Scandalo Datagate: la psicosi dei nomi falsi e delle foto di repertorio per difendersi dal "grande fratello" - Il Corriere del Giorno

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Scandalo Datagate: la psicosi dei nomi falsi e delle foto di repertorio per difendersi dal "grande fratello" - Il Corriere del Giorno
Scandalo Datagate: la psicosi dei
nomi falsi e delle foto di
repertorio per difendersi dal
“grande fratello”
di Paolo Campanelli

                                           Il “Datagate”, come è stato
soprannominato dalla stampa americana, ha scatenato reazioni in giro
per il mondo, ma come spesso accade in questi casi, la maggior parte
delle persone crede di sapere di che cosa si parli, mentre la realtà è
nettamente differente. Il cuore del problema riguarda le scorse
elezioni amministrative americane, nettamente differenti da quelle
nostrane, e su come i politici si facessero pubblicità, e si può
riassumere su come, utilizzando i dati raccolti dal gruppo di
Cambridge Analytica, alcuni politici avrebbero avuto vantaggi
scorretti su altri, in quanto potevano investire in campagna
elettorale in aree specifiche anziché su tutto il territorio.

L’utente medio di Facebook però, è convinto che non usare il proprio
nome, non indicare la propria età e negare l’amicizia a tutti quegli
amici che potrebbero rivelare la sua identità sia una difesa
impenetrabile, per difendersi dall’essere schedato in ogni momento,
ogni luogo, ogni gabinetto. E questa si chiama “psicosi“,
principalmente perché non sono quelle le informazioni che sono
coinvolte: quelli che questi sistemi prendono in analisi, e che hanno
portato a questa situazione sono i Metadati.
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Un metadato (dal greco μετὰ
“oltre, dopo” e dal latino datum “informazione“), letteralmente
“(dato) oltre un (altro) dato“, è un’informazione che descrive un
insieme di dati. I metadati rappresentano un metodo sistematico per la
descrizione delle risorse informative e per migliorarne l’accesso e la
gestione

I metadati nascono come strumento per semplificare il lavoro dei
bibliotecari, si trattava infatti di schede ordinate per genere che
riportavano le posizioni dei libri sugli scaffali, permettendo così di
trovare in pochi minuti un libro nella orami così lontana era
analogica. Con la nascita del digitale, il termine “Metadato” è andato
a indicare tutta una serie d’informazioni normalmente non visibili, o
comunque non immediatamente evidenti, che riguardano file e pagine
web.

Con i metadati si può facilmente sapere se un’immagine è originale o
rielaborata, quando un documento di testo è stato modificato l’ultima
volta, quanto a lungo un utente è rimasto su di una pagina web, quanto
spesso una pagina sia visitata, se si è arrivati ad un sito
direttamente o tramite link da altri siti e molto altro.
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I metadati sono estremamente utili per i gestori dei siti che offrono
servizi, come Amazon o Youtube, per concentrarsi sul migliorare il
servizio stesso, per i ricercatori e per chi fa informazione, per
poter comprendere una determinata situazione on-line o per comprendere
quali sono le notizie più di tendenza che il pubblico cerca e quelle
che non interessano. Tuttavia, sfuggendo completamente alla psicosi,
questi dati sono significativi solo quando sono in grande numero e
indipendenti dall’utente effettivo. Non è importante chi ha letto una
notizia, è importante quanti lo hanno fatto e quanto a lungo sono
rimasti sulla pagina (paragonabile a “quanto della notizia hanno
letto”)

Differente è l’uso “ad personam” dei metadati: questa specifica branca
di metadati è quella che influisce, in maniera più o meno efficace,
sulle funzioni dedicate direttamente all’utente specifico, ad esempio
la lista di video consigliati su Youtube, influenzata da i video visti
recentemente, o i banner pubblicitari su alcuni siti. Questi dati sono
tutt’altro che precisi, continuando a offrire le stesse scelte per
lungo tempo anche quando l’attenzione dell’utente si è spostata da
tempo o paradossalmente, quando la ricerca originale si consuma nella
stessa, ma i banner continuano a proporre per mesi e mesi gli stessi
risultati . per esempio, essere costretti ad utilizzare il sito di
un’agenzia funebre che usa queste pubblicità tende purtroppo a far
vedere altre pubblicità di offerte su bare e loculi per lunghi
periodi.

L’uso dei metadati è autorizzato da parte dell’utente come clausola di
iscrizione nelle condizioni d’uso di ogni social network, che ogni
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utente deve accettare per potersi iscrivere, e in modo più limitato,
da cookie utilizzati dalla stragrande maggioranza di siti per vari
fini, che ora sono presentati agli utenti quando si connettono ad un
sito per la prima volta.

La questione centrale di questo scandalo è centrata su come Facebook
abbia ceduto determinati metadati, violando le sue stesse norme di
Privacy, inconsapevolmente, almeno sulla carta; la paura è che altre
organizzazioni abbiano avuto accesso a questi dati significativi, se
non tramite Facebook, via altri social network come Instagram, Twitter
o Tumblr (quest’ultimo a sua volta impegnato in una caccia alle
streghe contro hacker russi al momento dello scandalo).

Cambridge Analytica ha raccolto dati specifici, relativi alle elezioni
americane, e indiscrezioni non confermate affermano anche riguardo
alla Brexit; vi sono congetture che alcuni partiti italiani abbiano
avuto la possibilità di utilizzare simili mezzi, ma nessuna prova
tangibile all’atto pratico, ne effettive azioni intraprese durante le
ultime campagne elettorali che alzino sospetti al riguardo

In conclusione, a nessuno interessano i dati sul pensiero politico
dell’italiano medio in rete, poichè come più volte abbiamo indicato
noi del Corriere del Giorno, la propaganda politica all’italiana si
basa su altro, ed è molto più pericoloso un hacker quasi improvvisato
che utilizza comuni virus, che un Grande Fratello intenzionato a
tenere d’occhio la nostra cultura

Dr. Facebook e Mr. Hide
di Roberto Sommella*
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Quando su Facebook si ricordano i 50 milioni di morti della seconda
guerra mondiale e qualcuno grida alla propaganda invece di ripassare
la storia, emerge con nettezza qual è il vero problema dell’abuso dei
social network: la perdita della memoria collettiva e l’avvento di un
nuovo senso delle cose.

 C’entra poco per chi si vota e come si può essere influenzati
dall’uso distorto dei dati personali che si regalano ogni secondo alla
rete. È stato ormai dimostrato come il web amplifichi i propri
pregiudizi, piuttosto che sfatarli. Se uno nasce trumpiano
difficilmente diventa democratico a colpi di “like”. Forse va più
volentieri alle urne, ma non cambia idea.
Piuttosto le ultimissime ricerche in questo campo del mondo di mezzo,
tra il reale e il virtuale, si sono concentrate sulla modifica della
percezione di se stessi, un aspetto molto più importante perché
costituisce la base della società in tutte le manifestazioni della
vita quotidiana.

