Scandalo Datagate: la psicosi dei nomi falsi e delle foto di repertorio per difendersi dal "grande fratello" - Il Corriere del Giorno
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Scandalo Datagate: la psicosi dei nomi falsi e delle foto di repertorio per difendersi dal “grande fratello” di Paolo Campanelli Il “Datagate”, come è stato soprannominato dalla stampa americana, ha scatenato reazioni in giro per il mondo, ma come spesso accade in questi casi, la maggior parte delle persone crede di sapere di che cosa si parli, mentre la realtà è nettamente differente. Il cuore del problema riguarda le scorse elezioni amministrative americane, nettamente differenti da quelle nostrane, e su come i politici si facessero pubblicità, e si può riassumere su come, utilizzando i dati raccolti dal gruppo di Cambridge Analytica, alcuni politici avrebbero avuto vantaggi scorretti su altri, in quanto potevano investire in campagna elettorale in aree specifiche anziché su tutto il territorio. L’utente medio di Facebook però, è convinto che non usare il proprio nome, non indicare la propria età e negare l’amicizia a tutti quegli amici che potrebbero rivelare la sua identità sia una difesa impenetrabile, per difendersi dall’essere schedato in ogni momento, ogni luogo, ogni gabinetto. E questa si chiama “psicosi“, principalmente perché non sono quelle le informazioni che sono coinvolte: quelli che questi sistemi prendono in analisi, e che hanno portato a questa situazione sono i Metadati.
Un metadato (dal greco μετὰ “oltre, dopo” e dal latino datum “informazione“), letteralmente “(dato) oltre un (altro) dato“, è un’informazione che descrive un insieme di dati. I metadati rappresentano un metodo sistematico per la descrizione delle risorse informative e per migliorarne l’accesso e la gestione I metadati nascono come strumento per semplificare il lavoro dei bibliotecari, si trattava infatti di schede ordinate per genere che riportavano le posizioni dei libri sugli scaffali, permettendo così di trovare in pochi minuti un libro nella orami così lontana era analogica. Con la nascita del digitale, il termine “Metadato” è andato a indicare tutta una serie d’informazioni normalmente non visibili, o comunque non immediatamente evidenti, che riguardano file e pagine web. Con i metadati si può facilmente sapere se un’immagine è originale o rielaborata, quando un documento di testo è stato modificato l’ultima volta, quanto a lungo un utente è rimasto su di una pagina web, quanto spesso una pagina sia visitata, se si è arrivati ad un sito direttamente o tramite link da altri siti e molto altro.
I metadati sono estremamente utili per i gestori dei siti che offrono servizi, come Amazon o Youtube, per concentrarsi sul migliorare il servizio stesso, per i ricercatori e per chi fa informazione, per poter comprendere una determinata situazione on-line o per comprendere quali sono le notizie più di tendenza che il pubblico cerca e quelle che non interessano. Tuttavia, sfuggendo completamente alla psicosi, questi dati sono significativi solo quando sono in grande numero e indipendenti dall’utente effettivo. Non è importante chi ha letto una notizia, è importante quanti lo hanno fatto e quanto a lungo sono rimasti sulla pagina (paragonabile a “quanto della notizia hanno letto”) Differente è l’uso “ad personam” dei metadati: questa specifica branca di metadati è quella che influisce, in maniera più o meno efficace, sulle funzioni dedicate direttamente all’utente specifico, ad esempio la lista di video consigliati su Youtube, influenzata da i video visti recentemente, o i banner pubblicitari su alcuni siti. Questi dati sono tutt’altro che precisi, continuando a offrire le stesse scelte per lungo tempo anche quando l’attenzione dell’utente si è spostata da tempo o paradossalmente, quando la ricerca originale si consuma nella stessa, ma i banner continuano a proporre per mesi e mesi gli stessi risultati . per esempio, essere costretti ad utilizzare il sito di un’agenzia funebre che usa queste pubblicità tende purtroppo a far vedere altre pubblicità di offerte su bare e loculi per lunghi periodi. L’uso dei metadati è autorizzato da parte dell’utente come clausola di iscrizione nelle condizioni d’uso di ogni social network, che ogni
utente deve accettare per potersi iscrivere, e in modo più limitato, da cookie utilizzati dalla stragrande maggioranza di siti per vari fini, che ora sono presentati agli utenti quando si connettono ad un sito per la prima volta. La questione centrale di questo scandalo è centrata su come Facebook abbia ceduto determinati metadati, violando le sue stesse norme di Privacy, inconsapevolmente, almeno sulla carta; la paura è che altre organizzazioni abbiano avuto accesso a questi dati significativi, se non tramite Facebook, via altri social network come Instagram, Twitter o Tumblr (quest’ultimo a sua volta impegnato in una caccia alle streghe contro hacker russi al momento dello scandalo). Cambridge Analytica ha raccolto dati specifici, relativi alle elezioni americane, e indiscrezioni non confermate affermano anche riguardo alla Brexit; vi sono congetture che alcuni partiti italiani abbiano avuto la possibilità di utilizzare simili mezzi, ma nessuna prova tangibile all’atto pratico, ne effettive azioni intraprese durante le ultime campagne elettorali che alzino sospetti al riguardo In conclusione, a nessuno interessano i dati sul pensiero politico dell’italiano medio in rete, poichè come più volte abbiamo indicato noi del Corriere del Giorno, la propaganda politica all’italiana si basa su altro, ed è molto più pericoloso un hacker quasi improvvisato che utilizza comuni virus, che un Grande Fratello intenzionato a tenere d’occhio la nostra cultura Dr. Facebook e Mr. Hide di Roberto Sommella*
Quando su Facebook si ricordano i 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale e qualcuno grida alla propaganda invece di ripassare la storia, emerge con nettezza qual è il vero problema dell’abuso dei social network: la perdita della memoria collettiva e l’avvento di un nuovo senso delle cose. C’entra poco per chi si vota e come si può essere influenzati dall’uso distorto dei dati personali che si regalano ogni secondo alla rete. È stato ormai dimostrato come il web amplifichi i propri pregiudizi, piuttosto che sfatarli. Se uno nasce trumpiano difficilmente diventa democratico a colpi di “like”. Forse va più volentieri alle urne, ma non cambia idea. Piuttosto le ultimissime ricerche in questo campo del mondo di mezzo, tra il reale e il virtuale, si sono concentrate sulla modifica della percezione di se stessi, un aspetto molto più importante perché costituisce la base della società in tutte le manifestazioni della vita quotidiana. Per questo, fatte le dovute verifiche sul reale utilizzo dei 50 milioni di profili effettuato dalla Cambridge Analytica, che avrebbe influenzato le elezioni americane, la Brexit, forse anche le consultazioni italiane, e incassate le previste scuse del patron del gigante blu, Mark Zuckerberg, terrorizzato di veder sgonfiare il suo mondo dorato a colpi di ”delete”, occorre spostare il tema su almeno tre piani, relativi alla riservatezza dei propri profili, agli aspetti psicanalitici e a quelli economici. Dal punto di vista della privacy, come ha sottolineato un esperto del settore quale Claudio Giua, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, il nodo da affrontare e sciogliere è la mancata applicazione da parte
