Diagnosi precoce, farmaci biologici e nuovi schemi terapeutici: scacco alle MICI in tre mosse
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Silvio Danese Responsabile del Centro per la Ricerca e la Cura delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, IRCCS Istituto Humanitas di Rozzano, Milano Diagnosi precoce, farmaci biologici e nuovi schemi terapeutici: scacco alle MICI in tre mosse Cosa sono le MICI, le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali? Come si presentano e quali sono tutti i possibili sintomi che le caratterizzano? Le MICI sono malattie infiammatorie idiopatiche, cioè di origine sconosciuta, ad andamento cronico, che interessano l’intestino, e si suddividono in due tipologie: Malattia di Crohn e Rettocolite Ulcerosa. La Malattia di Crohn comporta ulcerazioni della mucosa intestinale e può interessare tutti i segmenti intestinali, anche se si localizza prevalentemente a livello ileo-colico. La Rettocolite Ulcerosa colpisce le mucose del colon e/o del retto. In generale, i sintomi più frequenti sono rappresentati da diarrea, spesso sanguinolenta, dolore addominale e dimagrimento. Possono essere presenti anche stati infiammatori che riguardano anche altri distretti, come fegato, occhi ed epidermide. Una MICI può manifestarsi anche con sintomi correlabili alle complicanze: le più frequenti sono le fistole e le stenosi dei tratti intestinali, derivanti sia dall’infiammazione che riduce il calibro intestinale, sia dalla sua guarigione, che determina cicatrici. In genere, considerata la natura dei sintomi, subentra nel paziente un senso di pudore a parlarne e ad ammettere la forte alterazione della Qualità della Vita che deriva dal loro manifestarsi, condizionando la possibilità di pervenire a una diagnosi precoce. Quante sono le persone affette da MICI in Italia e nel mondo e, soprattutto, quanti sono i giovani? Rispetto alla prima diagnosi di Malattia di Crohn formulata nel 1932, qual è stata la curva d’incidenza di queste patologie? Le malattie infiammatorie croniche intestinali colpiscono, con la stessa frequenza nei due sessi, più di 4 milioni di persone nel mondo, e circa 200.000 solo in Italia. Presentano due picchi d’incidenza: un primo picco variabile, dai 15 ai 45 anni e un secondo, in età tardiva. Un dato preoccupante è che negli ultimi anni le MICI hanno anticipato la loro comparsa e stanno esplodendo anche in età pediatrica: alcuni studi recenti mostrano che la loro incidenza è almeno dieci volte più elevata nella popolazione pediatrica rispetto a quella adulta. Al contrario delle malattie infettive che sono andate via via riducendosi, quelle autoimmuni sono aumentate in maniera esponenziale: negli ultimi dieci anni la diagnosi di nuovi casi e il numero di ammalati sono aumentati di circa venti volte. Ciò è particolarmente vero per la Malattia di Crohn, che, rispetto, ad esempio, a Sclerosi Multipla o a Diabete di tipo 1, sta aumentando molto più velocemente. Quali sono le ipotesi più accreditate per spiegare l’origine delle MICI? Possono essere coinvolti gli stili di vita? Le cause non sono ancora note, ma queste malattie autoimmuni presentano un substrato genetico complicato e sono determinate da numerosi fattori che interagiscono tra loro. Una delle ipotesi fa riferimento alla cosiddetta “teoria dell’igiene”, secondo la quale il nostro sistema immunitario, per via di pratiche igieniche eccessive, non essendo più costretto a cimentarsi con le infezioni cui è stato esposto per millenni, si rivolgerebbe verso tessuti o organi propri. Di sicuro c’è una componente genetica molto forte nella Malattia di Crohn, che però non deve essere considerata una malattia genetica “classica”, ma piuttosto una patologia “familiare”: ciò vuol dire che non c’è ereditarietà, ma se c’è un membro della famiglia che ne è affetto, il rischio per il soggetto è più alto. Infine, non sono da trascurare i fattori ambientali, come dimostrerebbero gli studi di popolazione: in alcune gruppi umani le MICI sono quasi sconosciute, mentre nel Nord del mondo sono molto più frequenti.
Per controllare e contrastare gli effetti devastanti della malattia, la diagnosi precoce è uno strumento fondamentale: quali sono gli esami che è consigliabile eseguire per arrivare a una certezza diagnostica? La diagnosi precoce è uno strumento di estrema importanza per la futura Qualità di Vita del paziente: se la diagnosi è prodotta tempestivamente, all’insorgenza dei sintomi, si riesce ad essere molto veloci nella terapia e ciò consente di evitare che s’instaurino delle complicanze che diventano irreversibili. Gli esami strumentali che permettono una corretta diagnosi delle MICI sono: la colonscopia, accompagnata dall’esame istologico, che definisce il quadro anatomo-patologico delle biopsie intestinali; l'ecografia addominale e dell'intestino con radiografia del tenue, la tac enteroclisi o la risonanza magnetica addominale. A questi accertamenti si aggiungono gli esami ematici (emocromo e indici d’infiammazione) e un'attenta valutazione della storia clinica del paziente. Quali sono le opzioni terapeutiche a disposizione dei medici? Il panorama dei trattamenti farmacologici delle MICI è radicalmente cambiato circa 10 anni fa, con l’avvento delle terapie biologiche come infliximab. Fino ad allora venivano utilizzati farmaci come steroidi e immunosoppressori, che possono trattare la sintomatologia, ma non sono in grado di modificare la storia naturale della malattia. Inoltre, i loro effetti collaterali implicano pesanti ripercussioni sulla Qualità della Vita del paziente; al contrario, infliximab non tratta solo il sintomo ma agisce sul progredire della malattia stessa e presenta un quadro di sicurezza ormai comprovato. Considerato che queste malattie sono di tipo progressivo, producono danni nell’intestino che via via si sommano e provocano anche importanti complicanze correlate, è evidente quanto sia importante fermare la ‘biologia’ della malattia e non solo limitarsi alla cura dei sintomi. Come è cambiata la strategia di approccio con l’avvento dei farmaci biologici? In passato, si seguiva il cosiddetto “approccio a gradini”, o step up, tuttora utilizzato in alcuni casi: farmaci più leggeri all’inizio e poi, man mano che la malattia diventava più importante, altri farmaci in maniera sequenziale. Il farmaco d’esordio era la mesalazina; in seguito, se non funzionava, s’inseriva il cortisone: se anche questo farmaco si rivelava inefficace, si utilizzava un immunosoppressore come la azatioprina. Finalmente, dieci anni fa, si è cominciato a utilizzare i farmaci biologici, gli anti-TNF, che si somministravano solo dopo che antinfiammatori, steroidi e immunosoppressori fallivano. E se dopo aver percorso questa scala il paziente continuava ad avere problemi, si rinviava al chirurgo. Oggi invece l’orientamento è quello di usare il prima possibile i farmaci più efficaci? Ora la prospettiva è radicalmente cambiata e si procede attraverso il cosiddetto “step up accelerato”: innanzitutto si cerca di fare diagnosi molto precoci e si evita di utilizzare farmaci che non cambiano la storia naturale della malattia, che non riducono cioè complicanze, ospedalizzazioni, interventi chirurgici. L’immunosoppressore è infatti somministrato subito e, nei casi che lo consentono, infliximab è utilizzato in prima battuta, onde evitare l’insorgenza delle complicanze. Questo farmaco biologico si è dimostrato particolarmente efficace nel trattamento di alcune forme poco responsive alla terapia tradizionale e di forme gravate da complicanze, quali, in particolar modo, la presenza di fistole. L’avvento di infliximab ha messo in luce tutti i limiti delle terapie convenzionali: quali sono e cosa comportano per il paziente? Molto spesso gli steroidi venivano utilizzati per lunghi periodi, e per più cicli, se si somministravano immunosoppressori non efficaci. Questo comportava una serie di effetti collaterali importanti, come diabete, cataratta, glaucoma, osteoporosi e osteonecrosi, nei casi più eclatanti. Il risultato era che l’infiammazione persisteva, il danno organico complicava la malattia e si rendeva necessario l’intervento chirurgico. Quali sono invece i benefici di infliximab e quale è lo schema terapeutico ottimale? Infliximab riesce a bloccare la malattia e stabilizzarla, permettendo non solo di intervenire sui sintomi, ma anche di ottenere la remissione libera da steroidi, e la guarigione mucosale. Ciò vuol dire che infliximab interviene sulla progressione della malattia, con conseguente riduzione di ospedalizzazioni e ricorso alla Chirurgia e un impatto positivo sulla Qualità di Vita dei pazienti. 2_b
