Hic Rhodus hic salta, il bivio dell'imperialismo europeo.

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Hic Rhodus hic salta, il bivio dell'imperialismo europeo.
Hic Rhodus hic salta, il bivio
dell’imperialismo europeo.

Mauro Casadio, Rete dei Comunisti

Il Forum della RdC che si è tenuto a Bologna il 20 e 21 Novembre ha cercato di
focalizzare l’evoluzione che sta avendo L’Unione Europea, da quello che abbiamo
definito a suo tempo un “polo” imperialista, cioè una forma inedita di relazioni in
Europa che si basava sostanzialmente su un’area economico finanziaria, che oggi sta
mutando la propria funzione.

Abbiamo detto da “Polo a Superstato” proprio per delineare un percorso che non è
definibile a priori e che, rispettando obiettivi e funzioni di un’effettiva area
imperialistica moderna, sta dandosi una strutturazione storicamente originale in
rapporto a quelli che sono gli Stati europei affermatisi tra l’800 ed il ‘900 in modo
esplicitamente imperialista.

Il percorso e l’analisi a cui abbiamo fatto riferimento nelle nostre elaborazioni non è
quello che si manifesta periodicamente in momenti di conflitto o di omogeneità tra
gli Stati della UE, a causa delle loro differenze di storia, dimensione e di peso
politico, ma le tappe che nell’andare del tempo si sono consolidate e che sono oggi
alla base degli ulteriori possibili balzi in avanti che questa inedita costruzione
istituzionale può fare.

L’accordo di Maastricht nel ‘92, la nascita dell’Euro ai primi anni del 2000, il
superamento della crisi finanziaria del 2007/2008, l’uscita dell’Inghilterra come
“longa manus” degli USA in Europa, il ruolo attivo della BCE di Draghi con i
Quantitative Easing, l’attuale Recovery Fund come ristrutturazione industriale
continentale sono i pilastri di una costruzione sui quali è difficile pensare che si
possa tornare indietro nonostante le difficoltà, comunque sempre contingenti, data
anche la nuova condizione nelle relazioni internazionali.
Hic Rhodus hic salta, il bivio dell'imperialismo europeo.
Il Forum ha cercato non solo di delineare il percorso ma ha affrontato gli aspetti e le
conseguenze del passaggio in atto, dagli elementi più strutturali quali la
competizione monetaria internazionale con l’Euro quale soggetto “forte”, la
ristrutturazione “ambientalista” del Recovery Fund che sarà un ulteriore passaggio
nella omogeneizzazione continentale.

Sono stati affrontati anche gli effetti sociali sia sul versante delle classi subalterne,
che vedranno un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni, sia sul versante
della costituzione di una borghesia continentale che si va formando con la
costruzione esplicita dei cosiddetti “campioni europei”.

Questi sono le multinazionali industriali e finanziarie europee che stanno costruendo
la filiera di una nuova borghesia distinta ed egemone sulle frazioni borghesi che non
sono in grado di emanciparsi dalla dimensione nazionale.

Sono stati affrontati anche i temi relativi alla proiezione imperialista della UE che
riguardano sia le relazioni internazionali, che hanno assunto ormai un carattere
competitivo e multipolare, sia la costruzione dell’esercito europeo e del sistema
industriale militare continentale che si rende necessario “in un’era di
ipercompetitività” come dice la Ursula Van Der Leyen, presidente della Commissione
Europea.

Comunque gli atti del Forum verranno stampati su un numero cartaceo di
Contropiano per poterne fare oggetto di una discussione e confronto a livello
nazionale già dal prossimo mese di Gennaio.

Ma c’è una questione che va evidenziata in quanto determinante nelle prospettive
della UE; i paesi che hanno dato vita alla UE, nei diversi passaggi fatti, fino a quello
degli anni ’90 dopo la fine dell’URSS, hanno avuto ben presente che comunque la
forza egemone nel campo capitalista erano gli USA.

Perciò pur praticando una tortuosa strada per definire sempre più un proprio
percorso autonomo, basti ricordare il ruolo frenante sempre avuto dalla Gran
Bretagna, non hanno mai messo in discussione l’egemonia USA, ne velleitariamente
hanno dichiarato orizzonti che andassero oltre quelli della NATO.

Questo comportamento teneva conto sia dei reali rapporti di forza e di
subordinazione agli USA ma nemmeno i gruppi dominati europei soggettivamente
aspiravano ad una autonomia netta in quanto la forza militare e monetaria
americana suppliva alle mancanze di una Unione ancora incompleta.

Il punto del passaggio individuato nel Forum è che questo sviluppo più che dalle
scelte dell’Unione Europea è reso obbligatorio dal mutare del quadro internazionale
e dal ridimensionamento degli USA dopo la fuga dall’Afghanistan e dallo scenario
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asiatico, dove la parte del leone oggi la fa la Cina assieme alla Russia ed all’Iran.

Se fino a ieri la proiezione al “superstato imperialista” era una tendenza solo
potenziale oggi il quadro mondiale cambia necessità e priorità in quanto l’UE non
può permettersi nel cambiamento in atto di divenire il vaso di coccio tra USA e Cina,
e per di più in un mondo oggi palesemente multipolare.

E’ necessario perciò tracciare un quadro complessivo della situazione mondiale per
capire le prospettive ed elaborare una nostra funzione, di classe e comunista, dentro
queste.

Avere un quadro d’insieme.

Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi è un rimescolamento complessivo del
contesto internazionale i cui esiti sono allo stato attuale indeterminabili, come
sempre avviene in questi passaggi che hanno lo spessore della storia.

Il tentativo che possiamo fare adesso è quello di evidenziare i vari tasselli di un
puzzle che è in continua evoluzione cogliendone la dinamica e le reali/potenziali
contraddizioni, approfondendo l’analisi delle tendenze interne ai vari soggetti e delle
reciproche conflittuali relazioni in competizione.

La questione del riarmo per come si manifesta oggi è il sintomo più significativo di
questo rimescolamento dei rapporti di forza a livello internazionale e risponde ad
esigenze specificamente belliche in una condizione di forte sviluppo della scienza e
della tecnologia applicata al militare.

Ma questo aspetto ci rimanda anche alla questione più strutturale ovvero all’uso
della leva della produzione militare per sostenere una crescita economica sempre
più asfittica per la valorizzazione del capitale, ovvero quel Keynesismo di guerra o
Warfare praticato in particolare dagli USA fin dal secondo dopoguerra prima in
Corea e poi in Vietnam.

La NATO è il soggetto che da tempo sta sotto pressione, prima con gli interventi
militari diretti in Afghanistan e Medio Oriente su spinta ed interessi degli USA, poi
con la relativa autonomizzazione della Turchia accelerata dal fallimento del colpo di
Stato contro Erdogan ed ora con il ridimensionamento USA concretizzatosi
clamorosamente con la fuga dall’Afghanistan.