di Facebook di adeguate misure di sicurezza emersa dalla vicenda, ”che nulla ha a che fare con la completezza finanche eccessiva dei dati personali raccolti”. C’è da chiedersi se a ribaltare la situazione basterà l’applicazione, prevista per il 25 maggio, della GDPR, la General Data Protection Regulation, il complesso di norme messe a punto dall’Unione Europea al fine di garantire un quadro entro il quale i dati degli utenti siano immagazzinati in modalità corrette e trattati nel rispetto della volontà delle parti coinvolte. Il regolamento comunitario rafforza le informative per la raccolta dei consensi, limita il trattamento automatizzato dei dati personali, stabilisce nuovi criteri sul loro trasferimento fuori dell’Unione e, soprattutto, colpisce le violazioni. In sostanza pone le basi per il riconoscimento di una sorta di diritto d’autore sui Big Data. Sarebbe un passo decisivo, perché risulta difficile accusare qualcuno di aver utilizzato la propria auto come un taxi, intascando i profitti, senza poter dimostrare la proprietà del mezzo. È proprio quello che sta accadendo con il “caso Datagate“, che potrebbe risolversi in un nulla di fatto e solo qualche scossone in borsa.
Se davvero passerà una simile interpretazione, per la prima volta, queste norme sulla tutela dei dati personali nell’Unione Europea, che ha progettato anche una web tax sul fatturato, saranno pienamente valide anche per chi ha sede extracomunitaria, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, cui risulterà più difficile eludere le responsabilità finora solo formalmente assunte nei confronti degli utenti. Per quanto riguarda il secondo punto di vista che si deve affrontare, viene in aiuto una recentissima pubblicazione di una neuro scienziata, ricercatrice al Lincoln College dell’Università di Oxford, Susan Grenfield. In “Cambiamento mentale” appena tradotto in italiano, questa baronessa premiata con la bellezza di 31 lauree honoris causa in mezzo mondo, esamina come le tecnologie digitali stiano modificando il cervello. E a proposito dei social network, Grenfield scrive: ‘‘gli utilizzatori di Facebook sono più soddisfatti delle proprie vite quando pensano che i propri amici di Facebook siano un pubblico personale a cui trasmettere unilateralmente informazioni, rispetto a quando hanno scambi reciproci o più relazioni offline con contatti ottenuti online”. Le relazioni digitali sarebbero quindi ”legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Esattamente quello che intendeva Zuckerberg quando stilò il suo Manifesto, dove parlava della possibilità di governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la rete, esaltando le relazioni personalivirtuali: ”Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un ruolo“. Un po’ quello che temeva George Orwell in 1984. Il problema è capire che ruolo ha la rete nei disturbi della personalità.
Nel campo della salute mentale, secondo lo psichiatra Massimo Ammaniti, si tende a valorizzare l’uso dei Big Data in quanto offrono nuove opportunità per la ricerca data, l’ampiezza sconfinata dei campioni, ma allo stesso tempo vengono sollevate perplessità sulla “veracity” e sulla “unreliability” delle informazioni provenienti da varie fonti. Riguardo alla “veracity”, la ”veridicità”, ci si chiede se i dati raccolti senza una prospettiva di ricerca possano essere utilizzabili. Avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti come pesa sull’immagine di sé e sulla propria autostima? Non ci si valuta come persona, ma come “informant” che serve al mercato, non ci si valuta per quello che si è ma per quello che ognuno vale. Quando si entra in un data base fornendo le proprie informazioni personali – per esempio come quello di Cambridge Analytica – si accede a un universo di categorie che verranno definite.
Forse ci si potrà chiedere che uso verrà fatto delle informazioni che ci riguardano e chi saranno coloro che utilizzeranno questi dati per pianificare le nostre vite. Può prendere corpo uno scenario appunto orwelliano, un mondo distopico, in cui si è costretti a vivere dove viene meno il senso agente di sé perché qualcun altro decide del nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza. In campo psichiatrico per descrivere l’esperienza di spersonalizzazione vissuta dai malati mentali si è fatto riferimento al concetto di ”pseudocomunità paranoide”, nella quale ci si sente preda di cospirazioni e raggiri senza sapere chi siano gli attori e i protagonisti, per cui è impossibile riuscire ad orientarsi e difendersi. Un articolo dell’American Journal of Epidemiology, citato in un’inchiesta della London Review of Books, ha sostenuto che a un aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale. Difficile pensare che tutte queste informazioni possano servire a sovvertire i regimi democratici, magari si vende più pubblicità.
La domanda più pragmatica da porsi è perciò un’altra. Se cambia la personalità usando internet, cambiano anche le scelte commerciali? Questa è la terza frontiera che si deve analizzare. Oggi si conosce cosa accade in sessanta secondi sul web. In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook, si inviano 452.000 “cinguettii” su Twitter, si vedono 4,1 milioni di video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google, si postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni di messaggi. Sean Parker, ex-socio di Mark Zuckerberg
I calcoli del World Economic Forum fanno riflettere ma non dicono quanto di se stessi si lascia nel momento in cui si riversano nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha fornita proprio l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker, ben prima che scoppiasse il Datagate: Facebook sarebbe un loop di ”validazione sociale basato su una vulnerabilità psicologica umana che cambia letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri’‘. Proprio quello che sostengono luminari come Grenfield e Ammaniti. È del tutto evidente che non esiste quindi soltanto il problema di come trattare e proteggere i dati personali ma anche di valutarne a questo punto l’affidabilità e la veridicità in tutti i gesti quotidiani. Quando si acquista un bene e si viene profilati, quando si esprime un parere e ci si sottopone al giudizio del pubblico virtuale, quando si esercita la massima espressione delle libertà personali in democrazia, il voto. Se dietro a tutte queste manifestazioni c’è ormai una sagoma sbiadita di un’identità, qualcosa la cui verosimiglianza è a rischio, il lavoro controverso e criticato di Cambridge Analytica e di chissà quante altre società, diventa solido come un castello di carte. La fake news saremo noi. *Direttore Relazioni Esterne Autorità Antitrust, fondatore de La Nuova Europa Raddoppiata la multa per chi mentre guida la macchina parla al telefono ROMA – Iniziano ad arrivare i nuovi emendamenti alla manovra che saranno al vaglio dalla prossima settimana della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati . Sono migliaia quelli attesi per la manovra che la scorsa settimana ha ricevuto il via libera dal Senato. Una serie di misure che i parlamentari cercano di inserire in questo ultimo periodo “utile” verso la fine della legislatura, alcune delle quali in realtà hanno ben poco o quasi niente a che fare con problematiche finanziarie e ricadute sui conti pubblici .
