Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane

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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
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    Sulle strade dell’esodo
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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
SOMMARIO
                                              luglio-
    EDITORIALE
3   Alla frontiera delle diversità            ottobre
    e... “dimenticanze”
    Maria Grazia Luise                         2020
                                      edizione italiana
    CONDIVISIONE                      Anno XLV n. 4
7   La grammatica                     luglio-ottobre 2020
    dell‘incontro                     direzione e spedizione:
    Róża Mika                         Missionarie Secolari Scalabriniane
                                      Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D)
   GIOVANI                            Tel. +49/711/541055
13 Una Parola che non                 redazione:
                                      M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli
    lascia come prima                 M. Guidotti, A. Aprigliano
    Claudia Morales Almonte           grafica e realizzazione tecnica:
                                      M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti,
    AMICI SULLE STRADE                M.G. Luise, L. Bortolamai
    DELL‘ESODO                        disegni e fotografie:
                                      Copertina e p. 7-15, 22-26, 28-29, 35:
16 Calorosi saluti dal Nepal          archivio delle Mis­­sionarie Se­colari Sca­
    Margret Bretzel                   labriniane; p. 4: archivio Missionari Scal-
                                      abriniani; p. 3, 6, 16-18, 21, 27, 30, 32-33:
                                      Pixabay; p. 3,5: italiani nelle Americhe.
    DOCUMENTI                         com; p. 16: Keshab Chhettri; p. 18-20: An-
    DELLA CHIESA                      nalisa Vandelli/Nexus: p. 31: Mahdi Sho-
17 Come Gesù Cristo,                  jaeiann_mehrnews.com.
    costretti a fuggire               Per sostenere le
    Papa Francesco                    spese di stampa e spedizione
                                      contiamo sul vostro
                                      libero contributo annuale a:
   DAL MESSICO                        Missionarie Secolari Scalabriniane
22 Un segno di resistenza             * c.c.p. n° 23259203 Milano -I-
    Luisa Deponti                     o conti bancari:
                                      *CH25 8097 6000 0121 7008 9
                                      Raiffeisenbank Solothurn -CH-
   EMIGRAZIONE                        Swift-Code: RAIFCH22
26 La Sicilia e le migrazioni         *DE30 6009 0100 0548 4000 08
    nell‘estate della pandemia        Volksbank Stuttgart -D-
    Mariella Guidotti                 BIC: VOBADESS
                                      Le Missionarie Secolari
                                      Scalabriniane, Istituto Secolare
    DAL LIBANO                        nella Famiglia Scalabriniana,
30 Beirut: rinascere ancora           sono donne consacrate
    Interviste a Abouna Michel Sakr   chiamate a condividere
    e a Mons. Edgard Madi             l‘esodo dei migranti.
                                      Pubblicano questo periodico in
                                      quattro lingue come strumento
35 PROSSIMAMENTE
    2                                 di dialogo e di incontro
                                      tra le diversità
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iversi esperti in comunicazioni sociali studiano il fenomeno della dimenti-
canza nei mass media. Alcuni di questi, infatti, gestiscono con abilità la dimen-
ticanza secondo due direzioni: ora si dimentica qualcosa mettendo a tacere
ciò che potrebbe disturbare una mentalità rassicurante (ad esempio i poveri e
i migranti); ora si puntano i “fari” su tali realtà per ingrandirne gli aspetti nega-
tivi, così da suscitare paura e rigetto. Anche questo è un modo di dimenticare.

Può capitare che cittadini autoctoni - svizzeri, tedeschi o italiani… - si dimen-
tichino che sono stati migranti. E tanti si dimenticano che il mondo intero sarà
sempre più attraversato dai flussi migratori, se non intervengono capovolgi-

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menti economici e culturali che trasformino i rapporti tra Nord e Sud, tra Est
    ed Ovest del mondo.
    Così, in favore di un benessere egoistico e di pochi, che si riduce ad un illu-
    sorio e sempre minacciato quieto vivere, si dimentica una parte di noi stessi,
    della nostra umanità.
    Anche a livello pastorale potrebbe farsi strada una tendenza di parte. Per fortu-
    na lo Spirito Santo, memoria viva, s’incarica di risvegliare in ogni cristiano una
    visione cattolica, onnicomprensiva, che favorisce relazioni aperte a tutti, ricu-
    perando così categorie di persone dimenticate, perché nessuno vada perduto.
    Appartenenti alla Famiglia Scalabriniana riconosciamo nel beato G.B. Sca-
    labrini un padre e un maestro di cattolicità e di unità fra i piani e le realtà più
    diverse. Possiamo allora attingere a questa eredità: una spiritualità d’incarna-
    zione e di comunione universale, come dono per il nostro impegno missiona-
    rio. Ci sentiamo, cosi, inviati a diventare esperti dei “dimenticati”. Infatti, per
    essere a servizio del Corpo di Cristo e di tutto l’uomo, siamo chiamati a fare
    scelte preferenziali in favore dei più svantaggiati, coloro che non hanno voce,
    come i migranti.

    G.B. Scalabrini ha meritato il nome di Padre dei migranti perché il suo cuore
    - secondo il cuore di Gesù - rimaneva rivolto al Padre nella contemplazione,
    così da lasciarsi coinvolgere nel movimento dell’Amore infinito e universale
    che si è incarnato in Gesù Cristo per arrivare attraverso la Chiesa, Suo Corpo,
    ad ogni uomo:
    “Iddio ama il suo Figliuolo e lo ama essenzialmente ed è impossibile che si
    compiaccia in altri che in Lui, perché l’amore di Dio è infinito e non può avere
    altro oggetto che un oggetto infinito (Mt 17,5). Ma quel Figliuolo suo diletto

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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
si è fatto uomo. Dunque in lui ama
l’uomo”1.
Da questa contemplazione G.B. Sca-
labrini non poteva dimenticare i mi-
granti…, anzi si è fatto lui stesso per
loro, nella chiesa e nella società, me-
moria storica puntuale della sollecitu-
dine del Padre per gli ultimi. Egli non
poteva non seguire con un “unico
sguardo” di amore il Figlio di Dio che
vedeva incarnato in quei “meschinel-
li” in partenza per le Americhe: “Ero
straniero e mi avete accolto” (Mt 25,
35).
Queste dimenticanze, raccolte da
Scalabrini, oggi ci appartengono
come proprium della nostra missio-
ne. Nello stesso tempo possiamo
con gioia approfondire e attualizzare
la spiritualità scalabriniana attraverso
una teologia di comunione trinitaria.
Essa può illuminare il nostro impe-
gno per poter vivere nell’oggi la comunione alla frontiera di tante diversità.
Storicamente le diversità delle Persone divine sono state spesso dimenticate fino
al punto da affermare, per esempio, che Dio si è fatto uomo, ma senza distinguere
tra Padre, Figlio e Spirito Santo.
Partendo, però, da questa unità divina indistinta, che fa quasi da supporto ad
una cultura dell’identità, la diversità non trova posto se non come eccezione o
estraneità. Ma allora l’unità di Dio - pensata così - non può illuminare la nostra
convivenza sempre più diversificata, e le diversità o si contrappongono come po-
larizzazioni o vengono assimilate e ignorate.
La stessa nostalgia dell’unità, inscritta nell’uomo, non più sorretta da una fonte
originante, può scadere in mano nostra in forme di dittatura di potere o diventare
ideologia astratta parallela alla vita, che prima o poi la storia seppellisce.
La spiritualità, che possiamo cogliere in G.B. Scalabrini, trova un vivo riferimento
nella pienezza della comunione trinitaria tra le diversità del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo. Una vita divina di Amore infinito che si prolunga fino al mondo
attraverso il mistero dell’incarnazione, una vita di amore che diventa fonte e luce
della nostra vita e della nostra storia. In ragione di questo tutti possiamo ricono-
scerci figli di Dio e fratelli, nello stesso Figlio di Dio: Gesù.
Nel Prologo di Giovanni è detto che “tutto è stato fatto per mezzo del Verbo, e
senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3).

