Hic Rhodus hic salta, il bivio dell'imperialismo europeo.
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Hic Rhodus hic salta, il bivio dell’imperialismo europeo. Mauro Casadio, Rete dei Comunisti Il Forum della RdC che si è tenuto a Bologna il 20 e 21 Novembre ha cercato di focalizzare l’evoluzione che sta avendo L’Unione Europea, da quello che abbiamo definito a suo tempo un “polo” imperialista, cioè una forma inedita di relazioni in Europa che si basava sostanzialmente su un’area economico finanziaria, che oggi sta mutando la propria funzione. Abbiamo detto da “Polo a Superstato” proprio per delineare un percorso che non è definibile a priori e che, rispettando obiettivi e funzioni di un’effettiva area imperialistica moderna, sta dandosi una strutturazione storicamente originale in rapporto a quelli che sono gli Stati europei affermatisi tra l’800 ed il ‘900 in modo esplicitamente imperialista. Il percorso e l’analisi a cui abbiamo fatto riferimento nelle nostre elaborazioni non è quello che si manifesta periodicamente in momenti di conflitto o di omogeneità tra gli Stati della UE, a causa delle loro differenze di storia, dimensione e di peso politico, ma le tappe che nell’andare del tempo si sono consolidate e che sono oggi alla base degli ulteriori possibili balzi in avanti che questa inedita costruzione istituzionale può fare. L’accordo di Maastricht nel ‘92, la nascita dell’Euro ai primi anni del 2000, il superamento della crisi finanziaria del 2007/2008, l’uscita dell’Inghilterra come “longa manus” degli USA in Europa, il ruolo attivo della BCE di Draghi con i Quantitative Easing, l’attuale Recovery Fund come ristrutturazione industriale continentale sono i pilastri di una costruzione sui quali è difficile pensare che si possa tornare indietro nonostante le difficoltà, comunque sempre contingenti, data anche la nuova condizione nelle relazioni internazionali.
Il Forum ha cercato non solo di delineare il percorso ma ha affrontato gli aspetti e le conseguenze del passaggio in atto, dagli elementi più strutturali quali la competizione monetaria internazionale con l’Euro quale soggetto “forte”, la ristrutturazione “ambientalista” del Recovery Fund che sarà un ulteriore passaggio nella omogeneizzazione continentale. Sono stati affrontati anche gli effetti sociali sia sul versante delle classi subalterne, che vedranno un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni, sia sul versante della costituzione di una borghesia continentale che si va formando con la costruzione esplicita dei cosiddetti “campioni europei”. Questi sono le multinazionali industriali e finanziarie europee che stanno costruendo la filiera di una nuova borghesia distinta ed egemone sulle frazioni borghesi che non sono in grado di emanciparsi dalla dimensione nazionale. Sono stati affrontati anche i temi relativi alla proiezione imperialista della UE che riguardano sia le relazioni internazionali, che hanno assunto ormai un carattere competitivo e multipolare, sia la costruzione dell’esercito europeo e del sistema industriale militare continentale che si rende necessario “in un’era di ipercompetitività” come dice la Ursula Van Der Leyen, presidente della Commissione Europea. Comunque gli atti del Forum verranno stampati su un numero cartaceo di Contropiano per poterne fare oggetto di una discussione e confronto a livello nazionale già dal prossimo mese di Gennaio. Ma c’è una questione che va evidenziata in quanto determinante nelle prospettive della UE; i paesi che hanno dato vita alla UE, nei diversi passaggi fatti, fino a quello degli anni ’90 dopo la fine dell’URSS, hanno avuto ben presente che comunque la forza egemone nel campo capitalista erano gli USA. Perciò pur praticando una tortuosa strada per definire sempre più un proprio percorso autonomo, basti ricordare il ruolo frenante sempre avuto dalla Gran Bretagna, non hanno mai messo in discussione l’egemonia USA, ne velleitariamente hanno dichiarato orizzonti che andassero oltre quelli della NATO. Questo comportamento teneva conto sia dei reali rapporti di forza e di subordinazione agli USA ma nemmeno i gruppi dominati europei soggettivamente aspiravano ad una autonomia netta in quanto la forza militare e monetaria americana suppliva alle mancanze di una Unione ancora incompleta. Il punto del passaggio individuato nel Forum è che questo sviluppo più che dalle scelte dell’Unione Europea è reso obbligatorio dal mutare del quadro internazionale e dal ridimensionamento degli USA dopo la fuga dall’Afghanistan e dallo scenario
asiatico, dove la parte del leone oggi la fa la Cina assieme alla Russia ed all’Iran. Se fino a ieri la proiezione al “superstato imperialista” era una tendenza solo potenziale oggi il quadro mondiale cambia necessità e priorità in quanto l’UE non può permettersi nel cambiamento in atto di divenire il vaso di coccio tra USA e Cina, e per di più in un mondo oggi palesemente multipolare. E’ necessario perciò tracciare un quadro complessivo della situazione mondiale per capire le prospettive ed elaborare una nostra funzione, di classe e comunista, dentro queste. Avere un quadro d’insieme. Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi è un rimescolamento complessivo del contesto internazionale i cui esiti sono allo stato attuale indeterminabili, come sempre avviene in questi passaggi che hanno lo spessore della storia. Il tentativo che possiamo fare adesso è quello di evidenziare i vari tasselli di un puzzle che è in continua evoluzione cogliendone la dinamica e le reali/potenziali contraddizioni, approfondendo l’analisi delle tendenze interne ai vari soggetti e delle reciproche conflittuali relazioni in competizione. La questione del riarmo per come si manifesta oggi è il sintomo più significativo di questo rimescolamento dei rapporti di forza a livello internazionale e risponde ad esigenze specificamente belliche in una condizione di forte sviluppo della scienza e della tecnologia applicata al militare. Ma questo aspetto ci rimanda anche alla questione più strutturale ovvero all’uso della leva della produzione militare per sostenere una crescita economica sempre più asfittica per la valorizzazione del capitale, ovvero quel Keynesismo di guerra o Warfare praticato in particolare dagli USA fin dal secondo dopoguerra prima in Corea e poi in Vietnam. La NATO è il soggetto che da tempo sta sotto pressione, prima con gli interventi militari diretti in Afghanistan e Medio Oriente su spinta ed interessi degli USA, poi con la relativa autonomizzazione della Turchia accelerata dal fallimento del colpo di Stato contro Erdogan ed ora con il ridimensionamento USA concretizzatosi clamorosamente con la fuga dall’Afghanistan. Lo stress internazionale trova rappresentazione diretta nella ridefinizione conflittuale dell’attuale geopolitica, nel rilancio dell’industria militare e del nucleare, nei caratteri che si impongono alla ricerca scientifica piegata ulteriormente alla competizione globale. Se vediamo la questione militare in questa prospettiva dobbiamo perciò andare ad