La Commissione Trasporti della Camera ha presentato ed approvato alcuni emendamenti che prevedono sanzioni raddoppiate (che arrivano fino a 1.294 euro) per l’uso degli smartphone alla guida, e fino a sei mesi di sospensione della patente, nonché l’obbligo di dispositivi di allarme anti- abbandono per i seggiolini dei bambini in macchina. Torna in ballo anche l’ipotesi di una tassa sul fumo che era stata inizialmente proposta al Senato, ma dopo lo stralcio a Palazzo Madama torna adesso al vaglio della Camera. La Commissione Affari sociali a sua volta ha presentato infatti un emendamento che prevede il rifinanziamento per 604 milioni del fondo sanitario con la tassa sui tabacchi. Una misura che potrebbe far salire fino a 20 centesimi in più il prezzo di un pacchetto di sigarette . Oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti, mentre mercoledì 13 inizieranno le votazioni. Il lavoro si concentra alla Camera dei Deputati soprattutto sul lato delle entrate, visto che le risorse disponibili sono particolarmente limitate. Il presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia ha proposto di far partire già da gennaio la “Web-tax” all’italiana con un’aliquota che scende dal 6 all’1-2 per cento, ma estende la misura anche all’e-commerce. Un’iniziativa a dir poco vergognosa, che da un lato agevola gli affari delle “major” americane del web, come Google, Facebook, Amazon, ecc. mentre dall’altro penalizza lo sviluppo del commercio elettronico in Italia, rispetto a tutti gli altri paesi del mondo. La manovra è attesa in aula martedì 19 dicembre, dove molto probabilmente sarà votata con la fiducia per passare poi entro Natale al Senato per il via libera definitivo e sarà uno degli ultimi atti di questa legislatura parlamentare. Tra i numerosi emendamenti presentati in Commissione Bilancio c’è poi quello del Partito Democratico per ridurre la durata massima dei contratti a tempo a 24 mesi rispetto agli attuali 36 . Vi è inoltre l’intento di favorire l’assunzione dei dottorandi e rivedere il settore delle politiche attive, tema sul quale i parlamentari della Commissione Lavoro puntano a raddoppiare le mensilità che spettano al lavoratore in caso di licenziamento e alla riforma dell’Inps.
Anche la commissione Giustizia ha approvato il suo pacchetto di misure: tra queste la richiesta di inserire in manovra una parte della riforma del processo civile per introdurre il procedimento semplificato davanti al giudice monocratico. Misura che, nonostante fosse stata presentata con alcune modifiche, era stata fortemente criticata da magistrati e avvocati motivo per cui era stata ritirata al Senato . Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente, presenterà invece un emendamento concordato col Governo per vietare dal 2019 la vendita dei cotton fioc non biodegradabili «come prescrivono le norme comunitarie». Economia digitale e Big Data di Michele Ainis* Il dibattito ha fornito molte indicazioni sui principi che guidano l’Autorità Antitrust nell’applicazione delle norme a tutela della concorrenza e del consumatore nel contesto dell’economia digitale. Ed è stato utile ricordare alcuni interventi assunti dall’Autorità di recente. Come hanno avuto modo di osservare i vari oratori, l’Autorità ha strumenti adeguati anche di fronte ai nuovi fenomeni determinati dall’innovazione digitale. Non è necessaria la revisione del cosiddetto “tool-box” per affrontare le sfide poste dall’innovazione digitale; si tratta piuttosto di realizzare un ripensamento delle modalità con le quali applicare gli strumenti tradizionali dell’analisi a un contesto fortemente mutato. D’altronde le norme europee a tutela della concorrenza (e quindi quelle italiane) hanno mostrato di possedere una felice caratteristica: una formulazione ampia, che le rende flessibili ad
adattarsi alla mutevolezza del contesto al quale vengono applicate. L’innovazione introdotta da Internet comporta molte opportunità, però implica anche rischi, per i consumatori e per le imprese. L’economia digitale ha permesso scambi, transazioni un tempo impensabili in termini di rapidità e mole dei dati scambiati. E’ oggi possibile l’incontro tra agenti economici che prima non si sarebbero mai incontrati, se non sostenendo costi di transazione elevatissimi. I social media consentono la comunicazione e lo scambio di idee in tempo reale, tra tutti gli individui. Ma proprio su questo punto è opportuna una riflessione. Ed è diventato urgente riflettere sulla profilazione di cui si è parlato questa mattina. Come ha ricordato il Presidente dell’ Antitrust Pitruzzella , si tratta di un fenomeno che può avere un impatto diverso, a seconda che coinvolga l’individuo nella sua veste di consumatore o di cittadino. E allora provo a declinarne gli effetti su entrambe le categorie. Il cittadino La libertà di manifestazione del pensiero rappresenta la «pietra angolare» della democrazia, dichiara una celebre sentenza della Corte Costituzionale, vergata nel 1969. Ma ormai non più: oggi, la questione dirimente non è di garantire la circolazione delle idee, bensì la loro formazione, la loro genuina concezione. Se in apparenza i social media consentono a chiunque di esprimersi liberamente e di confrontare le proprie idee, potenzialmente con chiunque, gli stessi strumenti digitali possono in realtà restringere il confronto libero di idee. Pensiamo di pensare, ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri altrui. O al limite anche i nostri, però amplificati e deformati, senza verifiche, senza alcun confronto con le opinioni avverse. È l’universo autistico in cui siamo rinchiusi, anche se per lo più non ci facciamo caso. Un universo tolemaico, in cui il sole gira attorno