1   G.B. Scalabrini, Lettera Pastorale, Piacenza 1878.

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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
Siamo noi pure, allora, una parola di Dio, così come tutto ciò che esiste in
    quanto creato nel Verbo: il Figlio “sempre rivolto al Padre” (Gv 1,8) come “Pa-
    rola cava” che trova in Lui tutto il suo Senso.
    Anche noi, come tutte le creature e le realtà esistenti, troviamo il nostro Sen-
    so, non nell’essere rivolti a noi stessi o solo tra di noi in un confronto orizzon-
    tale, ma nell’essere rivolti, nel Figlio Gesù, al Padre. Egli, mentre ci fa esiste-
    re, ci diversifica secondo il Suo piano di amore e di salvezza, che si attua per
    la Sua multiforme grazia.
    In questa luce e in questa ampiezza di orizzonti trova spazio la dinamica della
    nostra vita cristiana. Essa si dispiega, nella stessa secolarità, come un con-
    vergere di tutte le cose per narrare l’incarnazione del Verbo: questo pazzesco
    amore di Dio che, facendosi uomo, riempie di senso la ferialità della vita e i
    rapporti con le persone e con le cose, perché rimangano aperti a tutto e a tutti,
    nel rimando allo stesso amore fontale ricevuto.
    Non c’è niente nella creazione di autosufficiente che abbia senso in sé, in
    quanto lo riceve dal fatto di essere in relazione con il vero Senso: il nostro
    Dio Creatore e Padre, il quale, nella sua vita e gioia sconfinata, si dispiega e
    si narra storicamente attraverso il Suo Figlio Gesù, la sua Parola fatta carne.
    Il mondo è buono: tutto ciò che è stato fatto da Dio è buono e bello, come voce
    o strumento diverso di un unico immenso concerto.
    Ogni realtà esistente, nella propria stessa “povertà” esistenziale, ha una ve-
    rità-bellezza-bontà che non può essere riempita di surrogati, di ideologie e
    neanche di pura prassi, ma deve essere liberata dagli idoli - falsi assoluti - per
    ricevere da Dio il suo vero Senso: senso di relazione con il tutto, senso che
    colma e risponde in sovrabbondanza al proprio stesso essenziale motivo di
    esistere.
                                                C’è, quindi, uno spazio immenso
                                                proprio del “sacerdozio regale” co-
                                                mune a tutti i cristiani, in forza del
                                                battesimo, che porta concretamen-
                                                te ad orientare e ordinare tutte le
                                                realtà temporali secondo il piano
                                                di Dio. Egli abbraccia e dà senso a
                                                tutte le cose, nessuna esclusa: dal
                                                momento che nessun frammento è
                                                insignificante, ma tutto può e deve
                                                diventare specchio della totalità e
                                                lo diventa nella misura in cui viene
                                                rivolto e convertito al Tutto.
                                                Come il più piccolo fiore che si
                                                esprime nella sua bellezza grazie al
                                                cielo e grazie alla terra.

                                                      Maria Grazia

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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
11 dicembre 1990 a Stoccarda è iniziata un’avventura di incontro e
di formazione: il corso di tedesco con migranti e rifugiati. Fermiamoci
insieme per ringraziare e cercare di cogliere qualche chiave importante
di questa storia di trent’anni.

G.B. Scalabrini nella sua vita non ha mai smesso di interessarsi dell’altro e
farsi “tutto a tutti”. La sua indole contemplativa lo portava a scorgere dentro la
realtà nuovi processi in evoluzione e a chiedersi come intervenire. Anche la
nostra vocazione di missionarie secolari scalabriniane ci ha portato fin dagli
inizi ad uno sguardo attento alle persone e alle realtà circostanti, uno sguardo
che, impregnato della spiritualità dell’esodo, sempre di nuovo si è tradotto in
espressioni creative e durature del carisma ricevuto. Che cosa può significare
questo nella concretezza?
Siamo a Stoccarda, nel quartiere di Bad Cannstatt, dove la maggioranza degli
abitanti ha le proprie radici all’estero e dove la nostra comunità è presente
dal 1968. Camminando per le strade sentiamo parlare le più diverse lingue
del mondo: dal turco al greco, dall’italiano all’arabo, serbo, cinese, croato e
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naturalmente, oltre al tedesco, anche lo svevo, il dialetto
    locale che – per chi riesce a capirlo – contribuisce a dare
    un certo senso di familiarità. Di fatto, la sfida di capire la
    lingua del paese di approdo e così di sentirsi almeno in
    questo aspetto un po’ di più a casa non abbandona quasi
    mai il migrante.
    È stata proprio questa sfida, colta nei volti e nelle storie
    delle persone incontrate, che ha portato alla nascita di
    un corso di tedesco, inizialmente indirizzato soprattutto
    ai rifugiati e con il tempo allargato anche ai migranti
    più svantaggiati. Ed è iniziato con una giovane tedesca
    appena arrivata in comunità – anche lei migrante con i
    migranti!
    Nel dicembre del 1990, in collaborazione con la diocesi
    e inizialmente anche con la Caritas locale, hanno preso
    il via le lezioni nelle sale della parrocchia di San Martin.
    Pakistan, Iran, Turchia, Libano, Vietnam, Egitto, Eritrea
    ed Etiopia erano i paesi di provenienza dei primi studenti
    che, come una piccola lente d’ingrandimento, eviden-
    ziavano diversi punti del mondo feriti dai conflitti e dalle
    persecuzioni di quel tempo e che purtroppo, anche a di-
    stanza di trent’anni, non risultano ancora superati.
    Potrebbe sembrare secondario ma rimane una coinci-
    denza significativa il fatto che i locali della parrocchia si
    trovavano nella Brückenstraße, che tradotto significa “via
    del ponte”1 e che, come una metafora, esprime il senso
    più profondo di questa avventura: creare dei ponti (non
    solo linguistici) tra rifugiati, istituzioni, parrocchia, società
    e, soprattutto, tra le persone. Fin dall’inizio ci ha mosso il
    sogno che questo corso di tedesco fosse un luogo dove
    la cultura dell’incontro, e non dello scarto, crescesse e
    venisse vissuta con intensità, così da testimoniare che si
    può vivere insieme grazie alle nostre diversità.
    Questa esperienza educativa, che ha coinvolto migran-
    ti, rifugiati, missionarie, qualche parrocchiano e diversi
    studenti universitari e delle scuole superiori che in questi
    anni hanno svolto servizio di volontariato, testimonia una
    collaborazione piena di passione e di disponibilità a con-
    dividere. Di fatto, non di rado ci è capitato che i migranti
    stessi, dopo aver raggiunto un buon livello linguistico, ab-
    biano voluto dare una mano nell’insegnamento per espri-
    mere in questo modo la gratitudine per ciò che avevano

    1 Solo nel 2020 il corso ha cambiato sede e si svolge presso la
     casa parrocchiale di St. Rupert, un’altra chiesa della stessa
     unità pastorale.