analizzare cause e tendenze che la producono e che rimetteranno in discussione in modo sempre più palese gli equilibri geopolitici. In questo senso è utile avere un quadro d’insieme che qui può essere fatto solo in modo approssimativo, ed ancora da approfondire, dei soggetti in campo e delle loro specifiche prospettive. Al primo posto, dal nostro punto di vista, non può che esserci l’Unione Europea sulla quale abbiamo incentrato il confronto nel Forum di Bologna e sulla quale va ancora evidenziato un’ ultimo aspetto. Questa infatti è stato il solo soggetto che tra crisi e riconversioni ha mantenuto già dagli anni ’90 quantomeno un progetto strategico che anche in questo nuovo frangete di accentuata competizione viene perseguito con coerenza, determinazione e realismo. Anche la condizione degli USA sta esplicitando tendenze presenti da tempo. Dopo il crollo dell’URSS i gruppi dominati statunitensi sono stati colpiti da una “sindrome di onnipotenza” arrivando a pensare il XXI° secolo come americano; si sono lanciati in avventure belliche sotto la copertura ideologica delle guerre per la democrazia ed i diritti civili, hanno tenuto sotto il loro tallone la Russia di Eltsin e si erano convinti che la Cina andasse trattata come l’URSS puntando sulla sua disgregazione avendo per di più una penetrazione economica delle multinazionali USA. L’incapacità, invece, di quel paese di sostenere un ruolo egemonico mondiale è già emerso con la crisi finanziaria del primo decennio del secolo, si è ripresentata con l’elezione di Trump prodotta da una profonda crisi sociale dei bianchi wasp. Seguita poi dal ripiegamento strategico dall’Afghanistan che ha sancito la fine della teoria di Zbigniew Brzezinski che pensava di poter controllare l’Asia, e dunque la Cina, la Russia e l’Iran, costruendo una “democrazia” nel cuore del continente. Questa crisi statunitense è un vero e proprio passaggio storico, simile a quello avuto con la fine dell’URSS ma di segno politico opposto, che apre un periodo dove probabilmente si affermerà una realtà internazionale multilaterale. Né bloccherà questa tendenza l’accordo Aukus che va letto come un ripiegamento e non come un nuovo rilancio, anche perché si rimettono in discussione le vecchie alleanze, vedi la reazione francese per la mancata vendita dei sottomarini, pensando di tornare alla politica delle cannoniere e degli embarghi dopo aver tolto gli scarponi dal terreno nel centro Asia. Ma come si sa le guerre, in tutte le sue forme, si vincono se si hanno gli scarponi a terra; ora gli USA li hanno tolti dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Libia ed in Siria ci hanno provato ma hanno fallito. Insomma sono diventati una forza che è stata messa ai margini di quel continente che segna la crescita più alta nel mondo da tutti i punti
di vista. La Cina è il soggetto che ha indubbiamente scompaginato lo scenario mondiale sia con l’accresciuto peso economico che si prolunga dagli anni ’90, sia con una affermazione di potenza che gradualmente si è imposta e che viene percepita come pericolo politico-militare ma anche come opportunità economica dai diversi soggetti in campo. E’ certo che la Cina così come è adesso è il prodotto della miopia occidentale riconfermatosi come apprendista stregone in quanto la competitività Cinese è il prodotto dell’incredibile sviluppo delle forze produttive, tecniche ed umane, innestato dal capitale mondiale in una fase di allargamento degli spazi di mercato. Lo stesso Partito Comunista fece la scelta di usare il “Modo di Produzione Capitalista” per produrre una crescita economica che è stata enorme ed una conseguente crescita di ruolo internazionale. Lo scontro innestato dagli USA, incluso l’accerchiamento “pelagico” in atto con l’Aukus, rende ancora più instabile il contesto internazionale inducendo ad altri salti competitivi, visto appunto lo sviluppo spalmato a livello mondiale delle forze produttive, che non hanno più per gli USA la garanzia di un esito positivo visto anche il loro ridursi come potenza globale. Infine anche le storiche relazioni europee ed americane vengono sottoposte a degli stress che porteranno ad una modifica di come sono state fino ad oggi. Questo si sta manifestando con uno sviluppo autocentrato della UE sempre più evidente anche per come è stato analizzato nel Forum relativamente all’ “accorciamento” delle filiere produttive nell’ambito dell’area continentale. Ciò avviene con una centralizzazione dell’apparato produttivo europeo che con il Recovery Fund riceve una spinta decisiva anche in funzione di una delocalizzazione produttiva che tende sempre più a rimanere nell’ambito continentale e nella più diretta sfera di influenza del mediterraneo e dell’Africa Occidentale, comunque anche questa è oggi oggetto di competizione con la Russia come dimostrano le vicende della Libia e del Mali. La questione dell’Esercito Europeo ormai è all’ordine del giorno del dibattito tra governi e nelle sedi dell’Unione, qui ritorna non solo l’aspetto strettamente geopolitico ma anche quello Keynesiano di volano per la crescita economica. Tutto ciò rimette in discussione e rende confuso il ruolo della Nato; a Giugno durante il G7 tenuto in Cornovaglia Biden proponeva il rafforzamento strategico dell’area atlantica parlando addirittura di una ”via della seta democratica” occidentale in funzione anticinese oggi lo sgarro fatto sui sommergibili francesi dimostra quanto propagandistica sia la posizione USA chiaramente in deficit di