alla terra – ed è ognuno di noi, la terra. Succede perché, quando navighiamo online, siamo esposti ad informazioni “filtrate”. Tutto ha avuto inizio il 4 dicembre 2009, quando Google avvertì i propri utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio motore di ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle ricerche precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google, del luogo nel quale ci troviamo. In breve, significa che se due tifosi della Juve e della Roma – per esempio – digitano «calcio», otterranno pagine diverse, sia nel numero sia nella gerarchia delle notizie. Più che una riforma, una rivoluzione, come per primo s’incaricò di segnalare un libro divenuto cult (Eli Pariser, The Filter Bubble, 2011). E la rivoluzione si propagò immediatamente agli altri giganti della Rete, da Apple a Microsoft, da Amazon a Facebook, a Twitter, a WhatsApp. È, per l’appunto, la «profilazione» dell’utente, un nuovo strumento che affila le tecniche di marketing, le rende sempre più sofisticate. D’altronde, grazie ai dispositivi mobili, non è più necessario interrogare i motori di ricerca, perché loro ti rispondono senza lasciarti il tempo di formulare la domanda. Si è così realizzata la visione di cui parlava nel 2010 Eric Schmidt, amministratore delegato di Google: “Immagina di star camminando per strada. A causa di tutte le informazioni che Google ha raccolto su di te, noi sappiamo chi sei, a cosa sei interessato, chi sono i tuoi amici. Google sa, con l’approssimazione di pochi centimetri, dove ti trovi. Se hai bisogno di latte, e se c’è un negozio che lo vende lì vicino, Google te lo segnalerà“. Noi non sappiamo quali informazioni personali detengano i signori della Rete, né tantomeno conosciamo le
concrete modalità di rielaborazione e circolazione delle stesse. O meglio, formalmente ci viene richiesto di esprimere un consenso al trattamento dei nostri dati, ma non siamo mediamente in grado di conoscere esattamente la natura e la mole dei dati che forniamo alle piattaforme digitali in cambio dei servizi resi da queste ultime senza il pagamento di un prezzo monetario. Sappiamo che Google usa 57 indicatori per profilarci dalla testa ai piedi. Sappiamo che Netflix ospita la più grande banca dati al mondo, quanto alle preferenze dei consumatori in materia di fiction cinematografica e televisiva. Sappiamo che cercando una parola come «depressione» su un dizionario online, il sito installa fino a 223 cookies nel nostro computer. Sicché mentre navighiamo online i nostri gusti, le nostre opinioni, le nostre frequentazioni telematiche vengono registrate. Tale moltitudine informe di dati viene elaborata in modo da estrarne il valore economico. Veniamo “incasellati” in base alle nostre preferenze che vengono cedute agli inserzionisti, i quali possono così inseguirci con una pubblicità tagliata su misura. Ma insieme al filtro delle comunicazioni commerciali ci viene applicato anche un filtro sulle preferenze politiche, etiche, religiose, con il rischio di essere esposti esclusivamente ad informazioni a noi note. L’autismo digitale. Dunque le tecniche di profilazione non chiamano in causa unicamente i nuovi business o la vecchia privacy. Mettono in gioco la possibilità di rapportarci gli uni agli altri, d’aprirci al mondo esterno. Così come l’algoritmo di Amazon ci suggerisce libri simili a quelli che stiamo consultando, al contempo i filtri che agiscono sul web tendono a proporci all’infinito le stesse fonti da cui già ci siamo alimentati, le stesse opinioni, le stesse informazioni. Sembrerebbe un sistema di induzione e controllo del “bisogno”. La progressiva “chiusura” delle idee in un recinto ben definito consente la semplificazione dell’offerta di beni e servizi: tanto più le preferenze di consumo sono omologate, tanto più semplice il business di chi deve soddisfare tali preferenze. Le informazioni circolano, ma a compartimenti stagni, in circuiti separati. Da qui il confirmation bias, ovvero l’influenza delle nostre aspettative sui fatti rispetto al modo con cui li interpretiamo: uno schema mentale antico quanto l’uomo, che però l’informatica eleva alla massima potenza. Da qui, ancora, il fenomeno della post-truth, che Oxford dictionaries ha scelto come parola dell’anno 2016. In questo caso la “postverità” esprime l’irrilevanza dei fatti nella formazione dei processi cognitivi, come la negazione del riscaldamento globale o le false informazioni che hanno determinato Brexit (per esempio circa i costi pagati dagli inglesi all’Unione europea: 350 milioni di sterline a settimana, una cifra mai documentata).
Da qui, infine, una neonata disciplina: l’agnotologia, battezzata da Robert Proctor per indicare lo studio dell’ignoranza indotta attraverso dati scientifici fuorvianti. Ma l’agnotologia è nemica della democrazia, dato che quest’ultima si nutre del confronto tra punti di vista eterogenei. Il consumatore I dati personali che forniamo rappresentano la moneta con la quale paghiamo ogni chat, ogni ricerca, ogni consultazione online. Accettando i cookies, inoltre, rinunziamo alla segretezza delle nostre informazioni, ma forse senza la dovuta consapevolezza. Il compito dell’Autorità Antitrust, insieme alle consorelle Privacy e Agcom, è quello di individuare il limite tra legittimo “prelievo” e utilizzo dei dati dell’utente, e illegittima raccolta o sfruttamento degli stessi. Un compito non semplice, perché se da un lato la tutela del consumatore protegge la consapevolezza dell’utente sull’utilizzo dei propri dati, dall’altro l’Autorità non può ignorare che la cessione di quei dati soddisfa un interesse economico dell’utente, consentendogli la fruizione “gratuita” di servizi ai quali è interessato. Inoltre, quei dati sono “benzina” (o “petrolio” secondo l’Economist) di innovazione, poiché consentono il miglioramento dei servizi offerti e la fornitura di nuovi. Il tema del “prelievo”, con specifico riguardo alla consapevolezza del consumatore sui propri dati ceduti online, è all’attenzione dell’Autorità, come testimoniato anche dai recenti interventi in materia (Facebook/Whatsapp e Samsung – PS10207). Difatti, non sempre l’utente di una piattaforma online o di un social media ha chiaro quali e quanti dati cede in cambio del servizio che ottiene, né tantomeno possiede gli elementi per valutare la natura proporzionata dello scambio. Tu dai il consenso per una radiografia, loro ti somministrano una tac.