Lo schema terapeutico ideale prevede una diagnosi precoce, cui segue la somministrazione degli steroidi per “spegnere” l’infiammazione, e quando essa si riacutizza, l’uso combinato di biologici e immunosoppressori: ciò consente di evitare l’infiammazione nei primi stadi, in modo che essa non si perpetui. I risultati di infliximab sono stati così rilevanti da determinare la revisione delle Linee Guida europee: quali sono i traguardi raggiunti da questo farmaco in termini di efficacia e sicurezza, comparati alle strategie terapeutiche precedenti? In termini di sicurezza, la somministrazione di infliximab non comporta alcun problema: paradossalmente, come abbiamo appreso grazie a grandi registri di popolazione di pazienti che hanno ricevuto gli anti-TNF, gli steroidi e gli immunosoppressori sono molto più nocivi rispetto ai biologici. In termini d’efficacia, gli studi di paragone confermano che infliximab risulta essere il 30-40% più efficace rispetto agli immunosoppressori. Questa efficacia è ulteriormente potenziata se il biologico e l’immunosoppressore sono utilizzati insieme: questo trattamento congiunto rappresenta infatti lo standard of care. Quanto è importante la ricerca clinica per i pazienti affetti da MICI? Fino a dieci anni fa le cure per queste malattie invalidanti erano poche, e i pazienti andavano incontro a ripetuti interventi chirurgici. Oggi invece l’avvento dei farmaci biologici e la loro combinazione con altri farmaci diversi permette di tenere sotto controllo l’infiammazione: tutto questo grazie alla ricerca, che negli ultimi anni ha compiuto progressi eclatanti e ha aperto la strada a prospettive terapeutiche innovative. 2_c
Marco Greco Presidente della EFCCA - European Federation of Crohn's and Ulcerative Colitis Associations, Bruxelles Guardando indietro (con rabbia): la mia storia di paziente, dalla diagnosi all’accettazione della malattia Le MICI sono patologie croniche e complesse che colpiscono persone in giovanissima età: è stato lo “scandalo” di questa drammatica condizione il motivo per scrivere Il fuoco dentro? L’idea de Il fuoco dentro nasce da un dialogo con il dottor Danese, nell’ambito del quale abbiamo iniziato a riflettere sulla differenza di percezione che spesso esiste tra medico e paziente, in termini di priorità e d’impatto sociale della malattia: ci sono aspetti che un medico non vede, così come c’è un aspetto del lavoro del medico e del ricercatore che il paziente non percepisce. L’idea era quindi cercare un punto d’incontro e sfruttare questa convergenza per raccontarci quello che l’altra parte normalmente non sa. Da questa esigenza di confronto e di maggiore comprensione nasce il libro. L’aspetto comunicativo ha dunque un ruolo importante sulla condizione del paziente e nella dinamica di queste malattie? Assolutamente si: quella che io chiamo “la discussione al bar” con il dottor Danese è nata proprio dai risultati di alcune ricerche, secondo i quali i pazienti denunciavano una certa fatica a comunicare con il medico, soprattutto perché le MICI sono patologie che comportano sintomatologie e problemi delicati, che coinvolgono ambiti molto intimi, personali. Ciò crea una serie di difficoltà che finiscono per riflettersi sulla vita di tutti i giorni. Il disagio e la difficoltà da parte del paziente a esplicitare i sintomi e i problemi che la patologia comporta sono aspetti critici della comunicazione, così come l’incapacità di alcuni medici d’informare con sensibilità e delicatezza sugli esiti della patologia in termini di prospettive di vita. Può raccontarci quali sono stati gli aspetti più salienti della sua personale storia di convivenza con una MICI? Innanzitutto un enorme ritardo della diagnosi: ho cominciato a soffrire dei sintomi della Malattia di Crohn a 16 anni, ma solo a 19 ho ricevuto la diagnosi. Questo ritardo, che mi ha portato via tre anni di vita, da un lato ha acuito una serie di problemi medici, dall’altro ha dato origine a una reazione di rabbia e di scontento che mi ha portato a entrare nell’Associazione. Rispetto ad altri pazienti mi considero molto fortunato, perché in occasione dell’ultimo ricovero, prima di ricevere la diagnosi, mi avevano prospettato un tumore: quando mi è stata diagnosticata una patologia cronica, ma non mortale, l’ho dunque considerata un male minore. Poi ho realizzato che avrei potuto sopravvivere ma con una malattia che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. La cronicità è un aspetto cruciale: una delle difficoltà maggiori è venire a patti con questa condizione, perché molto spesso la strategia terapeutica che al momento funziona, sul medio e lungo termine potrebbe rivelarsi non più efficace. Di conseguenza, nelle sue diverse fasi il paziente deve confrontarsi con aspetti diversi della malattia: è chiaro che il mio livello di accettazione e le mie priorità di quando avevo 19 anni non erano gli stessi di quando ne avevo 25 o 30. Rispetto a quando lei si è ammalato, che cosa è cambiato nella gestione della patologia? Tantissimo e in meglio. Il livello qualitativo di diagnosi e terapia non è paragonabile a quello di venti anni fa. Innanzitutto l’introduzione di una classe farmacologica nuova, quella dei farmaci biologici, che ha migliorato in maniera decisiva la Qualità di Vita del paziente e la gestione complessiva della patologia; la stessa evoluzione della Chirurgia e delle terapie di supporto, per non parlare delle nuove tecniche diagnostiche, come ad esempio la risonanza magnetica, in grado spesso di evitare esami
