Saragozzarte2019 i racconti premiati - Biblioteca Tassinari Clò - Comune di Bologna

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Saragozzarte2019 i racconti premiati - Biblioteca Tassinari Clò - Comune di Bologna
Saragozzarte2019
    i racconti premiati

       Biblioteca Tassinari Clò
Parco di Villa Spada – Via Casaglia 7 , Bologna
   051.434383 – www.bibliotechebologna.it
Saragozzarte2019 i racconti premiati - Biblioteca Tassinari Clò - Comune di Bologna
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Saragozzarte2019 i racconti premiati - Biblioteca Tassinari Clò - Comune di Bologna
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                        INDICE

Roberta Montanari SERGIO E GLI ALTRI
                                                         5
Margherita Lanteri Cravet MIA
                                                        10
Eleonora Conti C’ERA UNA VOLTA
                                                        15
Giorgio Bicocchi LA CORSIA VUOTA DEL SARAGOZZA
                                                        19
Maria Cristina Gubellini LA VENDETTA DI GINEVRA
                                                        24
Valter Serafini PRATICA 26/2019
                                                        29
Roberto Passini RIVE GAUCHE
                                                        34
Oleana Neri LE PAROLE TRA NOI LEGGERE
                                                        39
Maria Antonietta Alestra LA STRADA DEI MIEI SOGNI
                                                        45
Angela Colapinto QUARTIERE SARAGOZZA: GUIDA A
DOVE INFRATTARSI
                                                        48
Maria Paola Meo, Martino Parlanti Garbero, Nicolò Mattioli,
Cecilia Galliani
PILLOLE DI STORIA                                      55
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Prima di iniziare le lettura

Quest’anno siamo giunti alla 5. edizione del premio letterario
che nasce dalla collaborazione tra la Biblioteca Tassinari Clò e
il gruppo di lettura Voltapagina. La longevità di questa
esperienza, piccola ma legata al territorio (il Quartiere Porto
Saragozza), ci sembra derivare non solo dalla costanza degli
degli organizzatori, ma soprattutto dalla passione di coloro che
hanno partecipato inviandoci i loro racconti e le loro opere
artistiche. A tutti voi va il nostro ringraziamento. Arrivederci
alla 6. edizione!

                                                  La Biblioteca
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        SERGIO E GLI ALTRI: l’anima di via Zoccoli
                 Roberta Montanari

Via Zoccoli non è sempre stata via Zoccoli. E soprattutto non è
sempre stata solamente una strada. Almeno per me e per chi,
come me, l’ha vista nascere e trasformarsi tracciando la sua
storia.
Collinette erbose e frutteti occupavano fino alla fine degli anni
‘50 quel breve spazio su cui oggi si estende e che, all’epoca
ancor più breve, si concludeva sul greto del torrente Ravone
che correva irrequieto verso la via Andrea Costa
Poi, a poco a poco, sorsero i palazzi in luogo dei campi e, con
essi, andò prendendo forma il rettilineo della neonata strada.
Non ebbe un nome per anni, fino al 1970, prendendolo a
prestito dalla più ‘anziana’ Valeriani, di cui era naturale
proseguimento oltre il suo angolo.
Eppure non era ancora una strada. Rimaneva un largo spazio,
aperto e vivo, per chi a poco a poco veniva lì a stabilire la
propria dimora. Un luogo animato soprattutto di bambini, di
tanti bambini. E c'ero anch'io fra quei piccoli fortunati che
vissero qui un'infanzia indimenticabile.
In quel luogo magico noi abbiamo scoperto, appreso,
comunicato, praticando una vita urbana gratificante e intensa.
Ci incontrammo estranei e sconosciuti e divenimmo quasi
fratelli, condividendo gioie, dolori, delusioni, speranze.
E intorno, un pullulare di adulti che vegliavano, protettivi e
discreti, sulle nostre esperienze spesso da loro condivise con
vivace partecipazione.
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Erano le tarde serate a rincorre le lucciole nel buio, le recite in
costume, le affollate ‘cocomerate’, nei giardini che ancora
conservavano l'anima delle vecchie ‘corti’, allestite con
panchine e vecchie sedie, accoglienti mamme intente al ricamo
o al lavoro a maglia, sotto gli alberi carichi di albicocche,
susine e nespole, tra lenzuola svolazzanti stese al sole.
Erano i raggruppamenti festosi attorno ai carretti a pedali degli
ambulanti di passaggio, l'arrotino, il solfanaio, il divertente
venditore di mestoli mestolini mestolotti. Tutti lì, insieme.
Adulti e bambini con gli occhi accesi di curiosità.
Una comunità frizzante sottolineata da una colonna sonora di
parole per voci diverse.
Una comunità variegata di personaggi, straordinari nella loro
tipicità: c’erano, in quella folla, il grande pittore, il famoso
calciatore del Bologna, la rinomata giornalista, la ‘punturaia’ e
poi la ‘gran bella figliuola’ (così si autodefiniva) che transitava
con sussiego indossando abiti bizzarri completati da
smisuratamente larghi cappelli di paglia e l'autista che sapeva
imitare alla perfezione il suono di una tromba.
Così lì, tra illustri, stravaganti e sportivi, giovani, anziani e
bambini attraversavano il tempo danzando i loro riti
quotidiani.
Il personaggio più formidabile, però, perno di tutta quella
comunità, è sempre stato lui, Sergio, il salumiere, incollato da
mattina a sera al banco del suo esercizio. A quattro generazioni
ha servito pane e salumi e tutti lo conoscono. E lui conosce
tutti. Quando, solamente pochi anni fa dopo più di
cinquant'anni, ha definitivamente abbassato la serranda della
sua bottega, via Zoccoli ha perso la colonna portante della sua
comunità.
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Raccontare di Sergio e della sua bottega è dare testimonianza
storica di un microcosmo, scolpendo, come in un monumento,
il ricordo di quelle figure che lo hanno animato.