Sul fronte delle ricadute concorrenziali l’analisi è certamente più delicata. Perché, come abbiamo ascoltato questa mattina, sono molti i fattori – a volte nuovi – da esaminare prima di poter ipotizzare una violazione dei principi a tutela della concorrenza da parte delle imprese in materia di raccolta/trattamento/vendita dei dati degli utenti. Occorre delimitare correttamente il perimetro concorrenziale in cui si muovono le imprese (si tratta di mercati relativamente nuovi), comprendere l’effettivo potere di mercato dei grandi operatori online, esaminare l’esistenza di barriere alla raccolta dei dati degli utenti, la diversa qualità e quindi il diverso valore economico del dato. Si può ritenere, infatti, che lo sfruttamento commerciale del dato dipenda anche dalla sua diretta connessione con le preferenze di consumo e così, nella moltitudine di dati ceduti, solo alcuni avranno un valore elevato sul mercato della raccolta pubblicitaria. Ancora, bisogna tenere in debito conto il fatto che la “moneta” che l’utente utilizza per “pagare”, i propri dati, il più delle volte corrisponde a informazioni che lo stesso utente non ha modo di sfruttare economicamente in modo alternativo. In altre parole, i dati ceduti non hanno un valore economico in senso stretto per l’utente medio e sono peraltro spendibili contemporaneamente su più fronti (multi-homing, portabilità ecc). Infine, ma non ultimo, l’Autorità esamina i comportamenti delle imprese nel settore digitale con particolare attenzione alle possibili ricadute in termini di incentivi all’investimento, nella convinzione che, nonostante tutti i limiti evidenziati nel dibattito odierno, lo sviluppo digitale degli ultimi vent’anni abbia prodotto una crescita delle opportunità senza pari nella storia, nonché rilevantissimi incrementi di efficienza. Questo non esclude, d’altra parte, che l’intervento antitrust sia opportuno laddove i comportamenti delle imprese si traducano in condizioni inique per i propri clienti o in una concorrenza non giocata sul merito. Anche perché lo sviluppo digitale rischia di subire battute d’arresto se gli attori principali (i consumatori: che forniscono dati, effettuano ricerche, convivono sui social e realizzano transazioni online) iniziano a maturare sentimenti di sfiducia quando navigano sul web (come rilevato anche dalla Commissaria alla concorrenza Vestaeger) . L’Autorità si ispira ai principi della concorrenza delineati dalla normativa europea e trasfusi in quella nazionale, nei quali trova spazio il concetto di equità. In questo senso si è espressa un paio di settimane fa anche la Commissione europea, nelle parole del Direttore Generale per la Concorrenza, Laitenberger. L’equità delle condizioni imposte dalle imprese con riferimento ai dati raccolti dai propri utenti può ben rappresentare un terreno di indagine per un’autorità di
concorrenza, laddove sia possibile rinvenire le condizioni per riconoscere in capo all’impresa una posizione dominante nel mercato. In questo solco è stata avviata un’indagine conoscitiva congiunta con il Garante della Privacy e con l’AGCom sui big data, al fine di affinare la comprensione del fenomeno. In questo contesto, possono assumere un ruolo decisivo gli algoritmi utilizzati dalle piattaforme online per l’elaborazione dei dati provenienti dall’utente. Tali algoritmi consentono alle imprese la massimizzazione del profitto attraverso una rapidissima elaborazione di informazioni disponibili online sulle condizioni praticate dai concorrenti, e il conseguente adattamento delle proprie strategie di prezzo. Il fenomeno del machine learning (la modalità di autoapprendimento dei software basata sull’elaborazione progressiva, rapida e continua dei dati esistenti) non esclude che l’ottimizzazione della strategia di prezzo conduca il singolo programma ad interagire con gli altri. L’OCSE ha diffusamente analizzato le potenzialità collusive insite nell’utilizzo di software e algoritmi da parte di imprese operanti nella fornitura dei medesimi servizi. Ma anche questa linea di intervento richiede cautele. In primo luogo, per gli effetti positivi in termini di efficienza che l’impiego di tali software determina sia dal lato dell’offerta (riduzione dei costi di produzione) sia dal lato della domanda (permettendo una discriminazione di prezzo basata sulla disponibilità a pagare dell’utente). In secondo luogo, nella misura in cui l’interazione avviene attraverso un programma, può perdersi l’elemento umano dell’intento collusivo, dell’”incontro di volontà” richiesto dalla normativa antitrust. In conclusione, l’Autorità è attenta agli sviluppi dei mercati digitali e ai fenomeni connessi. Teniamo gli occhi aperti, ma anche voi, la stampa, aiutateci a guardare. *Michele Ainis è un giurista e costituzionalista italiano. editorialista del quotidiano La Repubblica, Dall’8 marzo 2016 è componente dell’AGCM, Autorità garante della concorrenza e del mercato Tasse, ecco quanto evadono Facebook e Google ROMA – Se Facebook e Google avessero pagato regolarmente le tasse in
Italia, come tutte le normali società che operano sul territorio italiano, il Fisco nel triennio 2013-2015 avrebbe incassato quasi un miliardo di euro . Le imposte eluse sul territorio ammontano, rispettivamente, a 549 e 370 milioni di euro secondo quanto emerge dalle elaborazioni di Lef, l’associazione per la legalità e l’equità fiscale, e presentate nel corso del convegno “Multinazionali e fisco, quali prospettive per il futuro”. Estendendo il calcolo all’Unione Europea la cifra di mancati incassi fiscali arriva a 5,4 miliardi di euro. Nel 2016 Facebook, Apple, Amazon, Airbnb e Tripadvisor hanno complessivamente pagato in Italia le stesse imposte sul reddito, quanto pagato della sola Piaggio. Per Lef la soluzione piu semplice per recuperare le risorse perdute resta l’applicazione di un prelievo alla fonte sui ricavi lordi facilmente tracciabili. Ma facendo attenzione comunque a possibili effetti negativi che potrebbe produrre l’introduzione unilaterale e non coordinata con l’ Unione Europea di una tassazione delle multinazionali del web. “La competizione assume carattere ‘patologico‘ – spiega la ricercatrice, Tamara Gasparri – perché, nella più assoluta riservatezza, alcuni Paesi europei hanno consentito alle grandi multinazionali digitali di adottare schemi di pianificazione fiscale in grado di fare scendere le aliquote effettive fino allo 0,003%. Il territorio comunitario, con in testa Irlanda, Lussemburgo e Olanda, è
