Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
SOMMARIO luglio- EDITORIALE 3 Alla frontiera delle diversità ottobre e... “dimenticanze” Maria Grazia Luise 2020 edizione italiana CONDIVISIONE Anno XLV n. 4 7 La grammatica luglio-ottobre 2020 dell‘incontro direzione e spedizione: Róża Mika Missionarie Secolari Scalabriniane Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D) GIOVANI Tel. +49/711/541055 13 Una Parola che non redazione: M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli lascia come prima M. Guidotti, A. Aprigliano Claudia Morales Almonte grafica e realizzazione tecnica: M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti, AMICI SULLE STRADE M.G. Luise, L. Bortolamai DELL‘ESODO disegni e fotografie: Copertina e p. 7-15, 22-26, 28-29, 35: 16 Calorosi saluti dal Nepal archivio delle Missionarie Secolari Sca Margret Bretzel labriniane; p. 4: archivio Missionari Scal- abriniani; p. 3, 6, 16-18, 21, 27, 30, 32-33: Pixabay; p. 3,5: italiani nelle Americhe. DOCUMENTI com; p. 16: Keshab Chhettri; p. 18-20: An- DELLA CHIESA nalisa Vandelli/Nexus: p. 31: Mahdi Sho- 17 Come Gesù Cristo, jaeiann_mehrnews.com. costretti a fuggire Per sostenere le Papa Francesco spese di stampa e spedizione contiamo sul vostro libero contributo annuale a: DAL MESSICO Missionarie Secolari Scalabriniane 22 Un segno di resistenza * c.c.p. n° 23259203 Milano -I- Luisa Deponti o conti bancari: *CH25 8097 6000 0121 7008 9 Raiffeisenbank Solothurn -CH- EMIGRAZIONE Swift-Code: RAIFCH22 26 La Sicilia e le migrazioni *DE30 6009 0100 0548 4000 08 nell‘estate della pandemia Volksbank Stuttgart -D- Mariella Guidotti BIC: VOBADESS Le Missionarie Secolari Scalabriniane, Istituto Secolare DAL LIBANO nella Famiglia Scalabriniana, 30 Beirut: rinascere ancora sono donne consacrate Interviste a Abouna Michel Sakr chiamate a condividere e a Mons. Edgard Madi l‘esodo dei migranti. Pubblicano questo periodico in quattro lingue come strumento 35 PROSSIMAMENTE 2 di dialogo e di incontro tra le diversità
iversi esperti in comunicazioni sociali studiano il fenomeno della dimenti- canza nei mass media. Alcuni di questi, infatti, gestiscono con abilità la dimen- ticanza secondo due direzioni: ora si dimentica qualcosa mettendo a tacere ciò che potrebbe disturbare una mentalità rassicurante (ad esempio i poveri e i migranti); ora si puntano i “fari” su tali realtà per ingrandirne gli aspetti nega- tivi, così da suscitare paura e rigetto. Anche questo è un modo di dimenticare. Può capitare che cittadini autoctoni - svizzeri, tedeschi o italiani… - si dimen- tichino che sono stati migranti. E tanti si dimenticano che il mondo intero sarà sempre più attraversato dai flussi migratori, se non intervengono capovolgi- 3
menti economici e culturali che trasformino i rapporti tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest del mondo. Così, in favore di un benessere egoistico e di pochi, che si riduce ad un illu- sorio e sempre minacciato quieto vivere, si dimentica una parte di noi stessi, della nostra umanità. Anche a livello pastorale potrebbe farsi strada una tendenza di parte. Per fortu- na lo Spirito Santo, memoria viva, s’incarica di risvegliare in ogni cristiano una visione cattolica, onnicomprensiva, che favorisce relazioni aperte a tutti, ricu- perando così categorie di persone dimenticate, perché nessuno vada perduto. Appartenenti alla Famiglia Scalabriniana riconosciamo nel beato G.B. Sca- labrini un padre e un maestro di cattolicità e di unità fra i piani e le realtà più diverse. Possiamo allora attingere a questa eredità: una spiritualità d’incarna- zione e di comunione universale, come dono per il nostro impegno missiona- rio. Ci sentiamo, cosi, inviati a diventare esperti dei “dimenticati”. Infatti, per essere a servizio del Corpo di Cristo e di tutto l’uomo, siamo chiamati a fare scelte preferenziali in favore dei più svantaggiati, coloro che non hanno voce, come i migranti. G.B. Scalabrini ha meritato il nome di Padre dei migranti perché il suo cuore - secondo il cuore di Gesù - rimaneva rivolto al Padre nella contemplazione, così da lasciarsi coinvolgere nel movimento dell’Amore infinito e universale che si è incarnato in Gesù Cristo per arrivare attraverso la Chiesa, Suo Corpo, ad ogni uomo: “Iddio ama il suo Figliuolo e lo ama essenzialmente ed è impossibile che si compiaccia in altri che in Lui, perché l’amore di Dio è infinito e non può avere altro oggetto che un oggetto infinito (Mt 17,5). Ma quel Figliuolo suo diletto 4
si è fatto uomo. Dunque in lui ama l’uomo”1. Da questa contemplazione G.B. Sca- labrini non poteva dimenticare i mi- granti…, anzi si è fatto lui stesso per loro, nella chiesa e nella società, me- moria storica puntuale della sollecitu- dine del Padre per gli ultimi. Egli non poteva non seguire con un “unico sguardo” di amore il Figlio di Dio che vedeva incarnato in quei “meschinel- li” in partenza per le Americhe: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25, 35). Queste dimenticanze, raccolte da Scalabrini, oggi ci appartengono come proprium della nostra missio- ne. Nello stesso tempo possiamo con gioia approfondire e attualizzare la spiritualità scalabriniana attraverso una teologia di comunione trinitaria. Essa può illuminare il nostro impe- gno per poter vivere nell’oggi la comunione alla frontiera di tante diversità. Storicamente le diversità delle Persone divine sono state spesso dimenticate fino al punto da affermare, per esempio, che Dio si è fatto uomo, ma senza distinguere tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Partendo, però, da questa unità divina indistinta, che fa quasi da supporto ad una cultura dell’identità, la diversità non trova posto se non come eccezione o estraneità. Ma allora l’unità di Dio - pensata così - non può illuminare la nostra convivenza sempre più diversificata, e le diversità o si contrappongono come po- larizzazioni o vengono assimilate e ignorate. La stessa nostalgia dell’unità, inscritta nell’uomo, non più sorretta da una fonte originante, può scadere in mano nostra in forme di dittatura di potere o diventare ideologia astratta parallela alla vita, che prima o poi la storia seppellisce. La spiritualità, che possiamo cogliere in G.B. Scalabrini, trova un vivo riferimento nella pienezza della comunione trinitaria tra le diversità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Una vita divina di Amore infinito che si prolunga fino al mondo attraverso il mistero dell’incarnazione, una vita di amore che diventa fonte e luce della nostra vita e della nostra storia. In ragione di questo tutti possiamo ricono- scerci figli di Dio e fratelli, nello stesso Figlio di Dio: Gesù. Nel Prologo di Giovanni è detto che “tutto è stato fatto per mezzo del Verbo, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). 1 G.B. Scalabrini, Lettera Pastorale, Piacenza 1878. 5