Lo stress internazionale trova rappresentazione diretta nella ridefinizione
conflittuale dell’attuale geopolitica, nel rilancio dell’industria militare e del nucleare,
nei caratteri che si impongono alla ricerca scientifica piegata ulteriormente alla
competizione globale.

Se vediamo la questione militare in questa prospettiva dobbiamo perciò andare ad
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analizzare cause e tendenze che la producono e che rimetteranno in discussione in
modo sempre più palese gli equilibri geopolitici.

In questo senso è utile avere un quadro d’insieme che qui può essere fatto solo in
modo approssimativo, ed ancora da approfondire, dei soggetti in campo e delle loro
specifiche prospettive.

Al primo posto, dal nostro punto di vista, non può che esserci l’Unione Europea sulla
quale abbiamo incentrato il confronto nel Forum di Bologna e sulla quale va ancora
evidenziato un’ ultimo aspetto. Questa infatti è stato il solo soggetto che tra crisi e
riconversioni ha mantenuto già dagli anni ’90 quantomeno un progetto strategico
che anche in questo nuovo frangete di accentuata competizione viene perseguito con
coerenza, determinazione e realismo.

Anche la condizione degli USA sta esplicitando tendenze presenti da tempo. Dopo il
crollo dell’URSS i gruppi dominati statunitensi sono stati colpiti da una “sindrome di
onnipotenza” arrivando a pensare il XXI° secolo come americano; si sono lanciati in
avventure belliche sotto la copertura ideologica delle guerre per la democrazia ed i
diritti civili, hanno tenuto sotto il loro tallone la Russia di Eltsin e si erano convinti
che la Cina andasse trattata come l’URSS puntando sulla sua disgregazione avendo
per di più una penetrazione economica delle multinazionali USA.

L’incapacità, invece, di quel paese di sostenere un ruolo egemonico mondiale è già
emerso con la crisi finanziaria del primo decennio del secolo, si è ripresentata con
l’elezione di Trump prodotta da una profonda crisi sociale dei bianchi wasp.

Seguita poi dal ripiegamento strategico dall’Afghanistan che ha sancito la fine della
teoria di Zbigniew Brzezinski che pensava di poter controllare l’Asia, e dunque la
Cina, la Russia e l’Iran, costruendo una “democrazia” nel cuore del continente.

Questa crisi statunitense è un vero e proprio passaggio storico, simile a quello avuto
con la fine dell’URSS ma di segno politico opposto, che apre un periodo dove
probabilmente si affermerà una realtà internazionale multilaterale.

Né bloccherà questa tendenza l’accordo Aukus che va letto come un ripiegamento e
non come un nuovo rilancio, anche perché si rimettono in discussione le vecchie
alleanze, vedi la reazione francese per la mancata vendita dei sottomarini, pensando
di tornare alla politica delle cannoniere e degli embarghi dopo aver tolto gli scarponi
dal terreno nel centro Asia.

Ma come si sa le guerre, in tutte le sue forme, si vincono se si hanno gli scarponi a
terra; ora gli USA li hanno tolti dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Libia ed in Siria ci
hanno provato ma hanno fallito. Insomma sono diventati una forza che è stata messa
ai margini di quel continente che segna la crescita più alta nel mondo da tutti i punti
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di vista.

La Cina è il soggetto che ha indubbiamente scompaginato lo scenario mondiale sia
con l’accresciuto peso economico che si prolunga dagli anni ’90, sia con una
affermazione di potenza che gradualmente si è imposta e che viene percepita come
pericolo politico-militare ma anche come opportunità economica dai diversi soggetti
in campo.

E’ certo che la Cina così come è adesso è il prodotto della miopia occidentale
riconfermatosi come apprendista stregone in quanto la competitività Cinese è il
prodotto dell’incredibile sviluppo delle forze produttive, tecniche ed umane,
innestato dal capitale mondiale in una fase di allargamento degli spazi di mercato.
Lo stesso Partito Comunista fece la scelta di usare il “Modo di Produzione
Capitalista” per produrre una crescita economica che è stata enorme ed una
conseguente crescita di ruolo internazionale.

Lo scontro innestato dagli USA, incluso l’accerchiamento “pelagico” in atto con
l’Aukus, rende ancora più instabile il contesto internazionale inducendo ad altri salti
competitivi, visto appunto lo sviluppo spalmato a livello mondiale delle forze
produttive, che non hanno più per gli USA la garanzia di un esito positivo visto
anche il loro ridursi come potenza globale.

Infine anche le storiche relazioni europee ed americane vengono sottoposte a degli
stress che porteranno ad una modifica di come sono state fino ad oggi. Questo si sta
manifestando con uno sviluppo autocentrato della UE sempre più evidente anche per
come è stato analizzato nel Forum relativamente all’ “accorciamento” delle filiere
produttive nell’ambito dell’area continentale.

Ciò avviene con una centralizzazione dell’apparato produttivo europeo che con il
Recovery Fund riceve una spinta decisiva anche in funzione di una delocalizzazione
produttiva che tende sempre più a rimanere nell’ambito continentale e nella più
diretta sfera di influenza del mediterraneo e dell’Africa Occidentale, comunque
anche questa è oggi oggetto di competizione con la Russia come dimostrano le
vicende della Libia e del Mali.

La questione dell’Esercito Europeo ormai è all’ordine del giorno del dibattito tra
governi e nelle sedi dell’Unione, qui ritorna non solo l’aspetto strettamente
geopolitico ma anche quello Keynesiano di volano per la crescita economica.

Tutto ciò rimette in discussione e rende confuso il ruolo della Nato; a Giugno
durante il G7 tenuto in Cornovaglia Biden proponeva il rafforzamento strategico
dell’area atlantica parlando addirittura di una ”via della seta democratica”
occidentale in funzione anticinese oggi lo sgarro fatto sui sommergibili francesi
dimostra quanto propagandistica sia la posizione USA chiaramente in deficit di
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strategia.

Un ulteriore esempio della sconnessione occidentale sono gli esiti del G20 e del COP
26 che dimostrano l’incapacità di riprodurre l’egemonia avuta negli ultimi trent’anni.

Questi “campi di forze” che si incontrano e scontrano hanno ulteriori potenziali
sottoprodotti come la nascita di potenze regionali o comunque non di dimensioni
globali, come la Russia, l’Iran, la Turchia. Lo stesso processo di compattamento tra
le potenze economiche della penisola Arabica ed Israele può portare ad ulteriori
sviluppi imprevedibili e irrazionali basati solo su interessi specifici e comunque
volubili.