Per questo, fatte le dovute verifiche sul reale utilizzo dei 50
milioni di profili effettuato dalla Cambridge Analytica, che avrebbe
influenzato le elezioni americane, la Brexit, forse anche le
consultazioni italiane, e incassate le previste scuse del patron del
gigante blu, Mark Zuckerberg, terrorizzato di veder sgonfiare il suo
mondo dorato a colpi di ”delete”, occorre spostare il tema su almeno
tre piani, relativi alla riservatezza dei propri profili, agli aspetti
psicanalitici e a quelli economici.

Dal punto di vista della privacy, come ha sottolineato un esperto del
settore quale Claudio Giua, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa,
il nodo da affrontare e sciogliere è la mancata applicazione da parte
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di Facebook di adeguate misure di sicurezza emersa dalla vicenda, ”che
nulla ha a che fare con la completezza finanche eccessiva dei dati
personali raccolti”.

C’è da chiedersi se a ribaltare la situazione basterà l’applicazione,
prevista per il 25 maggio, della GDPR, la General Data Protection
Regulation, il complesso di norme messe a punto dall’Unione Europea al
fine di garantire un quadro entro il quale i dati degli utenti siano
immagazzinati in modalità corrette e trattati nel rispetto della
volontà delle parti coinvolte.

Il regolamento comunitario rafforza le informative per la raccolta dei
consensi, limita il trattamento automatizzato dei dati personali,
stabilisce nuovi criteri sul loro trasferimento fuori dell’Unione e,
soprattutto, colpisce le violazioni. In sostanza pone le basi per il
riconoscimento di una sorta di diritto d’autore sui Big Data. Sarebbe
un passo decisivo, perché risulta difficile accusare qualcuno di aver
utilizzato la propria auto come un taxi, intascando i profitti, senza
poter dimostrare la proprietà del mezzo. È proprio quello che sta
accadendo con il “caso Datagate“, che potrebbe risolversi in un nulla
di fatto e solo qualche scossone in borsa.
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Se davvero passerà una
simile interpretazione, per la prima volta, queste norme sulla tutela
dei dati personali nell’Unione Europea, che ha progettato anche una
web tax sul fatturato, saranno pienamente valide anche per chi ha sede
extracomunitaria, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, cui
risulterà più difficile eludere le responsabilità finora solo
formalmente assunte nei confronti degli utenti.

Per quanto riguarda il secondo punto di vista che si deve affrontare,
viene in aiuto una recentissima pubblicazione di una neuro scienziata,
ricercatrice al Lincoln College dell’Università di Oxford, Susan
Grenfield.

In “Cambiamento mentale” appena tradotto in italiano, questa baronessa
premiata con la bellezza di 31 lauree honoris causa in mezzo mondo,
esamina come le tecnologie digitali stiano modificando il cervello. E
a proposito dei social network, Grenfield scrive:

    ‘‘gli utilizzatori di Facebook sono più soddisfatti delle
    proprie vite quando pensano che i propri amici di Facebook
    siano un pubblico personale a cui trasmettere unilateralmente
    informazioni, rispetto a quando hanno scambi reciproci o più
    relazioni offline con contatti ottenuti online”.

Le relazioni digitali sarebbero quindi ”legate a una minore
depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione
alla propria vita”. Esattamente quello che intendeva Zuckerberg
quando stilò il suo Manifesto, dove parlava della possibilità di
governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la
rete, esaltando le relazioni personalivirtuali: ”Tutte le soluzioni
non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un
ruolo“. Un po’ quello che temeva George Orwell in 1984. Il problema è
capire che ruolo ha la rete nei disturbi della personalità.
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Nel campo della salute mentale, secondo lo psichiatra Massimo
Ammaniti, si tende a valorizzare l’uso dei Big Data in quanto offrono
nuove opportunità per la ricerca data, l’ampiezza sconfinata dei
campioni, ma allo stesso tempo vengono sollevate perplessità sulla
“veracity” e sulla “unreliability” delle informazioni provenienti da
varie fonti.

Riguardo alla “veracity”, la ”veridicità”, ci si chiede se i dati
raccolti senza una prospettiva di ricerca possano essere utilizzabili.
Avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti come pesa
sull’immagine di sé e sulla propria autostima?

Non ci si valuta come persona, ma come “informant” che serve al
mercato, non ci si valuta per quello che si è ma per quello che ognuno
vale. Quando si entra in un data base fornendo le proprie informazioni
personali – per esempio come quello di Cambridge Analytica – si accede
a un universo di categorie che verranno definite.
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Forse ci si potrà chiedere che uso verrà fatto delle informazioni che
ci riguardano e chi saranno coloro che utilizzeranno questi dati per
pianificare le nostre vite. Può prendere corpo uno scenario appunto
orwelliano, un mondo distopico, in cui si è costretti a vivere dove
viene meno il senso agente di sé perché qualcun altro decide del
nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza.

In campo psichiatrico per descrivere l’esperienza di
spersonalizzazione vissuta dai malati mentali si è fatto riferimento
al concetto di ”pseudocomunità paranoide”, nella quale ci si sente
preda di cospirazioni e raggiri senza sapere chi siano gli attori e i
protagonisti, per cui è impossibile riuscire ad orientarsi e
difendersi.

Un articolo dell’American Journal of Epidemiology, citato in
un’inchiesta della London Review of Books, ha sostenuto che a un
aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti
corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale.
Difficile pensare che tutte queste informazioni possano servire a
sovvertire i regimi democratici, magari si vende più pubblicità.
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La domanda più pragmatica da porsi è perciò un’altra. Se cambia la
personalità usando internet, cambiano anche le scelte commerciali?
Questa è la terza frontiera che si deve analizzare. Oggi si conosce
cosa accade in sessanta secondi sul web.

In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook,     si
inviano 452.000 “cinguettii” su Twitter, si vedono 4,1 milioni       di
video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google,   si
postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni       di
messaggi.

Sean Parker, ex-socio di Mark Zuckerberg
I calcoli del World Economic Forum fanno riflettere ma non dicono
quanto di se stessi si lascia nel momento in cui si riversano
nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha
fornita proprio l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker, ben prima
che scoppiasse il Datagate: Facebook sarebbe un loop di ”validazione
sociale basato su una vulnerabilità psicologica umana che cambia
letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli
altri’‘. Proprio quello che sostengono luminari come Grenfield e
Ammaniti.