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ricevuto! Ma anche più semplicemente, durante
le lezioni, i partecipanti sono continuamente sol-
lecitati allo scambio e all’aiuto reciproco: chi è più
avanzato aiuta chi è un passo indietro e anche chi
è indietro può dare il suo contributo di pazienza, di
tenacia, di umiltà e spes­so anche di humor.
Dagli inizi dunque il corso è stato portato avanti
in uno stile di reciprocità e di incontro alla pari:
ognuno dal punto in cui si trova, sia linguistico che
esperienziale, contribuisce non solo al processo di
apprendimento del tedesco ma soprattutto alla cre-
 scita delle relazioni. È un imparare insieme – con,
 da e grazie all’altro – la grammatica dell’incontro.
 Il clima di apertura e di stima dell’altro favorisce
 anche la perseveranza nella motivazione allo stu-
 dio, pur tra le difficoltà, e diventa come un trampo-
 lino di lancio per le sfide quotidiane nella realtà di
 un nuovo paese.
L’accoglienza che ognuno di noi sperimenta, sia
chi impara sia chi insegna, permette di aprirsi ed
esprimere se stessi oltrepassando il proprio limite,
anzi cercando di riconoscerlo sempre di più come
luogo d’incontro. Spesso diciamo che l’appren-
dimento della lingua – così come la lingua in sé
– è solo un mezzo e non lo scopo finale. Certo,
la lingua rimane sempre importante e utile ma,
appunto, come uno strumento che permette di
esprimere ciò che c’è già: la vita. Il vero obbiettivo
del corso di tedesco sono i rapporti, semplici, veri:
rapporti di stima e di umanità che, lezione per le-
zione, crescono tra tutti.
I momenti di festa durante l’anno ma anche i mo-
menti più feriali ne danno testimonianza: qualcuno
a sorpresa porta una torta per tutti, o una specialità
del proprio paese; c’è chi vuole pagare in segreto
un libro per un altro partecipante che non se lo può
permettere; qualcuno scrive delle poesie (anche
sull’esperienza del corso) e le recita agli altri dopo
aver superato la propria timidezza. Una signora,
non avendo niente di pronto e volendo ringraziare
una delle insegnanti che stava per partire per le
ferie, ha aperto la sua borsa con la spesa appena
fatta e le ha regalato… ciò che aveva!
Quanta umanità, che è la più vera bellezza, si
manifesta in questi piccoli gesti di attenzione che

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all’inizio di ogni corso non sono per niente scontati perché giustamente ognuno
     cammina sul proprio binario, concentrato sul proprio apprendimento, sui propri
     compiti da fare, sulle difficoltà – linguistiche ma soprattutto della vita – da af-
     frontare. Tra i partecipanti ci sono persone che, anche senza essere andate a
     scuola, sono riuscite a costruirsi una vita ed una famiglia e che ora si trovano
     a dover imparare l’abc non solo del tedesco, ma anche dello stare insieme in
     classe con compagni così diversi. È una grande sfida per tutti imparare a intera-
     gire con persone il cui retroterra e i riferimenti culturali e religiosi, i livelli sociali
     e professionali sono completamente altri. Spesso non si ha neanche una lingua
     in comune sulla quale appoggiarsi. Per noi insegnanti questo significa che non
     possiamo fermarci sul “sin qui fatto”, ma siamo chiamati sempre di nuovo a met-
     terci al passo con il gruppo e con le singole persone, a camminare con loro e,
     allo stesso tempo, a cercare di portarle sempre un
     passo avanti. È importante partire dalla persona e
     dalle sue richieste per fare insieme un viaggio che
     permette a tutti di scoprire nuovi orizzonti.
     Il tempo e la gradualità giocano un grande ruolo in
     tutto questo percorso: la reciproca conoscenza, i
     rapporti personali fuori dalle lezioni, le visite negli
     alloggi dei rifugiati, l’interesse per l’altro e la sua
     storia favoriscono la crescita della fiducia e permet-
     tono uno scambio sempre più sciolto e gioioso. Le
     esperienze personali, spesso difficili, che emergono
     durante le lezioni – la guerra, la fuga, i momenti di
     sconforto nel nuovo paese, la lontananza della fa-
     miglia, la ricerca del lavoro – diventano l’occasione
     per imparare a comprendere l’altro e a partecipare
     al suo dolore.
     Sempre di nuovo si possono toccare con mano an-
     che dei piccoli miracoli! Quando, per esempio, una
     persona che era analfabeta inizia ad imparare il te-
     desco all’età di 45-50 anni e dopo un po’ di tempo e
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di lavoro sodo riesce a scrivere da sola, senza copiare le parole, non è un mira-
colo? O quando all’interno di un gruppo i partecipanti, in un primo momento un po’
ostili e distanziati gli uni dagli altri, iniziano ad apprezzarsi a vicenda, lanciandosi
e rilanciandosi, come in una partita di ping-pong, dei complimenti reciproci, non
è un miracolo?
Tutto questo non significa l’eliminazione automatica degli ostacoli sul cammino,
degli scontri e delle discussioni (a volte molto accese) in classe. Le ferite che tanti
migranti portano con sé non vengono cancellate per il solo fatto di essersi sposta-
ti in un paese dove la guerra non c’è; anzi spesso la lezione stessa diventa una
sfida quando nel banco accanto ti ritrovi con chi nel tuo paese viene considerato
“un nemico”. E, tuttavia, certo non in modo automatico ma con tempo e pazienza,
                          abbiamo visto tante persone incominciare a guardarsi
                          con occhi nuovi.
                          A proposito di occhi nuovi. Non dimenticherò mai una
                          signora siriana, di famiglia molto benestante; che cono-
                          sceva perfettamente l’arabo, ma arrivando in Germania
                          aveva dovuto iniziare da capo: prima l’alfabeto, la scrit-
                          tura, i suoni… Una fatica che sembra non finire mai, so-
                          prattutto quando si è raggiunta una certa età e l’appren-
                          dimento è diventato meno automatico. E la sorpresa:
                          un giorno sua figlia mi ha raccontato che da quando la
                          mamma ha imparato il nostro alfabeto, camminando in
                          città, ha iniziato a soffermarsi per leggere i nomi dei ne-
                          gozi, delle verdure, delle strade, le destinazioni dei mezzi
                          di trasporto, che prima erano incomprensibili per lei. E –
                          ha continuato la figlia – che gioia nei suoi occhi, fino alla
                          commozione per i passi fatti e per la possibilità di sentirsi
                          un po’ più a casa.
                          Quanto fecondo può essere l’incontro con persone di di-
                          verse nazionalità, culture, situazioni sociali, persone sca-
                          vate dal sacrificio e dal rischio, dalla lotta per la libertà del