strategia. Un ulteriore esempio della sconnessione occidentale sono gli esiti del G20 e del COP 26 che dimostrano l’incapacità di riprodurre l’egemonia avuta negli ultimi trent’anni. Questi “campi di forze” che si incontrano e scontrano hanno ulteriori potenziali sottoprodotti come la nascita di potenze regionali o comunque non di dimensioni globali, come la Russia, l’Iran, la Turchia. Lo stesso processo di compattamento tra le potenze economiche della penisola Arabica ed Israele può portare ad ulteriori sviluppi imprevedibili e irrazionali basati solo su interessi specifici e comunque volubili. Non solo ma in questo rimescolamento, questo si globale, verranno coinvolti sia l’Africa che l’America Latina. La prima già è terra di scontro tra Cina, Russia, UE ed USA sia sul piano economico e delle risorse naturali che su quello delle alleanze che spesso durano tempi molto brevi come sta dimostrando il Mali passato, con un colpo di Stato, dall’influenza francese a quella russa. Infine anche l’America Latina subirà contraccolpi in quanto gli USA saranno costretti a tornare nel loro “cortile di casa” di fronte al ridimensionamento avuto nei rapporti produttivi con la Cina da parte delle multinazionali. Questo aspetto era ben presente già dall’accordo del Nafta fatto negli anni ’90 che favoriva la delocalizzazione in Messico e nell’America Centrale. Se emergeranno altre spinte alla crescita produttiva, oltre che alla rapina sulle materie prime, è evidente che la necessità del controllo politico e militare su quel continente si farà sentire maggiormente ma con una difficoltà in più. Infatti il processo di emancipazione di quei popoli, processo contraddittorio e lungo ma reale, e di resistenza allo yankee porterà ad un aumento del conflitto che finora non è sfogato in quello militare. Gli USA per ora si limitano a mantenere il blocco a Cuba, a rendere la vita difficile al Venezuela ed alla Bolivia. Ma di fronte alle potenziali insubordinazioni che vengono dall’Argentina, dal Cile, perfino dal Perù ed alla prossima crisi del Brasile di Bolsonaro non è irrealistico ipotizzare un nuovo scenario di crisi politica e militare in quel continente. Da circa un ventennio nel mondo globalizzato si è determinato uno stallo dei rapporti di forze dove l’egemonia USA è rimasta incontrastata grazie anche alla presenza di condizioni “stabilizzanti”. Da una parte l’intreccio finanziario internazionale che di fronte alle frequenti crisi vedeva sostanzialmente una unità delle grandi potenze e della finanza per contenerle e controllarle per evitare un nuovo ’29. Dall’altra la diffusione delle armi atomiche e della tecnologia missilistica hanno
impedito una tracimazione bellica generalizzata. Oggi di fronte ad una prospettiva di indeterminatezza causata dalla ipercompetitività potrebbe affacciarsi l’ipotesi che quell’equilibrio nei rapporti di forze vada in frantumi e si incrudisca lo scontro internazionale con esiti difficili da prevedere e potenzialmente anche drammatici. In questo senso oggi si presenta il bivio all’imperialismo europeo. Accettare la sfida e candidarsi ad un salto qualitativo nello scenario internazionale oppure accettare un ruolo subalterno che segnerebbe una pessima prospettiva per un’area economica che per certi versi è invece la più grande del mondo. La scelta ci sembra scontata. 26 novembre 2021 2021, l’orgia dell’ideologia Mauro Casadio, Rete dei Comunisti In questa fine d’anno abbiamo subito un bombardamento ideologico sistematico iniziato con l’incontro del G20 a Roma, dove non hanno partecipato né Cina né Russia, e continuato con la COP 26 sull’ambiente. Questi vertici hanno riproposto discorsi e formule quasi del tutto uguali a se stesse che vanno ripetendo da anni, senza alcun effetto pratico e partorendo ancora una volta dall’elefante non il topo ma un topo ragno. Vertici che si ammantano di una retorica noiosa e fastidiosa e che possono essere paragonati a quelli fatti dalle famiglie reali europee prima della Grande Guerra in cui si mostravano paternalisticamente i buoni legami tra parenti regnanti quale garanzia per i popoli Europei, e poi sappiamo come è andata a finire.
Una parodia di quei momenti è stata la ridicola farsa fatta a fontana di Trevi dove tutti i capi di Stato pateticamente buttavano assieme la monetina nella fontana. L’amplificazione ideologica che viene fatta degli eventi è un prodotto direttamente proporzionale alle difficoltà ed alla incapacità che i gruppi dominanti dei paesi imperialisti hanno di risolvere i problemi da loro sollevati divenuti ingestibili e fuori dalla loro possibilità di risoluzione. Questa interpretazione non è solo una nostra opinione faziosa ed estremista ma è la fotografia di una situazione che si è già palesata in Agosto con la fuga degli USA e della NATO dall’Afghanistan, dove più della sconfitta militare ha pesato e bruciato la sconfitta ideologica delle innumerevoli “guerre umanitarie” che ci hanno propinato in questi decenni. Oggi, infatti, queste non sono più riproponibili tale è il discredito avuto dall’interventismo imperialista di inizio secolo paragonabile alle guerre coloniali dell’800. Anche il cinico abbandono dei collaborazionisti Afghani al loro destino nelle mani dei Talebani è un ulteriore elemento di crisi egemonica in quanto gli alleati USA sanno dai fatti che possono essere scaricati in ogni momento dai loro “protettori”. Ma perché quelle potenze che fino a poco fa pensavano di essere i padroni del mondo oggi possono solo tentare di nascondere la propria impotenza con la retorica della loro ideologia? Il motivo risiede nello stadio raggiunto dalle forze produttive e dalla mondializzazione dei rapporti capitalisti. Nella storia i capitalismi egemoni delle diverse epoche nella competizione con i propri “simili” venivano sostituiti dalle nuove economie rampanti, è successo all’Olanda nel confronto con l’Inghilterra ed a questa con gli imperialismi europei a cavallo tra l’ottocento ed il novecento, competizione conclusasi infine a vantaggio degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Questa evoluzione per competizione poteva riprodursi perché esistevano gli spazi materiali per una tale crescita e perché il carattere “rivoluzionario” della borghesia si esprimeva attraverso il cambiamento e lo sviluppo continuo della scienza e della tecnologia applicata alla produzione capitalista sia civile che militare. E’ su questo piano che è stata vinta anche l’esperienza socialista dell’URSS attardatasi su una competizione militarista che le ha impedito di vedere che questo carattere rivoluzionario del capitale non era affatto sopito nonostante la crisi degli anni ‘70, ed è per questo che il mondo oggi è stato completamente capitalistizzato dal movimento ascendente del capitale.