È del tutto evidente che non esiste quindi soltanto il problema di
come trattare e proteggere i dati personali ma anche di valutarne a
questo punto l’affidabilità e la veridicità in tutti i gesti
quotidiani. Quando si acquista un bene e si viene profilati, quando si
esprime un parere e ci si sottopone al giudizio del pubblico virtuale,
quando si esercita la massima espressione delle libertà personali in
democrazia, il voto.

Se dietro a tutte queste manifestazioni c’è ormai una sagoma sbiadita
di un’identità, qualcosa la cui verosimiglianza è a rischio, il lavoro
controverso e criticato di Cambridge Analytica e di chissà quante
altre società, diventa solido come un castello di carte. La fake news
saremo noi.

*Direttore Relazioni Esterne Autorità Antitrust, fondatore de La Nuova
Europa

Raddoppiata la multa per chi mentre
guida la macchina parla al telefono
ROMA – Iniziano ad arrivare i nuovi emendamenti alla manovra che
saranno al vaglio dalla prossima settimana della Commissione Bilancio
della Camera dei Deputati . Sono migliaia quelli attesi per la manovra
che la scorsa settimana ha ricevuto il via libera dal Senato. Una
serie di misure che i parlamentari cercano di inserire in questo
ultimo periodo “utile” verso la fine della legislatura, alcune delle
quali in realtà hanno ben poco o quasi niente a che fare con
problematiche finanziarie e ricadute sui conti pubblici .
La Commissione Trasporti
della Camera ha presentato ed approvato alcuni emendamenti che
prevedono sanzioni raddoppiate (che arrivano fino a 1.294 euro) per
l’uso degli smartphone alla guida, e fino a sei mesi di sospensione
della patente, nonché l’obbligo di dispositivi di allarme anti-
abbandono per i seggiolini dei bambini in macchina. Torna in ballo
anche l’ipotesi di una tassa sul fumo che era stata inizialmente
proposta al Senato, ma dopo lo stralcio a Palazzo Madama torna adesso
al vaglio della Camera. La Commissione Affari sociali a sua volta ha
presentato infatti un emendamento che prevede il rifinanziamento per
604 milioni del fondo sanitario con la tassa sui tabacchi. Una misura
che potrebbe far salire fino a 20 centesimi in più il prezzo di un
pacchetto di sigarette .

Oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti, mentre
mercoledì 13 inizieranno le votazioni. Il lavoro si concentra alla
Camera dei Deputati soprattutto sul lato delle entrate, visto che le
risorse disponibili sono particolarmente limitate. Il presidente della
Commissione Bilancio Francesco Boccia ha proposto di far partire già
da gennaio la “Web-tax” all’italiana con un’aliquota che scende dal 6
all’1-2 per cento, ma estende la misura anche all’e-commerce.
Un’iniziativa a dir poco vergognosa, che da un lato agevola gli affari
delle “major” americane del web, come Google, Facebook, Amazon, ecc.
mentre dall’altro penalizza lo sviluppo del commercio elettronico in
Italia, rispetto a tutti gli altri paesi del mondo. La manovra è
attesa in aula martedì 19 dicembre, dove molto probabilmente sarà
votata con la fiducia per passare poi entro Natale al Senato per il
via libera definitivo e sarà uno degli ultimi atti di questa
legislatura parlamentare.

Tra i numerosi emendamenti presentati in Commissione Bilancio c’è poi
quello del Partito Democratico per ridurre la durata massima dei
contratti a tempo a 24 mesi rispetto agli attuali 36 . Vi è inoltre
l’intento di favorire l’assunzione dei dottorandi e rivedere il
settore delle politiche attive, tema sul quale i parlamentari della
Commissione Lavoro puntano a raddoppiare le mensilità che spettano al
lavoratore in caso di licenziamento e alla riforma dell’Inps.
Anche la commissione Giustizia ha approvato il suo pacchetto di
misure: tra queste la richiesta di inserire in manovra una parte della
riforma del processo civile per introdurre il procedimento
semplificato davanti al giudice monocratico. Misura che, nonostante
fosse stata presentata con alcune modifiche, era stata fortemente
criticata da magistrati e avvocati motivo per cui era stata ritirata
al Senato . Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente,
presenterà invece un emendamento concordato col Governo per vietare
dal 2019 la vendita dei cotton fioc non biodegradabili «come
prescrivono le norme comunitarie».

Economia digitale e Big Data
di Michele Ainis*

                                           Il dibattito ha fornito
molte indicazioni sui principi che guidano l’Autorità Antitrust
nell’applicazione delle norme a tutela della concorrenza e del
consumatore nel contesto dell’economia digitale. Ed è stato utile
ricordare alcuni interventi assunti dall’Autorità di recente. Come
hanno avuto modo di osservare i vari oratori, l’Autorità ha strumenti
adeguati anche di fronte ai nuovi fenomeni determinati
dall’innovazione digitale.

Non è necessaria la revisione del cosiddetto “tool-box” per affrontare
le sfide poste dall’innovazione digitale; si tratta piuttosto di
realizzare un ripensamento delle modalità con le quali applicare gli
strumenti tradizionali dell’analisi a un contesto fortemente mutato.
D’altronde le norme europee a tutela della concorrenza (e quindi
quelle italiane) hanno mostrato di possedere una felice
caratteristica: una formulazione ampia, che le rende flessibili ad
adattarsi alla mutevolezza del contesto al quale vengono applicate.

L’innovazione introdotta da Internet comporta molte opportunità, però
implica anche rischi, per i consumatori e per le imprese. L’economia
digitale ha permesso scambi, transazioni un tempo impensabili in
termini di rapidità e mole dei dati scambiati. E’ oggi possibile
l’incontro tra agenti economici che prima non si sarebbero mai
incontrati, se non sostenendo costi di transazione elevatissimi. I
social media consentono la comunicazione e lo scambio di idee in tempo
reale, tra tutti gli individui. Ma proprio su questo punto è opportuna
una riflessione. Ed è diventato urgente riflettere sulla profilazione
di cui si è parlato questa mattina.

                                           Come ha ricordato il
Presidente dell’ Antitrust Pitruzzella , si tratta di un fenomeno che
può avere un impatto diverso, a seconda che coinvolga l’individuo
nella sua veste di consumatore o di cittadino. E allora provo a
declinarne gli effetti su entrambe le categorie. Il cittadino La
libertà di manifestazione del pensiero rappresenta la «pietra
angolare» della democrazia, dichiara una celebre sentenza della Corte
Costituzionale, vergata nel 1969. Ma ormai non più: oggi, la questione
dirimente non è di garantire la circolazione delle idee, bensì la loro
formazione, la loro genuina concezione. Se in apparenza i social media
consentono a chiunque di esprimersi liberamente e di confrontare le
proprie idee, potenzialmente con chiunque, gli stessi strumenti
digitali possono in realtà restringere il confronto libero di idee.