Siamo noi pure, allora, una parola di Dio, così come tutto ciò che esiste in quanto creato nel Verbo: il Figlio “sempre rivolto al Padre” (Gv 1,8) come “Pa- rola cava” che trova in Lui tutto il suo Senso. Anche noi, come tutte le creature e le realtà esistenti, troviamo il nostro Sen- so, non nell’essere rivolti a noi stessi o solo tra di noi in un confronto orizzon- tale, ma nell’essere rivolti, nel Figlio Gesù, al Padre. Egli, mentre ci fa esiste- re, ci diversifica secondo il Suo piano di amore e di salvezza, che si attua per la Sua multiforme grazia. In questa luce e in questa ampiezza di orizzonti trova spazio la dinamica della nostra vita cristiana. Essa si dispiega, nella stessa secolarità, come un con- vergere di tutte le cose per narrare l’incarnazione del Verbo: questo pazzesco amore di Dio che, facendosi uomo, riempie di senso la ferialità della vita e i rapporti con le persone e con le cose, perché rimangano aperti a tutto e a tutti, nel rimando allo stesso amore fontale ricevuto. Non c’è niente nella creazione di autosufficiente che abbia senso in sé, in quanto lo riceve dal fatto di essere in relazione con il vero Senso: il nostro Dio Creatore e Padre, il quale, nella sua vita e gioia sconfinata, si dispiega e si narra storicamente attraverso il Suo Figlio Gesù, la sua Parola fatta carne. Il mondo è buono: tutto ciò che è stato fatto da Dio è buono e bello, come voce o strumento diverso di un unico immenso concerto. Ogni realtà esistente, nella propria stessa “povertà” esistenziale, ha una ve- rità-bellezza-bontà che non può essere riempita di surrogati, di ideologie e neanche di pura prassi, ma deve essere liberata dagli idoli - falsi assoluti - per ricevere da Dio il suo vero Senso: senso di relazione con il tutto, senso che colma e risponde in sovrabbondanza al proprio stesso essenziale motivo di esistere. C’è, quindi, uno spazio immenso proprio del “sacerdozio regale” co- mune a tutti i cristiani, in forza del battesimo, che porta concretamen- te ad orientare e ordinare tutte le realtà temporali secondo il piano di Dio. Egli abbraccia e dà senso a tutte le cose, nessuna esclusa: dal momento che nessun frammento è insignificante, ma tutto può e deve diventare specchio della totalità e lo diventa nella misura in cui viene rivolto e convertito al Tutto. Come il più piccolo fiore che si esprime nella sua bellezza grazie al cielo e grazie alla terra. Maria Grazia 6
11 dicembre 1990 a Stoccarda è iniziata un’avventura di incontro e di formazione: il corso di tedesco con migranti e rifugiati. Fermiamoci insieme per ringraziare e cercare di cogliere qualche chiave importante di questa storia di trent’anni. G.B. Scalabrini nella sua vita non ha mai smesso di interessarsi dell’altro e farsi “tutto a tutti”. La sua indole contemplativa lo portava a scorgere dentro la realtà nuovi processi in evoluzione e a chiedersi come intervenire. Anche la nostra vocazione di missionarie secolari scalabriniane ci ha portato fin dagli inizi ad uno sguardo attento alle persone e alle realtà circostanti, uno sguardo che, impregnato della spiritualità dell’esodo, sempre di nuovo si è tradotto in espressioni creative e durature del carisma ricevuto. Che cosa può significare questo nella concretezza? Siamo a Stoccarda, nel quartiere di Bad Cannstatt, dove la maggioranza degli abitanti ha le proprie radici all’estero e dove la nostra comunità è presente dal 1968. Camminando per le strade sentiamo parlare le più diverse lingue del mondo: dal turco al greco, dall’italiano all’arabo, serbo, cinese, croato e 7
naturalmente, oltre al tedesco, anche lo svevo, il dialetto locale che – per chi riesce a capirlo – contribuisce a dare un certo senso di familiarità. Di fatto, la sfida di capire la lingua del paese di approdo e così di sentirsi almeno in questo aspetto un po’ di più a casa non abbandona quasi mai il migrante. È stata proprio questa sfida, colta nei volti e nelle storie delle persone incontrate, che ha portato alla nascita di un corso di tedesco, inizialmente indirizzato soprattutto ai rifugiati e con il tempo allargato anche ai migranti più svantaggiati. Ed è iniziato con una giovane tedesca appena arrivata in comunità – anche lei migrante con i migranti! Nel dicembre del 1990, in collaborazione con la diocesi e inizialmente anche con la Caritas locale, hanno preso il via le lezioni nelle sale della parrocchia di San Martin. Pakistan, Iran, Turchia, Libano, Vietnam, Egitto, Eritrea ed Etiopia erano i paesi di provenienza dei primi studenti che, come una piccola lente d’ingrandimento, eviden- ziavano diversi punti del mondo feriti dai conflitti e dalle persecuzioni di quel tempo e che purtroppo, anche a di- stanza di trent’anni, non risultano ancora superati. Potrebbe sembrare secondario ma rimane una coinci- denza significativa il fatto che i locali della parrocchia si trovavano nella Brückenstraße, che tradotto significa “via del ponte”1 e che, come una metafora, esprime il senso più profondo di questa avventura: creare dei ponti (non solo linguistici) tra rifugiati, istituzioni, parrocchia, società e, soprattutto, tra le persone. Fin dall’inizio ci ha mosso il sogno che questo corso di tedesco fosse un luogo dove la cultura dell’incontro, e non dello scarto, crescesse e venisse vissuta con intensità, così da testimoniare che si può vivere insieme grazie alle nostre diversità. Questa esperienza educativa, che ha coinvolto migran- ti, rifugiati, missionarie, qualche parrocchiano e diversi studenti universitari e delle scuole superiori che in questi anni hanno svolto servizio di volontariato, testimonia una collaborazione piena di passione e di disponibilità a con- dividere. Di fatto, non di rado ci è capitato che i migranti stessi, dopo aver raggiunto un buon livello linguistico, ab- biano voluto dare una mano nell’insegnamento per espri- mere in questo modo la gratitudine per ciò che avevano 1 Solo nel 2020 il corso ha cambiato sede e si svolge presso la casa parrocchiale di St. Rupert, un’altra chiesa della stessa unità pastorale. 8