Non solo ma in questo rimescolamento, questo si globale, verranno coinvolti sia
l’Africa che l’America Latina. La prima già è terra di scontro tra Cina, Russia, UE ed
USA sia sul piano economico e delle risorse naturali che su quello delle alleanze che
spesso durano tempi molto brevi come sta dimostrando il Mali passato, con un colpo
di Stato, dall’influenza francese a quella russa.

Infine anche l’America Latina subirà contraccolpi in quanto gli USA saranno
costretti a tornare nel loro “cortile di casa” di fronte al ridimensionamento avuto nei
rapporti produttivi con la Cina da parte delle multinazionali.

Questo aspetto era ben presente già dall’accordo del Nafta fatto negli anni ’90 che
favoriva la delocalizzazione in Messico e nell’America Centrale. Se emergeranno
altre spinte alla crescita produttiva, oltre che alla rapina sulle materie prime, è
evidente che la necessità del controllo politico e militare su quel continente si farà
sentire maggiormente ma con una difficoltà in più.

Infatti il processo di emancipazione di quei popoli, processo contraddittorio e lungo
ma reale, e di resistenza allo yankee porterà ad un aumento del conflitto che finora
non è sfogato in quello militare. Gli USA per ora si limitano a mantenere il blocco a
Cuba, a rendere la vita difficile al Venezuela ed alla Bolivia. Ma di fronte alle
potenziali insubordinazioni che vengono dall’Argentina, dal Cile, perfino dal Perù ed
alla prossima crisi del Brasile di Bolsonaro non è irrealistico ipotizzare un nuovo
scenario di crisi politica e militare in quel continente.

Da circa un ventennio nel mondo globalizzato si è determinato uno stallo dei
rapporti di forze dove l’egemonia USA è rimasta incontrastata grazie anche alla
presenza di condizioni “stabilizzanti”. Da una parte l’intreccio finanziario
internazionale che di fronte alle frequenti crisi vedeva sostanzialmente una unità
delle grandi potenze e della finanza per contenerle e controllarle per evitare un
nuovo ’29.

Dall’altra la diffusione delle armi atomiche e della tecnologia missilistica hanno
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impedito una tracimazione bellica generalizzata. Oggi di fronte ad una prospettiva di
indeterminatezza causata dalla ipercompetitività potrebbe affacciarsi l’ipotesi che
quell’equilibrio nei rapporti di forze vada in frantumi e si incrudisca lo scontro
internazionale con esiti difficili da prevedere e potenzialmente anche drammatici.

In questo senso oggi si presenta il bivio all’imperialismo europeo. Accettare la sfida
e candidarsi ad un salto qualitativo nello scenario internazionale oppure accettare
un ruolo subalterno che segnerebbe una pessima prospettiva per un’area economica
che per certi versi è invece la più grande del mondo. La scelta ci sembra scontata.

26 novembre 2021

2021, l’orgia dell’ideologia

Mauro Casadio, Rete dei Comunisti

In questa fine d’anno abbiamo subito un bombardamento ideologico sistematico
iniziato con l’incontro del G20 a Roma, dove non hanno partecipato né Cina né
Russia, e continuato con la COP 26 sull’ambiente.

Questi vertici hanno riproposto discorsi e formule quasi del tutto uguali a se stesse
che vanno ripetendo da anni, senza alcun effetto pratico e partorendo ancora una
volta dall’elefante non il topo ma un topo ragno.

Vertici che si ammantano di una retorica noiosa e fastidiosa e che possono essere
paragonati a quelli fatti dalle famiglie reali europee prima della Grande Guerra in
cui si mostravano paternalisticamente i buoni legami tra parenti regnanti quale
garanzia per i popoli Europei, e poi sappiamo come è andata a finire.
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Una parodia di quei momenti è stata la ridicola farsa fatta a fontana di Trevi dove
tutti i capi di Stato pateticamente buttavano assieme la monetina nella fontana.

L’amplificazione ideologica che viene fatta degli eventi è un prodotto direttamente
proporzionale alle difficoltà ed alla incapacità che i gruppi dominanti dei paesi
imperialisti hanno di risolvere i problemi da loro sollevati divenuti ingestibili e fuori
dalla loro possibilità di risoluzione.

Questa interpretazione non è solo una nostra opinione faziosa ed estremista ma è la
fotografia di una situazione che si è già palesata in Agosto con la fuga degli USA e
della NATO dall’Afghanistan, dove più della sconfitta militare ha pesato e bruciato la
sconfitta ideologica delle innumerevoli “guerre umanitarie” che ci hanno propinato
in questi decenni.

Oggi, infatti, queste non sono più riproponibili tale è il discredito avuto
dall’interventismo imperialista di inizio secolo paragonabile alle guerre coloniali
dell’800.

Anche il cinico abbandono dei collaborazionisti Afghani al loro destino nelle mani dei
Talebani è un ulteriore elemento di crisi egemonica in quanto gli alleati USA sanno
dai fatti che possono essere scaricati in ogni momento dai loro “protettori”.

Ma perché quelle potenze che fino a poco fa pensavano di essere i padroni del
mondo oggi possono solo tentare di nascondere la propria impotenza con la retorica
della loro ideologia? Il motivo risiede nello stadio raggiunto dalle forze produttive e
dalla mondializzazione dei rapporti capitalisti.

Nella storia i capitalismi egemoni delle diverse epoche nella competizione con i
propri “simili” venivano sostituiti dalle nuove economie rampanti, è successo
all’Olanda nel confronto con l’Inghilterra ed a questa con gli imperialismi europei a
cavallo tra l’ottocento ed il novecento, competizione conclusasi infine a vantaggio
degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale.

Questa evoluzione per competizione poteva riprodursi perché esistevano gli spazi
materiali per una tale crescita e perché il carattere “rivoluzionario” della borghesia
si esprimeva attraverso il cambiamento e lo sviluppo continuo della scienza e della
tecnologia applicata alla produzione capitalista sia civile che militare.

E’ su questo piano che è stata vinta anche l’esperienza socialista dell’URSS
attardatasi su una competizione militarista che le ha impedito di vedere che questo
carattere rivoluzionario del capitale non era affatto sopito nonostante la crisi degli
anni ‘70, ed è per questo che il mondo oggi è stato completamente capitalistizzato
dal movimento ascendente del capitale.
L’effetto che emerge oggi da una tale dinamica è che questa dimensione dello
sviluppo innesta una fase di crisi a cominciare da quella dei capitalismi storici.
L’affermazione della Cina, l’emergere di potenze economiche intermedie quali
l’India, la Russia, l’Iran, il Vietnam, il Brasile ed altri ancora produce una
saturazione dello spazio economico e finanziario che non trova ora una soluzione ed
incrementa l’ipercompetizione, di cui ci ha dato gentilmente notizia la presidente
dell’UE Ursula Van Der Leyen.

Ma anche Biden ha tenuto a dire nel vertice con il presidente cinese Xi che i due
paesi sono “competitori”, ma non “nemici”.