Pensiamo di pensare, ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri
altrui. O al limite anche i nostri, però amplificati e deformati,
senza verifiche, senza alcun confronto con le opinioni avverse. È
l’universo autistico in cui siamo rinchiusi, anche se per lo più non
ci facciamo caso. Un universo tolemaico, in cui il sole gira attorno
alla terra – ed è ognuno di noi, la terra. Succede perché, quando
navighiamo online, siamo esposti ad informazioni “filtrate”.

Tutto ha avuto inizio il 4 dicembre 2009, quando Google avvertì i
propri utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio
motore di ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle
ricerche precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google,
del luogo nel quale ci troviamo. In breve, significa che se due tifosi
della Juve e della Roma – per esempio – digitano «calcio», otterranno
pagine diverse, sia nel numero sia nella gerarchia delle notizie. Più
che una riforma, una rivoluzione, come per primo s’incaricò di
segnalare un libro divenuto cult (Eli Pariser, The Filter Bubble,
2011).

E la rivoluzione si propagò immediatamente agli altri giganti della
Rete, da Apple a Microsoft, da Amazon a Facebook, a Twitter, a
WhatsApp. È, per l’appunto, la «profilazione» dell’utente, un nuovo
strumento che affila le tecniche di marketing, le rende sempre più
sofisticate. D’altronde, grazie ai dispositivi mobili, non è più
necessario interrogare i motori di ricerca, perché loro ti rispondono
senza lasciarti il tempo di formulare la domanda.

Si è così realizzata la visione di cui parlava nel 2010 Eric Schmidt,
amministratore delegato di Google: “Immagina di star camminando per
strada. A causa di tutte le informazioni che Google ha raccolto su di
te, noi sappiamo chi sei, a cosa sei interessato, chi sono i tuoi
amici. Google sa, con l’approssimazione di pochi centimetri, dove ti
trovi. Se hai bisogno di latte, e se c’è un negozio che lo vende lì
vicino, Google te lo segnalerà“. Noi non sappiamo quali informazioni
personali detengano i signori della Rete, né tantomeno conosciamo le
concrete modalità di rielaborazione e circolazione delle stesse. O
meglio, formalmente ci viene richiesto di esprimere un consenso al
trattamento dei nostri dati, ma non siamo mediamente in grado di
conoscere esattamente la natura e la mole dei dati che forniamo alle
piattaforme digitali in cambio dei servizi resi da queste ultime senza
il pagamento di un prezzo monetario.

Sappiamo che Google usa 57 indicatori per profilarci dalla testa ai
piedi. Sappiamo che Netflix ospita la più grande banca dati al mondo,
quanto alle preferenze dei consumatori in materia di fiction
cinematografica e televisiva. Sappiamo che cercando una parola come
«depressione» su un dizionario online, il sito installa fino a 223
cookies nel nostro computer. Sicché mentre navighiamo online i nostri
gusti, le nostre opinioni, le nostre frequentazioni telematiche
vengono registrate. Tale moltitudine informe di dati viene elaborata
in modo da estrarne il valore economico. Veniamo “incasellati” in base
alle nostre preferenze che vengono cedute agli inserzionisti, i quali
possono così inseguirci con una pubblicità tagliata su misura. Ma
insieme al filtro delle comunicazioni commerciali ci viene applicato
anche un filtro sulle preferenze politiche, etiche, religiose, con
il rischio di essere esposti esclusivamente ad informazioni a noi
note. L’autismo digitale.

Dunque le tecniche di profilazione non chiamano in causa unicamente i
nuovi business o la vecchia privacy. Mettono in gioco la possibilità
di rapportarci gli uni agli altri, d’aprirci al mondo esterno. Così
come l’algoritmo di Amazon ci suggerisce libri simili a quelli che
stiamo consultando, al contempo i filtri che agiscono sul web tendono
a proporci all’infinito le stesse fonti da cui già ci siamo
alimentati, le stesse opinioni, le stesse informazioni. Sembrerebbe un
sistema di induzione e controllo del “bisogno”. La progressiva
“chiusura” delle idee in un recinto ben definito consente la
semplificazione dell’offerta di beni e servizi: tanto più le
preferenze di consumo sono omologate, tanto più semplice il business
di chi deve soddisfare tali preferenze.

Le informazioni circolano, ma a compartimenti stagni, in circuiti
separati. Da qui il confirmation bias, ovvero l’influenza delle nostre
aspettative sui fatti rispetto al modo con cui li interpretiamo: uno
schema mentale antico quanto l’uomo, che però l’informatica eleva alla
massima potenza. Da qui, ancora, il fenomeno della post-truth, che
Oxford dictionaries ha scelto come parola dell’anno 2016. In questo
caso la “postverità” esprime l’irrilevanza dei fatti nella formazione
dei processi cognitivi, come la negazione del riscaldamento globale o
le false informazioni che hanno determinato Brexit (per esempio circa
i costi pagati dagli inglesi all’Unione europea: 350 milioni di
sterline a settimana, una cifra mai documentata).
Da qui, infine, una neonata
disciplina: l’agnotologia, battezzata da Robert Proctor per indicare
lo studio dell’ignoranza indotta attraverso dati scientifici
fuorvianti. Ma l’agnotologia è nemica della democrazia, dato che
quest’ultima si nutre del confronto tra punti di vista eterogenei. Il
consumatore I dati personali che forniamo rappresentano la moneta con
la quale paghiamo ogni chat, ogni ricerca, ogni consultazione online.
Accettando i cookies, inoltre, rinunziamo alla segretezza delle nostre
informazioni, ma forse senza la dovuta consapevolezza. Il compito
dell’Autorità Antitrust, insieme alle consorelle Privacy e Agcom, è
quello di individuare il limite tra legittimo “prelievo” e utilizzo
dei dati dell’utente, e illegittima raccolta o sfruttamento degli
stessi.

Un compito non semplice, perché se da un lato la tutela del
consumatore protegge la consapevolezza dell’utente sull’utilizzo dei
propri dati, dall’altro l’Autorità non può ignorare che la cessione di
quei dati soddisfa un interesse economico dell’utente, consentendogli
la fruizione “gratuita” di servizi ai quali è interessato. Inoltre,
quei dati sono “benzina” (o “petrolio” secondo l’Economist) di
innovazione, poiché consentono il miglioramento dei servizi offerti e
la fornitura di nuovi. Il tema del “prelievo”, con specifico riguardo
alla consapevolezza del consumatore sui propri dati ceduti online, è
all’attenzione dell’Autorità, come testimoniato anche dai recenti
interventi in materia (Facebook/Whatsapp e Samsung – PS10207).
Difatti, non sempre l’utente di una piattaforma online o di un social
media ha chiaro quali e quanti dati cede in cambio del servizio che
ottiene, né tantomeno possiede gli elementi per valutare la natura
proporzionata dello scambio.