diventato l’hub privilegiato di formazione di redditi non tassati o apolidi”. Secondo il viceministro dell’Economia, Luigi Casero la tassazione delle multinazionali digitali “è il tema fondamentale delle politiche fiscali nei prossimi anni“. “Dalll’obbligo di intervenire su questo campo – aggiunge – dipendono alcuni miliardi di tasse, non piccole somme Quanto può andare avanti un sistema economico dove alcune imprese pagano il 20% e altre lo 0,01%?“. Per disciplinare un contesto in “continua e rapida trasformazione” il viceministro fissa tre pilastri: “non frenare lo sviluppo del digitale“, “non gravare sui consumatori” tassando “le corporation e i profitti apolidi e non gli utenti” e valorizzare ogni apporto alla discussione su questo tema. In vista del Digital Summit in corso Tallinn, in Estonia, che si concluderà domani i 4 grandi hanno definito la proposta comune: assicurare che per l’Iva lo stesso contenuto, prodotto o servizio sia soggetto all’imposta nello Stato membro Ue di consumo indipendentemente dalla natura fisica o digitale.Tassazione del reddito d’impresa in modo che i profitti tassabili, inclusi quelli derivanti da attività digitali, “siano attribuiti in modo appropriato là dove viene creato il valore“. Per le imprese che spostano in paesi non Ue i profitti tassabili ottenuti nel mercato interno, “per rimpatriare nella Ue la quota di imposizione indebitamente trasferita offshore, la Ue potrebbe esplorare opzioni per un prelievo compensativo nel settore digitale (equalisation levy)“. I ministri avevano chiesto di definire una webtax “sul fatturato generato in Europa dalle società digitali“. Nel paper che illustra la posizione dei quattro leader europei si afferma che “l’economia digitale ha conseguenze profonde sul modo in cui funziona il business e il modo in dovrebbe essere tassato“. Questo comporta “una profonda revisione degli attuali sistemi fiscali”. In particolare sull’Iva “non ha senso applicare un doppio standard che altererebbe le condizioni competitive del mercato e la capacita’ di crescita del business“. In relazione alla tassazione del reddito di impresa, l’attuale sistema per l’imposta sui profitti delle multinazionali si fonda sulla presenza fisica delle imprese e sulle funzioni condotte dagli staff. La tabella di marcia decisa a livello europeo prevede che i 28 Paesi assumano una decisione entro l’anno e che nella primavera del 2018 la Commissione Ue presenti un progetto legislativo.
La banca non si fida ? Adesso ci pensa Amazon a finanziare le Pmi ROMA – Nell’era di Internet vale ancora la pena di affidarsi alle banche per sviluppare la propria attività ? La banca sarà qualcosa che resisterà ancora negli anni a venire o forse come sostiene qualcuno “stiamo perdendo tempo e fiumi di inchiostro, nonché soldi pubblici” per un business destinato a cambiare radicalmente nei prossimi anni e che finirà sotto il controllo di altri soggetti ? Quando si leggono notizie come questa: “Amazon punta a rafforzare “Amazon lending”, un servizio per una serie di Pmi selezionate che vendono i propri prodotti sul sito del colosso dell’e-commerce, viene da riflettere . Partito sei anni fa, senza alcun lancio pubblicitario, consente di ottenere prestiti dalla società americana, rimborsabili in dodici mesi a tassi di tutto rispetto tra il 6 e il 17 % in linea con il mercato finanziario americano. Amazon lo ha fatto nel suo stile, infatti i prestiti vengono concessi “a inviti” sulla base di algoritmi interni dei propri sistemi informatici che analizzano la popolarità dei prodotti di un venditore, la frequenza con cui si esauriscono le scorte e i cicli d’inventario. Ad onor del vero sino ad oggi non ha sviluppato grandissimi numeri: ha erogato prestiti per 3 miliardi di dollari, di cui uno nel corso dell’ultimo anno. Adesso però Amazon vuole pensare più in grande e contare anche in questo settore – come ha raccontato il Financial Times – prevede di ampliare l’offerta per gli oltre 2 milioni di aziende che usano il “marketplace” e che quindi già retribuiscono Amazon per immagazzinare, imballare e consegnare per loro conto i prodotti ai clienti. Amazon ha individuato in particolare,Stati Uniti, Inghilterra e Giappone come i primi tre paesi cui dedicherà maggiormente le sue attenzioni per il nuovo servizio. Procede la realizzazione del nuovo Centro di Distribuzione di Amazon
nel Lazio Oggi a Passo Corese, frazione del Comune di Fara in Sabina (RM), Amazon ha illustrato lo stato di avanzamento dei lavori del secondo Centro di Distribuzione in Italia, che sarà operativo in autunno. All’evento erano presenti il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il Sindaco di Fara in Sabina Davide Basilicata, insieme a Roy Perticucci, Vice Presidente Operations Europe di Amazon e al Vice Presidente e Country Manager di Amazon Italia e Spagna François Nuyts. Il nuovo centro di distribuzione da 60.000 m2 di Passo Corese – a soli 30 km a nord di Roma – consentirà ad Amazon di rispondere alla crescente domanda dei consumatori italiani, garantendo consegne puntuali e affidabili nel Centro-Sud Italia. Amazon ha pianificato €150 milioni di investimenti nella struttura che entrerà in funzione in autunno. Roy Perticucci, Vice Presidente Operations Europe di Amazon ha dichiarato: “La costruzione del centro di distribuzione di Passo
Corese è un ulteriore passo avanti nel nostro percorso di sviluppo in Italia e del nostro impegno nel migliorare l’efficienza e la flessibilità delle nostre consegne. Siamo in linea con i tempi previsti per terminare la costruzione della struttura e avviare l’attività nel 2017. Siamo convinti di poter beneficiare inoltre dallo sviluppo infrastrutturale che il Paese ha intrapreso. Per soddisfare le aspettative dei nostri clienti alla luce del costante aumento dei volumi, siamo chiamati a rispondere a nuove sfide e abbiamo bisogno del supporto del settore dei trasporti affinché riesca a garantire un’efficiente movimentazione delle merci sette giorni su sette. Questo miglioramento delle infrastrutture e dei trasporti è un requisito fondamentale per la competitività del Paese e per lo sviluppo delle sue imprese tecnologicamente più avanzate, compreso il settore dell’e- commerce”. François Nuyts, Amazon Vice Presidente e Country Manager di Amazon Italia e Spagna ha aggiunto: “Il modo in cui stiamo sviluppando questo progetto rappresenta per Amazon un perfetto esempio della relazione trasparente e collaborativa che vogliamo costruire e consolidare con le comunità locali, le istituzioni, le associazioni imprenditoriali e i consumatori. Oggi vediamo un notevole aumento delle imprese, di tutte le dimensioni, che beneficiano dell’utilizzo del nostro marketplace per vendere i propri prodotti in tutta Europa e nel resto del mondo. Il nostro obiettivo è offrire nuovi ed efficienti strumenti e servizi alle imprese italiane, consentendo loro di crescere e prosperare raggiungendo milioni di nuovi clienti”. Eric Veron, Managing Director dello sviluppatore Vailog ha espresso la propria soddisfazione per l’avanzamento dei lavori presso il sito, e ha dichiarato: “Apprezziamo il fatto che un’azienda globale come Amazon abbia deciso di collaborare con noi a un progetto strategico come questo. I lavori sono iniziati nel mese di agosto dello scorso anno, il nuovo collegamento all’autostrada è stato completato così come la struttura portante dell’edificio”.