routinari molto più invasivi. Va infine considerata la maggiore attenzione non solo da parte dei medici, e in particolare dei medici di Medicina Generale, e delle strutture sanitarie: ora nei Centri più importanti c’è un ambulatorio specifico, un canale preferenziale per le infusioni, cose che venti anni fa erano impensabili. L’unica cosa che non è in linea con questo sviluppo è l’attività normativa da parte del legislatore sanitario, che da dieci anni sembra essersi dimenticato di noi. A dieci anni dalla loro introduzione nel trattamento delle MICI, può spiegarci cosa hanno significato per lei i farmaci biologici rispetto alla qualità della sua vita quotidiana? Mi hanno permesso di svincolarmi dalle terapie steroidee, con tutti gli effetti collaterali che comportavano: ero abituato purtroppo a un voluminoso corredo di pillole e pastiglie da portarmi dietro, che creava non pochi disagi nelle occasioni di socialità, e a molti cicli di cortisone, con complicanze fisiche gravi e profonde alterazioni dello stato d’animo. Passare a una terapia somministrata periodicamente, una volta al mese e in alcuni casi ogni due mesi, che fornisce un ottimo livello di controllo e mantenimento di malattia ma che soprattutto consente di riacquisire una Qualità di Vita che non era pensabile per le MICI, è stata una vera e propria rivoluzione. Del resto, la terapia biologica ha rappresentato un momento di speranza e una svolta determinante nella gestione di queste patologie. Si veniva da una fase di stagnazione, con terapie che erano state sviluppate negli anni ’70 e ’80, che non riuscivano a risolvere i problemi del paziente e avevano un alto costo in termini di effetti collaterali: l’avvento del farmaco biologico ha costituito un’accelerazione notevole, un vero e proprio salto evolutivo. Quali sono le principali difficoltà che un paziente tuttora incontra e quali le soluzioni adottabili? Il meccanismo per il riconoscimento dello status di ammalati di MICI è oggi piuttosto semplice e lineare. In realtà il problema è cosa comporta questo riconoscimento: in concreto ben pochi vantaggi pratici, anche sotto il profilo della gestione del costo, che grava ancora troppo sulle tasche del paziente. Buona parte degli esami strumentali, specie quelli di ultima generazione, non sono riconosciuti in esenzione, su alcune tipologie di farmaco il meccanismo del generico ha creato una serie di cortocircuiti nel sistema, per cui spesso si deve pagare una differenza e sono pendenti numerosi ricorsi. Ma il punto nodale è costituito dai parametri entro i quali il paziente di MICI può accedere alla tutela della disabilità, che sono stati disegnati secondo criteri di conoscenza della malattia obsoleti. Lo stesso meccanismo dell’invalidità, in malattie ad andamento sinusoidale come le MICI, ci fa pensare che la soluzione sia una disciplina ad hoc, un meccanismo previdenziale elastico, ma il numero dei pazienti non è tale da giustificare l’intervento del legislatore. E in ambito lavorativo? Una recente indagine realizzata da EFFCA ha dimostrato che un’altissima percentuale di pazienti ritiene di non avere ricevuto avanzamenti di carriera e di essere stata discriminata sul lavoro: ha, cioè, la netta percezione che la malattia abbia influito negativamente sulle possibilità di crescita professionale. Purtroppo il concetto di disabilità da malattia autoimmune è ancora pressoché sconosciuto. Ciò non significa che ogni paziente, solo per aver ricevuto la diagnosi, debba accedere automaticamente alla categoria protetta; devono però essere adeguatamente considerate le situazioni di particolare gravità in cui la protezione è essenziale, per non buttar via professionalità importanti, che con un aiuto, anche minimo – penso ad esempio al telelavoro, un aspetto poco conosciuto della riforma Biagi – potrebbero invece essere recuperate. Come procede la battaglia per il Registro nazionale delle MICI e perché è importante realizzarlo? Lentamente ma inesorabilmente. Il Registro è un passo importante per creare una banca dati di tutte le informazioni sulla storia clinica e sulle terapie che consente di monitorare la situazione e soprattutto incrociare i dati. Un registro delle MICI offrirebbe da un lato dati reali e concreti sulla diffusione di queste patologie e dall’altro informazioni importanti sulla loro evoluzione, costituendo uno strumento importante nelle mani dei Ricercatori. Per ora esiste solo un progetto pilota in Toscana, che, grazie a un positivo “effetto domino”, spero possa estendersi alle altre Regioni italiane. In Europa, l’unico Stato a possederne uno è la Finlandia. 3_b
Domenico Mavilio Responsabile Laboratorio di Immunologia Clinica e Sperimentale, IRCCS Istituto Humanitas di Rozzano, Milano La genesi delle patologie autoimmuni: una questione ancora aperta Le MICI chiamano direttamente in causa il sistema immunitario, una parte del nostro organismo il cui funzionamento è in parte ancora misterioso: può spiegarci in che cosa consiste, come funziona e a cosa serve? Il sistema immunitario è una complessa rete integrata di cellule e molecole, presente in tutto l’organismo. Assolve alla funzione di difendere il nostro corpo da qualsiasi agente chimico, traumatico o infettivo che mina la sua integrità, con la finalità di ripararlo. I suoi organi primari sono il midollo osseo e il timo. I globuli bianchi prodotti all’interno del midollo osseo danno origine a una molteplicità di cellule immunitarie differenti: tra le tante vi sono le cellule polimorfonucleate (tra cui i granulociti neutrofili, eosinofili e basofili, i monociti (che diventano macrofagi una volta migrati dal sangue nei vari organi e tessuti), i linfociti (divisi nelle sottoclassi di linfociti T, B e Natural Killer o NK) e le cellule dendritiche (CD). In generale i polimorfonucleati e i monociti/macrofagi, una volta definiti anche fagociti, costituiscono una parte della cosidetta “immunità innata”, una barriera che, in modo aspecifico e senza che si instauri una memoria immunologica, interviene nella lotta contro i patogeni sin dalle prime fasi del processo infiammatorio. Al contrario, altre cellule come i linfociti T e B appartengono al sistema immunitario "adattativo" che, oltre ad intervenire successivamente alla risposta immunitaria innata, è in grado di creare e conservare una memoria immunologica specifica verso questo o quel patogeno o cellula neoplastica. Che ruolo svolgono le cellule Natural Killer e le cellule dendritiche? I processi del sistema immunitario sono estremamente complessi e vedono l'intervento di molti altri attori come le cellule NK e le CD, che sono effettori dell'immunità innata indispensabili anche per lo sviluppo di una memoria immunologica. La loro mediazione risulta infatti fondamentale, poichè le cellule NK e le CD, oltre ad essere direttamente coinvolte nella risposta immunitaria aspecifica e immediata contro patogeni e tumori, rappresentano l'anello di congiunzione che, a partire dalle risposte immunitarie aspecifiche, permette il corretto sviluppo di risposte immunitarie specifiche sia di tipo cellulare (linfociti T) sia di tipo umorale/anticorpale (linfociti B). Cosa succede al nostro sistema immunitario quando insorge una patologia autoimmune? Si perde quella che in medicina viene definita "tolleranza immunologica", cioè l'incapacità del sistema immunitario di rispondere a molecole che chiamiamo antigeni. In generale, il sistema immunitario «tollera» le molecole cosidette proprie o autologhe (self), cioè le molecole espresse dalle nostre stesse cellule in qualsiasi distretto e organo del nostro corpo. In questo modo si evitano attacchi suicidi contro il nostro stesso organismo. Quando il sistema immunitario reagisce in modo improprio nei confronti di antigeni propri o self, può verificarsi invece un danno tessutale, riconosciuto fin dall'inizio del secolo con il termine suggestivo di horror autoxicus, successivamente modificato in quello ancora attualmente in uso di "autoimmunità". Succede in pratica che si ha una risposta immunitaria di tipo auto-reattivo: al posto di sconfiggere i nostri “nemici non-self” (virus, batteri, parassiti, neoplasie, etc.), il sistema immunitario produce cloni di cellule auto-reattive che reagiscono contro i nostri distretti corporei, come peritoneo, cuore, pancreas, articolazioni, tiroide, etc. Ad esempio, il selezionarsi di cloni linfocitari autoreattivi di tipo B comporta la produzione dei cosidetti autoanticorpi, che sono routinariamente usati nella pratica clinica.