D’altra parte la “soluzione” classica della distruzione generalizzata di capitale, cioè
le guerre mondiali, per rilanciare lo sviluppo e affermare una egemonia dominante
sono difficilmente praticabili visto l’intreccio internazionale della dimensione
finanziaria ed il livello distruttivo delle armi atomiche.

E non è certo un caso che oggi riprende quota la discussione sull’uso dell’energia
atomica, uso sempre riconvertibile in strumenti di guerra.

Se è questo lo spessore della questione non è più sufficiente avere una lettura basata
sui capitalismi e sulla loro competizione in quanto “epifenomeni” di un assetto
strutturale. Quello che sta emergendo è un limite del Modo di Produzione
Capitalista, a prescindere dalle specifiche forme storiche assunte, che tende alla
valorizzazione del capitale all’infinito.

Il punto è che questa tendenza entra in contraddizione con un sistema naturale
limitato, e sebbene sia ancora possibile rinviare nei tempi brevi i termini di una
contraddizione così strutturale è evidente che in ballo oggi c’è la sostituzione del
MPC con una alternativa di sistema, oppure, come è stato più volte detto, con la
reciproca distruzione delle classi in lotta.

L’orgia di ideologia a cui siamo sottoposti quotidianamente dai mass media, dagli
intellettuali organici alla borghesia e dagli apparati dello Stato ha esattamente
questa finalità, non affrontare la contraddizione per impotenza ma cercare di
anestetizzare le reazioni politiche delle classi subalterne e dei popoli della periferia.

E’ esattamente a questo punto che la questione ambientale non è più una tematica
per “elite” intellettuali, nata addirittura dai nobili inglesi come ci racconta “La
Repubblica”, ma deve divenire oggetto dell’azione politica per le forze di classe e
comuniste.

In realtà una risposta già è in atto in termini che potremmo classicamente definire
“democratica”, la stiamo vedendo nelle piazze che seguono Greta Thunberg che
usufruisce di una copertura mediatica per certi versi sospetta anche se comunque
sta mettendo in moto masse giovanili che dentro le contraddizioni di sistema non è
detto che vadano laddove le televisioni le vogliono condurre.

L’accusa di Greta ai potenti di fare solo del bla bla bla è sintomo di una difficoltà e
divaricazione che in quel movimento potrebbe prima o poi emergere.

Si stanno pronunciando anche ampi settori di intellettuali e di scienziati che
denunciano l’inadeguatezza delle scelte fatte dai governi in vertici palesemente
inutili e dannosi, ma tutti questi soggetti evitano accuratamente di pronunciare la
parola “proibita” di Capitalismo.

Per cui la responsabilità è genericamente dell’uomo, persino dell’Homo Sapiens,
come se comunque l’assetto sociale e produttivo non abbia contraddizioni strutturali
ma la colpa è dei politici, degli industriali, dei governi etc. Insomma anche per loro
la storia è finita e rimane solo un problema di coscienza dei diversi soggetti in
campo.

E’ evidente che questo sommovimento giovanile e delle coscienze non è il prodotto
politico diretto della lotta di classe ma è il segno che si apre una nuova condizione
conflittuale in cui le forze di classe possono svolgere una funzione di coscienza e
conoscenza sia sulle tematiche generali legate all’ambiente ed al clima sia su quelle
più direttamente politiche come sta avvenendo per la questione del nucleare civile
nel nostro paese.

Il governo Draghi con il suo ministro per la Transizione Ecologica (verso dove?)
Cingolani stanno producendo un nuovo paradosso infatti propongono, assieme a
tutta la UE in modo più o meno esplicito, la ripresa del nucleare civile con le centrali
di quarta generazione che sarebbero una fonte energetica pulita a differenza del
fossile, carbone e petrolio.

Tentativo che viene sostenuto da più forze politiche nel paese e con l’ex ministro di
Berlusconi Lupi che ha presentato una mozione in parlamento a sostegno del
“nucleare green e che Cingolani cerca di coprire con fasulle dichiarazioni sulla
fusione nucleare ben sapendo che questa possibilità è ben lontana da venire.

Dunque il campo conflittuale che si sta aprendo sulla sostenibilità ambientale è vasto
e sul quale si rende necessario un approccio politicamente antagonista sia sulle
battaglie generali di denuncia e demistificazione delle scelte rappresentate nei
grandi show come COP 26, che si riprodurrà il prossimo anno, sia su terreni molto
più vicini a noi come quello del tentativo di reintrodurre il nucleare civile che nel
nostro paese è stato bocciato da ben due referendum nel 1987 e nel 2011. E questo
è un appuntamento di lotta da non perdere.
La rappresentanza politica e il
gioco dell’oca

di Mauro Casadio, Rete dei Comunisti

Certamente le elezioni svolte in questi giorni essendo “locali” potrebbero non essere
significative sul piano nazionale, ma il fatto che si siano svolte nelle più importanti
aree metropolitane del paese e che abbiano riscontrato una sostanziale omogeneità
dei risultati sia nei grandi che nei piccoli centri, forniscono indizi politici interessanti
e realistici.

Non è la prima volta che accade di trovarsi di fronte ad un tracollo della
partecipazione elettorale dove la disaffezione politica arriva ad “acuti” che si
ripetono periodicamente. E’ sufficiente osservare il periodo precedente, quello che
va dalle elezioni del 2008, dove vinse Berlusconi, a quelle del 2013, le quali
produssero una profonda modifica del quadro istituzionale con l’affermazione del
M5S, inattesa per la sua dimensione.

Quello che portò ad una vera e propria rottura del quadro precedente, fu
l’incapacità/impossibilità del governo dell’epoca di sostenere gli effetti della
dilagante crisi finanziaria sotto la pressione della UE a sostegno dell’austerity, una
politica che pochi anni dopo avrebbe fatto deflagrare anche la Grecia di Tsipras.

Tale situazione si protrasse fino alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 con
l’intervento diretto della BCE con la lettera di Trichet-Draghi che imponeva tagli e
sacrifici sociali, aprendo un periodo di confusione politica e istituzionale che si
risolse solo con il varo del governo Monti-Napolitano fedeli attuatori dei diktat
Europei.
Un primo segnale di “disaffezione” si era già manifestato con la scadenza elettorale
del 2010 tenutasi nei 2/3 delle regioni italiane, quando l’astensione raggiunse il
40%, ben oltre la media usuale, ma decisivo fu il quadro indecente che emergeva da
tutte le forze presenti in parlamento e dalle politiche antipopolari di Monti, a
cominciare dalla famigerata riforma Fornero sulle pensioni.