                                                                                              11
proprio paese o dal dolore per la perdita di
                                             famigliari, uccisi a motivo della loro fede
                                             cristiana, del loro credo o dell’appartenen-
                                              za etnica – persone che su di sé hanno
                                              sperimentato cosa veramente significa la
                                              mancanza di pace!
                                               Cercando di percorrere la prima e fon-
                                               damentale via della Chiesa che è l’uo-
                                               mo2, ci è dato di incontrare una bellezza
                                               particolare: quella che fiorisce quando il
                                                mistero della Pasqua tocca la storia di
                                                una persona e, come nel dolore di un
                                                parto, fa nascere la vita vera, vita che
                                                è relazione.
                                                 Nel corso spesso ci viene regalata l’e-
                                                 sperienza di accorgerci che lo Spi­rito

     del Risorto è all’opera nel mon-
     do e tra persone di diverse reli­
     gioni e rende possibili incontri
     profondi e autentici. Siamo in-
     fatti consapevoli che non sia-
     mo capaci di vivere il perdono
     a partire dalle nostre sole for-
     ze. La novità della vita riconci-
     liata, che può cambiare il no-
     stro sguardo per riconoscere
     nell’altro un fratello che ci
     appartiene, non può essere
     solamente un frutto del do-
     vere o del nostro sforzo. Ci
     vuole però la disponibilità a
     fare tutta la nostra parte e la
     lungimiranza di avviare dei
     processi senza pretendere
     risultati immediati.
     È proprio la diversità di ogni persona che ci provoca a non fermarci alla superficie,
     spesso conflittuale, ma a metterci in ascolto. Ed è l’ascolto che può rinnovare il
     nostro modo di pensare e vedere l’altro, noi stessi, Dio e creare quello spazio che
     è già in se stesso inizio di un’umanità riconciliata.
     					                                                                Róża

     2 Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 14.
12
laudia e Melanie, missionarie a Stoccarda, accompagnano anche su invio
della diocesi di Rottenburg-Stuttgart e in collaborazione con la pastorale
universitaria in particolare gli studenti internazionali che arrivano dai più diversi
paesi per studiare nelle università di questa città tedesca. Insieme a questi
giovani hanno sperimentato, in modo nuovo dopo la fase del confinamento,
l’importanza dello scambio delle esperienze personali, delle fatiche, delle
domande che attraversano la vita quotidiana e la ricerca della fede.
Con la riapertura e la ripresa della “normalità”, dopo il periodo di chiusura per
l’emergenza sanitaria, abbiamo avuto la possibilità di lanciarci in un’esperienza
nuova, sul piano personale e delle nostre relazioni, nel tentativo “di uscire migliori da
questo tempo di crisi,… cercando tutti insieme il bene comune”, come ci invitava a
fare ultimamente Papa Francesco.
Abbiamo riscoperto con gioia il valore dell’incontro da persona a persona, dopo
che per alcuni mesi era stato possibile spesso soltanto in modo virtuale. E quanta
creatività si è sprigionata per rimanere vicini gli uni agli altri! Anche noi abbiamo
cercato di mantenere viva una rete di relazioni, di scambio e comunione, per esempio
intensificando la Preghiera dei continenti, organizzata dal Centro di Spiritualità
collegandoci non solo una volta al mese, ma ogni settimana via skype.
Quando si è riaperta la possibilità di un incontro “reale”, è stata grande la gioia dei
giovani di ritrovarsi e, per alcuni, anche di conoscersi direttamente dopo essersi visti
soltanto in videochiamata per la preghiera. E anche se era la prima volta che ci si
riuniva, c’era già un cammino di condivisione alle spalle.
Appena è stato dato il via libera, è ripresa la celebrazione delle Messe anche
qui in Germania. Questo tempo di ‘isolamento’ ci ha fatto cogliere la dimensione
                                                                                      13
relazionale-comunitaria della vita e riscoprire la bellezza di poter celebrare insieme
la fede, spezzare il pane, condividere le gioie e le fatiche.
Ci stupisce come la Messa stia diventando un appuntamento importante della
settimana anche per tanti giovani di origine straniera. Li incontriamo nelle celebrazioni
in lingua inglese nella chiesa di St. Marien e cogliamo in loro il desiderio di rimanere
ancora insieme per uno scambio semplice e spontaneo.
Nelle varie occasioni di dialogo ci rendiamo conto che la Parola di Dio non torna
indietro senza aver operato ciò per cui è stata inviata (cfr. Isaia 55, 10). È una
Parola che non lascia come prima, ci trasforma, diventa carne nell’Eucaristia, e ci fa
diventare pane da spezzare con gli altri.
“L’anima mia magnifica il Signore … Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc
1,39-56).
“Magnificare letteralmente significa ‘fare grande’, mettere Dio come prima grandezza
della vita, … la gioia nasce dalla presenza di Dio che ci aiuta, che è vicino a noi.
Perché Dio è grande e guarda e ama i piccoli: noi siamo la sua debolezza di amore.
Se, come Maria, ricordiamo le grandi cose che il Signore compie, il cuore si dilata,
la gioia aumenta” (Omelia di Papa Francesco, 15/08/2020).
In uno dei momenti di scambio, uno dei ragazzi ci ha detto: “Dio ha un piano per
ciascuno di noi, come per Maria e in alcune situazioni della mia vita ho scoperto,
col tempo, le tracce di Dio, le cose non avvengono per caso, Lui conduce la nostra
storia”. Mentre una ragazza, ringraziando per questo spazio di dialogo, si chiedeva:
“Tante volte ascoltiamo la Parola di Dio ma poi durante la settimana ci sfugge, la
dimentichiamo, come possiamo aiutarci a lasciare che la Sua Parola rimanga in
noi?”.
“Ma voi, chi dite che io sia? … Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 13-20).
“God is alive”, “Dio è vivo” continuava a ripetere un ragazzo iraniano mentre ci
raccontava la sua storia. Dopo una Messa, infatti, abbiamo percepito il suo sguardo
inquieto, desideroso di trattenersi per parlare ancora. Prendendo insieme un gelato,
lui ha incominciato a spiegarci come avesse incontrato la fede cristiana e come la
Parola di Dio avesse risvegliato in lui una grande pace, “Dio è la pace” ci ha detto.
Ha iniziato a frequentare la chiesa e a pregare, anche se in quel momento tutto era
nuovo per lui e conosceva poco del cristianesimo, ma si stava chiedendo chi fosse
Gesù.
Proviene da una famiglia musulmana. Un giorno ha avuto un sogno in cui Gesù, con
la sua mano ferita sulla sua testa, gli diceva: “Figlio mio non avere paura, questo
sangue ti guarirà”. Questo ha capovolto la sua vita, proprio in un momento in cui
sperimentava la sua debolezza e fragilità, davanti a grosse difficoltà. Oggi continua
un cammino di conoscenza della fede cristiana e ha scoperto che Gesù è “il Figlio
del Dio vivo”, desidera approfondire la Sua Parola, cosa vuole dirgli e come viverla
nel quotidiano.
“Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria
vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,21-27).
14
Tra gli studenti che incontriamo ci sono giovani dell’Iraq, della Siria, del Pakistan,
paesi dove i cristiani sono una minoranza. Ci colpisce, di fatto, che la fede sia radicata
in questi giovani cristiani come una esperienza vitale, che tocca tutte le dimensioni
dell’esistenza, e non soltanto come una pratica esteriore. Tempo fa uno studente
diceva: “La vita con Dio e la vita senza Dio è un’altra cosa”. Alcuni di loro cercano
di andare insieme a Messa o di incontrarsi per uno scambio sui temi della fede,
anche se a motivo della lingua non è sempre facile trovare il gruppo appropriato.
Nel dialogo abbiamo colto la loro gioia di trovarsi adesso in un paese ‘cristiano’ dove
sono liberi di vivere ed esprimere la loro fede; nei loro paesi, devono attraversare
non poche difficoltà per rimanere coerenti con ciò in cui credono.
“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. (Mt
18,15-20).
Quanti incontri avvengono nella semplicità e nella spontaneità! E quanta creatività si
risveglia per non perdere di vista ciò che è essenziale: la condivisione.
Nelle nostre diversità sperimentiamo con gli studenti internazionali la gioia di scoprire
una lingua comune, che non è solo quella inglese, ma soprattutto quella del cuore
che si dilata a tutti, che non ha frontiere: “ognuno può capire la lingua dell’amore”.
Con gli occhi pieni di stupore vediamo crescere nuove amicizie. In più occasioni
abbiamo sperimentato che “il più piccolo”, per esempio chi è appena arrivato, chi ha
difficoltà per la lingua o chi proviene da una cultura molto diversa, ci ha aiutato ad
andare oltre le nostre frontiere, a fare il primo passo incontro all’altro e ad aprirci ad
una accoglienza reciproca. Quanti ‘ponti di comunione’ ci fanno convergere in Colui
che ci unisce più in profondità: ”Io sono in mezzo a voi”, e ci fanno appartenere l’uno
all’altro, attraverso i nostri piccoli passi condivisi nella semplicità.
								                                                                   Claudia
                                                                                       15
metà luglio di quest’anno siamo stati sorpresi da questa e-mail:
     Calorosi saluti dal Nepal.
     Noi siamo sani e salvi qui in Nepal e speriamo che voi tutti siate sani e salvi.
     La situazione nel nostro paese sta tornando alla normalità dopo il completo
     confinamento durato novanta giorni. Mia moglie Pabitra e io siamo stati a
     Solothurn nel 2014 alla Festa di primavera e abbiamo nostalgia di tutte le
     persone dal cuore gentile. Preghiamo insieme perché la pandemia sia presto
     sotto controllo e la situazione ritorni al più presto normale.
     Cordialmente
     Keshab