L’effetto che emerge oggi da una tale dinamica è che questa dimensione dello sviluppo innesta una fase di crisi a cominciare da quella dei capitalismi storici. L’affermazione della Cina, l’emergere di potenze economiche intermedie quali l’India, la Russia, l’Iran, il Vietnam, il Brasile ed altri ancora produce una saturazione dello spazio economico e finanziario che non trova ora una soluzione ed incrementa l’ipercompetizione, di cui ci ha dato gentilmente notizia la presidente dell’UE Ursula Van Der Leyen. Ma anche Biden ha tenuto a dire nel vertice con il presidente cinese Xi che i due paesi sono “competitori”, ma non “nemici”. D’altra parte la “soluzione” classica della distruzione generalizzata di capitale, cioè le guerre mondiali, per rilanciare lo sviluppo e affermare una egemonia dominante sono difficilmente praticabili visto l’intreccio internazionale della dimensione finanziaria ed il livello distruttivo delle armi atomiche. E non è certo un caso che oggi riprende quota la discussione sull’uso dell’energia atomica, uso sempre riconvertibile in strumenti di guerra. Se è questo lo spessore della questione non è più sufficiente avere una lettura basata sui capitalismi e sulla loro competizione in quanto “epifenomeni” di un assetto strutturale. Quello che sta emergendo è un limite del Modo di Produzione Capitalista, a prescindere dalle specifiche forme storiche assunte, che tende alla valorizzazione del capitale all’infinito. Il punto è che questa tendenza entra in contraddizione con un sistema naturale limitato, e sebbene sia ancora possibile rinviare nei tempi brevi i termini di una contraddizione così strutturale è evidente che in ballo oggi c’è la sostituzione del MPC con una alternativa di sistema, oppure, come è stato più volte detto, con la reciproca distruzione delle classi in lotta. L’orgia di ideologia a cui siamo sottoposti quotidianamente dai mass media, dagli intellettuali organici alla borghesia e dagli apparati dello Stato ha esattamente questa finalità, non affrontare la contraddizione per impotenza ma cercare di anestetizzare le reazioni politiche delle classi subalterne e dei popoli della periferia. E’ esattamente a questo punto che la questione ambientale non è più una tematica per “elite” intellettuali, nata addirittura dai nobili inglesi come ci racconta “La Repubblica”, ma deve divenire oggetto dell’azione politica per le forze di classe e comuniste. In realtà una risposta già è in atto in termini che potremmo classicamente definire “democratica”, la stiamo vedendo nelle piazze che seguono Greta Thunberg che usufruisce di una copertura mediatica per certi versi sospetta anche se comunque
sta mettendo in moto masse giovanili che dentro le contraddizioni di sistema non è detto che vadano laddove le televisioni le vogliono condurre. L’accusa di Greta ai potenti di fare solo del bla bla bla è sintomo di una difficoltà e divaricazione che in quel movimento potrebbe prima o poi emergere. Si stanno pronunciando anche ampi settori di intellettuali e di scienziati che denunciano l’inadeguatezza delle scelte fatte dai governi in vertici palesemente inutili e dannosi, ma tutti questi soggetti evitano accuratamente di pronunciare la parola “proibita” di Capitalismo. Per cui la responsabilità è genericamente dell’uomo, persino dell’Homo Sapiens, come se comunque l’assetto sociale e produttivo non abbia contraddizioni strutturali ma la colpa è dei politici, degli industriali, dei governi etc. Insomma anche per loro la storia è finita e rimane solo un problema di coscienza dei diversi soggetti in campo. E’ evidente che questo sommovimento giovanile e delle coscienze non è il prodotto politico diretto della lotta di classe ma è il segno che si apre una nuova condizione conflittuale in cui le forze di classe possono svolgere una funzione di coscienza e conoscenza sia sulle tematiche generali legate all’ambiente ed al clima sia su quelle più direttamente politiche come sta avvenendo per la questione del nucleare civile nel nostro paese. Il governo Draghi con il suo ministro per la Transizione Ecologica (verso dove?) Cingolani stanno producendo un nuovo paradosso infatti propongono, assieme a tutta la UE in modo più o meno esplicito, la ripresa del nucleare civile con le centrali di quarta generazione che sarebbero una fonte energetica pulita a differenza del fossile, carbone e petrolio. Tentativo che viene sostenuto da più forze politiche nel paese e con l’ex ministro di Berlusconi Lupi che ha presentato una mozione in parlamento a sostegno del “nucleare green e che Cingolani cerca di coprire con fasulle dichiarazioni sulla fusione nucleare ben sapendo che questa possibilità è ben lontana da venire. Dunque il campo conflittuale che si sta aprendo sulla sostenibilità ambientale è vasto e sul quale si rende necessario un approccio politicamente antagonista sia sulle battaglie generali di denuncia e demistificazione delle scelte rappresentate nei grandi show come COP 26, che si riprodurrà il prossimo anno, sia su terreni molto più vicini a noi come quello del tentativo di reintrodurre il nucleare civile che nel nostro paese è stato bocciato da ben due referendum nel 1987 e nel 2011. E questo è un appuntamento di lotta da non perdere.
La rappresentanza politica e il gioco dell’oca di Mauro Casadio, Rete dei Comunisti Certamente le elezioni svolte in questi giorni essendo “locali” potrebbero non essere significative sul piano nazionale, ma il fatto che si siano svolte nelle più importanti aree metropolitane del paese e che abbiano riscontrato una sostanziale omogeneità dei risultati sia nei grandi che nei piccoli centri, forniscono indizi politici interessanti e realistici. Non è la prima volta che accade di trovarsi di fronte ad un tracollo della partecipazione elettorale dove la disaffezione politica arriva ad “acuti” che si ripetono periodicamente. E’ sufficiente osservare il periodo precedente, quello che va dalle elezioni del 2008, dove vinse Berlusconi, a quelle del 2013, le quali produssero una profonda modifica del quadro istituzionale con l’affermazione del M5S, inattesa per la sua dimensione. Quello che portò ad una vera e propria rottura del quadro precedente, fu l’incapacità/impossibilità del governo dell’epoca di sostenere gli effetti della dilagante crisi finanziaria sotto la pressione della UE a sostegno dell’austerity, una politica che pochi anni dopo avrebbe fatto deflagrare anche la Grecia di Tsipras. Tale situazione si protrasse fino alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 con l’intervento diretto della BCE con la lettera di Trichet-Draghi che imponeva tagli e sacrifici sociali, aprendo un periodo di confusione politica e istituzionale che si risolse solo con il varo del governo Monti-Napolitano fedeli attuatori dei diktat Europei.