Alcuni di questi anticorpi sono francamente dannosi verso differenti organi-bersaglio, altri sono epifenomeni della malattia utili comunque dal punto di vista diagnostico. Nella classificazione delle malattie autoimmunitarie, ci sono patologie cosidette sistemiche, che colpiscono cioè più organi nello stesso paziente (come il Lupus Eritematoso sistemico), e altre organo-specifiche, che agiscono selettivamente su un solo distretto, come la Malattia di Hashimoto, che colpisce la tiroide, o il Diabete di tipo 1, che attacca il pancreas). Anche le MICI rientrano in questa dinamica? La patogenesi delle MICI non è ancora del tutto chiara: sono patologie in cui sicuramente la componente infiammatoria è quella che crea problemi maggiori ed è alla base degli aspetti sia sintomatici sia nosologici diversi tra loro nelle varie manifestazioni cliniche. In ogni caso, il denominatore comune di tutte le MICI è la presenza di un’infiammazione patologica e francamente aberrante a livello intestinale. Sono, per definizione, malattie infiammatorie croniche ad andamento capriccioso: nella loro storia naturale è molto arduo predire la loro comparsa, le riacutizzazioni, le complicanze e le fasi di quiescenza. In generale, l’infiammazione è una risposta necessaria e fondamentale che si manifesta in seguito a traumi di qualsiasi origine e permette al sistema immunitario di rispondere e riparare il danno rimuovendo l'insulto infiammatorio. Nelle MICI invece, si crea una risposta infiammatoria francamente eccessiva che non si riesce più a controllare: una reazione certamente patologica che crea più danni che benefici. Non siamo ancora in grado di comprendere il primum movens, la causa prima, ovvero perché in queste patologie i macrofagi e altre categorie di cellule poco studiate, come le cellule dendritiche, rispondano in modo parossistico. Negli ultimi anni il rapporto tra malattie infettive e malattie immunitarie è cambiato nei Paesi occidentalizzati: sono diminuite le prime e aumentate le seconde. Quali possono essere le ragioni di questa mutazione e in che modo si sono adeguate le terapie? Sono numerose le ipotesi che cercano di rispondere a questa trasformazione. Una, in particolare, postula una stretta connessione tra cause infettive, infiammatorie e immunitarie: per molte patologie, anche oncologiche, si sa ora con certezza che il fattore scatenante, il cosiddetto trigger, è un virus. Non abbiamo la medesima certezza con le malattie aiutoimmuni o immuno-mediate, ma si sta indagando un collegamento tra batteri o virus e patogenesi delle MICI. Vanno comunque considerate anche le abitudini di vita: queste malattie sono decisamente meno frequenti nei Paesi che chiamiamo “in via di sviluppo”, come la zona Sub-sahariana o il Sud America, rispetto ai contesti occidentali: norme igieniche e migliori stili di vita hanno diminuito il numero delle malattie infettive, creando però le condizioni di un aumento di allergie e malattie immunologiche. Questo fenomeno non ha ancora trovato un razionale e delle dimostrazioni scientifiche accettate da tutti, anche se ci sono diversi studi sia epidemiologici sia sperimentali che tendono a confermare quest'ipotesi. In ogni caso, sino a non molto tempo fa esistevano dei veri e propri “santuari immunologici” (come alcune Isole del Pacifico o a Capo Verde) in cui non esistevano patologie allergiche prima che si insediassero colonie occidentali e che le nostre abitudini diventassero prevalenti. Un aneddoto, questo, che certamente fa riflettere su come gli stili di vita e le abitudini igienico-sanitarie e alimentari possano modificare la storia naturale delle malattie. È stato recentemente dimostrato che l’uso precoce di un farmaco biologico come infliximab può portare alla remissione della malattia e alla guarigione completa della mucosa: può spiegarci il suo meccanismo d’azione? Le terapie sono notevolmente migliorate negli ultimi 10 anni. In passato, molte di queste malattie erano sottoposte a un trattamento standard, che partiva dai classici farmaci derivati dall’aspirina, i salicilati, fino a passare alla terapia con cortisone o farmaci immunosoppressori. Poi, finalmente, con i biologici, si è aperta una nuova strada, molto più selettiva: infliximab, infatti, va a bloccare una particolare molecola, il TNF, Tumor Necrosis Factor, una proteina infiammatoria che viene prodotta da specifici gruppi di cellule durante il decorso delle MICI. Sicuramente una terapia più selettiva contro le molecole infiammatorie come quella possibile con infliximab permette di avere un rapporto costo-benefici molto più favorevole per il paziente, consentendogli di evitare il cortisone e gli immunosoppressori e di andare incontro a effetti collaterali decisamente ridotti rispetto alle terapie tradizionali. 4_b
Antonino Spinelli Aiuto Chirurgia Generale III, Dipartimento di Gastroenterologia, IRCCS Istituto Humanitas di Rozzano, Milano Terapie biologiche e Chirurgia: due approcci complementari contro le MICI Quali sono le indicazioni per cui si ricorre all’approccio chirurgico nella Malattia di Crohn? Per il suo andamento cronico e recidivante, questa patologia viene trattata in prima istanza con la terapia farmacologica; si ricorre alla Chirurgia per lo sviluppo di complicanze sintomatiche quali una stenosi (ostruzione) o una fistola fra l'intestino e altri organi contigui. Inoltre, si può dover ricorrere alla Chirurgia anche in caso di inefficacia della terapia medica o per effetti collaterali conseguenti all’uso prolungato di alcuni farmaci. Tradizionalmente, la tendenza è stata quella di considerare l'intervento chirurgico l'extrema ratio; tuttavia, questa strategia è attualmente in discussione poichè un intervento chirurgico precoce permette, in molti casi di malattia localizzata, un rapido ritorno alle condizioni di benessere (remissione clinica), con rischi minori rispetto all'intervento in fase tardiva, quando ormai la malattia ha provocato danni maggiori. Le MICI possono infatti comportare delle complicanze di stenosi, ossia di un’ostruzione dell’intestino causata dall’infiammazione e, talvolta, quando la malattia progredisce ulteriormente, problemi di fistolizzazione. Ulteriori indicazioni sono la possibile degenerazione tumorale della malattia, frequente nella popolazione dei pazienti affetti dalla Malattia di Crohn, e l’interessamento perianale, che comporta disagi estremamente gravi e stressanti per il paziente. È questa una complicanza estremamente frequente, che però viene poco riferita al medico e che richiede invece