In quel frangente storico esplose la crisi della rappresentanza, latente fino a quel
momento e che aveva già portato all’esclusione del PRC dal parlamento, una crisi
che fece avere al M5S il 25% dei voti. Tale situazione si è protratta fino al 2018,
periodo in cui si sono affermate le forze cosiddette “populiste e sovraniste”,
certamente inconsistenti sul piano programmatico ma che hanno raccolto l’adesione
della maggior parte degli elettori e del montante malessere sociale.

Il M5S prima e la Lega poi, hanno cavalcato per quasi un decennio questo spazio
vuoto della rappresentanza senza nessuna capacità progettuale, uno spazio vuoto
che oggi si ripresenta senza ambiguità con un livello di astensionismo che arriva al
60%.

Irrilevante e ridicolo è il balletto che oggi viene fatto sulle TV e sulla comunicazione
mainstream tra vinti e vincitori, in quanto la realtà sancisce senza infingimenti che
interi pezzi della società è e si sente fuori e senza rappresentanza dopo l’imbroglio
dei movimenti cosiddetti “antisistema”.

Certamente va fatta una analisi dei caratteri di questo tipo di astensione, non
omogenea al suo interno, ma certo è che, come nel gioco dell’Oca, siamo tornati al
punto di partenza di un decennio fa.

Ovviamente le condizioni complessive della società, anche a causa della pandemia,
sono ben peggiori di quelle di un decennio fa, ed è pure ridotta la capacità del paese
di poter decidere i propri destini come il governo Draghi, lo stesso che non
casualmente ha “tagliato la testa” a Berlusconi, sta a dimostrare.

Il governo Draghi ci fa vedere nitidamente come il “superstato” europeo sia ormai in
grado di dirigere in modo centralizzato un progetto continentale peraltro favorito
anche dall’insorgere della pandemia. Non a caso Prodi ha sempre sostenuto che
l’Unione Europea si costruisce proprio tramite le crisi e già si presenta la prossima
“opportunità” nel confronto con la Polonia che vuol mantenere le sue prerogative
sovraniste.

L’uscita dalla pandemia, l’operazione sul Recovery Fund, l’affermazione della UE
come soggetto immerso nella “ipercompetizione”, come ci ha ben ricordato la Von
Der Leyen, sono tutti elementi che non possono che peggiorare la situazione sociale
e di classe. Su questo non ci dilunghiamo nell’analisi, ma i processi di
ristrutturazione ed i licenziamenti che dilagano stanno li a mostrarci quali sono le
prospettive per il mondo del lavoro e la società nel suo complesso.

Possiamo dire che si sta aggiungendo un altro tassello alla crisi di egemonia che
procede da tempo, in quanto pur avendo i centri di potere sussunto le forze
cosiddette “antisistema” – depotenziandole e trasformandole da “antieuropeiste” ad
“europeiste” – riesplode la questione della crisi della rappresentanza politica dei
settori di classe e sociali penalizzati, e questo può rappresentare un importante
punto di ripresa di iniziativa ed organizzazione.

Certamente non ci sarà un effetto automatico e molto sarà determinato dalla
soggettività organizzata che sarà messa in campo, ma si stanno ricreando le
condizioni per dare un ruolo a quelle forze che hanno un carattere di classe e che
hanno avuto la strada sbarrata sulla rappresentanza proprio dai cosiddetti populisti
che il “sistema” ha saputo magistralmente manipolare.

Il riuscito sciopero generale dell’11 ottobre, i parziali ma pure importanti risultati
elettorali avuti da Potere al Popolo nelle aree metropolitane e non solo, il crescere
della conflittualità in molte fabbriche colpite dalla crisi, sono tutti segnali che vanno
nella giusta direzione e che sono da rafforzare e consolidare.

Per questo la necessità di una totale indipendenza politica dal quadro istituzionale,
la costruzione di un radicamento di classe organizzato, la lotta contro l’Unione
Europea dentro un orizzonte di rottura socialista, sono tutte questioni che possono
ritrovare forza in questo passaggio storico di crisi del capitalismo a condizione di
una ritrovata e rinnovata soggettività di classe ed organizzata.

Il dito nell’occhio… sull’Afghanistan
di Mauro Casadio – Rete dei Comunisti

La RdC ha scelto di convocare per il prossimo 11 settembre a Roma presso la “Casa
della Pace”, nel ventennale dell’attacco alle Torri gemelle a New York, un confronto
pubblico ritenendo che quello che sta accadendo in Afghanistan non può essere
correttamente interpretato se non si va alle radici politiche e storiche che hanno
determinato la situazione attuale.

Attorno alla tragedia di quel popolo sono state prodotte falsità e mistificazioni
indecenti i cui attori principali sono stati gli USA (seguiti dai paesi europei fin dagli
anni ’70), il Pakistan e i regnanti reazionari dell’Arabia Saudita. Fu infatti il
presidente Carter nel luglio del ’79, ben sei mesi prima dell’intervento dell’URSS,
che decise di sostenere militarmente gli integralisti ed il Pakistan nella guerra
contro il governo afghano.

Portare una visione ferocemente critica delle versioni ufficiali fornite dai governi e
dagli “apparati ideologici dello Stato”, quali le televisioni ed i massmedia in
generale, è per una forza comunista come la nostra un obbligo, in quanto nel pieno
della canea antisovietica negli anni ’80 la nostra area, che allora si chiamava
Movimento per la Pace ed il Socialismo, fu l’unica organizzazione politica in Italia a
praticare pubblicamente la solidarietà internazionalista verso il governo afghano.

Un governo aggredito da forze feudali quali i Mullah, i possidenti terrieri che
vedevano rimesso in discussione il loro potere dalle riforme socialiste che venivano
fatte nelle campagne, nei servizi sociali, nella scuola con l’alfabetizzazione, fino
all’emancipazione di tutte le donne, vietando i matrimoni combinati e il burqa (come
è stato ben spiegato nell’articolo di Contropiano del 22 Agosto titolato “Mostri
globalizzati” di Leonardo Masone).

La nostra fu una posizione scomoda e isolata, anche dalla sinistra più radicale, ma
che abbiamo sostenuto con tutta la determinazione necessaria essendo coscienti che
comunque l’intervento sovietico poteva salvaguardare i caratteri sociali e
democratici di quella esperienza, necessari per l’emancipazione del popolo afghano.

Posizione difficilissima e convintamente “kabulista”, come si diceva all’epoca, ma
chiara che oggi ci permette di rappresentare e rafforzare un punto di vista che ormai
viene imposto dai fatti che si stanno palesando in questa seconda metà di agosto,
facendo saltare tutte le bugie e le mistificazione dei paesi imperialisti, degli USA ma
anche della UE.