Tu dai il consenso per una radiografia, loro ti somministrano una tac.
Sul fronte delle ricadute concorrenziali l’analisi è certamente più
delicata. Perché, come abbiamo ascoltato questa mattina, sono molti i
fattori – a volte nuovi – da esaminare prima di poter ipotizzare una
violazione dei principi a tutela della concorrenza da parte delle
imprese in materia di raccolta/trattamento/vendita dei dati degli
utenti. Occorre delimitare correttamente il perimetro concorrenziale
in cui si muovono le imprese (si tratta di mercati relativamente
nuovi), comprendere l’effettivo potere di mercato dei grandi operatori
online, esaminare l’esistenza di barriere alla raccolta dei dati degli
utenti, la diversa qualità e quindi il diverso valore economico del
dato.

Si può ritenere, infatti, che lo sfruttamento commerciale del dato
dipenda anche dalla sua diretta connessione con le preferenze di
consumo e così, nella moltitudine di dati ceduti, solo alcuni avranno
un valore elevato sul mercato della raccolta pubblicitaria. Ancora,
bisogna tenere in debito conto il fatto che la “moneta” che l’utente
utilizza per “pagare”, i propri dati, il più delle volte corrisponde a
informazioni che lo stesso utente non ha modo di sfruttare
economicamente in modo alternativo. In altre parole, i dati ceduti non
hanno un valore economico in senso stretto per l’utente medio e sono
peraltro spendibili contemporaneamente su più fronti (multi-homing,
portabilità ecc).

Infine, ma non ultimo, l’Autorità esamina i comportamenti delle
imprese nel settore digitale con particolare attenzione alle possibili
ricadute in termini di incentivi all’investimento, nella convinzione
che, nonostante tutti i limiti evidenziati nel dibattito odierno, lo
sviluppo digitale degli ultimi vent’anni abbia prodotto una crescita
delle opportunità senza pari nella storia, nonché rilevantissimi
incrementi di efficienza. Questo non esclude, d’altra parte, che
l’intervento antitrust sia opportuno laddove i comportamenti delle
imprese si traducano in condizioni inique per i propri clienti o in
una concorrenza non giocata sul merito. Anche perché lo sviluppo
digitale rischia di subire battute d’arresto se gli attori principali
(i consumatori: che forniscono dati, effettuano ricerche, convivono
sui social e realizzano transazioni online) iniziano a maturare
sentimenti di sfiducia quando navigano sul web (come rilevato anche
dalla Commissaria alla concorrenza Vestaeger) .

L’Autorità si ispira ai principi della concorrenza delineati dalla
normativa europea e trasfusi in quella nazionale, nei quali trova
spazio il concetto di equità. In questo senso si è espressa un paio di
settimane fa anche la Commissione europea, nelle parole del Direttore
Generale per la Concorrenza, Laitenberger. L’equità delle condizioni
imposte dalle imprese con riferimento ai dati raccolti dai propri
utenti può ben rappresentare un terreno di indagine per un’autorità di
concorrenza, laddove sia possibile rinvenire le condizioni per
riconoscere in capo all’impresa una posizione dominante nel mercato.

In questo solco è stata avviata un’indagine conoscitiva congiunta con
il Garante della Privacy e con l’AGCom sui big data, al fine di
affinare la comprensione del fenomeno. In questo contesto, possono
assumere un ruolo decisivo gli algoritmi utilizzati dalle piattaforme
online per l’elaborazione dei dati provenienti dall’utente. Tali
algoritmi consentono alle imprese la massimizzazione del profitto
attraverso una rapidissima elaborazione di informazioni disponibili
online sulle condizioni praticate dai concorrenti, e il conseguente
adattamento delle proprie strategie di prezzo. Il fenomeno del machine
learning (la modalità di autoapprendimento dei software basata
sull’elaborazione progressiva, rapida e continua dei dati esistenti)
non esclude che l’ottimizzazione della strategia di prezzo conduca il
singolo programma ad interagire con gli altri.

L’OCSE ha diffusamente analizzato le potenzialità collusive insite
nell’utilizzo di software e algoritmi da parte di imprese operanti
nella fornitura dei medesimi servizi. Ma anche questa linea di
intervento richiede cautele. In primo luogo, per gli effetti positivi
in termini di efficienza che l’impiego di tali software determina sia
dal lato dell’offerta (riduzione dei costi di produzione) sia dal lato
della domanda (permettendo una discriminazione di prezzo basata sulla
disponibilità a pagare dell’utente). In secondo luogo, nella misura in
cui l’interazione avviene attraverso un programma, può perdersi
l’elemento umano dell’intento collusivo, dell’”incontro di volontà”
richiesto dalla normativa antitrust. In conclusione, l’Autorità è
attenta agli sviluppi dei mercati digitali e ai fenomeni connessi.

Teniamo gli occhi aperti, ma anche voi, la stampa, aiutateci a
guardare.

*Michele Ainis è un giurista e costituzionalista italiano.
editorialista del quotidiano La Repubblica, Dall’8 marzo 2016 è
componente dell’AGCM, Autorità garante della concorrenza e del mercato

Tasse, ecco quanto evadono Facebook
e Google
ROMA – Se Facebook e Google avessero pagato regolarmente le tasse in
Italia, come tutte le normali società che operano sul territorio
italiano, il Fisco nel triennio 2013-2015 avrebbe incassato quasi un
miliardo di euro . Le imposte eluse sul territorio ammontano,
rispettivamente, a 549 e 370 milioni di euro secondo quanto emerge
dalle elaborazioni di Lef, l’associazione per la legalità e l’equità
fiscale, e presentate nel corso del convegno “Multinazionali e fisco,
quali prospettive per il futuro”.

Estendendo il calcolo all’Unione Europea la cifra di mancati incassi
fiscali arriva a 5,4 miliardi di euro. Nel 2016 Facebook, Apple,
Amazon, Airbnb e Tripadvisor hanno complessivamente pagato in Italia
le stesse imposte sul reddito, quanto pagato della sola Piaggio.