un trattamento chirurgico di rimozione completa della parte settica; inoltre, tale trattamento si avvale di tecniche che possono apportare vantaggi notevoli rispetto al passato in termini di risultati terapeutici. Su quali fattori si basa il chirurgo quando prende la decisione di ricorrere a un intervento nella Malattia di Crohn e quali le tecniche utilizzate? La Malattia di Crohn è una patologia sistemica, che può ritornare in qualunque segmento dell’intestino; inoltre, dopo l’intervento, un’altissima percentuale di pazienti va incontro a una recidiva in prossimità della sutura chirurgica. L’atto chirurgico deve essere dunque indirizzato alla risoluzione della complicanza, senza la pretesa di voler guarire la malattia e il suo approccio è improntato alla massima conservatività. Per i pazienti con ostruzione causata da stenosi ci sono due opzioni di trattamento: la resezione di una parte d’intestino e la stricturoplastica, un trattamento sicuro ed efficace per pazienti selezionati che presentano interessamento duodenale: si tratta di un intervento meno demolitivo che permette di ripristinare il transito intestinale senza resecare. Inoltre, è possibile utilizzare la tecnica mini-invasiva della laparoscopia sia in molti casi di Malattia di Crohn primitiva sia in alcuni casi di Colite Ulcerosa. Quale sono le indicazioni chirurgiche nei casi di Colite Ulcerosa? Per quanto riguarda questa patologia, indicazioni e finalità sono del tutto diverse rispetto alla Malattia di Crohn. Per definizione, la Colite Ulcerosa colpisce solo il colon e il retto, pertanto un intervento chirurgo che asporti questi due organi può essere potenzialmente curativo e portare alla guarigione. Oltre alle indicazioni di emergenza, come occlusioni, sanguinamenti massivi, presenza di megacolon tossico e perforazioni libere, vi sono indicazioni di urgenza che sono quelle delle Coliti Acute severe, con esacerbazioni violente di malattia, che richiedono sin dall’inizio un approccio medico e chirurgico integrato per la gestione ottimale. C'è poi una serie di indicazioni che riguardano le forme di Colite Ulcerosa che non rispondono o smettono di rispondere ai farmaci e connesse ai rischi di un utilizzo cronico degli steroidi. Infine, l’intervento è indicato in casi di bambini in cui si determina un ritardo di crescita a causa della patologia.
Qual è il trattamento chirurgico standard nella Colite Ulcerosa? L’intervento è estremamente importante e deve essere eseguito in Centri molto specializzati, poiché comporta una ricostruzione complessa, quella che chiamiamo anastomosi con pouch ileo-anale, con una gestione post-operatoria anch’essa complessa. È un intervento che ha rivoluzionato da circa 30 anni la terapia perché non si tratta di una stomia, ma di una sutura tra l’ileo e l’ano, che consente al paziente la continuità intestinale e una funzionalità naturale. Tra i problemi che si possono determinare con questo intervento, per via della grossa dissezione pelvica che comporta, può esserci una riduzione di fertilità nelle giovani donne, anche se questo problema si riduce con l’utilizzo della laparoscopia e delle tecniche mini-invasive. Quali risultati può aspettarsi dalla Chirurgia un paziente affetto da Colite Ulcerosa? I risultati sono eccellenti, anche se questo tipo di intervento non può essere proposto in tutti i casi: il paziente può fare di nuovo una vita completamente normale, senza la malattia, senza farmaci e senza il rischio di evoluzione tumorale che, nelle Coliti Ulcerose di lunga durata, è un rischio consistente. Alla luce delle innovazioni apportate dall’infliximab alla terapia farmacologica, com’è cambiato l’approccio chirurgico nelle MICI? Attualmente, grazie al successo di un farmaco biologico come infliximab, la tendenza all’indicazione chirurgica sta radicalmente cambiando: non è più considerata come “ultima spiaggia” nei casi in cui la malattia ormai ha fatto già tanti danni da lasciare ben poco da fare. Oggi la tempistica dell’indicazione chirurgica è oggetto di radicale revisione: si ritiene, infatti, più efficace operare quando la patologia si manifesta con sintomi da complicazione, quali stenosi o fistole. Si procede prima con l’intervento chirurgico finalizzato a rimuovere la complicanza e poi s’inizia la terapia con infliximab. È una nuova strategia estremamente promettente, sia perché intervenendo precocemente su una malattia non complicata i risultati chirurgici sono migliori, sia perché l’intervento in sé è meno complicato: in pochi giorni il paziente può tornare a casa, senza grandi tagli e con la possibilità di un recupero molto più rapido. In questa nuova ottica, l’interdisciplinarietà è un fattore determinante, dal momento che il confronto tra chirurgo e gastroenterologo consente di utilizzare al meglio tutte le armi a disposizione di entrambi gli specialisti. 5_b
Elena Vegni Professore associato di Psicologia Clinica, Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Milano Ansia, controllo, immagine corporea: gli aspetti di sofferenza psicologica dei pazienti affetti da MICI Le MICI colpiscono in modo particolare i giovani tra i 20 e i 35 anni e sempre più spesso bambini e adolescenti, condannandoli a una dolorosa condizione di cronicità. Implicano dunque una serie di problematiche di carattere psicologico che non possono essere ignorate: quali sono gli aspetti che maggiormente affliggono i pazienti e le paure che insorgono a causa dello stato di malattia? Innanzitutto una serie di problematiche legate alla gestione dell’ansia e del controllo, che sono particolarmente invalidanti per il paziente, in quanto comportano una riduzione della sua libertà. Un altro fattore è legato al timore del giudizio sociale: le MICI sono generalmente poco conosciute dall’opinione pubblica e, per certi aspetti, sicuramente travisate; inoltre, un secondo fattore molto importante è che colpiscono dimensioni intime della persona, per cui non sono facilmente comunicabili, anche perché non danno tracce esteriormente visibili, come ad esempio, la calvizie in una persona affetta da tumore e che sta seguendo la chemioterapia. Quindi le MICI chiamano in causa, in modo spesso conflittuale, aspetti di comunicazione sociale e forti esigenze di riservatezza. Un terzo aspetto, particolarmente significativo, è il tema legato all’identità corporea, in modo particolare per le persone giovani che vanno incontro a complicanze e a interventi chirurgici, di tipo temporaneo o permanente, che comportano un adattamento dell’immagine di sé a quella che è