ricevuto! Ma anche più semplicemente, durante le lezioni, i partecipanti sono continuamente sol- lecitati allo scambio e all’aiuto reciproco: chi è più avanzato aiuta chi è un passo indietro e anche chi è indietro può dare il suo contributo di pazienza, di tenacia, di umiltà e spesso anche di humor. Dagli inizi dunque il corso è stato portato avanti in uno stile di reciprocità e di incontro alla pari: ognuno dal punto in cui si trova, sia linguistico che esperienziale, contribuisce non solo al processo di apprendimento del tedesco ma soprattutto alla cre- scita delle relazioni. È un imparare insieme – con, da e grazie all’altro – la grammatica dell’incontro. Il clima di apertura e di stima dell’altro favorisce anche la perseveranza nella motivazione allo stu- dio, pur tra le difficoltà, e diventa come un trampo- lino di lancio per le sfide quotidiane nella realtà di un nuovo paese. L’accoglienza che ognuno di noi sperimenta, sia chi impara sia chi insegna, permette di aprirsi ed esprimere se stessi oltrepassando il proprio limite, anzi cercando di riconoscerlo sempre di più come luogo d’incontro. Spesso diciamo che l’appren- dimento della lingua – così come la lingua in sé – è solo un mezzo e non lo scopo finale. Certo, la lingua rimane sempre importante e utile ma, appunto, come uno strumento che permette di esprimere ciò che c’è già: la vita. Il vero obbiettivo del corso di tedesco sono i rapporti, semplici, veri: rapporti di stima e di umanità che, lezione per le- zione, crescono tra tutti. I momenti di festa durante l’anno ma anche i mo- menti più feriali ne danno testimonianza: qualcuno a sorpresa porta una torta per tutti, o una specialità del proprio paese; c’è chi vuole pagare in segreto un libro per un altro partecipante che non se lo può permettere; qualcuno scrive delle poesie (anche sull’esperienza del corso) e le recita agli altri dopo aver superato la propria timidezza. Una signora, non avendo niente di pronto e volendo ringraziare una delle insegnanti che stava per partire per le ferie, ha aperto la sua borsa con la spesa appena fatta e le ha regalato… ciò che aveva! Quanta umanità, che è la più vera bellezza, si manifesta in questi piccoli gesti di attenzione che 9
all’inizio di ogni corso non sono per niente scontati perché giustamente ognuno cammina sul proprio binario, concentrato sul proprio apprendimento, sui propri compiti da fare, sulle difficoltà – linguistiche ma soprattutto della vita – da af- frontare. Tra i partecipanti ci sono persone che, anche senza essere andate a scuola, sono riuscite a costruirsi una vita ed una famiglia e che ora si trovano a dover imparare l’abc non solo del tedesco, ma anche dello stare insieme in classe con compagni così diversi. È una grande sfida per tutti imparare a intera- gire con persone il cui retroterra e i riferimenti culturali e religiosi, i livelli sociali e professionali sono completamente altri. Spesso non si ha neanche una lingua in comune sulla quale appoggiarsi. Per noi insegnanti questo significa che non possiamo fermarci sul “sin qui fatto”, ma siamo chiamati sempre di nuovo a met- terci al passo con il gruppo e con le singole persone, a camminare con loro e, allo stesso tempo, a cercare di portarle sempre un passo avanti. È importante partire dalla persona e dalle sue richieste per fare insieme un viaggio che permette a tutti di scoprire nuovi orizzonti. Il tempo e la gradualità giocano un grande ruolo in tutto questo percorso: la reciproca conoscenza, i rapporti personali fuori dalle lezioni, le visite negli alloggi dei rifugiati, l’interesse per l’altro e la sua storia favoriscono la crescita della fiducia e permet- tono uno scambio sempre più sciolto e gioioso. Le esperienze personali, spesso difficili, che emergono durante le lezioni – la guerra, la fuga, i momenti di sconforto nel nuovo paese, la lontananza della fa- miglia, la ricerca del lavoro – diventano l’occasione per imparare a comprendere l’altro e a partecipare al suo dolore. Sempre di nuovo si possono toccare con mano an- che dei piccoli miracoli! Quando, per esempio, una persona che era analfabeta inizia ad imparare il te- desco all’età di 45-50 anni e dopo un po’ di tempo e 10
di lavoro sodo riesce a scrivere da sola, senza copiare le parole, non è un mira- colo? O quando all’interno di un gruppo i partecipanti, in un primo momento un po’ ostili e distanziati gli uni dagli altri, iniziano ad apprezzarsi a vicenda, lanciandosi e rilanciandosi, come in una partita di ping-pong, dei complimenti reciproci, non è un miracolo? Tutto questo non significa l’eliminazione automatica degli ostacoli sul cammino, degli scontri e delle discussioni (a volte molto accese) in classe. Le ferite che tanti migranti portano con sé non vengono cancellate per il solo fatto di essersi sposta- ti in un paese dove la guerra non c’è; anzi spesso la lezione stessa diventa una sfida quando nel banco accanto ti ritrovi con chi nel tuo paese viene considerato “un nemico”. E, tuttavia, certo non in modo automatico ma con tempo e pazienza, abbiamo visto tante persone incominciare a guardarsi con occhi nuovi. A proposito di occhi nuovi. Non dimenticherò mai una signora siriana, di famiglia molto benestante; che cono- sceva perfettamente l’arabo, ma arrivando in Germania aveva dovuto iniziare da capo: prima l’alfabeto, la scrit- tura, i suoni… Una fatica che sembra non finire mai, so- prattutto quando si è raggiunta una certa età e l’appren- dimento è diventato meno automatico. E la sorpresa: un giorno sua figlia mi ha raccontato che da quando la mamma ha imparato il nostro alfabeto, camminando in città, ha iniziato a soffermarsi per leggere i nomi dei ne- gozi, delle verdure, delle strade, le destinazioni dei mezzi di trasporto, che prima erano incomprensibili per lei. E – ha continuato la figlia – che gioia nei suoi occhi, fino alla commozione per i passi fatti e per la possibilità di sentirsi un po’ più a casa. Quanto fecondo può essere l’incontro con persone di di- verse nazionalità, culture, situazioni sociali, persone sca- vate dal sacrificio e dal rischio, dalla lotta per la libertà del 11