Un primo segnale di “disaffezione” si era già manifestato con la scadenza elettorale del 2010 tenutasi nei 2/3 delle regioni italiane, quando l’astensione raggiunse il 40%, ben oltre la media usuale, ma decisivo fu il quadro indecente che emergeva da tutte le forze presenti in parlamento e dalle politiche antipopolari di Monti, a cominciare dalla famigerata riforma Fornero sulle pensioni. In quel frangente storico esplose la crisi della rappresentanza, latente fino a quel momento e che aveva già portato all’esclusione del PRC dal parlamento, una crisi che fece avere al M5S il 25% dei voti. Tale situazione si è protratta fino al 2018, periodo in cui si sono affermate le forze cosiddette “populiste e sovraniste”, certamente inconsistenti sul piano programmatico ma che hanno raccolto l’adesione della maggior parte degli elettori e del montante malessere sociale. Il M5S prima e la Lega poi, hanno cavalcato per quasi un decennio questo spazio vuoto della rappresentanza senza nessuna capacità progettuale, uno spazio vuoto che oggi si ripresenta senza ambiguità con un livello di astensionismo che arriva al 60%. Irrilevante e ridicolo è il balletto che oggi viene fatto sulle TV e sulla comunicazione mainstream tra vinti e vincitori, in quanto la realtà sancisce senza infingimenti che interi pezzi della società è e si sente fuori e senza rappresentanza dopo l’imbroglio dei movimenti cosiddetti “antisistema”. Certamente va fatta una analisi dei caratteri di questo tipo di astensione, non omogenea al suo interno, ma certo è che, come nel gioco dell’Oca, siamo tornati al punto di partenza di un decennio fa. Ovviamente le condizioni complessive della società, anche a causa della pandemia, sono ben peggiori di quelle di un decennio fa, ed è pure ridotta la capacità del paese di poter decidere i propri destini come il governo Draghi, lo stesso che non casualmente ha “tagliato la testa” a Berlusconi, sta a dimostrare. Il governo Draghi ci fa vedere nitidamente come il “superstato” europeo sia ormai in grado di dirigere in modo centralizzato un progetto continentale peraltro favorito anche dall’insorgere della pandemia. Non a caso Prodi ha sempre sostenuto che l’Unione Europea si costruisce proprio tramite le crisi e già si presenta la prossima “opportunità” nel confronto con la Polonia che vuol mantenere le sue prerogative sovraniste. L’uscita dalla pandemia, l’operazione sul Recovery Fund, l’affermazione della UE come soggetto immerso nella “ipercompetizione”, come ci ha ben ricordato la Von Der Leyen, sono tutti elementi che non possono che peggiorare la situazione sociale e di classe. Su questo non ci dilunghiamo nell’analisi, ma i processi di ristrutturazione ed i licenziamenti che dilagano stanno li a mostrarci quali sono le
prospettive per il mondo del lavoro e la società nel suo complesso. Possiamo dire che si sta aggiungendo un altro tassello alla crisi di egemonia che procede da tempo, in quanto pur avendo i centri di potere sussunto le forze cosiddette “antisistema” – depotenziandole e trasformandole da “antieuropeiste” ad “europeiste” – riesplode la questione della crisi della rappresentanza politica dei settori di classe e sociali penalizzati, e questo può rappresentare un importante punto di ripresa di iniziativa ed organizzazione. Certamente non ci sarà un effetto automatico e molto sarà determinato dalla soggettività organizzata che sarà messa in campo, ma si stanno ricreando le condizioni per dare un ruolo a quelle forze che hanno un carattere di classe e che hanno avuto la strada sbarrata sulla rappresentanza proprio dai cosiddetti populisti che il “sistema” ha saputo magistralmente manipolare. Il riuscito sciopero generale dell’11 ottobre, i parziali ma pure importanti risultati elettorali avuti da Potere al Popolo nelle aree metropolitane e non solo, il crescere della conflittualità in molte fabbriche colpite dalla crisi, sono tutti segnali che vanno nella giusta direzione e che sono da rafforzare e consolidare. Per questo la necessità di una totale indipendenza politica dal quadro istituzionale, la costruzione di un radicamento di classe organizzato, la lotta contro l’Unione Europea dentro un orizzonte di rottura socialista, sono tutte questioni che possono ritrovare forza in questo passaggio storico di crisi del capitalismo a condizione di una ritrovata e rinnovata soggettività di classe ed organizzata. Il dito nell’occhio… sull’Afghanistan
di Mauro Casadio – Rete dei Comunisti La RdC ha scelto di convocare per il prossimo 11 settembre a Roma presso la “Casa della Pace”, nel ventennale dell’attacco alle Torri gemelle a New York, un confronto pubblico ritenendo che quello che sta accadendo in Afghanistan non può essere correttamente interpretato se non si va alle radici politiche e storiche che hanno determinato la situazione attuale. Attorno alla tragedia di quel popolo sono state prodotte falsità e mistificazioni indecenti i cui attori principali sono stati gli USA (seguiti dai paesi europei fin dagli anni ’70), il Pakistan e i regnanti reazionari dell’Arabia Saudita. Fu infatti il presidente Carter nel luglio del ’79, ben sei mesi prima dell’intervento dell’URSS, che decise di sostenere militarmente gli integralisti ed il Pakistan nella guerra contro il governo afghano. Portare una visione ferocemente critica delle versioni ufficiali fornite dai governi e dagli “apparati ideologici dello Stato”, quali le televisioni ed i massmedia in generale, è per una forza comunista come la nostra un obbligo, in quanto nel pieno della canea antisovietica negli anni ’80 la nostra area, che allora si chiamava Movimento per la Pace ed il Socialismo, fu l’unica organizzazione politica in Italia a praticare pubblicamente la solidarietà internazionalista verso il governo afghano. Un governo aggredito da forze feudali quali i Mullah, i possidenti terrieri che vedevano rimesso in discussione il loro potere dalle riforme socialiste che venivano fatte nelle campagne, nei servizi sociali, nella scuola con l’alfabetizzazione, fino all’emancipazione di tutte le donne, vietando i matrimoni combinati e il burqa (come è stato ben spiegato nell’articolo di Contropiano del 22 Agosto titolato “Mostri globalizzati” di Leonardo Masone). La nostra fu una posizione scomoda e isolata, anche dalla sinistra più radicale, ma che abbiamo sostenuto con tutta la determinazione necessaria essendo coscienti che comunque l’intervento sovietico poteva salvaguardare i caratteri sociali e democratici di quella esperienza, necessari per l’emancipazione del popolo afghano. Posizione difficilissima e convintamente “kabulista”, come si diceva all’epoca, ma chiara che oggi ci permette di rappresentare e rafforzare un punto di vista che ormai viene imposto dai fatti che si stanno palesando in questa seconda metà di agosto, facendo saltare tutte le bugie e le mistificazione dei paesi imperialisti, degli USA ma anche della UE. La prima è stata quella che il governo afghano negli anni ’80 esisteva grazie solo all’URSS. La realtà è che quel governo ha resistito per ben tre anni e mezzo (dal 1989 al 1992) dal ritiro sovietico all’aggressione esterna imperialista e integralista, dimostrando di avere un forte rapporto con settori importanti della società afghana.