     Nel 2014, Keshab, allora studente a Stoccarda, era stato invitato da un amico
     africano, studente come lui, a partecipare alla Festa di primavera a Solothurn.
     Keshab si era iscritto insieme alla giovane moglie arrivata un giorno prima in
     visita dal Nepal. Poco tempo dopo l’incontro a Solothurn, insieme sono ritor-
     nati nella loro patria. Non c’eravamo incontrati prima e non ci siamo più visti
     dopo, ma da quel fine settimana all’IBZ è continuata un’appartenenza viva e
     familiare… oltre ogni distanza geografica, temporale, linguistica, culturale e
     religiosa, come ci dicono queste poche ma cordiali righe di una coppia indù.
     Desideriamo passare questo saluto così inaspettato e da così lontano a tutti
     i partecipanti alle Feste internazionali (la Scalabrini-Fest di primavera a So-
     lothurn in Svizzera e la Scalabrini-Fest dei frutti a Stoccarda in Germania),
     per sperimentare, approfondire e far crescere, lì dove viviamo, la coscienza di
     essere tutti sorelle e fratelli nell’unica famiglia umana
                                                              Margret
16
essaggio del Santo Padre Francesco per la 106ma Giornata mondiale del
migrante e del rifugiato (27 settembre 2020)

All’inizio di questo anno, nel mio discorso ai membri del Corpo Diplomatico ac-
creditato presso la Santa Sede, ho annoverato tra le sfide del mondo contem-
poraneo il dramma degli sfollati interni: «Le conflittualità e le emergenze umani-
tarie, aggravate dagli sconvolgimenti climatici, aumentano il numero di sfollati e
si ripercuotono sulle persone che già vivono in stato di grave povertà. Molti dei
Paesi colpiti da queste situazioni mancano di strutture adeguate che consentano
di venire incontro ai bisogni di quanti sono stati sfollati» (9 gennaio 2020).
La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano
Integrale ha pubblicato gli “Orientamenti Pastorali sugli Sfollati Interni” (Città del
Vaticano, 5 maggio 2020), un documento che si propone di ispirare e animare le
azioni pastorali della Chiesa in questo particolare ambito.
Per tali ragioni ho deciso di dedicare questo Messaggio al dramma degli sfollati
interni, un dramma spesso invisibile, che la crisi mondiale causata dalla pan-