Presente il Ministro delle infrastrutture Graziano Delrio che ha sottolineato: “Nel passato l’Italia è rimasta indietro nelle infrastrutture anche perché la logistica non è mai stata al centro dell’attenzione. Ciò che serve sono investimenti accompagnati da una forte semplificazione burocratica in un quadro di scelte strategiche concrete. L’Italia è davvero la porta d’ingresso delle merci per l’Europa, e la scelta di Amazon di continuare a investire sul nostro Paese è la prova di ciò e della nostra capacità di offrire una rete infrastrutturale, e Amministrazioni locali che funzionano, in grado di sostenere il crescente sviluppo dell’e-commerce. Oggi, e così nei prossimi anni, l’Italia è chiamata ad affrontare la sfida della crescita del commercio online anche ai fini dell’internazionalizzazione delle nostre imprese, e al centro di ciò deve esserci l’innovazione della logistica e l’ottimizzazione dei trasporti: stiamo lavorando a questo sviluppo, e sono fiducioso del fatto che il nostro Paese nella sua interezza sia capace di lavorare insieme e centrare in questo modo gli obiettivi che ci siamo posti”. Il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti anch’egli presente nella nuova sede di Amazon a Passo Corese ha dichiarato: “Gli investimenti di Amazon a Passo Corese dimostrano che la nostra è una regione aperta, capace di attrarre importanti soggetti internazionali e in cui le imprese
possono trovare opportunità di ampliare la propria attività. Siamo quindi felici della scelta di Amazon, che rafforza il sistema Lazio e crea nuova occupazione, con 1.200 posti di lavoro a tempo indeterminato. Sono lieto di vedere concretamente che questo progetto sta realmente e rapidamente diventando realtà”. “Sono profondamente orgoglioso – ha dichiarato Davide Basilicata, Sindaco di Fara in Sabina – che un’azienda straordinaria e dinamica come Amazon, abbia scelto la nostra amata Fara in Sabina per insediare un nuovo, importante ed avveniristico hub logistico. Lavoreremo in stretta sinergia affinché l’enorme investimento fatto dall’azienda, diventi anche un decisivo volano per la crescita economica della nostra città, in termini sia occupazionali che di indotto. Siamo pronti a gestire questa importante sfida per il nostro territorio, che diventerà uno dei centri maggiormente strategici del centro-sud Italia. Una sfida che siamo certi di vincere, insieme ad Amazon, ed a tutti i nostri cittadini”, Dopo la presentazione del progetto, l’evento è proseguito con un tour al cantiere guidato da Roy Perticucci. Il Vice Presidente Operations Europe di Amazon ha illustrato ai presenti dove saranno posizionate le strutture del centro una volta che sarà operativo e le funzioni e le attività che saranno svolte in ciascuna area. La visita si è conclusa con il simbolico interramento di una capsula del tempo contenente un Dash Button, l’ultimo modello del Kindle, il libro (Harry Potter e la maledizione dell’erede), l’album musicale (Il mestiere della vita di Tiziano Ferro) e il film (Inside Out) più venduti su Amazon.it nel corso del 2016. Nella capsula sono stati inoltre inseriti i disegni dei bambini di Fara in Sabina, raffiguranti la loro visione sul futuro e pensieri scritti da parte degli studenti di medie e superiori, che prendono in esame la stessa tematica. L’iniziativa è stata pensata per incoraggiare i giovani ad esprimere le loro aspettative, i loro sogni e i loro progetti per il domani, rendendoli partecipi a questa importante iniziativa che offrirà nuove opportunità per le nuove
generazioni. La capsula sarà aperta il 10 febbraio 2027. Il nuovo centro di distribuzione sarà un rilevante fattore di crescita economica e occupazionale per la provincia di Rieti, creando fino a 1,200 posti di lavoro entro tre anni dal lancio. I salari dei dipendenti di Amazon sono i più alti del settore della logistica, e sono inclusi “benefit” come gli sconti per gli acquisti su Amazon.it, l’assicurazione sanitaria privata e assistenza medica privata. Amazon offre inoltre opportunità innovative ai propri dipendenti come il programma Career Choice, che copre per quattro anni fino al 95% dei costi della retta e dei libri per corsi di formazione scelti dal personale. Fin dalla progettazione e durante la costruzione della nuova struttura Amazon ha seguito un approccio in linea con il proprio piano di sostenibilità, con l’obiettivo di conseguire la certificazione BREEAM (Building Research Establishment Environmental Assessment Method) con valutazione “Very Good”. Tale approccio include il miglioramento dell’efficienza energetica complessiva dell’edificio, la riduzione delle emissioni di CO2, il risparmio dell’acqua e il controllo del consumo di acqua potabile, l’utilizzo di materiali a basso impatto ambientale e un alto livello di isolamento termico e sonoro, l’adozione di una strategia di gestione efficiente dei rifiuti in fase di costruzione e il coinvolgimento di qualificati ecologisti ed esperti di tutela del paesaggio fin dall’avvio del progetto. Gli investimenti di Amazon in Europa e in Italia . Fin dal suo ingresso nel Paese nel 2010, Amazon ha investito più di €450 milioni e ha creato più di 2.000 posti di lavoro in Italia. Il centro di distribuzione Castel San Giovanni, primo sito logistico di Amazon in Italia, è stato inaugurato nel 2011. Nel novembre 2015 Amazon ha aperto il suo centro di distribuzione urbano da 1.500 m2 a Milano per servire i clienti Amazon Prime Now. Nel luglio del 2016 l’azienda ha annunciato la realizzazione di un nuovo centro di distribuzione a Passo Corese (RI) nel Lazio, con un investimento da € 150 milioni e la creazione di 1.200 posti di lavoro entro tre anni dall’avvio dell’attività. Nei mesi di settembre e ottobre dello scorso anno Amazon ha aperto tre depositi di smistamento ad Avigliana (TO), Origgio (VA) e Rogoredo (MI). Lo scorso dicembre Amazon ha annunciato la realizzazione di un ulteriore centro di distribuzione a Vercelli, con un investimento di €65 milioni, presso il quale saranno creati 600 posti di lavoro entro tre anni dall’avvio dell’attività. Oltre a questi investimenti nello sviluppo della propria rete logistica in Italia, Amazon ha aperto i propri uffici corporate a Milano nel 2011 e il proprio centro di