Una cosa molto diversa dal governo fantoccio attuale che, lasciato solo con le proprie forze, non è durato nemmeno tre settimane, a dimostrazione ulteriore della sua inconsistenza. Certamente gli occidentali non possono negare che conoscevano bene i caratteri oscurantisti e reazionari dei loro alleati e che anzi li hanno sollecitati e sostenuti in chiave anticomunista. Dunque appaiono completamente false le lacrime sparse a piene mani su chi sta fuggendo dalla barbarie talebana, e qui si rendono necessarie alcune riflessioni. La prima è quella relativa al massacro nel ’92 contro i comunisti, le loro famiglie e tutti coloro che difendevano una visione sociale progressista contro l’oscurantismo dei mujaheddin. All’epoca gli occidentali, invece, erano ben felici che quei massacri fossero perpetrati, sia che riguardassero uomini, donne o bambini, anzi stesero un velo di silenzio su questo mettendo l’accento solo sulla sconfitta militare. Né dissero qualcosa quando il presidente Afghano Najibullah fu barbaramente evirato e poi impiccato in piazza nel ’96. Anche le nostre anime belle della sinistra tacquero di fronte ad un episodio che poi il “civile” occidente ripetette con Saddam Hussein e con Gheddafi ma fallendo, fortunatamente, con il presidente siriano Assad. L’altra è che se si deve individuare un responsabile di quello che sta accadendo oggi a Kabul è esattamente l’occidente, che prima ha utilizzato l’onda integralista ed ora sta abbandonando i suoi sostenitori a quella barbarie evocata come un improvvido apprendista stregone. Il pericolo reale che corrono i “profughi” e i collaborazionisti oggi è quello che viene dalle ruote degli aerei americani mentre decollano e dalla fuga dagli alleati, né più né meno come è stato fatto nel ’75 con i collaborazionisti nel Vietnam, alla faccia della ormai insostenibile e sfacciata retorica in difesa delle donne e dei bambini, che ora vengono cinicamente abbandonati a se stessi. Sulla vicenda afghana bisognerà continuare a lavorare nei prossimi mesi sulla “controinformazione” politica e storica, con sistematicità contrastando una operazione ideologica neocoloniale sempre meno credibile che dagli anni ’90 ha fatto “sognare” ai padroni del mondo che la Storia fosse veramente finita. Ma se sul passato non andranno fatti sconti a nessuno, la vicenda afghana si presenta come culmine di una inversione netta del percorso storico degli ultimi trent’anni. Da qualche anno si andava percependo che la situazione stesse cambiando radicalmente: dall’accentuata competizione globale, all’uscita della Gran Bretagna dalla UE fino alla tragedia della pandemia che ha segnato i picchi più intensi proprio nei paesi dove il liberismo ha devastato il tessuto sociale.
Da tempo come RdC stiamo lavorando sull’analisi di questo cambiamento e lo abbiamo fatto in particolare in due Forum nazionali, nel 2016 e nel 2019 sulla crisi di egemonia del capitale e sullo stallo nei rapporti di forza tra gli imperialismi, in cui abbiamo individuato un passaggio storico che abbiamo definito dello stesso spessore di quello avuto con la crisi dell’URSS, ma di segno politico opposto. In questo senso è necessario individuare – seppure ancora in via approssimativa in quanto si apre una lunga fase di cambiamento – quali sono i caratteri che stanno emergendo, sia di quelli più evidenti che di quelli meno visibili ma potenziali che possono irrompere nel prossimo futuro. Andando per punti: a) La sconfitta è ideologica più che militare La sconfitta più grande e bruciante per l’occidente è quella IDEOLOGICA. Lo spudorato uso delle armi fatto in termini di veri e propri interventi coloniali dagli anni ’90 in poi (farne l’elenco sarebbe inutile oltre che lunghissimo), è stato possibile perché in quegli anni aveva capitolato una visione rivoluzionaria generale e si era affermato il cosiddetto interventismo umanitario, la guerra “infinita” per la democrazia, etc. Questo ha permesso la motivazione ideologica necessaria a giustificare ogni tipo di ingerenza e intervento militare verso l’esterno, ma anche a giustificare alle popolazioni dei paesi imperialisti le spese economiche e i costi umani pagati per assolvere ad un compito “superiore”, appunto umanitario. Comunque non va dimenticato che la passività affermatasi in questi decenni da parte dei popoli nei paesi occidentali, è stata dovuta anche alla coscienza implicita che questi crimini avrebbero permesso comunque la distribuzione alle “masse” delle briciole di una rapina generalizzata verso i paesi della periferia, una “periferia mondiale” che all’epoca comprendeva anche la Cina per il basso costo della forza lavoro. Il fallimento in Afghanistan, avvenuto dopo quelli in Iraq, in Siria, nello Yemen ed in molti altri posti inclusa l’America Latina, pone fine all’egemonia occidentale sulla lotta per la democrazia, i diritti umani, quelli delle donne. L’architrave ideologico è crollato e crolleranno tutte quelle strutture civili e militari che su questo hanno poggiato per decenni. b) Le cause materiali della sconfitta Usa Le cause che hanno portato a questo esito sono politiche e militari ma sono soprattutto materiali, in quanto l’autonominatosi gendarme del mondo non ha avuto
la forza materiale per sostenere questo ruolo a partire dalle debolezze della sua struttura economica e finanziaria, portata alle sue estreme possibilità con la politica dei tassi zero e una sovrapproduzione di capitale abnorme. Emerge così una debolezza strutturale ed una nuova verità storica: dopo appena trent’anni di mondo unipolare USA si rende evidente che un solo paese non può controllare il pianeta, soprattutto in una fase di crisi economica-finanziaria, sociale ed infine ambientale che si protrae da più di dieci anni. Quello che si sta affacciando è un mondo multipolare, che però verrà sottoposto a molte contraddizioni e conflitti se manterrà la sua base materiale nel Modo di Produzione Capitalista,e dentro i quali la spinta al superamento del presente assetto sociale potrebbe trovare nuovo vigore. c) Il fallimento di una classe dominante C’è anche un fallimento di concezione strategica che dimostra i limiti della classe dominante USA. L’intervento ed il controllo del centro dell’Asia era il prodotto del pensiero strategico di Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente Carter e membro della Trilaterale, che teorizzò la necessità di occupare il centro del continente asiatico per ottenere una posizione strategica determinante per quell’area lontana dagli USA. Da lì si pensava di poter condizione la Cina, la Russia e l’Iran per mantenere la propria predominanza mondiale. Questo nuovo Vietnam dimostra quanto sia stato velleitario un simile calcolo. d) L’uso del keynesismo militare Dalla guerra di Corea del 1950 negli Usa chi ha avuto un peso determinante nella politica internazionale americana è stato l’apparato militare industriale, cioè l’uso del keynesismo militare. E’ stato determinante perché è il settore produttivo più importante, in quanto gli statunitensi sono in assoluto il maggior produttore ed esportatore di armi nel mondo. La situazione di rinculo che ora subisce l’interventismo USA, il maggior protagonismo e ruolo dei suoi competitori, non hanno solo un effetto strategico ma anche economico e dunque sociale. In altre parole questo settore portante dove si rivolgerà per accrescere i propri profitti? Non sarà certo sufficiente il mercato interno che pure è ancora tutelato e “fiorente”. Questa necessità produrrà altri effetti a catena di diverso tipo: da una parte l’approfondirsi di una crisi industriale e sociale che già pesa fortemente sull’economia americana e dall’altra, sapendo bene come agisce la “bestia”, quali altri scenari di guerra si vanno preparando a sostegno dell’apparato industriale militare?