                                                                                         17
demia COVID-19 ha esaspe-
                                                               rato. Questa crisi, infatti, per
                                                               la sua veemenza, gravità ed
                                                               estensione geografica, ha
                                                               ridimensionato tante altre
                                                               e­mer­genze umanitarie che
                                                               affliggono milioni di persone,
                                                               relegando iniziative e aiuti in-
                                                               ternazionali, essenziali e ur-
                                                               genti per salvare vite umane,
                                                               in fondo alle agende politiche
                                                               nazionali. Ma «non è questo
                                                               il tempo della dimenticanza.
                                                               La crisi che stiamo affrontan-
                                                               do non ci faccia dimenticare
                                                               tante altre emergenze che
                                                               portano con sé i patimenti di
                                                               molte persone» (Messaggio
                                                               Urbi et Orbi, 12 aprile 2020).
                                                           Alla luce dei tragici even-
     ti che hanno segnato il 2020, estendo questo Messaggio, dedicato agli sfollati
     interni, a tutti coloro che si sono trovati a vivere e tuttora vivono esperienze di
     precarietà, di abbandono, di emarginazione e di rifiuto a causa del COVID-19.
     Vorrei partire dall’icona che ispirò Papa Pio XII nel redigere la Costituzione
     Apostolica Exsul Familia (1 agosto 1952). Nella fuga in Egitto il piccolo Gesù
     sperimenta, assieme ai suoi genitori, la tragica condizione di sfollato e profugo
     «segnata da paura, incertezza, disagi (cfr. Mt 2,13-
     15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di fa-
     miglie possono riconoscersi in questa triste realtà.
     Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno
     notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla
     guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurez-
     za e di una vita dignitosa per sé e per le proprie fa-
     miglie» (Angelus, 29 dicembre 2013). In ciascuno
     di loro è presente Gesù, costretto, come ai tempi di
     Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo
     chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato,
     assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che
     ci interpella (cfr. Mt 25,31-46). Se lo riconosciamo,
     saremo noi a ringraziarlo per averlo potuto incon-
     trare, amare e servire.
     Le persone sfollate ci offrono questa opportunità
     di incontro con il Signore, «anche se i nostri oc-
     chi fanno fatica a riconoscerlo: coi vestiti rotti, con
     i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piaga-
     to, incapace di parlare la nostra lingua» (Omelia,
18
15 febbraio 2019). Si tratta di una sfida pastorale alla quale siamo chiamati a
rispondere con i quattro verbi che ho indicato nel Messaggio per questa stessa
Giornata nel 2018: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ad essi vorrei
ora aggiungere sei coppie di verbi che corrispondono ad azioni molto concrete,
legate tra loro in una relazione di causa-effetto.
Bisogna conoscere per comprendere. La conoscenza è un passo necessario ver-
so la comprensione dell’altro. Lo insegna Gesù stesso nell’episodio dei discepoli
di Emmaus: «Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si
avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (Lc
24,15-16). Quando si parla di migranti e di sfollati troppo spesso ci si ferma ai nu-
meri. Ma non si tratta di numeri, si tratta di persone! Se le incontriamo arriveremo
a conoscerle. E conoscendo le loro storie riusciremo a comprendere. Potremo
comprendere, per esempio, che quella precarietà che abbiamo sperimentato con
sofferenza a causa della pandemia è un elemento costante della vita degli sfollati.
È necessario farsi prossimo per servire. Sembra scontato, ma spesso non lo
è. «Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne
ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino;
poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò a un albergo e si prese cura di lui»
(Lc 10,33-34). Le paure e i pregiudizi – tanti pregiudizi – ci fanno mantenere le
distanze dagli altri e spesso ci impediscono di “farci prossimi” a loro e di servirli
con amore. Avvicinarsi al prossimo spesso significa essere disposti a correre dei
rischi, come ci hanno insegnato tanti dottori e infermieri negli ultimi mesi. Questo
stare vicini per servire va oltre il puro senso del dovere; l’esempio più grande ce
lo ha lasciato Gesù quando ha lavato i piedi dei suoi discepoli: si è spogliato, si è
inginocchiato e si è sporcato le mani (cfr. Gv 13,1-15).
                                Per riconciliarsi bisogna ascoltare. Ce lo inse-
                                gna Dio stesso, che, inviando il suo Figlio nel
                                mondo, ha voluto ascoltare il gemito dell’umani-
                                tà con orecchi umani: «Dio infatti ha tanto amato
                                il mondo da dare il Figlio unigenito, […] perché il
                                mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
                                L’amore, quello che riconcilia e salva, incomincia
                                con l’ascoltare. Nel mondo di oggi si moltiplicano
                                i messaggi, però si sta perdendo l’attitudine ad
                                ascoltare. Ma è solo attraverso un ascolto umile e
                                attento che possiamo arrivare a riconciliarci dav-
                                vero. Durante il 2020, per settimane il silenzio ha
                                regnato nelle nostre strade. Un silenzio drammati-
                                co e inquietante, che però ci ha offerto l’occasione
                                di ascoltare il grido di chi è più vulnerabile, degli
                                sfollati e del nostro pianeta gravemente malato. E,
                                ascoltando, abbiamo l’opportunità di riconciliarci
                                con il prossimo, con tanti scartati, con noi stessi
                                e con Dio, che mai si stanca di offrirci la sua mi-
                                sericordia.

                                                                                        19
Per crescere è necessario condividere. La prima comunità cristiana ha avuto
     nella condivisione uno dei suoi elementi fondanti: «La moltitudine di coloro che
     erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno consi-
     derava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune»
     (At 4,32). Dio non ha voluto che le risorse del nostro pianeta fossero a beneficio
     solo di alcuni. No, questo non l’ha voluto il Signore! Dobbiamo imparare a con-
     dividere per crescere insieme, senza lasciare fuori nessuno. La pandemia ci ha
     ricordato come siamo tutti sulla stessa barca. Ritrovarci ad avere preoccupazioni
     e timori comuni ci ha dimostrato ancora una volta che nessuno si salva da solo.
     Per crescere davvero dobbiamo crescere insieme, condividendo quello che ab-
     biamo, come quel ragazzo che offrì a Gesù cinque pani d’orzo e due pesci… E
     bastarono per cinquemila persone (cfr Gv 6,1-15)!
     Bisogna coinvolgere per promuovere. Così infatti ha fatto Gesù con la donna
     samaritana (cfr Gv 4,1-30). Il Signore si avvicina, la ascolta, parla al suo cuore,
     per poi guidarla alla verità e trasformarla in annunciatrice della buona novella:
     «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui
     il Cristo?» (v. 29). A volte, lo slancio di servire gli altri ci impedisce di vedere le
     loro ricchezze. Se vogliamo davvero promuovere le persone alle quali offriamo
     assistenza, dobbiamo coinvolgerle e renderle protagoniste del proprio riscatto.
     La pandemia ci ha ricordato quanto sia essenziale la corresponsabilità e che
     solo con il contributo di tutti – anche di categorie spesso sottovalutate – è pos-
     sibile affrontare la crisi. Dobbiamo «trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti
     possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e
     di solidarietà» (Meditazione in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020).
     È necessario collaborare per costruire. Questo è quanto l’Apostolo Paolo rac-
     comanda alla comunità di Corinto: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del
     Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi
     siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire» (1 Cor
20
1,10). Costruire il Regno di Dio è un impegno comune a tutti i cristiani e per que-
sto è necessario che impariamo a collaborare, senza lasciarci tentare da gelosie,
discordie e divisioni. E nel contesto attuale va ribadito: «Non è questo il tempo
degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa
differenza di persone» (Messaggio Urbi et Orbi, 12 aprile 2020). Per preservare
la casa comune e farla somigliare sempre più al progetto originale di Dio, dobbia-
mo impegnarci a garantire la cooperazione internazionale, la solidarietà globale
e l’impegno locale, senza lasciare fuori nessuno.
Vorrei concludere con una preghiera suggerita dall’esempio di San Giuseppe, in
particolare quando fu costretto a fuggire in Egitto per salvare il Bambino.
Padre, Tu hai affidato a San Giuseppe ciò che avevi di più prezioso: il Bambino
Gesù e sua madre, per proteggerli dai pericoli e dalle minacce dei malvagi.
Concedi anche a noi di sperimentare la sua protezione e il suo aiuto. Lui, che
ha provato la sofferenza di chi fugge a causa dell’odio dei potenti, fa’ che possa
confortare e proteggere tutti quei fratelli e quelle sorelle che, spinti dalle guerre,
dalla povertà e dalle necessità, lasciano la loro casa e la loro terra per mettersi in
cammino come profughi verso luoghi più sicuri.
Aiutali, per la sua in-
tercessione, ad ave-
re la for­za di andare
avanti, il conforto nel-
la tristezza, il corag-
gio nel­la prova.
Dona a chi li accoglie
un po’ della tenerez-
za di questo padre
giusto e saggio, che
ha amato Gesù come
un vero figlio e ha
sorretto Maria lungo
il cammino.
Egli, che guadagna-
va il pa­ne col lavoro
delle sue mani, pos-
sa provvedere a co-
loro a cui la vita ha
tolto tutto, e dare loro
la dignità di un lavoro
e la serenità di una casa.
Te lo chiediamo per Gesù Cristo, tuo Figlio, che San Giuseppe salvò fuggendo
in Egitto, e per intercessione della Vergine Maria, che egli amò da sposo fedele
secondo la tua volontà. Amen.