proprio paese o dal dolore per la perdita di famigliari, uccisi a motivo della loro fede cristiana, del loro credo o dell’appartenen- za etnica – persone che su di sé hanno sperimentato cosa veramente significa la mancanza di pace! Cercando di percorrere la prima e fon- damentale via della Chiesa che è l’uo- mo2, ci è dato di incontrare una bellezza particolare: quella che fiorisce quando il mistero della Pasqua tocca la storia di una persona e, come nel dolore di un parto, fa nascere la vita vera, vita che è relazione. Nel corso spesso ci viene regalata l’e- sperienza di accorgerci che lo Spirito del Risorto è all’opera nel mon- do e tra persone di diverse reli gioni e rende possibili incontri profondi e autentici. Siamo in- fatti consapevoli che non sia- mo capaci di vivere il perdono a partire dalle nostre sole for- ze. La novità della vita riconci- liata, che può cambiare il no- stro sguardo per riconoscere nell’altro un fratello che ci appartiene, non può essere solamente un frutto del do- vere o del nostro sforzo. Ci vuole però la disponibilità a fare tutta la nostra parte e la lungimiranza di avviare dei processi senza pretendere risultati immediati. È proprio la diversità di ogni persona che ci provoca a non fermarci alla superficie, spesso conflittuale, ma a metterci in ascolto. Ed è l’ascolto che può rinnovare il nostro modo di pensare e vedere l’altro, noi stessi, Dio e creare quello spazio che è già in se stesso inizio di un’umanità riconciliata. Róża 2 Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 14. 12
laudia e Melanie, missionarie a Stoccarda, accompagnano anche su invio della diocesi di Rottenburg-Stuttgart e in collaborazione con la pastorale universitaria in particolare gli studenti internazionali che arrivano dai più diversi paesi per studiare nelle università di questa città tedesca. Insieme a questi giovani hanno sperimentato, in modo nuovo dopo la fase del confinamento, l’importanza dello scambio delle esperienze personali, delle fatiche, delle domande che attraversano la vita quotidiana e la ricerca della fede. Con la riapertura e la ripresa della “normalità”, dopo il periodo di chiusura per l’emergenza sanitaria, abbiamo avuto la possibilità di lanciarci in un’esperienza nuova, sul piano personale e delle nostre relazioni, nel tentativo “di uscire migliori da questo tempo di crisi,… cercando tutti insieme il bene comune”, come ci invitava a fare ultimamente Papa Francesco. Abbiamo riscoperto con gioia il valore dell’incontro da persona a persona, dopo che per alcuni mesi era stato possibile spesso soltanto in modo virtuale. E quanta creatività si è sprigionata per rimanere vicini gli uni agli altri! Anche noi abbiamo cercato di mantenere viva una rete di relazioni, di scambio e comunione, per esempio intensificando la Preghiera dei continenti, organizzata dal Centro di Spiritualità collegandoci non solo una volta al mese, ma ogni settimana via skype. Quando si è riaperta la possibilità di un incontro “reale”, è stata grande la gioia dei giovani di ritrovarsi e, per alcuni, anche di conoscersi direttamente dopo essersi visti soltanto in videochiamata per la preghiera. E anche se era la prima volta che ci si riuniva, c’era già un cammino di condivisione alle spalle. Appena è stato dato il via libera, è ripresa la celebrazione delle Messe anche qui in Germania. Questo tempo di ‘isolamento’ ci ha fatto cogliere la dimensione 13
relazionale-comunitaria della vita e riscoprire la bellezza di poter celebrare insieme la fede, spezzare il pane, condividere le gioie e le fatiche. Ci stupisce come la Messa stia diventando un appuntamento importante della settimana anche per tanti giovani di origine straniera. Li incontriamo nelle celebrazioni in lingua inglese nella chiesa di St. Marien e cogliamo in loro il desiderio di rimanere ancora insieme per uno scambio semplice e spontaneo. Nelle varie occasioni di dialogo ci rendiamo conto che la Parola di Dio non torna indietro senza aver operato ciò per cui è stata inviata (cfr. Isaia 55, 10). È una Parola che non lascia come prima, ci trasforma, diventa carne nell’Eucaristia, e ci fa diventare pane da spezzare con gli altri. “L’anima mia magnifica il Signore … Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,39-56). “Magnificare letteralmente significa ‘fare grande’, mettere Dio come prima grandezza della vita, … la gioia nasce dalla presenza di Dio che ci aiuta, che è vicino a noi. Perché Dio è grande e guarda e ama i piccoli: noi siamo la sua debolezza di amore. Se, come Maria, ricordiamo le grandi cose che il Signore compie, il cuore si dilata, la gioia aumenta” (Omelia di Papa Francesco, 15/08/2020). In uno dei momenti di scambio, uno dei ragazzi ci ha detto: “Dio ha un piano per ciascuno di noi, come per Maria e in alcune situazioni della mia vita ho scoperto, col tempo, le tracce di Dio, le cose non avvengono per caso, Lui conduce la nostra storia”. Mentre una ragazza, ringraziando per questo spazio di dialogo, si chiedeva: “Tante volte ascoltiamo la Parola di Dio ma poi durante la settimana ci sfugge, la dimentichiamo, come possiamo aiutarci a lasciare che la Sua Parola rimanga in noi?”. “Ma voi, chi dite che io sia? … Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 13-20). “God is alive”, “Dio è vivo” continuava a ripetere un ragazzo iraniano mentre ci raccontava la sua storia. Dopo una Messa, infatti, abbiamo percepito il suo sguardo inquieto, desideroso di trattenersi per parlare ancora. Prendendo insieme un gelato, lui ha incominciato a spiegarci come avesse incontrato la fede cristiana e come la Parola di Dio avesse risvegliato in lui una grande pace, “Dio è la pace” ci ha detto. Ha iniziato a frequentare la chiesa e a pregare, anche se in quel momento tutto era nuovo per lui e conosceva poco del cristianesimo, ma si stava chiedendo chi fosse Gesù. Proviene da una famiglia musulmana. Un giorno ha avuto un sogno in cui Gesù, con la sua mano ferita sulla sua testa, gli diceva: “Figlio mio non avere paura, questo sangue ti guarirà”. Questo ha capovolto la sua vita, proprio in un momento in cui sperimentava la sua debolezza e fragilità, davanti a grosse difficoltà. Oggi continua un cammino di conoscenza della fede cristiana e ha scoperto che Gesù è “il Figlio del Dio vivo”, desidera approfondire la Sua Parola, cosa vuole dirgli e come viverla nel quotidiano. “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,21-27). 14