La prima è stata quella che il governo afghano negli anni ’80 esisteva grazie solo
all’URSS. La realtà è che quel governo ha resistito per ben tre anni e mezzo (dal
1989 al 1992) dal ritiro sovietico all’aggressione esterna imperialista e integralista,
dimostrando di avere un forte rapporto con settori importanti della società afghana.
Una cosa molto diversa dal governo fantoccio attuale che, lasciato solo con le
proprie forze, non è durato nemmeno tre settimane, a dimostrazione ulteriore della
sua inconsistenza.

Certamente gli occidentali non possono negare che conoscevano bene i caratteri
oscurantisti e reazionari dei loro alleati e che anzi li hanno sollecitati e sostenuti in
chiave anticomunista. Dunque appaiono completamente false le lacrime sparse a
piene mani su chi sta fuggendo dalla barbarie talebana, e qui si rendono necessarie
alcune riflessioni.

La prima è quella relativa al massacro nel ’92 contro i comunisti, le loro famiglie e
tutti coloro che difendevano una visione sociale progressista contro l’oscurantismo
dei mujaheddin. All’epoca gli occidentali, invece, erano ben felici che quei massacri
fossero perpetrati, sia che riguardassero uomini, donne o bambini, anzi stesero un
velo di silenzio su questo mettendo l’accento solo sulla sconfitta militare.

Né dissero qualcosa quando il presidente Afghano Najibullah fu barbaramente
evirato e poi impiccato in piazza nel ’96. Anche le nostre anime belle della sinistra
tacquero di fronte ad un episodio che poi il “civile” occidente ripetette con Saddam
Hussein e con Gheddafi ma fallendo, fortunatamente, con il presidente siriano
Assad.

L’altra è che se si deve individuare un responsabile di quello che sta accadendo oggi
a Kabul è esattamente l’occidente, che prima ha utilizzato l’onda integralista ed ora
sta abbandonando i suoi sostenitori a quella barbarie evocata come un improvvido
apprendista stregone.

Il pericolo reale che corrono i “profughi” e i collaborazionisti oggi è quello che viene
dalle ruote degli aerei americani mentre decollano e dalla fuga dagli alleati, né più
né meno come è stato fatto nel ’75 con i collaborazionisti nel Vietnam, alla faccia
della ormai insostenibile e sfacciata retorica in difesa delle donne e dei bambini, che
ora vengono cinicamente abbandonati a se stessi.

Sulla vicenda afghana bisognerà continuare a lavorare nei prossimi mesi sulla
“controinformazione” politica e storica, con sistematicità contrastando una
operazione ideologica neocoloniale sempre meno credibile che dagli anni ’90 ha
fatto “sognare” ai padroni del mondo che la Storia fosse veramente finita.

Ma se sul passato non andranno fatti sconti a nessuno, la vicenda afghana si
presenta come culmine di una inversione netta del percorso storico degli ultimi
trent’anni. Da qualche anno si andava percependo che la situazione stesse
cambiando radicalmente: dall’accentuata competizione globale, all’uscita della Gran
Bretagna dalla UE fino alla tragedia della pandemia che ha segnato i picchi più
intensi proprio nei paesi dove il liberismo ha devastato il tessuto sociale.
Da tempo come RdC stiamo lavorando sull’analisi di questo cambiamento e lo
abbiamo fatto in particolare in due Forum nazionali, nel 2016 e nel 2019 sulla crisi
di egemonia del capitale e sullo stallo nei rapporti di forza tra gli imperialismi, in cui
abbiamo individuato un passaggio storico che abbiamo definito dello stesso
spessore di quello avuto con la crisi dell’URSS, ma di segno politico opposto.

In questo senso è necessario individuare – seppure ancora in via approssimativa in
quanto si apre una lunga fase di cambiamento – quali sono i caratteri che stanno
emergendo, sia di quelli più evidenti che di quelli meno visibili ma potenziali che
possono irrompere nel prossimo futuro.

Andando per punti:

a) La sconfitta è ideologica più che militare

La sconfitta più grande e bruciante per l’occidente è quella IDEOLOGICA. Lo
spudorato uso delle armi fatto in termini di veri e propri interventi coloniali dagli
anni ’90 in poi (farne l’elenco sarebbe inutile oltre che lunghissimo), è stato possibile
perché in quegli anni aveva capitolato una visione rivoluzionaria generale e si era
affermato il cosiddetto interventismo umanitario, la guerra “infinita” per la
democrazia, etc.

Questo ha permesso la motivazione ideologica necessaria a giustificare ogni tipo di
ingerenza e intervento militare verso l’esterno, ma anche a giustificare alle
popolazioni dei paesi imperialisti le spese economiche e i costi umani pagati per
assolvere ad un compito “superiore”, appunto umanitario.

Comunque non va dimenticato che la passività affermatasi in questi decenni da parte
dei popoli nei paesi occidentali, è stata dovuta anche alla coscienza implicita che
questi crimini avrebbero permesso comunque la distribuzione alle “masse” delle
briciole di una rapina generalizzata verso i paesi della periferia, una “periferia
mondiale” che all’epoca comprendeva anche la Cina per il basso costo della forza
lavoro.

Il fallimento in Afghanistan, avvenuto dopo quelli in Iraq, in Siria, nello Yemen ed in
molti altri posti inclusa l’America Latina, pone fine all’egemonia occidentale sulla
lotta per la democrazia, i diritti umani, quelli delle donne. L’architrave ideologico
è crollato e crolleranno tutte quelle strutture civili e militari che su questo hanno
poggiato per decenni.

b) Le cause materiali della sconfitta Usa

Le cause che hanno portato a questo esito sono politiche e militari ma sono
soprattutto materiali, in quanto l’autonominatosi gendarme del mondo non ha avuto
la forza materiale per sostenere questo ruolo a partire dalle debolezze della sua
struttura economica e finanziaria, portata alle sue estreme possibilità con la politica
dei tassi zero e una sovrapproduzione di capitale abnorme.

Emerge così una debolezza strutturale ed una nuova verità storica: dopo appena
trent’anni di mondo unipolare USA si rende evidente che un solo paese non può
controllare il pianeta, soprattutto in una fase di crisi economica-finanziaria, sociale
ed infine ambientale che si protrae da più di dieci anni.

Quello che si sta affacciando è un mondo multipolare, che però verrà sottoposto a
molte contraddizioni e conflitti se manterrà la sua base materiale nel Modo di
Produzione Capitalista,e dentro i quali la spinta al superamento del presente assetto
sociale potrebbe trovare nuovo vigore.

c) Il fallimento di una classe dominante

C’è anche un fallimento di concezione strategica che dimostra i limiti della classe
dominante USA. L’intervento ed il controllo del centro dell’Asia era il prodotto del
pensiero strategico di Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente Carter e
membro della Trilaterale, che teorizzò la necessità di occupare il centro del
continente asiatico per ottenere una posizione strategica determinante per
quell’area lontana dagli USA. Da lì si pensava di poter condizione la Cina, la Russia e
l’Iran per mantenere la propria predominanza mondiale. Questo nuovo Vietnam
dimostra quanto sia stato velleitario un simile calcolo.

d) L’uso del keynesismo militare

Dalla guerra di Corea del 1950 negli Usa chi ha avuto un peso determinante nella
politica internazionale americana è stato l’apparato militare industriale, cioè l’uso
del keynesismo militare. E’ stato determinante perché è il settore produttivo più
importante, in quanto gli statunitensi sono in assoluto il maggior produttore ed
esportatore di armi nel mondo.