 Per Lef la soluzione piu semplice per recuperare le risorse perdute
resta l’applicazione di un prelievo alla     fonte sui ricavi lordi
facilmente tracciabili. Ma facendo attenzione comunque a possibili
effetti negativi che potrebbe produrre l’introduzione unilaterale e
non coordinata con l’ Unione Europea di una tassazione delle
multinazionali del web.
“La competizione assume carattere ‘patologico‘ – spiega la
ricercatrice, Tamara Gasparri – perché, nella più assoluta
riservatezza, alcuni Paesi europei hanno consentito alle grandi
multinazionali digitali di adottare schemi di pianificazione fiscale
in grado di fare scendere le aliquote effettive fino allo 0,003%. Il
territorio comunitario, con in testa Irlanda, Lussemburgo e Olanda, è
diventato l’hub privilegiato di formazione di redditi non tassati o
apolidi”.
Secondo il viceministro dell’Economia, Luigi Casero la tassazione
delle multinazionali digitali “è il tema fondamentale delle politiche
fiscali nei prossimi anni“. “Dalll’obbligo di intervenire su questo
campo – aggiunge – dipendono alcuni miliardi di tasse, non piccole
somme Quanto può andare avanti un sistema economico dove alcune
imprese pagano il 20% e altre lo 0,01%?“. Per disciplinare un contesto
in “continua e rapida trasformazione” il viceministro fissa tre
pilastri: “non frenare lo sviluppo del digitale“, “non gravare sui
consumatori” tassando “le corporation e i profitti apolidi e non gli
utenti” e valorizzare ogni apporto alla discussione su questo tema.

In vista del Digital Summit in corso Tallinn, in Estonia, che si
concluderà domani i 4 grandi hanno definito la proposta
comune:   assicurare che per l’Iva lo stesso contenuto, prodotto o
servizio sia soggetto all’imposta nello Stato membro Ue di consumo
indipendentemente dalla natura fisica o digitale.Tassazione del
reddito d’impresa in modo che i profitti tassabili, inclusi quelli
derivanti da attività digitali, “siano attribuiti in modo appropriato
là dove viene creato il valore“.

Per le imprese che spostano in paesi non Ue i profitti tassabili
ottenuti nel mercato interno, “per rimpatriare nella Ue la quota di
imposizione indebitamente trasferita offshore, la Ue potrebbe
esplorare opzioni per un prelievo compensativo nel settore digitale
(equalisation levy)“. I ministri avevano chiesto di definire una
webtax “sul fatturato generato in Europa dalle società digitali“.

Nel paper che illustra la posizione dei quattro leader europei si
afferma che “l’economia digitale ha conseguenze profonde sul modo in
cui funziona il business e il modo in dovrebbe essere tassato“.
Questo   comporta    “una profonda revisione degli attuali sistemi
fiscali”. In particolare sull’Iva “non ha senso applicare un doppio
standard che altererebbe le condizioni competitive del mercato e la
capacita’ di crescita del business“. In relazione alla tassazione del
reddito di impresa, l’attuale sistema per l’imposta sui profitti delle
multinazionali si fonda sulla presenza fisica delle imprese e sulle
funzioni condotte dagli staff.

La tabella di marcia decisa a livello europeo prevede che i 28 Paesi
assumano una decisione entro l’anno e che nella primavera del 2018 la
Commissione Ue presenti un progetto legislativo.
La banca non si fida ? Adesso ci
pensa Amazon a finanziare le Pmi
ROMA – Nell’era di Internet vale ancora la pena di affidarsi alle
banche per sviluppare la propria attività ? La banca sarà qualcosa
che resisterà ancora negli anni a venire o forse come sostiene
qualcuno “stiamo perdendo tempo e fiumi di inchiostro, nonché soldi
pubblici” per un business destinato a cambiare radicalmente nei
prossimi anni e che finirà sotto il controllo di altri soggetti ?

Quando si leggono notizie come questa: “Amazon punta a rafforzare
“Amazon lending”, un servizio per una serie di Pmi selezionate che
vendono i propri prodotti sul sito del colosso dell’e-commerce, viene
da riflettere . Partito sei anni fa, senza alcun lancio pubblicitario,
consente di ottenere prestiti dalla società americana, rimborsabili in
dodici mesi a tassi di tutto rispetto tra il 6 e il 17 % in linea con
il mercato finanziario americano. Amazon lo ha fatto nel suo stile,
infatti i    prestiti vengono concessi “a inviti” sulla base di
algoritmi interni dei propri sistemi informatici che analizzano la
popolarità dei prodotti di un venditore, la frequenza con cui si
esauriscono le scorte e i cicli d’inventario.

Ad onor del vero sino ad oggi non ha sviluppato grandissimi numeri: ha
erogato prestiti per 3 miliardi di dollari, di cui uno nel corso
dell’ultimo anno. Adesso però Amazon vuole pensare più in grande e
contare anche in questo settore – come ha raccontato il Financial
Times – prevede di ampliare l’offerta per gli oltre 2 milioni di
aziende che usano il “marketplace” e che quindi già
retribuiscono Amazon per immagazzinare, imballare e consegnare per
loro conto i prodotti ai clienti.         Amazon ha individuato in
particolare,Stati Uniti, Inghilterra e Giappone come i primi tre paesi
cui dedicherà maggiormente le sue attenzioni per il nuovo servizio.

Procede la realizzazione del nuovo
Centro di Distribuzione di Amazon
nel Lazio

                                           Oggi a Passo Corese,
frazione del Comune di Fara in Sabina (RM), Amazon ha illustrato lo
stato di avanzamento dei lavori del secondo Centro di Distribuzione in
Italia, che sarà operativo in autunno. All’evento erano presenti il
Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, il
Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il Sindaco di Fara
in Sabina Davide Basilicata, insieme a Roy Perticucci, Vice Presidente
Operations Europe di Amazon e al Vice Presidente e Country Manager di
Amazon Italia e Spagna François Nuyts. Il nuovo centro di
distribuzione da 60.000 m2 di Passo Corese – a soli 30 km a nord di
Roma – consentirà ad Amazon di rispondere alla crescente domanda dei
consumatori italiani, garantendo consegne puntuali e affidabili nel
Centro-Sud Italia.

                                          Amazon ha pianificato €150
milioni di investimenti nella struttura che entrerà in funzione in
autunno. Roy Perticucci, Vice Presidente Operations Europe di Amazon
ha dichiarato: “La costruzione del centro di distribuzione di Passo
Corese è un ulteriore passo avanti nel nostro percorso di sviluppo in
Italia e del nostro impegno nel migliorare l’efficienza e la
flessibilità delle nostre consegne. Siamo in linea con i tempi
previsti per terminare la costruzione della struttura e avviare
l’attività nel 2017. Siamo convinti di poter beneficiare inoltre dallo
sviluppo infrastrutturale che il Paese ha intrapreso. Per soddisfare
le aspettative dei nostri clienti alla luce del costante aumento dei
volumi, siamo chiamati a rispondere a nuove sfide e abbiamo bisogno
del supporto del settore dei trasporti affinché riesca a garantire
un’efficiente movimentazione delle merci sette giorni su sette. Questo
miglioramento delle infrastrutture e dei trasporti è un requisito
fondamentale per la competitività del Paese e per lo sviluppo delle
sue imprese tecnologicamente più avanzate, compreso il settore dell’e-
commerce”.