vissuta come una vera e propria “mutilazione”. Quanto incide una patologia di questo genere sulla capacità di costruire e gestire le relazioni sociali e affettive? La presenza costante della patologia costringe i pazienti di MICI a gestire le relazioni sociali con un grado di allerta maggiore; nella sfera della sessualità, le problematiche connesse all’immagine corporea e la natura particolarmente delicata delle manifestazioni dei sintomi possono essere molto invalidanti, creando disagi rilevanti nelle dimensioni intime dell’affettività. Quali sono i vantaggi di portare avanti un lavoro psicologico insieme al paziente nell’ambito di un’équipe di cura integrata? Nelle persone affette da MICI vi è il grosso rischio di risposte psicologiche di carattere non funzionale, cioè risposte “patologizzate” da parte del paziente, con conseguente disadattamento psicologico. L’attività di un’équipe integrata consente al paziente di prendere consapevolezza della necessità di un percorso di cura che preveda un approccio alla patologia non solo biologico ma anche psichico: il fatto che lo psicologo non sia separato dall’équipe medica evita che venga trasmesso il messaggio “tu non funzioni, sei matto, per cui devi andare dallo psicologo”. Al contrario, la cura deve essere integrata e contemplare sia una componente medica sia una psicologica, che si esplica in un percorso psico- educativo in grado di considerare anche gli aspetti emotivi della gestione della patologia. I vantaggi possono concretizzarsi in un miglioramento della gestione degli aspetti dell’ansia, con un conseguente miglioramento della Qualità della Vita. Per coloro in particolare difficoltà che accedono a un percorso di tipo psicoterapeutico, la possibilità è quella di conseguire una migliore integrazione dell’immagine di sé.
In che modo l’uso precoce della terapia biologica può fare la differenza nella Qualità della Vita dei pazienti affetti da MICI? Al di là degli aspetti di tipo prettamente biomedico, il fatto di poter offrire questo tipo di trattamenti può essere vissuto come una chance in più in una malattia che comunque è vista dai pazienti con un’evoluzione sostanzialmente infausta. In qualche modo, dal punto di vista emotivo, allontana lo spettro dell’intervento chirurgico. Inoltre, i successi della ricerca, come i recenti farmaci biologici, possono essere considerati un importante messaggio di speranza; ma il paziente deve essere sempre consapevole del carattere cronico di queste patologie e imparare a sviluppare un senso di accettazione della sua condizione, in modo che non venga meno l’aderenza alla cura. 6_b
Davide Resnati Membro del Consiglio Nazionale A.M.I.C.I. Italia Onlus Associazione Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino A.M.I.C.I per non sentirsi soli: il sostegno dell’associazione ai pazienti con Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino Può raccontarci come e quando nasce A.M.I.C.I. Italia Onlus? A.M.I.C.I. nasce nel 1988, dapprima in Emilia Romagna per poi estendersi nelle altre Regioni, come Associazione su base regionale ma federata a livello nazionale. Nel 2010 è stato portato a compimento un processo di trasformazione da struttura a livello regionale, anche se confederata, a unica Associazione nazionale con Sezioni regionali. Gli iscritti sono circa 5.000, anche se nel corso degli anni siamo stati contattati da più di 10.000 persone, a fronte dei circa 200.000 pazienti di MICI presenti sul territorio nazionale. In Italia, anche per remore di tipo culturale, i pazienti tendono a vivere la propria patologia in ambito familiare, ritenendola, a torto, una sorta di “vergogna”. Nel nostro Paese purtroppo l’associazionismo è vissuto in modo molto differente rispetto ai paesi anglosassoni: nel Regno Unito, con simile numero di abitanti e simile ordine di grandezza d’incidenza di patologia, gli iscritti sono 30.000. In Olanda, che ha un numero di abitanti nettamente più basso, il numero di iscritti all’Associazione locale è maggiore che in Italia. Quali sono le finalità e le funzioni primarie che l’Associazione si prefigge? A.M.I.C.I. è nata dall’esigenza di riunire pazienti e parenti di pazienti affetti da MICI al fine di superare l’isolamento che, alla fine degli anni ’80, era un problema tangibile: queste patologie erano molto poco conosciute e chi ne era affetto si sentiva abbandonato nel difficile compito di affrontare l’impegno di gestire una malattia cronica. C’era dunque l’esigenza di scambiarsi reciprocamente esperienze e di costruire la cosiddetta “massa d’urto” per ottenere risultati che consentissero di vivere una vita più serena e affrontare meglio la patologia, anche dal punto di vista di una migliore interazione con Enti pubblici, aziende farmaceutiche, medici. A.M.I.C.I. Italia Onlus si occupa tra l'altro di produrre documentazione di tipo medico-scientifico che è disponibile per tutti i soci e per coloro che ne fanno richiesta, fermo restando, ovviamente, che con tale servizio non intende sostituirsi al rapporto diretto medico-paziente. Può delinearci la situazione italiana in termini di assistenza sanitaria nei riguardi dei pazienti affetti da MICI? In Italia abbiamo realtà ospedaliere molto diverse: i Centri importanti hanno maggiore esperienza nella gestione della malattia perchè vedono più pazienti e anche i casi clinici più complessi, e gli specialisti che vi operano hanno spesso maturato esperienze all’estero. Si tende dunque a far confluire i casi più complessi verso i Centri più qualificati: tra gli obiettivi di A.M.I.C.I. Italia Onlus vi è anche quella di creare in ogni Regione dei Centri specializzati riconosciuti a livello nazionale, non per penalizzare le strutture minori, ma perché le MICI sono malattie che vanno affrontate con un impegno in termini di esperienza clinica, strumentazione diagnostica e interdisciplinarietà che un piccolo ospedale difficilmente può offrire. E per quanto riguarda le politiche sociali? Dall'indagine Diogene, da poco presentata, emerge che l’11% dei pazienti è disoccupato o sottoccupato a causa delle MICI e il 9% non è in grado di lavorare a tempo pieno. Queste malattie