Tra gli studenti che incontriamo ci sono giovani dell’Iraq, della Siria, del Pakistan, paesi dove i cristiani sono una minoranza. Ci colpisce, di fatto, che la fede sia radicata in questi giovani cristiani come una esperienza vitale, che tocca tutte le dimensioni dell’esistenza, e non soltanto come una pratica esteriore. Tempo fa uno studente diceva: “La vita con Dio e la vita senza Dio è un’altra cosa”. Alcuni di loro cercano di andare insieme a Messa o di incontrarsi per uno scambio sui temi della fede, anche se a motivo della lingua non è sempre facile trovare il gruppo appropriato. Nel dialogo abbiamo colto la loro gioia di trovarsi adesso in un paese ‘cristiano’ dove sono liberi di vivere ed esprimere la loro fede; nei loro paesi, devono attraversare non poche difficoltà per rimanere coerenti con ciò in cui credono. “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. (Mt 18,15-20). Quanti incontri avvengono nella semplicità e nella spontaneità! E quanta creatività si risveglia per non perdere di vista ciò che è essenziale: la condivisione. Nelle nostre diversità sperimentiamo con gli studenti internazionali la gioia di scoprire una lingua comune, che non è solo quella inglese, ma soprattutto quella del cuore che si dilata a tutti, che non ha frontiere: “ognuno può capire la lingua dell’amore”. Con gli occhi pieni di stupore vediamo crescere nuove amicizie. In più occasioni abbiamo sperimentato che “il più piccolo”, per esempio chi è appena arrivato, chi ha difficoltà per la lingua o chi proviene da una cultura molto diversa, ci ha aiutato ad andare oltre le nostre frontiere, a fare il primo passo incontro all’altro e ad aprirci ad una accoglienza reciproca. Quanti ‘ponti di comunione’ ci fanno convergere in Colui che ci unisce più in profondità: ”Io sono in mezzo a voi”, e ci fanno appartenere l’uno all’altro, attraverso i nostri piccoli passi condivisi nella semplicità. Claudia 15
metà luglio di quest’anno siamo stati sorpresi da questa e-mail: Calorosi saluti dal Nepal. Noi siamo sani e salvi qui in Nepal e speriamo che voi tutti siate sani e salvi. La situazione nel nostro paese sta tornando alla normalità dopo il completo confinamento durato novanta giorni. Mia moglie Pabitra e io siamo stati a Solothurn nel 2014 alla Festa di primavera e abbiamo nostalgia di tutte le persone dal cuore gentile. Preghiamo insieme perché la pandemia sia presto sotto controllo e la situazione ritorni al più presto normale. Cordialmente Keshab Nel 2014, Keshab, allora studente a Stoccarda, era stato invitato da un amico africano, studente come lui, a partecipare alla Festa di primavera a Solothurn. Keshab si era iscritto insieme alla giovane moglie arrivata un giorno prima in visita dal Nepal. Poco tempo dopo l’incontro a Solothurn, insieme sono ritor- nati nella loro patria. Non c’eravamo incontrati prima e non ci siamo più visti dopo, ma da quel fine settimana all’IBZ è continuata un’appartenenza viva e familiare… oltre ogni distanza geografica, temporale, linguistica, culturale e religiosa, come ci dicono queste poche ma cordiali righe di una coppia indù. Desideriamo passare questo saluto così inaspettato e da così lontano a tutti i partecipanti alle Feste internazionali (la Scalabrini-Fest di primavera a So- lothurn in Svizzera e la Scalabrini-Fest dei frutti a Stoccarda in Germania), per sperimentare, approfondire e far crescere, lì dove viviamo, la coscienza di essere tutti sorelle e fratelli nell’unica famiglia umana Margret 16
essaggio del Santo Padre Francesco per la 106ma Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (27 settembre 2020) All’inizio di questo anno, nel mio discorso ai membri del Corpo Diplomatico ac- creditato presso la Santa Sede, ho annoverato tra le sfide del mondo contem- poraneo il dramma degli sfollati interni: «Le conflittualità e le emergenze umani- tarie, aggravate dagli sconvolgimenti climatici, aumentano il numero di sfollati e si ripercuotono sulle persone che già vivono in stato di grave povertà. Molti dei Paesi colpiti da queste situazioni mancano di strutture adeguate che consentano di venire incontro ai bisogni di quanti sono stati sfollati» (9 gennaio 2020). La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha pubblicato gli “Orientamenti Pastorali sugli Sfollati Interni” (Città del Vaticano, 5 maggio 2020), un documento che si propone di ispirare e animare le azioni pastorali della Chiesa in questo particolare ambito. Per tali ragioni ho deciso di dedicare questo Messaggio al dramma degli sfollati interni, un dramma spesso invisibile, che la crisi mondiale causata dalla pan- 17
demia COVID-19 ha esaspe- rato. Questa crisi, infatti, per la sua veemenza, gravità ed estensione geografica, ha ridimensionato tante altre emergenze umanitarie che affliggono milioni di persone, relegando iniziative e aiuti in- ternazionali, essenziali e ur- genti per salvare vite umane, in fondo alle agende politiche nazionali. Ma «non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontan- do non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone» (Messaggio Urbi et Orbi, 12 aprile 2020). Alla luce dei tragici even- ti che hanno segnato il 2020, estendo questo Messaggio, dedicato agli sfollati interni, a tutti coloro che si sono trovati a vivere e tuttora vivono esperienze di precarietà, di abbandono, di emarginazione e di rifiuto a causa del COVID-19. Vorrei partire dall’icona che ispirò Papa Pio XII nel redigere la Costituzione Apostolica Exsul Familia (1 agosto 1952). Nella fuga in Egitto il piccolo Gesù sperimenta, assieme ai suoi genitori, la tragica condizione di sfollato e profugo «segnata da paura, incertezza, disagi (cfr. Mt 2,13- 15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di fa- miglie possono riconoscersi in questa triste realtà. Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurez- za e di una vita dignitosa per sé e per le proprie fa- miglie» (Angelus, 29 dicembre 2013). In ciascuno di loro è presente Gesù, costretto, come ai tempi di Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato, assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che ci interpella (cfr. Mt 25,31-46). Se lo riconosciamo, saremo noi a ringraziarlo per averlo potuto incon- trare, amare e servire. Le persone sfollate ci offrono questa opportunità di incontro con il Signore, «anche se i nostri oc- chi fanno fatica a riconoscerlo: coi vestiti rotti, con i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piaga- to, incapace di parlare la nostra lingua» (Omelia, 18