                                        François Nuyts, Amazon Vice
Presidente e Country Manager di Amazon Italia e Spagna ha aggiunto:
“Il modo in cui stiamo sviluppando questo progetto rappresenta per
Amazon un perfetto esempio della relazione trasparente e collaborativa
che vogliamo costruire e consolidare con le comunità locali, le
istituzioni, le associazioni imprenditoriali e i consumatori. Oggi
vediamo un notevole aumento delle imprese, di tutte le dimensioni, che
beneficiano dell’utilizzo del nostro marketplace per vendere i propri
prodotti in tutta Europa e nel resto del mondo. Il nostro obiettivo è
offrire nuovi ed efficienti strumenti e servizi alle imprese italiane,
consentendo loro di crescere e prosperare raggiungendo milioni di
nuovi clienti”.

Eric Veron, Managing Director dello sviluppatore Vailog ha espresso la
propria soddisfazione per l’avanzamento dei lavori presso il sito, e
ha dichiarato: “Apprezziamo il fatto che un’azienda globale come
Amazon abbia deciso di collaborare con noi a un progetto strategico
come questo. I lavori sono iniziati nel mese di agosto dello scorso
anno, il nuovo collegamento all’autostrada è stato completato così
come la struttura portante dell’edificio”.
Presente il Ministro delle
infrastrutture Graziano Delrio che ha sottolineato: “Nel passato
l’Italia è rimasta indietro nelle infrastrutture anche perché la
logistica non è mai stata al centro dell’attenzione. Ciò che serve
sono investimenti accompagnati da una forte semplificazione
burocratica in un quadro di scelte strategiche concrete. L’Italia è
davvero la porta d’ingresso delle merci per l’Europa, e la scelta di
Amazon di continuare a investire sul nostro Paese è la prova di ciò e
della nostra capacità di offrire una rete infrastrutturale, e
Amministrazioni locali che funzionano, in grado di sostenere il
crescente sviluppo dell’e-commerce. Oggi, e così nei prossimi anni,
l’Italia è chiamata ad affrontare la sfida della crescita del
commercio online anche ai fini dell’internazionalizzazione delle
nostre imprese, e al centro di ciò deve esserci l’innovazione della
logistica e l’ottimizzazione dei trasporti: stiamo lavorando a questo
sviluppo, e sono fiducioso del fatto che il nostro Paese nella sua
interezza sia capace di lavorare insieme e centrare in questo modo gli
obiettivi che ci siamo posti”.

                                Il Presidente della Regione Lazio
Nicola Zingaretti anch’egli presente nella nuova sede di Amazon
a Passo Corese ha dichiarato: “Gli investimenti di Amazon a Passo
Corese dimostrano che la nostra è una regione aperta, capace di
attrarre importanti soggetti internazionali e in cui le imprese
possono trovare opportunità di ampliare la propria attività. Siamo
quindi felici della scelta di Amazon, che rafforza il sistema Lazio e
crea nuova occupazione, con 1.200 posti di lavoro a tempo
indeterminato. Sono lieto di vedere concretamente che questo progetto
sta realmente e rapidamente diventando realtà”. “Sono profondamente
orgoglioso – ha dichiarato Davide Basilicata, Sindaco di Fara in
Sabina – che un’azienda straordinaria e dinamica come Amazon, abbia
scelto la nostra amata Fara in Sabina per insediare un nuovo,
importante ed avveniristico hub logistico. Lavoreremo in stretta
sinergia affinché l’enorme investimento fatto dall’azienda, diventi
anche un decisivo volano per la crescita economica della nostra città,
in termini sia occupazionali che di indotto. Siamo pronti a gestire
questa importante sfida per il nostro territorio, che diventerà uno
dei centri maggiormente strategici del centro-sud Italia. Una sfida
che siamo certi di vincere, insieme ad Amazon, ed a tutti i nostri
cittadini”,

                                           Dopo la presentazione del
progetto, l’evento è proseguito con un tour al cantiere guidato da Roy
Perticucci. Il Vice Presidente Operations Europe di Amazon ha
illustrato ai presenti dove saranno posizionate le strutture del
centro una volta che sarà operativo e le funzioni e le attività che
saranno svolte in ciascuna area. La visita si è conclusa con il
simbolico interramento di una capsula del tempo contenente un Dash
Button, l’ultimo modello del Kindle, il libro (Harry Potter e la
maledizione dell’erede), l’album musicale (Il mestiere della vita di
Tiziano Ferro) e il film (Inside Out) più venduti su Amazon.it nel
corso del 2016. Nella capsula sono stati inoltre inseriti i disegni
dei bambini di Fara in Sabina, raffiguranti la loro visione sul futuro
e pensieri scritti da parte degli studenti di medie e superiori, che
prendono in esame la stessa tematica. L’iniziativa è stata pensata per
incoraggiare i giovani ad esprimere le loro aspettative, i loro sogni
e i loro progetti per il domani, rendendoli partecipi a questa
importante iniziativa che offrirà nuove opportunità per le nuove
generazioni.

La capsula sarà aperta il 10 febbraio 2027. Il nuovo centro di
distribuzione sarà un rilevante fattore di crescita economica e
occupazionale per la provincia di Rieti, creando fino a 1,200 posti di
lavoro entro tre anni dal lancio. I salari dei dipendenti di Amazon
sono i più alti del settore della logistica, e sono inclusi “benefit”
come gli sconti per gli acquisti su Amazon.it, l’assicurazione
sanitaria privata e assistenza medica privata. Amazon offre inoltre
opportunità innovative ai propri dipendenti come il programma Career
Choice, che copre per quattro anni fino al 95% dei costi della retta e
dei libri per corsi di formazione scelti dal personale. Fin dalla
progettazione e durante la costruzione della nuova struttura Amazon ha
seguito un approccio in linea con il proprio piano di sostenibilità,
con l’obiettivo di conseguire la certificazione BREEAM (Building
Research Establishment Environmental Assessment Method) con
valutazione “Very Good”.

Tale approccio include il miglioramento dell’efficienza energetica
complessiva dell’edificio, la riduzione delle emissioni di CO2, il
risparmio dell’acqua e il controllo del consumo di acqua potabile,
l’utilizzo di materiali a basso impatto ambientale e un alto livello
di isolamento termico e sonoro, l’adozione di una strategia di
gestione efficiente dei rifiuti in fase di costruzione e il
coinvolgimento di qualificati ecologisti ed esperti di tutela del
paesaggio fin dall’avvio del progetto.

