gnavano a livello locale, studenti che avevano partecipato a una manifestazione 24
Honduras: le ragioni della fuga Negli ultimi anni l’Honduras è diventato il principale paese di origine dei migranti che transitano per il Messico in direzione ed erano stati sequestrati e poi uccisi. Però in quel degli Stati Uniti. Le cause congiunturali di questa emigrazio- momento non volevo ab- ne di massa sono le errate pratiche politiche ed economiche bandonare la lotta. Per me (acceleramento del modello neoliberale), il colpo di stato del fuggire dal paese sarebbe 2009 patrocinato dall’amministrazione del Presidente USA stato come lasciare incom- Barack Obama e la frode elettorale. Il fratello dell’attuale piuto quello che avevo co- Presidente dell’Honduras è stato condannato all’ergastolo minciato, nonostante ve- quest’anno per narcotraffico negli Stati Uniti. dessi che la situazione si stava deteriorando”. Tra le cause strutturali vi sono la povertà, la disoccupazione, Nel 2014 emerge grazie un’economia periferica nel mercato globale e la corruzione. ad alcuni giornalisti indi Il 70 % dell’economia honduregna è informale. L’Honduras è pendenti lo scandalo del anche uno dei paesi più violenti della regione. Inoltre, la pan- l’Istituto Honduregno di Si demia di covid-19 ha fatto sprofondare quasi un milione di curezza Sociale, cioè l’ente persone nella miseria. Il paese ha perso circa il 12 % del suo che gestisce i contributi PIL e poi nel 2020 è arrivato l’uragano Eta, che ha letteral- dei lavoratori per il sistema mente inondato la valle di Sula, ha fatto marcire le pianta- sanitario nazionale. Viene gioni di banane e di canna da zucchero. A distanza di una set- reso pubblico, infatti, il sac timana è arrivato l’uragano Iota. La devastazione lasciata al cheggio dei soldi dei contri buenti da parte dell’attuale loro passaggio da questi uragani non ha precedenti vicini nel regime del Presidente Juan tempo e lascia presagire che il cambiamento climatico stia Orlando Hernández Alvara avendo conseguenze tremende su questo paese dell’America do, eletto per la prima volta Centrale, riducendo ulteriormente i mezzi di sussistenza della nel 2013. Per questo moti popolazione. (https://www.internazionale.it/opinione/car- vo, molti honduregni sono los-martinez/2021/02/08/carovane-migranti) rimasti privi di assistenza sanitaria e vi sono state molte vittime per mancanza di medicine e terapie. “Questo ha causato in me e in tanti altri una grande indignazione. È nato il Mo- vimento delle torce, cioè delle manifestazioni che si tenevano in varie parti del paese tutti i venerdì sera, in cui le persone portavano con sé una torcia accesa, simbolo della salute, del desiderio di luce in un paese pieno di oscurità. Tutto questo impegno aveva un prezzo. A molti è costato la vita. Io ho dovuto vivere per anni come un esiliato nel mio stesso paese. Alla fine ho lasciato l’Hon- duras per l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nel 2017, durante la fase elettorale, nasce un’alleanza politica a cui ho dato il mio appoggio come artista, insieme a numerosi intellettuali, pittori e drammaturghi. Il Presidente uscente, però, riesce a farsi rieleggere con una frode elettorale. Il sistema informatico di conteggio dei voti, infatti, crolla all’improvviso e dopo alcuni giorni viene ripristina- to, ma i dati risultano cambiati e danno la vittoria a Hernández Alvarado, che ri- mane al potere per altri quattro anni. Nel 2016 avevano già assassinato l’ambien- talista Berta Cáceres, che conoscevo. Che cosa potevo sperare ancora? Nel mio caso mi stavano uccidendo lentamente e praticamente, perché ero emarginato dal mondo del lavoro e avevo molti problemi economici. Nel 2019 ricevo la notizia della partenza della carovana migrante da San Pedro Sula e decido di unirmi a loro. Non ho detto niente a nessuno. Ho avvisato mio padre il giorno stesso della partenza e lui non ha potuto fare nient’altro che augurarmi ogni bene e darmi un po’ di soldi. Ero completamente solo, pur essendo in una carovana. Il mio obbiet- 25
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