15 febbraio 2019). Si tratta di una sfida pastorale alla quale siamo chiamati a rispondere con i quattro verbi che ho indicato nel Messaggio per questa stessa Giornata nel 2018: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ad essi vorrei ora aggiungere sei coppie di verbi che corrispondono ad azioni molto concrete, legate tra loro in una relazione di causa-effetto. Bisogna conoscere per comprendere. La conoscenza è un passo necessario ver- so la comprensione dell’altro. Lo insegna Gesù stesso nell’episodio dei discepoli di Emmaus: «Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (Lc 24,15-16). Quando si parla di migranti e di sfollati troppo spesso ci si ferma ai nu- meri. Ma non si tratta di numeri, si tratta di persone! Se le incontriamo arriveremo a conoscerle. E conoscendo le loro storie riusciremo a comprendere. Potremo comprendere, per esempio, che quella precarietà che abbiamo sperimentato con sofferenza a causa della pandemia è un elemento costante della vita degli sfollati. È necessario farsi prossimo per servire. Sembra scontato, ma spesso non lo è. «Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò a un albergo e si prese cura di lui» (Lc 10,33-34). Le paure e i pregiudizi – tanti pregiudizi – ci fanno mantenere le distanze dagli altri e spesso ci impediscono di “farci prossimi” a loro e di servirli con amore. Avvicinarsi al prossimo spesso significa essere disposti a correre dei rischi, come ci hanno insegnato tanti dottori e infermieri negli ultimi mesi. Questo stare vicini per servire va oltre il puro senso del dovere; l’esempio più grande ce lo ha lasciato Gesù quando ha lavato i piedi dei suoi discepoli: si è spogliato, si è inginocchiato e si è sporcato le mani (cfr. Gv 13,1-15). Per riconciliarsi bisogna ascoltare. Ce lo inse- gna Dio stesso, che, inviando il suo Figlio nel mondo, ha voluto ascoltare il gemito dell’umani- tà con orecchi umani: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, […] perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). L’amore, quello che riconcilia e salva, incomincia con l’ascoltare. Nel mondo di oggi si moltiplicano i messaggi, però si sta perdendo l’attitudine ad ascoltare. Ma è solo attraverso un ascolto umile e attento che possiamo arrivare a riconciliarci dav- vero. Durante il 2020, per settimane il silenzio ha regnato nelle nostre strade. Un silenzio drammati- co e inquietante, che però ci ha offerto l’occasione di ascoltare il grido di chi è più vulnerabile, degli sfollati e del nostro pianeta gravemente malato. E, ascoltando, abbiamo l’opportunità di riconciliarci con il prossimo, con tanti scartati, con noi stessi e con Dio, che mai si stanca di offrirci la sua mi- sericordia. 19
Per crescere è necessario condividere. La prima comunità cristiana ha avuto nella condivisione uno dei suoi elementi fondanti: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno consi- derava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32). Dio non ha voluto che le risorse del nostro pianeta fossero a beneficio solo di alcuni. No, questo non l’ha voluto il Signore! Dobbiamo imparare a con- dividere per crescere insieme, senza lasciare fuori nessuno. La pandemia ci ha ricordato come siamo tutti sulla stessa barca. Ritrovarci ad avere preoccupazioni e timori comuni ci ha dimostrato ancora una volta che nessuno si salva da solo. Per crescere davvero dobbiamo crescere insieme, condividendo quello che ab- biamo, come quel ragazzo che offrì a Gesù cinque pani d’orzo e due pesci… E bastarono per cinquemila persone (cfr Gv 6,1-15)! Bisogna coinvolgere per promuovere. Così infatti ha fatto Gesù con la donna samaritana (cfr Gv 4,1-30). Il Signore si avvicina, la ascolta, parla al suo cuore, per poi guidarla alla verità e trasformarla in annunciatrice della buona novella: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?» (v. 29). A volte, lo slancio di servire gli altri ci impedisce di vedere le loro ricchezze. Se vogliamo davvero promuovere le persone alle quali offriamo assistenza, dobbiamo coinvolgerle e renderle protagoniste del proprio riscatto. La pandemia ci ha ricordato quanto sia essenziale la corresponsabilità e che solo con il contributo di tutti – anche di categorie spesso sottovalutate – è pos- sibile affrontare la crisi. Dobbiamo «trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà» (Meditazione in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020). È necessario collaborare per costruire. Questo è quanto l’Apostolo Paolo rac- comanda alla comunità di Corinto: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire» (1 Cor 20
1,10). Costruire il Regno di Dio è un impegno comune a tutti i cristiani e per que- sto è necessario che impariamo a collaborare, senza lasciarci tentare da gelosie, discordie e divisioni. E nel contesto attuale va ribadito: «Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone» (Messaggio Urbi et Orbi, 12 aprile 2020). Per preservare la casa comune e farla somigliare sempre più al progetto originale di Dio, dobbia- mo impegnarci a garantire la cooperazione internazionale, la solidarietà globale e l’impegno locale, senza lasciare fuori nessuno. Vorrei concludere con una preghiera suggerita dall’esempio di San Giuseppe, in particolare quando fu costretto a fuggire in Egitto per salvare il Bambino. Padre, Tu hai affidato a San Giuseppe ciò che avevi di più prezioso: il Bambino Gesù e sua madre, per proteggerli dai pericoli e dalle minacce dei malvagi. Concedi anche a noi di sperimentare la sua protezione e il suo aiuto. Lui, che ha provato la sofferenza di chi fugge a causa dell’odio dei potenti, fa’ che possa confortare e proteggere tutti quei fratelli e quelle sorelle che, spinti dalle guerre, dalla povertà e dalle necessità, lasciano la loro casa e la loro terra per mettersi in cammino come profughi verso luoghi più sicuri. Aiutali, per la sua in- tercessione, ad ave- re la forza di andare avanti, il conforto nel- la tristezza, il corag- gio nella prova. Dona a chi li accoglie un po’ della tenerez- za di questo padre giusto e saggio, che ha amato Gesù come un vero figlio e ha sorretto Maria lungo il cammino. Egli, che guadagna- va il pane col lavoro delle sue mani, pos- sa provvedere a co- loro a cui la vita ha tolto tutto, e dare loro la dignità di un lavoro e la serenità di una casa. Te lo chiediamo per Gesù Cristo, tuo Figlio, che San Giuseppe salvò fuggendo in Egitto, e per intercessione della Vergine Maria, che egli amò da sposo fedele secondo la tua volontà. Amen. Papa Francesco 21