implicano numerose e ripetute assenze dal posto di lavoro, che espongono i pazienti al rischio della perdita dell'occupazione. I pazienti di MICI sono ancora poco tutelati. Il grado d’invalidità che viene oggi riconosciuto comporta un basso livello di tutela: vi sono alcuni esami diagnostici prettamente riferiti al follow up, sia clinici sia ematochimici, che non hanno ancora l’esenzione del ticket, per alcuni farmaci si paga solo la quota ricetta, per altri non ancora. In questo caso cerchiamo di avere contatti con l’AIFA per superare quelle che riteniamo delle incongruenze, ma i limiti della burocrazia spesso ci costringono all’attesa di anni solo per ricevere una semplice risposta. Quanto è importante una diagnosi precoce nella gestione delle MICI? Dalla comparsa dei primi sintomi trascorrono circa 3 anni prima che i pazienti giungano alla visita di uno specialista e ci vogliono 5 anni per arrivare alla diagnosi. L’importanza di una diagnosi il più possibile precoce va quindi più che mai ribadita, al fine di limitare l’evoluzione della malattia verso stadi di complessità clinica che implicano per il paziente un peso quotidiano spesso insostenibile, e per il Servizio Sanitario Nazionale un sensibile aumento dei costi di gestione, per via della maggiore frequenza delle ospedalizzazioni e dell’uso di terapie più costose. Per arrivare a una diagnosi tempestiva, il grado di conoscenza dei Medici di Medicina Generale è un aspetto decisivo: è stato calcolato che, nel corso della loro vita professionale, si confronteranno solo con 3-4 casi di MICI. È dunque auspicabile una maggiore formazione permanente per i Medici di Medicina Generale, che consentirebbe di identificare senza eccessive dilazioni temporali i sintomi che possono indurre al sospetto di una MICI, indirizzare tempestivamente il paziente allo specialista, al fine di mettere quanto prima in atto i protocolli diagnostici e conseguentemente terapeutici, evitando quei ritardi che, ribadiamo, possono determinare un maggiore impegno per il paziente e costi maggiorati per il Servizio Sanitario Nazionale. Come sono cambiati i rapporti medico-paziente rispetto alle MICI nel corso di questi ultimi vent’anni? Rispetto agli anni ’80, nel rapporto medico-paziente sono state eliminate molte barriere, grazie anche al lavoro delle Associazioni pazienti. Prima i medici tendevano a non istaurare un dialogo con il paziente in merito alla diagnosi e agli aspetti sociali e psicologici della patologia: la comunicazione era univoca, gerarchicamente strutturata, e si limitava alla fredda formulazione della diagnosi e all’indicazione della cura. Ora il rapporto è più diretto e confidenziale, c’è un dialogo costruttivo, derivante anche da una maggiore acquisizione d’informazioni e competenze da parte del paziente, frutto anche del lavoro associazionistico. Ciò presenta un duplice vantaggio: da un lato il medico può accompagnare più facilmente il paziente collaborativo in tutto il percorso diagnostico-terapeutico, dall’altro il paziente sarà in grado di gestire la malattia in modo più soddisfacente rispetto al passato. 7_b
LE MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE INTESTINALI Le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, conosciute con l’acronimo di MICI o quello inglese di IBD (Inflammatory Bowel Diseases), sono malattie infiammatorie idiopatiche, cioè di origine sconosciuta, ad andamento cronico, che interessano l’intestino, e si suddividono in due tipologie: Malattia di Crohn e Colite Ulcerosa. La Malattia di Crohn comporta ulcerazioni della mucosa intestinale e può interessare tutti i segmenti intestinali, anche se si localizza prevalentemente a livello ileo-colico. La Colite Ulcerosa colpisce le mucose del colon e/o del retto. Le MICI possono colpire qualsiasi tratto dell’intestino tenue e del colon, provocando una vasta gamma di sintomi particolarmente invalidanti: dolori addominali, diarrea, anche ematica, vomito, febbre, calo ponderale, astenia. Le ripercussioni di queste patologie sulla salute generale e sulla Qualità di Vita delle persone che sono costrette a conviverci sono particolarmente gravi e pesanti, considerata la dislocazione delle lesioni e la natura dei sintomi. Dal punto di vista della loro diffusione, le MICI presentano un andamento mutevole. Intorno agli anni ’50 del ‘900, quando hanno cominciato a emergere, erano diffuse prevalentemente nella popolazione dei Paesi a economia avanzata, la Colite Ulcerosa era prevalente rispetto alla Malattia di Crohn e quest’ultima era più comune tra le donne che tra gli uomini. Negli ultimi dieci anni, invece, le MICI si sono diffuse anche nei Paesi in via d’industrializzazione o in quelli, come il Giappone, nel quale non erano presenti, con una prevalenza della Malattia di Crohn rispetto alla Colite Ulcerosa1. Inoltre, i nuovi casi e gli individui ammalati sono aumentati di venti volte; sono più di 2,2 milioni in Europa le persone che convivono con queste patologie e circa 200.000 i pazienti in Italia, dove, ogni anno, sono eseguite dalle 3.000 alle 5.600 nuove diagnosi di Colite Ulcerosa e dalle 1.350 alle 2.000 di Malattia di Crohn. In mancanza di un Registro Nazionale, tali quantificazioni possono risultare sottostimate. Le MICI presentano due picchi d’incidenza: un primo picco variabile dai 15 ai 45 anni e un secondo in età tardiva; da qualche anno sono sempre più numerosi i casi in età pediatrica e adolescenziale. Quando queste patologie colpiscono i bambini, il malassorbimento intestinale può incidere molto pesantemente sul processo di crescita. Sono caratterizzate da un’eccessiva risposta immunitaria ad antigeni che sono fisiologicamente presenti nell’intestino: per cause ancora non conosciute, invece di rivolgere le sue azioni d’attacco verso agenti estranei (non self) il sistema immunitario produce cloni di cellule auto-reattive, auto- anticorpi che reagiscono contro gli organi del suo stesso organismo (self). Fino a dieci anni fa, le MICI erano controllate, a seconda della gravità, tramite due differenti classi di farmaci – gli steroidi e gli immunosoppressori – e con l’ausilio della Chirurgia, utilizzata come ultima opzione. L’avvento dei farmaci biologici come infliximab alla fine degli anni ’90 ha modificato profondamente l’approccio terapeutico, migliorando sostanzialmente la Qualità della Vita dei pazienti affetti da queste patologie. Attualmente, alla luce dei recenti studi che ne hanno confermato la sicurezza e l’efficacia nella guarigione della mucosa intestinale, con il 70% di remissioni nei casi trattati, le Linee Guida europee indicano l’uso precoce del ricorso a infliximab come l’opzione terapeutica indicata nei pazienti con MICI di forma da moderata a grave, per i quali riduce in modo sostanziale il ricorso all’intervento chirurgico e alle ospedalizzazioni e consente ai pazienti di non ricorrere alla terapia steroidea, evitando i suoi pesanti effetti collaterali.