La situazione di rinculo che ora subisce l’interventismo USA, il maggior
protagonismo e ruolo dei suoi competitori, non hanno solo un effetto strategico ma
anche economico e dunque sociale. In altre parole questo settore portante dove si
rivolgerà per accrescere i propri profitti? Non sarà certo sufficiente il mercato
interno che pure è ancora tutelato e “fiorente”.

Questa necessità produrrà altri effetti a catena di diverso tipo: da una parte
l’approfondirsi di una crisi industriale e sociale che già pesa fortemente
sull’economia americana e dall’altra, sapendo bene come agisce la “bestia”, quali
altri scenari di guerra si vanno preparando a sostegno dell’apparato industriale
militare?
e) Un nuovo assetto internazionale

E’ evidente che nei prossimi mesi ed anni si andrà configurando un nuovo assetto
internazionale, forse anche dei nuovi rapporti di forza che potrebbero rompere
quello stallo degli imperialismi che abbiamo analizzato e che procede da almeno un
decennio, cioè dalla crisi finanziaria precedente. Capire quale sarà lo scenario
internazionale procedendo per ipotesi e verifiche non è un esercizio intellettuale di
geopolitica ma è un modo per collocare l’iniziativa dei comunisti nelle prospettive e
anche per quanto ci riguarda nello specifico situazione nazionale.

Alcuni segnali sono già giunti da una ripresa dell’attivismo del G7 con il recente
vertice tenuto a giugno in Cornovaglia dove sono emerse alcune scelte strategiche
prima meno evidenti. In sostanza di fronte alla competizione globale e al ruolo della
Cina, alle ambizioni crescenti e diversificate tra alleati e al ritiro dall’Afghanistan già
preventivato (ma non certo previsto come la debacle a cui il mondo sta assistendo),
gli USA ma anche la UE stanno prendendo atto del cambiamento degli equilibri
strategici.

Probabilmente danno per perso il controllo imperialista diretto per buona parte
dell’Asia e stanno riorganizzando l’area atlantica con un ricompattamento della
NATO, che invece fino ad alcuni anni fa sembrava in via di superamento.

Naturalmente previsioni esatte su questo sono premature e possiamo cercare di
capire solo le tendenze, ma l’idea di consolidare l’area atlantica attorno a USA e UE,
rafforzando anche le proprie posizioni in Africa e America Latina, è una ipotesi che
traspariva già dalla proposta fatta durante il G7 di giugno cioè quella di costruire
una “via della seta occidentale”. Naturalmente va considerato anche il risultato
negativo del G7 sul ritiro da Kabul, ma questo vertice si è tenuto su una condizione
chiaramente ingestibile per le forze NATO.

L’ipotesi di tenuta nella “cittadella” imperialistica dell’alleanza atlantica è tutta da
verificare, ma è quella logicamente più realistica in quanto le relazioni con la Cina
“in primis” ma anche con la Russia stanno subendo un logoramento molto forte.
Significativa è stata la dichiarazione della portavoce del ministero degli esteri cinese
che ha affermato come “ovunque vada l’esercito americano lascia turbolenze e
divisione, caos, famiglie distrutte e devastazione”.

Se è questa la prospettiva su cui stanno lavorando le potenze occidentali, si
porranno due questioni di carattere strategico ma che hanno a che fare con la nostra
azione politica diretta come comunisti in Italia.

La prima riguarda il ruolo dell’America Latina dentro questa riorganizzazione
atlantica. Va ricordato che il tentativo di rendere quel continente più funzionale
all’economia del Nord America è già stato fatto negli anni ’90, prima con la
costituzione del NAFTA, come area economico commerciale, e poi con
l’allargamento al resto del continente con l’ALCA.

Quella prospettiva naufragò perché la Cina si “mise” sul mercato con costi della
forza lavoro e con un supporto statale per gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) più
convincente per le multinazionali di quelle che potevano offrire i paesi
latinoamericani. Non è un caso che proprio in quella condizione di relativa
importanza per gli USA dei paesi latinoamericani si affermarono le esperienze
politiche bolivariane, a cominciare dal Venezuela, e si costituì l’ALBA come area
economica alternativa.

Nel cambiamento che si prospetta di ritrovata centralità dell’area atlantica,
cambierà anche l’attenzione che USA e UE rivolgeranno verso quei paesi. La
campagna anticubana a cui stiamo assistendo da mesi, le continue interferenze,
anche con colpi di stato, nelle politiche dei paesi che rivendicano la loro
indipendenza economica dalle rapine delle multinazionali, non sono il prodotto solo
della ideologia anticomunista ma della necessità di riprendere il controllo di un’area
che si sta orientando verso prospettive sociali alternative. Questa necessità riguarda
il Nord America ma anche l’UE che su queste campagne si associa sistematicamente
agli USA.

La seconda riguarda la relazione tra USA e UE. Se è vero che l’obiettivo è quello di
rafforzare l’asse atlantico questo non può lasciare le relazioni come erano in
precedenza in quanto oggi sono gli USA che hanno bisogno del rafforzamento
dell’alleanza con la UE, la sola Gran Bretagna non è sufficiente. Ma la UE non è più
disponibile ad avere ancora un ruolo subalterno e non “paritario” con gli Usa.

Il polo imperialista europeo si è “forgiato” in anni di continue crisi e queste hanno
sempre avuto per Bruxelles un effetto rafforzativo, per cui la relazione che può
essere oggi accettabile è solo quella paritaria. D’altra parte quella che è in crisi è la
funzione degli Stati Uniti, in quanto oggi viene dimostrato che da soli non sono in
grado di sostenere le sorti del mondo.

Inoltre l’UE può disporre, a differenza degli USA, di una possibilità che è quella di
poter usufruire dei “due forni”, per cui se gli USA non accettassero una modifica
relazionale l’alternativa dei rapporti economici con la Cina sta già sul tavolo. Ed è
proprio su questa contraddizione che stanno lavorando sia la Cina che la Russia.
Questa opzione è chiaramente visibile nelle dichiarazioni della UE e dei principali
Stati europei che si differenziano da quelle USA e della Gran Bretagna.