                                                     Papa Francesco
                                                                                         21
apa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migran-
     te e del Rifugiato (27 settembre 2020) propone alla nostra riflessione sei
     “coppie” di verbi1, che mi sembrano, nella loro profondità e chiarezza
     evangelica, un “programma” capace di indicarci la strada per un cam-
     biamento delle nostre relazioni con gli altri, in ogni ambiente, e non solo
     nel campo delle migrazioni.
     Tra questi, i verbi “farsi prossimi per servire” risultano particolarmente signifi-
     cativi e, come dice il Messaggio stesso, niente affatto scontati in questi mesi
                                        di distanziamento sociale.
                                          È quello che stiamo vivendo recentemen-
                                          te qui a Città del Messico nell’incontro con
                                          i migranti messicani espulsi dagli Stati Uniti
                                          perché privi di permesso di soggiorno: una
                                          realtà, già di per sé dolorosa, resa ancor più
                                          dura dal contesto della pandemia. Tutto que-
                                          sto rivela la volontà politica di utilizzare la
                                          situazione sanitaria per accelerare i rimpatri.
                                          Da marzo, infatti, una legge d’emergenza per
                                          la salute pubblica conferisce in modo straor-
                                          dinario alle autorità statunitensi il potere di
                                          rimpatriare immediatamente gli stranieri irre-
                                          golari fermati alla frontiera, senza applicare
                                          le leggi migratorie ordinarie, che permettono,
                                          ad esempio, la possibilità di chiedere asilo.
                                    Così, mentre prima dell’epidemia la maggio-
                                    ranza di coloro che attraversavano il confine
                                    clandestinamente erano singole persone e
                                    famiglie del Centroamerica che intendevano
                                    chiedere asilo, ora il gruppo più numeroso è
                                    costituito da uomini soli, messicani, che per
     la crisi economica cercano lavoro negli USA. Da gennaio a luglio sono stati
     espulsi 103’685 messicani, un numero di poco inferiore a quello dello stesso
     periodo del 2019.
     Come sempre, la maggior parte dei rimpatri avviene attraverso la frontiera
     terrestre tra Stati Uniti e Messico. Tuttavia dal maggio di quest’anno, in piena

     1 I verbi sono: “conoscere per comprendere”, “farsi prossimi per servire”, “ascoltare per
     riconciliarsi”, “condividere per crescere”, “coinvolgere per promuovere”, “collaborare
     per costruire”.

22
diffusione del coronavirus, quando ogni altra forma di mobilità non essenziale
era proibita e le frontiere erano chiuse, sono iniziati una volta alla settimana
dei voli charter che trasportano all’aeroporto di Città del Messico alcune cen-
tinaia di messicani espulsi. Gli aerei provengono da Austin (Texas) e da San
Diego (California). Era dal 29 maggio 2018 che non venivano più realizzati
questi voli.
Già nel 2018 avevamo conosciuto “New Comienzos” e “Deportados Unidos
en la Lucha” (DUL), due associazioni – ma ve ne sono anche altre – costituite
da messicani rimpatriati in maniera forzata dagli USA. Con grande coraggio
gli iniziatori di queste realtà, pur essendo loro stessi costretti a ricominciare da
zero la loro vita in Messico dopo molti anni trascorsi negli Stati Uniti, intendo-
no aiutare altre persone che stanno vivendo la stessa esperienza.
Attualmente in collaborazione con DUL abbiamo iniziato Fernanda ed io ad
andare una volta alla settimana, inizialmente all’aeroporto, e poi alla Terminal
del Norte, una delle stazioni degli autobus della città, per cercare di “incrocia-
re” il cammino di questi migranti di ritorno.
Appunto, non è scontato “avvicinarsi per servire”. La particolare situazione dei
migranti rimpatriati, le misure burocratiche delle autorità nell’aeroporto, la ne-
cessità di seguire misure di sicurezza per proteggere e proteggersi dal coro-
navirus, ma anche la diffidenza dei migranti stessi rendono l’incontro non così
facile. La coordinatrice di DUL, Ana Laura López, e i suoi collaboratori hanno
trovato con creatività un modo per accompagnare le persone che arrivano a
Città del Messico: distribuire loro delle mascherine avvolte singolarmente in
una confezione al cui interno vi è anche un foglio informativo su DUL, con i
relativi contatti WhatsApp, posta elettronica, Facebook, Instagram...
DUL, infatti, offre assistenza in vari modi, ad esempio aiutando nelle comples-
se pratiche burocratiche a cui a volte i messicani espulsi dagli USA vanno in-
contro nel loro paese di origine; oppure indicando se vi è possibilità di ricevere
                                                                                       23
un appoggio da parte del governo per iniziare una piccola attività economica;
     o ancora dando la possibilità di alloggiare in una casa d’accoglienza a coloro
     che non hanno un luogo dove andare.
     Le autorità messicane ricevono questi connazionali espulsi e nell’aeroporto
     organizzano per loro un controllo medico, per individuare eventuali casi di
     COVID-19. Inoltre l’Instituto Nacional de Migración (INM) paga per loro un bi-
     glietto di autobus. L’idea sarebbe quella di favorire il rientro alle loro rispettive
     città di origine, nei diversi Stati che compongono il Messico. Alcuni pullman
     dell’INM accompagnano, quindi, i migranti verso le varie stazioni di autobus ai
     quattro punti cardinali di Città del Messico.
     Il gruppo più numeroso si dirige verso la Centrale del Nord: come mai?!
     Lo scopriamo parlando con loro nella sala d’aspetto di questa stazione di
     pullman. Gli offriamo una mascherina, spieghiamo che nella confezione tro-
     veranno informazioni che potrebbero essere loro utili.
     Molte delle persone che incontriamo hanno già un’idea nella mente: dirigersi
     nuovamente a nord, verso la frontiera... ritentare, in poche parole, di attra-
     versarla, nonostante sia diventato davvero difficile superare il Muro e molti
     vengano arrestati o nel tentativo o a pochi chilometri dal confine.
     Pochissime sono le donne che vediamo e quasi non riusciamo a parlare con
     loro. Sono le più sfuggenti, segno della paura che accompagna chi è più vul-
     nerabile. Mentre con diversi ragazzi – molti sembrano tra i diciotto e i venti
     anni – e uomini più maturi di età è possibile iniziare un dialogo. Le storie sono
     diverse: alcuni sono al loro primo tentativo fallito di emigrare negli USA; al
     di là della frontiera li aspettano amici o familiari e, spesso, una prospettiva
     di lavoro con un salario che, confrontato con quello messicano, appare una
     ragione sufficiente per rischiare tutto. Per molti vale la pena tentare alme-
     no un’altra volta, magari dopo qualche giorno di riposo per riprendersi dalla
     dura esperienza dell’attraversamento della frontiera, dell’arresto, dei giorni
24
trascorsi in un centro di detenzione e
                                         del volo aereo con le manette al pol-
                                         so. Rimangono in gruppo, per potersi
                                         riorganizzare, e puntano verso le città
                                         di frontiera.
                                         Alcuni però già desistono: il pensiero
                                         va alla famiglia, da cui ci si dovrebbe
                                         separare per un tempo incalcolabile,
                                         ai pericoli e alle sofferenze che si de-
                                         vono affrontare. Vengono alla mente
                                         possibilità alternative di guadagnarsi
                                         da vivere in Messico, anche se molto
                                         meno redditizie. Sono le esperienze
                                         ad esempio di un giovane papà, parti-
                                         to proprio pensando al futuro dei figli,
                                         ma anche convinto che Dio gli ha in-
                                         dicato la strada del ritorno, per poterli
riabbracciare e trovare un’altra soluzione che non sia la separazione forzata…
oppure di un uomo di mezz’età, che in passato aveva vissuto negli Stati Uniti
e ora, dopo un prolungato periodo di disoccupazione, voleva ritentare. Ma i
tempi sono cambiati, dice, ora il Muro è molto più alto – in tutti i sensi.
Ci sono poi coloro che vivevano già da tanti anni o addirittura dall’infanzia
negli Stati Uniti, rappresentanti di quei cinque milioni di cittadini messicani
che abitano negli USA senza permesso di soggiorno. Gente che lavora, paga
le tasse, ha figli di nazionalità statunitense, contribuisce con le rimesse al be-
nessere dei parenti rimasti in patria. Tutti costoro rischiano di essere scoperti
e rimpatriati. Questo tipo di espulsione è una delle forme più scioccanti di mo-
bilità forzata, perché la persona viene strappata alla sua vita normale e ai suoi
affetti da un giorno all’altro, senza preavviso, senza possibilità di difendersi.
Anche tra loro, la maggior parte punta di nuovo al nord: con l’aiuto finanziario
della famiglia rimasta negli Stati Uniti tentano una o più volte di attraversare
la frontiera. Non mancano, però, quelli che decidono di ricominciare la propria
vita in Messico.
Deportados unidos en la lucha si pone come un segno di resistenza e di solida-
rietà nel mezzo di questo movimento di persone, che soffrono le conseguenze
della cultura dello scarto e di frontiere che mantengono le diseguaglianze.
In questo momento condividiamo con loro un servizio umile e gratuito e an-
che la sensibilizzazione perché la società non si dimentichi dei deportados in
tempo di pandemia. Per questo organizziamo con i rappresentati di DUL dei
laboratori in cui possano parlare della loro esperienza ai giovani studenti delle
università… ancora per il momento attraverso le piattaforme digitali.
Questo tempo ci regala la possibilità di camminare con questi migranti che si
sono fatti prossimi per servire i loro compagni di viaggio.