Dal punto di vista dell'eziologia, tra le ipotesi recentemente avanzate per spiegare l’origine delle MICI, una ricerca condotta su modelli animali2 ha evidenziato il ruolo importante di una molecola di protezione dell’intestino (NF-kB). La sua assenza potrebbe indebolire l’epitelio che separa le pareti dal lume intestinale, dove si trova la flora batterica, determinandone la distruzione: il contatto tra le pareti dell’intestino e i microorganismi scatenerebbe la risposta del sistema immunitario, causando l’insorgenza dell’infiammazione; a sua volta, essa provocherebbe la distruzione di nuovo epitelio, in un meccanismo a catena che porterebbe alla cronicizzazione della malattia. 8_b
LA MALATTIA DI CROHN La Malattia di Crohn è una malattia infiammatoria dell’intestino, a carattere cronico, che può colpire tutti i segmenti intestinali, anche se nella maggioranza dei casi si localizza nel colon e nell’ultima parte dell’intestino tenue, la sezione distale dell’ileo, e interessa circa lo 0,1% della popolazione mondiale. La Malattia di Crohn non è una malattia ereditaria, ma presenta comunque una forte componente genetica: un quinto dei pazienti ha un consanguineo affetto dalla medesima patologia. Sono state scoperte mutazioni a livello di una trentina di geni, anche se nessuna di queste mutazioni da sola è responsabile dell’insorgenza della malattia: occorrono, infatti, più mutazioni e in concorso con fattori ambientali. Segni e sintomi A seconda dello stato di malattia, del decorso, della localizzazione e delle eventuali complicazioni, i segni e i sintomi della Malattia di Crohn possono includere: • gonfiore e dolore addominale, molto spesso a livello dell’ombelico e nella zona destra della pancia, che tende ad aumentare dopo il consumo dei pasti; • diarrea cronica, prevalentemente notturna; • perdita di peso: • febbre; • sanguinamento rettale; • anoressia o cachessia; • ragadi, fistole, ascessi perianali. Complicanze La Malattia di Crohn è a carattere cronico e si manifesta con riattivazioni periodiche di maggiore o minore gravità, intervallate da periodi di remissione. La ripetizione delle fasi attive di malattia può dare origine a complicanze, che interessano uno-due pazienti su dieci. Complicanze intestinali A livello intestinale sono molto comuni gli episodi di stenosi, restringimenti che possono causare crampi, meteorismo e distensione dell’addome; le ostruzioni, che possono dipendere anche da abitudini alimentari non adeguate, possono essere parziali o totali e comportare anche nausea e vomito. Le complicanze più comuni sono l’insorgenza di fibrosi intestinale e la formazione di fistole (6%); circa il 15% dei pazienti sviluppa fistole, ragadi o ascessi anali entro cinque anni dalla diagnosi. Le complicanze legate all’alterata funzione intestinale sono: • Calcolosi biliare e renale; • Idronefrosi e Idrouretere, per compressione dell’uretere; • infezioni del tratto urinario; • malassorbimento e ipercoagulabilità. Complicanze extraintestinali Sono conseguenza delle alterazioni dell’attività del sistema immunitario che possono derivare sia dall’evoluzione della malattia, sia da disturbi a essa associati, ma indipendenti dal suo decorso. Colpiscono diversi distretti dell’organismo, come articolazioni, vie biliari, epidermide, occhi e possono provocare: • Spondiloartrite anchilosante e Sacroileite; • Artrite periferica; • Colangite Sclerosante primitiva (infiammazione delle vie biliari); 8_c
• manifestazioni cutanee come Eritema nodoso e Pioderma gangrenoso; • infiammazioni oculari, come Uveite e Sclerocongiuntivite. Infine, nei casi di Malattia di Crohn di lunga durata, può manifestarsi l’insorgenza di Adenocarcinomi del tratto gastrointestinale e, più raramente, Linfomi. Diagnosi Poiché condivide i sintomi con altre patologie, la Malattia di Crohn non è facilmente diagnosticabile al di fuori dei Centri dedicati. La mancanza di specificità o “banalità” dei sintomi principali comporta di solito un ritardo dai tre ai cinque anni nella diagnosi. La precocità della diagnosi, e la tempestiva instaurazione di una terapia in grado di controllare l’evoluzione della malattia, sono fattori determinanti per assicurare ai pazienti una migliore Qualità di Vita. Non esistono attualmente marcatori specifici che consentono di identificare la Malattia di Crohn attraverso test di laboratorio: alcuni esami emato-chimici possono essere utili per evidenziare stati anomali ed escludere altre patologie. Ad esempio, la VES (velocità di eritrosedimentazione) e il conteggio dei globuli bianchi sono considerati “spie dell’infiammazione”, mentre l’esame colturale e parassitologico delle feci è utile per escludere la presenza di una Colite infettiva o parassitaria. Per capire se vi siano lesioni e dove siano localizzate si utilizza l’endoscopia con biopsia. Nei casi in cui non sia possibile accedere direttamente alla zona interessata, si ricorre agli esami radiologici, come il clisma dell’intestino tenue, la TAC e la Risonanza Magnetica intestinale, tipologie d’indagine che risultano più precise e meno dannose per i tessuti. Terapie farmacologiche L’avvento dei farmaci biologici, disponibili da oltre 10 anni anche in Italia e a carico del Sistema Sanitario Nazionale, ha comportato una vera e propria rivoluzione, offrendo per la prima volta ai medici un’arma terapeutica in grado di modificare il decorso della malattia e non agire soltanto sui sintomi. Le ricerche più recenti hanno confermato che il farmaco biologico infliximab, usato precocemente, conduce nel 70% dei casi alla guarigione della mucosa, fattore essenziale per una remissione a lungo termine della malattia, liberando i pazienti dai pesanti effetti collaterali della terapia steroidea. Attualmente sono disponibili quattro opzioni farmacologiche. Per i casi da lievi a moderati: • si ricorre in prevalenza alla terapia a base di aminosalicilati, derivati dall’acido acetilsalicilico che inibiscono l’enzima ciclo-ossigenasi, bloccando la cascata dell’infiammazione: la mesalazina (FANS) è il farmaco d’esordio. Per i casi da moderati a gravi: • corticosteroidi, molecole strutturalmente analoghe al cortisolo, un ormone sintetizzato e secreto dal surrene, che hanno funzione antinfiammatoria, ma che non consentono di mantenere a lungo lo stato di remissione e presentano gravi effetti collaterali, come osteoporosi e diabete; • immunosoppressori, anch’essi penalizzati da gravi effetti collaterali, spesso utilizzati per ridurre o eliminare la dipendenza dai corticosteroidi e quando il cortisone non si dimostra più efficace; • terapia biologica (infliximab), anticorpo monoclonale che, sulla base della conoscenza del meccanismo biologico della patologia, impedisce a una particolare citochina, il TNF-alfa, di legarsi ai suoi recettori, bloccando all’origine le reazioni infiammatorie innescate dalla citochina e riducendo significativamente gli effetti collaterali. Prima dell’avvento dei farmaci biologici, l’approccio tradizionale (step up) prevedeva farmaci più leggeri all’inizio e poi, man mano che la malattia diventava più importante, altri farmaci in maniera sequenziale, fino a ricorrere all’intervento chirurgico. Dopo l’arrivo di infliximab la prospettiva è radicalmente 8_d
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