Gli investimenti di Amazon in Europa e in Italia . Fin dal suo
ingresso nel Paese nel 2010, Amazon ha investito più di €450 milioni e
ha creato più di 2.000 posti di lavoro in Italia. Il centro di
distribuzione Castel San Giovanni, primo sito logistico di Amazon in
Italia, è stato inaugurato nel 2011. Nel novembre 2015 Amazon ha
aperto il suo centro di distribuzione urbano da 1.500 m2 a Milano per
servire i clienti Amazon Prime Now. Nel luglio del 2016 l’azienda ha
annunciato la realizzazione di un nuovo centro di distribuzione a
Passo Corese (RI) nel Lazio, con un investimento da € 150 milioni e la
creazione di 1.200 posti di lavoro entro tre anni dall’avvio
dell’attività. Nei mesi di settembre e ottobre dello scorso anno
Amazon ha aperto tre depositi di smistamento ad Avigliana (TO),
Origgio (VA) e Rogoredo (MI).

Lo scorso dicembre Amazon ha annunciato la realizzazione di un
ulteriore centro di distribuzione a Vercelli, con un investimento di
€65 milioni, presso il quale saranno creati 600 posti di lavoro entro
tre anni dall’avvio dell’attività. Oltre a questi investimenti nello
sviluppo della propria rete logistica in Italia, Amazon ha aperto i
propri uffici corporate a Milano nel 2011 e il proprio centro di
assistenza clienti italiano a Cagliari. Nel mese di luglio dello
scorso anno, l’azienda ha inoltre annunciato che a Torino aprirà un
centro di sviluppo per la ricerca sul riconoscimento vocale e la
comprensione del linguaggio naturale e supporterà la tecnologia già
utilizzata per l’assistente vocale Alexa, che al momento è disponibile
solo in lingua inglese per servizi e prodotti come Amazon Echo, Echo
Dot, Amazon Fire TV e Amazon Tap.

Per salvare il giornalismo occorre
vincere la battaglia delle “bufale”
digitali
di Claudio Giua*

                                           In termodinamica l’entropia
è la misura del grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un dato
momento. Descrive cioè il caos, che aumenta a ogni cambiamento del
sistema osservato. Il concetto di entropia viene utile anche in
sociologia e politica. Dagli albori dell’umanità il caos cresce
perché, all’innalzarsi del numero di esseri pensanti, si moltiplicano
le interazioni. Non è uno sviluppo lineare, ci sono discontinuità
forti come le guerre, le epidemie, le carestie, le migrazioni, le
tensioni sociali e razziali, i conflitti economici e religiosi.
Influiscono anche eventi storicamente minori: per esempio, in queste
settimane l’entropia italiana è condizionata dalle conseguenze del
referendum costituzionale, dal pasticcio grillino a Roma, dall’attacco
bretone a Mediaset, dalla crisi bancaria.
Infine,    ci   sono    le
tecnologie. Dalla forgia alla ruota, dalla macchina a vapore al chip,
ogni innovazione fa salire l’entropia. Gli strumenti abilitanti dei
rapporti unidirezionali da-uno-a-molti (i libri, i giornali, le radio,
le televisioni) e bidirezionali uno-a-uno/molti-a-molti (la posta, i
telefoni, le chat, i social) paradossalmente non riducono l’entropia.
Anzi. E nessun mezzo di comunicazione, nemmeno la tv, ha avuto gli
effetti che la rete e, in particolare, i social network stanno
producendo nell’influenzare, facendole interagire, enormi masse di
persone. Che in larga misura sono cittadini ed elettori che
inconsapevolmente si prestano a che l’entropia salga, salga, salga.

Torniamo all’Italia e all’Europa. Da noi l’entropia sociopolitica avrò
un picco nell’imminenza delle elezioni politiche, da convocare una
volta sistemata l’incresciosa faccenda della legge che non c’è. Anche
i cittadini francesi, tedeschi e olandesi saranno chiamati alle urne
nel 2017. Nemmeno quelle saranno elezioni serene. Temi come
l’immigrazione e il terrorismo islamico hanno avvelenato i pozzi
sociali e politici; è tutt’altro che risolto il confronto tra chi
impone l’austerità e chi propone investimenti per lo sviluppo; la
nuova leadership americana creerà sconquassi. Tutti fenomeni con
vastissima eco digitale.

                                           In questo scenario sono
prevedibili cyberattacchi e bufale digitali come piovesse.
Analogamente a quanto accaduto nell’ultimo anno negli Stati Uniti
(agli scettici sull’argomento consiglio la lettura del commento di
Paul Krugman sul New York Times del 13 dicembre), Putin condizionerà
con i suoi hacker i risultati dei voti europei per favorire gli amici
della Russia, piazzati a destra e tra i nuovi populisti che da noi
hanno i propri campioni in Salvini e Grillo. Saranno proprio loro i
megafoni inconsapevoli della nuova disinformatja che viene da est.
Perché le campagne elettorali si faranno nelle piazze, nei talk show e
sui giornali ma si decideranno sulla rete. Più specificatamente, su
Facebook, su YouTube, su Twitter. Se ne sono accorti perfino a
Bruxelles, dove la velocità d’esecuzione è di solito opzionale: nelle
sue ultime direttive la Commissione Europea raccomanda agli enti
pubblici di concentrarsi sui contenuti da collocare subito sulle
piattaforme di comunicazione sociale e di smetterla con i siti,
inutili e obsoleti.

                                           Un paio di conferme
empiriche. Mio nipote, 23 anni, non segue le dirette tv di Sky Tg24 né
quelle di Radio Radicale. Eppure il 18 dicembre, pochi minuti dopo
l’intervento di Roberto Giachetti che verrà ricordato per l’invettiva
“Roberto Speranza, hai la faccia come il culo“, ha condiviso su
YouTube con decine di migliaia di under 30 la clip dall’Assemblea del
PD. Tutta la comunicazione che conta passa da lì, dalle piattaforme
social. Sulle quali i messaggi hanno intrinsecamente – in forza di:
“…me l’ha segnalato un amico di cui mi fido” – un’efficacia superiore
a quella del web tradizionale dei siti e dei “portali”, nel quale
prevale la rankizzazione del notiziario. Non è un sociologo della
politica eppure l’analisi-snack di Fabio Rovazzi, 22 anni, è
illuminante: “Su Internet io e quelli della mia età troviamo parecchie
cose divertenti e curiose. Che ci portano via tutto il tempo a
disposizione“. Il problema è che nella top five delle “cose divertenti
e curiose” indicate dal rapper di “Andiamo a comandare” (104 milioni
di visualizzazione su YouTube) e “Tutto molto interessante” (31
milioni in meno di un mese) si collocano le post-verità, cioè le
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