e) Un nuovo assetto internazionale E’ evidente che nei prossimi mesi ed anni si andrà configurando un nuovo assetto internazionale, forse anche dei nuovi rapporti di forza che potrebbero rompere quello stallo degli imperialismi che abbiamo analizzato e che procede da almeno un decennio, cioè dalla crisi finanziaria precedente. Capire quale sarà lo scenario internazionale procedendo per ipotesi e verifiche non è un esercizio intellettuale di geopolitica ma è un modo per collocare l’iniziativa dei comunisti nelle prospettive e anche per quanto ci riguarda nello specifico situazione nazionale. Alcuni segnali sono già giunti da una ripresa dell’attivismo del G7 con il recente vertice tenuto a giugno in Cornovaglia dove sono emerse alcune scelte strategiche prima meno evidenti. In sostanza di fronte alla competizione globale e al ruolo della Cina, alle ambizioni crescenti e diversificate tra alleati e al ritiro dall’Afghanistan già preventivato (ma non certo previsto come la debacle a cui il mondo sta assistendo), gli USA ma anche la UE stanno prendendo atto del cambiamento degli equilibri strategici. Probabilmente danno per perso il controllo imperialista diretto per buona parte dell’Asia e stanno riorganizzando l’area atlantica con un ricompattamento della NATO, che invece fino ad alcuni anni fa sembrava in via di superamento. Naturalmente previsioni esatte su questo sono premature e possiamo cercare di capire solo le tendenze, ma l’idea di consolidare l’area atlantica attorno a USA e UE, rafforzando anche le proprie posizioni in Africa e America Latina, è una ipotesi che traspariva già dalla proposta fatta durante il G7 di giugno cioè quella di costruire una “via della seta occidentale”. Naturalmente va considerato anche il risultato negativo del G7 sul ritiro da Kabul, ma questo vertice si è tenuto su una condizione chiaramente ingestibile per le forze NATO. L’ipotesi di tenuta nella “cittadella” imperialistica dell’alleanza atlantica è tutta da verificare, ma è quella logicamente più realistica in quanto le relazioni con la Cina “in primis” ma anche con la Russia stanno subendo un logoramento molto forte. Significativa è stata la dichiarazione della portavoce del ministero degli esteri cinese che ha affermato come “ovunque vada l’esercito americano lascia turbolenze e divisione, caos, famiglie distrutte e devastazione”. Se è questa la prospettiva su cui stanno lavorando le potenze occidentali, si porranno due questioni di carattere strategico ma che hanno a che fare con la nostra azione politica diretta come comunisti in Italia. La prima riguarda il ruolo dell’America Latina dentro questa riorganizzazione atlantica. Va ricordato che il tentativo di rendere quel continente più funzionale all’economia del Nord America è già stato fatto negli anni ’90, prima con la
costituzione del NAFTA, come area economico commerciale, e poi con l’allargamento al resto del continente con l’ALCA. Quella prospettiva naufragò perché la Cina si “mise” sul mercato con costi della forza lavoro e con un supporto statale per gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) più convincente per le multinazionali di quelle che potevano offrire i paesi latinoamericani. Non è un caso che proprio in quella condizione di relativa importanza per gli USA dei paesi latinoamericani si affermarono le esperienze politiche bolivariane, a cominciare dal Venezuela, e si costituì l’ALBA come area economica alternativa. Nel cambiamento che si prospetta di ritrovata centralità dell’area atlantica, cambierà anche l’attenzione che USA e UE rivolgeranno verso quei paesi. La campagna anticubana a cui stiamo assistendo da mesi, le continue interferenze, anche con colpi di stato, nelle politiche dei paesi che rivendicano la loro indipendenza economica dalle rapine delle multinazionali, non sono il prodotto solo della ideologia anticomunista ma della necessità di riprendere il controllo di un’area che si sta orientando verso prospettive sociali alternative. Questa necessità riguarda il Nord America ma anche l’UE che su queste campagne si associa sistematicamente agli USA. La seconda riguarda la relazione tra USA e UE. Se è vero che l’obiettivo è quello di rafforzare l’asse atlantico questo non può lasciare le relazioni come erano in precedenza in quanto oggi sono gli USA che hanno bisogno del rafforzamento dell’alleanza con la UE, la sola Gran Bretagna non è sufficiente. Ma la UE non è più disponibile ad avere ancora un ruolo subalterno e non “paritario” con gli Usa. Il polo imperialista europeo si è “forgiato” in anni di continue crisi e queste hanno sempre avuto per Bruxelles un effetto rafforzativo, per cui la relazione che può essere oggi accettabile è solo quella paritaria. D’altra parte quella che è in crisi è la funzione degli Stati Uniti, in quanto oggi viene dimostrato che da soli non sono in grado di sostenere le sorti del mondo. Inoltre l’UE può disporre, a differenza degli USA, di una possibilità che è quella di poter usufruire dei “due forni”, per cui se gli USA non accettassero una modifica relazionale l’alternativa dei rapporti economici con la Cina sta già sul tavolo. Ed è proprio su questa contraddizione che stanno lavorando sia la Cina che la Russia. Questa opzione è chiaramente visibile nelle dichiarazioni della UE e dei principali Stati europei che si differenziano da quelle USA e della Gran Bretagna. Naturalmente sugli scenari ipotizzati conteranno molto le condizioni che si determineranno, le scelte concrete che verranno fatte, le ulteriori modifiche dei rapporti di forza tra potenze. Quello che va inquadrato bene adesso però è il