                                                                Luisa
                                                                                     25
ome in altre regioni del mondo, an-
che lungo la rotta del Mediter­raneo
l’epidemia di COVID-19 ha solo ral-
lentato temporaneamen­     te i movi-
menti migratori, che stan­­no ripren-
dendo. Ancora una volta, solo con
una visione ampia e responsabile
della situazione e un’azione comune internazionale è possibile pensare di ge-
stire il fenomeno in modo ordinato e rispettoso per tutti: popolazione locale e
migranti.
L’arrivo di migranti sulle coste della Sicilia lungo la rotta del Mediterraneo centrale è
continuato, seppure con minore intensità, anche nei mesi primaverili, in pieno con-
finamento, come una presenza che, nella generale e forzata immobilità, ha comun-
que richiesto impegno per creare un sistema mirato ad accogliere i migranti durante
le due settimane di vigilanza sanitaria richieste per ogni persona proveniente dall’e-
stero durante la pandemia. Nonostante i numeri contenuti (dovuti anche al fatto che
il governo aveva dichiarato l’Italia “paese non sicuro” a causa del COVID, vietando
alle navi umanitarie di attraccare sulle coste italiane), già in quei mesi (eravamo vici-
no a Pasqua) in alcuni paesi dell’agrigentino dove erano situati centri di accoglienza,
ci furono proteste: il timore di un possibile contagio fungeva da logico pretesto. Se
ne impadronirono i giornali, le associazioni, gruppi politici vari: sullo sfondo si intra-
vedevano già le mosse di interessi politici locali, in vista delle elezioni amministrative
previste per l’autunno.
Come Chiesa diocesana, insieme ad altri direttori degli uffici della Curia, ci preoccu-
pammo di incontrare il Prefetto, una signora da poco nominata, la quale ci rassicurò
dell’attenzione continua riservata alla situazione, con opportune misure ed un raf-
forzamento massiccio della sorveglianza ai centri. Purtroppo però a Lampedusa la
situazione, già complicata dalle quarantene a cui sottoporre le persone in arrivo, da
giugno è diventata critica anche per l’aumento degli sbarchi: l’hotspot è affollato ben
oltre l’effettiva capienza e le condizioni dei migranti risultano precarie.

26
Nel corso dei mesi estivi i viaggi della speranza si sono intensificati1, da gennaio alla
fine di settembre risultavano sbarcate 23.726 persone, un numero quasi triplicato
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, anche se inferiore al dato del 2018.
Lampedusa è teatro di continui approdi, piccole barche in genere con poche decine
di persone, soprattutto dalla Tunisia, oltre che dalla Libia. I tunisini rappresentano
ora una quota del 42% di tutti gli arrivi2.
I giornali non ne parlano, ma la Tunisia sta vivendo una gravissima crisi, la peggiore
dal 1956, anno della sua indipendenza. Nelle regioni più povere del Paese (quel-
le dell’entroterra e del sud), dove
la disoccupazione giovanile tocca
punte del 35%, gli effetti della pan-
demia hanno aggravato condizioni
di vita già estremamente precarie.
Un accordo che avrebbe dovuto
creare nuovi posti di lavoro grazie
alla ripresa delle estrazioni petro-
lifere non ha sortito gli effetti pre-
visti. Anche il turismo, che regge il
20% dell’economia del Paese, ha
subito un tracollo; secondo le pre-
visioni della Banca Centrale Tuni-
sina, il PIL si ridurrà ancora ed avrà
come conseguenza un aumento
della disoccupazione di almeno 6
punti percentuali. In tutto questo, a
motivo della forte instabilità politica
(il primo ministro Elyes Fakhfakh si è dimesso appena sei mesi dopo la sua nomina)
il paese non riesce ad imboccare la strada giusta per le riforme.
In questo quadro così critico, non c’è da stupirsi se l’emigrazione appare l’unica via
di speranza, tanto più che Lampedusa e la Sicilia sono molto vicine. Tra le isole Ker-
kennah e Lampedusa la distanza è di soli 120 km, un tragitto facile da coprire anche
con una piccola barca, senza bisogno di affidarsi ai trafficanti. A luglio, per esempio,
è approdato a Lampedusa un barchino con un’unica famiglia a bordo: genitori con
tre figlie disabili e il gatto. Sono stati segnalati altri casi analoghi di persone che si
sono organizzate da sole per il viaggio. Secondo il Ministero dell’Interno, il 60 %
degli sbarchi sono avvenuti in autonomia, con approdo diretto sulle coste: un dato
che vale a smentire l’accusa mossa alle navi umanitarie di incentivare la migrazione.
Il sistema di accoglienza, a fronte di questo importante incremento, si dimostra am-
piamente inadeguato anche a causa della pandemia, che complica non poco le
cose: la quarantena comporta particolari cautele, l’adozione di misure sanitarie pre-
ventive e di distanziamento sociale, che non permettono i trasferimenti prima di aver
completato la profilassi. Il fatto che in diverse occasioni i migranti si siano dispersi

1 https://www.migrantesonline.it/2020/10/01/viminale-da-inizio-anno-sbarcate-23-726-
persone-migranti-sulle-coste-italiane/.
2 Ibid.

                                                                                       27
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