apa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migran- te e del Rifugiato (27 settembre 2020) propone alla nostra riflessione sei “coppie” di verbi1, che mi sembrano, nella loro profondità e chiarezza evangelica, un “programma” capace di indicarci la strada per un cam- biamento delle nostre relazioni con gli altri, in ogni ambiente, e non solo nel campo delle migrazioni. Tra questi, i verbi “farsi prossimi per servire” risultano particolarmente signifi- cativi e, come dice il Messaggio stesso, niente affatto scontati in questi mesi di distanziamento sociale. È quello che stiamo vivendo recentemen- te qui a Città del Messico nell’incontro con i migranti messicani espulsi dagli Stati Uniti perché privi di permesso di soggiorno: una realtà, già di per sé dolorosa, resa ancor più dura dal contesto della pandemia. Tutto que- sto rivela la volontà politica di utilizzare la situazione sanitaria per accelerare i rimpatri. Da marzo, infatti, una legge d’emergenza per la salute pubblica conferisce in modo straor- dinario alle autorità statunitensi il potere di rimpatriare immediatamente gli stranieri irre- golari fermati alla frontiera, senza applicare le leggi migratorie ordinarie, che permettono, ad esempio, la possibilità di chiedere asilo. Così, mentre prima dell’epidemia la maggio- ranza di coloro che attraversavano il confine clandestinamente erano singole persone e famiglie del Centroamerica che intendevano chiedere asilo, ora il gruppo più numeroso è costituito da uomini soli, messicani, che per la crisi economica cercano lavoro negli USA. Da gennaio a luglio sono stati espulsi 103’685 messicani, un numero di poco inferiore a quello dello stesso periodo del 2019. Come sempre, la maggior parte dei rimpatri avviene attraverso la frontiera terrestre tra Stati Uniti e Messico. Tuttavia dal maggio di quest’anno, in piena 1 I verbi sono: “conoscere per comprendere”, “farsi prossimi per servire”, “ascoltare per riconciliarsi”, “condividere per crescere”, “coinvolgere per promuovere”, “collaborare per costruire”. 22
diffusione del coronavirus, quando ogni altra forma di mobilità non essenziale era proibita e le frontiere erano chiuse, sono iniziati una volta alla settimana dei voli charter che trasportano all’aeroporto di Città del Messico alcune cen- tinaia di messicani espulsi. Gli aerei provengono da Austin (Texas) e da San Diego (California). Era dal 29 maggio 2018 che non venivano più realizzati questi voli. Già nel 2018 avevamo conosciuto “New Comienzos” e “Deportados Unidos en la Lucha” (DUL), due associazioni – ma ve ne sono anche altre – costituite da messicani rimpatriati in maniera forzata dagli USA. Con grande coraggio gli iniziatori di queste realtà, pur essendo loro stessi costretti a ricominciare da zero la loro vita in Messico dopo molti anni trascorsi negli Stati Uniti, intendo- no aiutare altre persone che stanno vivendo la stessa esperienza. Attualmente in collaborazione con DUL abbiamo iniziato Fernanda ed io ad andare una volta alla settimana, inizialmente all’aeroporto, e poi alla Terminal del Norte, una delle stazioni degli autobus della città, per cercare di “incrocia- re” il cammino di questi migranti di ritorno. Appunto, non è scontato “avvicinarsi per servire”. La particolare situazione dei migranti rimpatriati, le misure burocratiche delle autorità nell’aeroporto, la ne- cessità di seguire misure di sicurezza per proteggere e proteggersi dal coro- navirus, ma anche la diffidenza dei migranti stessi rendono l’incontro non così facile. La coordinatrice di DUL, Ana Laura López, e i suoi collaboratori hanno trovato con creatività un modo per accompagnare le persone che arrivano a Città del Messico: distribuire loro delle mascherine avvolte singolarmente in una confezione al cui interno vi è anche un foglio informativo su DUL, con i relativi contatti WhatsApp, posta elettronica, Facebook, Instagram... DUL, infatti, offre assistenza in vari modi, ad esempio aiutando nelle comples- se pratiche burocratiche a cui a volte i messicani espulsi dagli USA vanno in- contro nel loro paese di origine; oppure indicando se vi è possibilità di ricevere 23
un appoggio da parte del governo per iniziare una piccola attività economica; o ancora dando la possibilità di alloggiare in una casa d’accoglienza a coloro che non hanno un luogo dove andare. Le autorità messicane ricevono questi connazionali espulsi e nell’aeroporto organizzano per loro un controllo medico, per individuare eventuali casi di COVID-19. Inoltre l’Instituto Nacional de Migración (INM) paga per loro un bi- glietto di autobus. L’idea sarebbe quella di favorire il rientro alle loro rispettive città di origine, nei diversi Stati che compongono il Messico. Alcuni pullman dell’INM accompagnano, quindi, i migranti verso le varie stazioni di autobus ai quattro punti cardinali di Città del Messico. Il gruppo più numeroso si dirige verso la Centrale del Nord: come mai?! Lo scopriamo parlando con loro nella sala d’aspetto di questa stazione di pullman. Gli offriamo una mascherina, spieghiamo che nella confezione tro- veranno informazioni che potrebbero essere loro utili. Molte delle persone che incontriamo hanno già un’idea nella mente: dirigersi nuovamente a nord, verso la frontiera... ritentare, in poche parole, di attra- versarla, nonostante sia diventato davvero difficile superare il Muro e molti vengano arrestati o nel tentativo o a pochi chilometri dal confine. Pochissime sono le donne che vediamo e quasi non riusciamo a parlare con loro. Sono le più sfuggenti, segno della paura che accompagna chi è più vul- nerabile. Mentre con diversi ragazzi – molti sembrano tra i diciotto e i venti anni – e uomini più maturi di età è possibile iniziare un dialogo. Le storie sono diverse: alcuni sono al loro primo tentativo fallito di emigrare negli USA; al di là della frontiera li aspettano amici o familiari e, spesso, una prospettiva di lavoro con un salario che, confrontato con quello messicano, appare una ragione sufficiente per rischiare tutto. Per molti vale la pena tentare alme- no un’altra volta, magari dopo qualche giorno di riposo per riprendersi dalla dura esperienza dell’attraversamento della frontiera, dell’arresto, dei giorni 24