processo che si metterà in moto a causa dei presenti stravolgimenti ma che assumerà nei prossimi anni forme allo stato difficilmente prevedibili. Come Rete dei Comunisti riteniamo che gli spazi per lottare per una alternativa politica e sociale si amplieranno. Comunque si confermano due terreni di battaglia politica ed ideologica che seguiamo da tempo: quello dell’internazionalismo, in particolare verso le esperienze del socialismo del XXI° secolo che stanno sviluppandosi in America Latina, e quello della rottura dell’Unione Europea inteso come polo imperialista, che nella crisi degli USA trova paradossalmente ragioni più forti per la costruzione di un’area politico economica competitiva. Di questo discuteremo sabato 11 settembre alle 17.00 presso la Casa della Pace a Roma in via di Monte Testaccio 22. 25 Agosto 2021 español: El dedo en el ojo… sobre Afganistán français: Le doigt dans l’œil… sur l’Afghanistan english: The finger in the eye… on Afghanistan Il Capitalismo distrugge il mondo, una sfida per i Comunisti del XXI° secolo. Un confronto pubblico sulle Tesi prodotte dalla Rete dei Comunisti. Mauro Casadio
La Rete dei Comunisti si appresta a fare la propria quarta Assemblea Nazionale nel fine settimana del 2 e 3 Luglio. In realtà ogni anno la nostra organizzazione si cimenta in appuntamenti nazionali di tutti i militanti in quanto utili strumenti di confronto e di direzione in una situazione dove l’accelerazione degli eventi oggettivi e politici obbligano ad una riflessione ed ad un adeguamento in sintonia con gli sviluppi suddetti. Quest’anno abbiamo dato una impostazione diversa all’assemblea nazionale, non congresso dati i caratteri del nostro progetto organizzato, cogliendo il salto di paradigma che le vicende pandemiche hanno permesso di far emergere, salto che era però già maturo dentro le contraddizioni del modo di produzione capitalista. Diciamo che sono cominciati a cadere una serie di veli ideologici e di rappresentazioni che imponevano una percezione della realtà ben diversa dalle effettive dinamiche del mondo. A questa percezione distorta hanno contribuito i mezzi di comunicazione di massa, il carattere individualizzante dei social ma anche una sinistra che svolge sempre più una funzione deviante rispetto alla regressione delle condizioni sociali che stanno investendo milioni di persone in un occidente in crisi. La scelta di misurarsi con delle Tesi Politiche nel tentativo di leggere la realtà nelle sue tendenze più profonde, cercando cosi di estrapolare indicazioni analitiche e di organizzazione, nasce proprio dal fatto che diviene sempre più insufficiente seguire le minute vicende quotidiane se non si ha una visione quantomeno di fase. Certamente stiamo entrando in una fase di non breve durata in quanto quella che si apre ora deve sviluppare ancora, far maturare, tutti i propri caratteri e le proprie contraddizioni come è avvenuto nel ’91 con la dissoluzione dell’URSS e nel 2007 con la crisi finanziaria. La “stella polare” che va seguita nel capire i caratteri delle contraddizioni dal nostro punto di vista è quella che da tempo abbiamo definito come competizione globale ed ora “stallo degli imperialismi”. Lo sviluppo impetuoso delle forze produttive di segno capitalista avuto dopo la fine del campo socialista ora sta producendo i suoi effetti reali e duraturi, cioè l’emergere di nuovi soggetti competitivi per l’occidente. La Cina ne è l’effetto più evidente ma quello che si sta profilando è il riemergere di un campo internazionale forse non socialista come storicamente abbiamo conosciuto ma sicuramente alternativo al liberismo occidentale e all’egemonia degli USA. Lo stesso processo ha creato un equilibrio di forze, sul piano finanziario, economico e militare, che ha prodotto uno stallo tra i soggetti competitivi esistenti in cui nessuno ha la possibilità di usare strumenti decisivi, quello militare per eccellenza, per sconfiggere l’avversario.
Un effetto di questa evoluzione è quello di far ritrovare un ruolo allo strumento della NATO, in crisi da tempo, come collante dell’alleanza USA-UE contro il “resto del mondo” per tentare di mantenere un ruolo dominante, imperialista, in un tentativo probabilmente antistorico di riportare la situazione ai decenni successivi agli anni ’90. Quegli stessi decenni di affermazione del liberismo sfrenato che ha portato in profondità i processi di privatizzazione e di devastazione sociale che oggi producono una crisi pandemica di proporzioni inaspettate dove le risposte che vengono date, soprattutto dagli alleati degli occidentali come il Brasile e l’India, sono più dannose della stessa pandemia producendo continui focolai infettivi che si ripropongono a livello mondiale. Insomma la distruzione dello Stato Sociale perseguito con determinazione e ferocia dai centri finanziari e dalle classi dominanti oggi porta alla constatazione che questo modello di sviluppo e di crescita infinita porta a effetti dannosi per l’intera umanità. A questo sviluppo distorto ha corrisposto un degrado delle classi dominanti e dei ceti politici di cui in Italia ne abbiamo un esempio diretto dove i vari partiti ed i vari esponenti, da Letta a Salvini, da Grillo a Berlusconi, si mostrano incapaci di avere progetti di lungo respiro e strettamente legati a lobby e corruzione. Come la sopravvivenza inspiegabile di un soggetto massonico come Renzi dimostra. Se il nostro paese è un esempio palese che abbiamo a portata di mano la situazione non è molto diversa negli altri centri occidentali. L’esperienza di Trump è troppo recente per non averla presente e d’altra parte quella rappresentanza reazionaria non è stata affatto sconfitta e già da ora si sta riproponendo alla società statunitense. Come pure le politiche della UE, nonostante la retorica ambientalista del Recovery Fund, sono tutte a sostegno delle imprese e della finanza prospettando un futuro di regressione sociale ed economica per le classi subalterne ma anche democratica come effetto diretto delle prime. L’insieme di questa evoluzione, nelle Tesi il tentativo è quello di fornire analisi più approfondite, sta producendo delle controtendenze che ora sono solo all’inizio ma che possono essere già percepite nei primi effetti politici. Una riguarda direttamente i settori di classe, anche nel nostro paese, che vedono sempre meno possibilità di risoluzione delle proprie contraddizioni nella normale dialettica del conflitto sociale a “bassa intensità”, come quello che abbiamo vissuto nei momenti di crescita economica, e tende a politicizzare le proprie posizioni sviluppando un antagonismo spesso senza coscienza ma radicale.
Puoi anche leggere