Naturalmente sugli scenari ipotizzati conteranno molto le condizioni che si
determineranno, le scelte concrete che verranno fatte, le ulteriori modifiche dei
rapporti di forza tra potenze. Quello che va inquadrato bene adesso però è il
processo che si metterà in moto a causa dei presenti stravolgimenti ma che
assumerà nei prossimi anni forme allo stato difficilmente prevedibili.

Come Rete dei Comunisti riteniamo che gli spazi per lottare per una alternativa
politica e sociale si amplieranno. Comunque si confermano due terreni di battaglia
politica ed ideologica che seguiamo da tempo: quello dell’internazionalismo, in
particolare verso le esperienze del socialismo del XXI° secolo che stanno
sviluppandosi in America Latina, e quello della rottura dell’Unione Europea inteso
come polo imperialista, che nella crisi degli USA trova paradossalmente ragioni più
forti per la costruzione di un’area politico economica competitiva.

Di questo discuteremo sabato 11 settembre alle 17.00 presso la Casa della Pace a
Roma in via di Monte Testaccio 22.

25 Agosto 2021

        español: El dedo en el ojo… sobre Afganistán
        français: Le doigt dans l’œil… sur l’Afghanistan
        english: The finger in the eye… on Afghanistan

Il Capitalismo distrugge il mondo,
una sfida per i Comunisti del XXI°
secolo.

Un confronto pubblico sulle Tesi prodotte dalla Rete dei Comunisti.

Mauro Casadio
La Rete dei Comunisti si appresta a fare la propria quarta Assemblea Nazionale nel
fine settimana del 2 e 3 Luglio. In realtà ogni anno la nostra organizzazione si
cimenta in appuntamenti nazionali di tutti i militanti in quanto utili strumenti di
confronto e di direzione in una situazione dove l’accelerazione degli eventi oggettivi
e politici obbligano ad una riflessione ed ad un adeguamento in sintonia con gli
sviluppi suddetti.

Quest’anno abbiamo dato una impostazione diversa all’assemblea nazionale, non
congresso dati i caratteri del nostro progetto organizzato, cogliendo il salto di
paradigma che le vicende pandemiche hanno permesso di far emergere, salto che
era però già maturo dentro le contraddizioni del modo di produzione capitalista.
Diciamo che sono cominciati a cadere una serie di veli ideologici e di
rappresentazioni che imponevano una percezione della realtà ben diversa dalle
effettive dinamiche del mondo.

A questa percezione distorta hanno contribuito i mezzi di comunicazione di massa, il
carattere individualizzante dei social ma anche una sinistra che svolge sempre più
una funzione deviante rispetto alla regressione delle condizioni sociali che stanno
investendo milioni di persone in un occidente in crisi.

La scelta di misurarsi con delle Tesi Politiche nel tentativo di leggere la realtà nelle
sue tendenze più profonde, cercando cosi di estrapolare indicazioni analitiche e di
organizzazione, nasce proprio dal fatto che diviene sempre più insufficiente seguire
le minute vicende quotidiane se non si ha una visione quantomeno di fase.

Certamente stiamo entrando in una fase di non breve durata in quanto quella che si
apre ora deve sviluppare ancora, far maturare, tutti i propri caratteri e le proprie
contraddizioni come è avvenuto nel ’91 con la dissoluzione dell’URSS e nel 2007 con
la crisi finanziaria.

La “stella polare” che va seguita nel capire i caratteri delle contraddizioni dal nostro
punto di vista è quella che da tempo abbiamo definito come competizione globale ed
ora “stallo degli imperialismi”. Lo sviluppo impetuoso delle forze produttive di segno
capitalista avuto dopo la fine del campo socialista ora sta producendo i suoi effetti
reali e duraturi, cioè l’emergere di nuovi soggetti competitivi per l’occidente.

La Cina ne è l’effetto più evidente ma quello che si sta profilando è il riemergere di
un campo internazionale forse non socialista come storicamente abbiamo conosciuto
ma sicuramente alternativo al liberismo occidentale e all’egemonia degli USA.

Lo stesso processo ha creato un equilibrio di forze, sul piano finanziario, economico
e militare, che ha prodotto uno stallo tra i soggetti competitivi esistenti in cui
nessuno ha la possibilità di usare strumenti decisivi, quello militare per eccellenza,
per sconfiggere l’avversario.
Un effetto di questa evoluzione è quello di far ritrovare un ruolo allo strumento della
NATO, in crisi da tempo, come collante dell’alleanza USA-UE contro il “resto del
mondo” per tentare di mantenere un ruolo dominante, imperialista, in un tentativo
probabilmente antistorico di riportare la situazione ai decenni successivi agli anni
’90.

Quegli stessi decenni di affermazione del liberismo sfrenato che ha portato in
profondità i processi di privatizzazione e di devastazione sociale che oggi producono
una crisi pandemica di proporzioni inaspettate dove le risposte che vengono date,
soprattutto dagli alleati degli occidentali come il Brasile e l’India, sono più dannose
della stessa pandemia producendo continui focolai infettivi che si ripropongono a
livello mondiale.

Insomma la distruzione dello Stato Sociale perseguito con determinazione e ferocia
dai centri finanziari e dalle classi dominanti oggi porta alla constatazione che questo
modello di sviluppo e di crescita infinita porta a effetti dannosi per l’intera umanità.

A questo sviluppo distorto ha corrisposto un degrado delle classi dominanti e dei ceti
politici di cui in Italia ne abbiamo un esempio diretto dove i vari partiti ed i vari
esponenti, da Letta a Salvini, da Grillo a Berlusconi, si mostrano incapaci di avere
progetti di lungo respiro e strettamente legati a lobby e corruzione. Come la
sopravvivenza inspiegabile di un soggetto massonico come Renzi dimostra.

Se il nostro paese è un esempio palese che abbiamo a portata di mano la situazione
non è molto diversa negli altri centri occidentali. L’esperienza di Trump è troppo
recente per non averla presente e d’altra parte quella rappresentanza reazionaria
non è stata affatto sconfitta e già da ora si sta riproponendo alla società
statunitense.

Come pure le politiche della UE, nonostante la retorica ambientalista del Recovery
Fund, sono tutte a sostegno delle imprese e della finanza prospettando un futuro di
regressione sociale ed economica per le classi subalterne ma anche democratica
come effetto diretto delle prime.

L’insieme di questa evoluzione, nelle Tesi il tentativo è quello di fornire analisi più
approfondite, sta producendo delle controtendenze che ora sono solo all’inizio ma
che possono essere già percepite nei primi effetti politici.

Una riguarda direttamente i settori di classe, anche nel nostro paese, che vedono
sempre meno possibilità di risoluzione delle proprie contraddizioni nella normale
dialettica del conflitto sociale a “bassa intensità”, come quello che abbiamo vissuto
nei momenti di crescita economica, e tende a politicizzare le proprie posizioni
sviluppando un antagonismo spesso senza coscienza ma radicale.
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