assistenza clienti italiano a Cagliari. Nel mese di luglio dello scorso anno, l’azienda ha inoltre annunciato che a Torino aprirà un centro di sviluppo per la ricerca sul riconoscimento vocale e la comprensione del linguaggio naturale e supporterà la tecnologia già utilizzata per l’assistente vocale Alexa, che al momento è disponibile solo in lingua inglese per servizi e prodotti come Amazon Echo, Echo Dot, Amazon Fire TV e Amazon Tap. Per salvare il giornalismo occorre vincere la battaglia delle “bufale” digitali di Claudio Giua* In termodinamica l’entropia è la misura del grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un dato momento. Descrive cioè il caos, che aumenta a ogni cambiamento del sistema osservato. Il concetto di entropia viene utile anche in sociologia e politica. Dagli albori dell’umanità il caos cresce perché, all’innalzarsi del numero di esseri pensanti, si moltiplicano le interazioni. Non è uno sviluppo lineare, ci sono discontinuità forti come le guerre, le epidemie, le carestie, le migrazioni, le tensioni sociali e razziali, i conflitti economici e religiosi. Influiscono anche eventi storicamente minori: per esempio, in queste settimane l’entropia italiana è condizionata dalle conseguenze del referendum costituzionale, dal pasticcio grillino a Roma, dall’attacco bretone a Mediaset, dalla crisi bancaria.
Infine, ci sono le tecnologie. Dalla forgia alla ruota, dalla macchina a vapore al chip, ogni innovazione fa salire l’entropia. Gli strumenti abilitanti dei rapporti unidirezionali da-uno-a-molti (i libri, i giornali, le radio, le televisioni) e bidirezionali uno-a-uno/molti-a-molti (la posta, i telefoni, le chat, i social) paradossalmente non riducono l’entropia. Anzi. E nessun mezzo di comunicazione, nemmeno la tv, ha avuto gli effetti che la rete e, in particolare, i social network stanno producendo nell’influenzare, facendole interagire, enormi masse di persone. Che in larga misura sono cittadini ed elettori che inconsapevolmente si prestano a che l’entropia salga, salga, salga. Torniamo all’Italia e all’Europa. Da noi l’entropia sociopolitica avrò un picco nell’imminenza delle elezioni politiche, da convocare una volta sistemata l’incresciosa faccenda della legge che non c’è. Anche i cittadini francesi, tedeschi e olandesi saranno chiamati alle urne nel 2017. Nemmeno quelle saranno elezioni serene. Temi come l’immigrazione e il terrorismo islamico hanno avvelenato i pozzi sociali e politici; è tutt’altro che risolto il confronto tra chi impone l’austerità e chi propone investimenti per lo sviluppo; la nuova leadership americana creerà sconquassi. Tutti fenomeni con vastissima eco digitale. In questo scenario sono
prevedibili cyberattacchi e bufale digitali come piovesse. Analogamente a quanto accaduto nell’ultimo anno negli Stati Uniti (agli scettici sull’argomento consiglio la lettura del commento di Paul Krugman sul New York Times del 13 dicembre), Putin condizionerà con i suoi hacker i risultati dei voti europei per favorire gli amici della Russia, piazzati a destra e tra i nuovi populisti che da noi hanno i propri campioni in Salvini e Grillo. Saranno proprio loro i megafoni inconsapevoli della nuova disinformatja che viene da est. Perché le campagne elettorali si faranno nelle piazze, nei talk show e sui giornali ma si decideranno sulla rete. Più specificatamente, su Facebook, su YouTube, su Twitter. Se ne sono accorti perfino a Bruxelles, dove la velocità d’esecuzione è di solito opzionale: nelle sue ultime direttive la Commissione Europea raccomanda agli enti pubblici di concentrarsi sui contenuti da collocare subito sulle piattaforme di comunicazione sociale e di smetterla con i siti, inutili e obsoleti. Un paio di conferme empiriche. Mio nipote, 23 anni, non segue le dirette tv di Sky Tg24 né quelle di Radio Radicale. Eppure il 18 dicembre, pochi minuti dopo l’intervento di Roberto Giachetti che verrà ricordato per l’invettiva “Roberto Speranza, hai la faccia come il culo“, ha condiviso su YouTube con decine di migliaia di under 30 la clip dall’Assemblea del PD. Tutta la comunicazione che conta passa da lì, dalle piattaforme social. Sulle quali i messaggi hanno intrinsecamente – in forza di: “…me l’ha segnalato un amico di cui mi fido” – un’efficacia superiore a quella del web tradizionale dei siti e dei “portali”, nel quale prevale la rankizzazione del notiziario. Non è un sociologo della politica eppure l’analisi-snack di Fabio Rovazzi, 22 anni, è illuminante: “Su Internet io e quelli della mia età troviamo parecchie cose divertenti e curiose. Che ci portano via tutto il tempo a disposizione“. Il problema è che nella top five delle “cose divertenti e curiose” indicate dal rapper di “Andiamo a comandare” (104 milioni di visualizzazione su YouTube) e “Tutto molto interessante” (31 milioni in meno di un mese) si collocano le post-verità, cioè le
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