trascorsi in un centro di detenzione e del volo aereo con le manette al pol- so. Rimangono in gruppo, per potersi riorganizzare, e puntano verso le città di frontiera. Alcuni però già desistono: il pensiero va alla famiglia, da cui ci si dovrebbe separare per un tempo incalcolabile, ai pericoli e alle sofferenze che si de- vono affrontare. Vengono alla mente possibilità alternative di guadagnarsi da vivere in Messico, anche se molto meno redditizie. Sono le esperienze ad esempio di un giovane papà, parti- to proprio pensando al futuro dei figli, ma anche convinto che Dio gli ha in- dicato la strada del ritorno, per poterli riabbracciare e trovare un’altra soluzione che non sia la separazione forzata… oppure di un uomo di mezz’età, che in passato aveva vissuto negli Stati Uniti e ora, dopo un prolungato periodo di disoccupazione, voleva ritentare. Ma i tempi sono cambiati, dice, ora il Muro è molto più alto – in tutti i sensi. Ci sono poi coloro che vivevano già da tanti anni o addirittura dall’infanzia negli Stati Uniti, rappresentanti di quei cinque milioni di cittadini messicani che abitano negli USA senza permesso di soggiorno. Gente che lavora, paga le tasse, ha figli di nazionalità statunitense, contribuisce con le rimesse al be- nessere dei parenti rimasti in patria. Tutti costoro rischiano di essere scoperti e rimpatriati. Questo tipo di espulsione è una delle forme più scioccanti di mo- bilità forzata, perché la persona viene strappata alla sua vita normale e ai suoi affetti da un giorno all’altro, senza preavviso, senza possibilità di difendersi. Anche tra loro, la maggior parte punta di nuovo al nord: con l’aiuto finanziario della famiglia rimasta negli Stati Uniti tentano una o più volte di attraversare la frontiera. Non mancano, però, quelli che decidono di ricominciare la propria vita in Messico. Deportados unidos en la lucha si pone come un segno di resistenza e di solida- rietà nel mezzo di questo movimento di persone, che soffrono le conseguenze della cultura dello scarto e di frontiere che mantengono le diseguaglianze. In questo momento condividiamo con loro un servizio umile e gratuito e an- che la sensibilizzazione perché la società non si dimentichi dei deportados in tempo di pandemia. Per questo organizziamo con i rappresentati di DUL dei laboratori in cui possano parlare della loro esperienza ai giovani studenti delle università… ancora per il momento attraverso le piattaforme digitali. Questo tempo ci regala la possibilità di camminare con questi migranti che si sono fatti prossimi per servire i loro compagni di viaggio. Luisa 25
ome in altre regioni del mondo, an- che lungo la rotta del Mediterraneo l’epidemia di COVID-19 ha solo ral- lentato temporaneamen te i movi- menti migratori, che stanno ripren- dendo. Ancora una volta, solo con una visione ampia e responsabile della situazione e un’azione comune internazionale è possibile pensare di ge- stire il fenomeno in modo ordinato e rispettoso per tutti: popolazione locale e migranti. L’arrivo di migranti sulle coste della Sicilia lungo la rotta del Mediterraneo centrale è continuato, seppure con minore intensità, anche nei mesi primaverili, in pieno con- finamento, come una presenza che, nella generale e forzata immobilità, ha comun- que richiesto impegno per creare un sistema mirato ad accogliere i migranti durante le due settimane di vigilanza sanitaria richieste per ogni persona proveniente dall’e- stero durante la pandemia. Nonostante i numeri contenuti (dovuti anche al fatto che il governo aveva dichiarato l’Italia “paese non sicuro” a causa del COVID, vietando alle navi umanitarie di attraccare sulle coste italiane), già in quei mesi (eravamo vici- no a Pasqua) in alcuni paesi dell’agrigentino dove erano situati centri di accoglienza, ci furono proteste: il timore di un possibile contagio fungeva da logico pretesto. Se ne impadronirono i giornali, le associazioni, gruppi politici vari: sullo sfondo si intra- vedevano già le mosse di interessi politici locali, in vista delle elezioni amministrative previste per l’autunno. Come Chiesa diocesana, insieme ad altri direttori degli uffici della Curia, ci preoccu- pammo di incontrare il Prefetto, una signora da poco nominata, la quale ci rassicurò dell’attenzione continua riservata alla situazione, con opportune misure ed un raf- forzamento massiccio della sorveglianza ai centri. Purtroppo però a Lampedusa la situazione, già complicata dalle quarantene a cui sottoporre le persone in arrivo, da giugno è diventata critica anche per l’aumento degli sbarchi: l’hotspot è affollato ben oltre l’effettiva capienza e le condizioni dei migranti risultano precarie. 26
Nel corso dei mesi estivi i viaggi della speranza si sono intensificati1, da gennaio alla fine di settembre risultavano sbarcate 23.726 persone, un numero quasi triplicato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, anche se inferiore al dato del 2018. Lampedusa è teatro di continui approdi, piccole barche in genere con poche decine di persone, soprattutto dalla Tunisia, oltre che dalla Libia. I tunisini rappresentano ora una quota del 42% di tutti gli arrivi2. I giornali non ne parlano, ma la Tunisia sta vivendo una gravissima crisi, la peggiore dal 1956, anno della sua indipendenza. Nelle regioni più povere del Paese (quel- le dell’entroterra e del sud), dove la disoccupazione giovanile tocca punte del 35%, gli effetti della pan- demia hanno aggravato condizioni di vita già estremamente precarie. Un accordo che avrebbe dovuto creare nuovi posti di lavoro grazie alla ripresa delle estrazioni petro- lifere non ha sortito gli effetti pre- visti. Anche il turismo, che regge il 20% dell’economia del Paese, ha subito un tracollo; secondo le pre- visioni della Banca Centrale Tuni- sina, il PIL si ridurrà ancora ed avrà come conseguenza un aumento della disoccupazione di almeno 6 punti percentuali. In tutto questo, a motivo della forte instabilità politica (il primo ministro Elyes Fakhfakh si è dimesso appena sei mesi dopo la sua nomina) il paese non riesce ad imboccare la strada giusta per le riforme. In questo quadro così critico, non c’è da stupirsi se l’emigrazione appare l’unica via di speranza, tanto più che Lampedusa e la Sicilia sono molto vicine. Tra le isole Ker- kennah e Lampedusa la distanza è di soli 120 km, un tragitto facile da coprire anche con una piccola barca, senza bisogno di affidarsi ai trafficanti. A luglio, per esempio, è approdato a Lampedusa un barchino con un’unica famiglia a bordo: genitori con tre figlie disabili e il gatto. Sono stati segnalati altri casi analoghi di persone che si sono organizzate da sole per il viaggio. Secondo il Ministero dell’Interno, il 60 % degli sbarchi sono avvenuti in autonomia, con approdo diretto sulle coste: un dato che vale a smentire l’accusa mossa alle navi umanitarie di incentivare la migrazione. Il sistema di accoglienza, a fronte di questo importante incremento, si dimostra am- piamente inadeguato anche a causa della pandemia, che complica non poco le cose: la quarantena comporta particolari cautele, l’adozione di misure sanitarie pre- ventive e di distanziamento sociale, che non permettono i trasferimenti prima di aver completato la profilassi. Il fatto che in diverse occasioni i migranti si siano dispersi 1 https://www.migrantesonline.it/2020/10/01/viminale-da-inizio-anno-sbarcate-23-726- persone-migranti-sulle-coste-italiane/. 2 Ibid. 27
Puoi anche leggere