Slanciato, non eccessivamente alto, misura extra-large di
simpatia che esprime attraverso la sua bolognesità genuina,
candido, nell'anima, come il lungo grembiale che indossava al
lavoro, infaticabile e svelto, generoso e sensibile, possiede
le qualità oggi rare che fanno dell'uomo una creatura di
eccezione. E in quei pochi metri quadri pieni di ogni ben di
Dio che per decenni ha gestito insieme con la moglie Mara, si
è sempre respirata quell’atmosfera di umanità e di benessere
da lui saputa creare. Lì, tra soave fragranza di pane fresco e
avvolgente profumo di mortadella, ci si incontrava tutti. Lì si
comunicavano le vicissitudini quotidiane, si ricevevano parole
buone e si godeva delle battute di spirito di quel negoziante
che sollevava l'animo.
Aveva orecchi per tutti, per l'anziana che chiedeva mermelata,
cecolata e parsiutto, per la sofisticata e profumata signora che
esibiva stile elegante e linguaggio forbito, per il ragazzino
vivace e irriverente pronto a mettere a soqquadro ogni cosa,
per gli habitué che, vogliosi solo di chiacchierare, sostavano
quotidianamente per ore nel locale, eletto a luogo di ritrovo.
Per loro, l'argomento consueto di conversazione era quello di
carattere sportivo, perché trovavano in Sergio un interlocutore
esperto e appassionato. Praticante attivo di parecchi sport,
quando ogni anno partecipava alla gara podistica Bologna-San
Luca erano tutti lì, i suoi avventori, al nastro di partenza, a
sostenerlo tifando per il loro beniamino. E ancora lì, assiepati
in via XXI Aprile accanto al cinema Apollo, ne attendevano
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l'arrivo entusiasti. Poi, in bottega, per giorni si commentava
l’andamento della gara, mentre si godeva della vista delle
coppe di metallo lucente assegnate all’atleta e posizionate
sugli scaffali, quasi a far concorrenza a quelle mangerecce, di
suino, in bella mostra su ripiani sottostanti.

Fu proprio ancora grazie a Sergio che via Zoccoli ebbe il suo
piccolo momento di notorietà, finendo sul Resto del Carlino
per un’iniziativa da lui avviata. Ogni 10 agosto, il salumiere
organizzava nella strada una competizione di Zacâgn, un
vecchio gioco bolognese. Quell’antico trastullo si svolge
lanciando a turno una giarella, ossia un grosso sasso piatto,
verso una pietra predisposta su cui sono appoggiate delle
monete che costituiscono la posta in gioco: una volta fatte
cadere da questa, chi si avvicina maggiormente ad esse vince.
Ebbene, nel 1991, durante una gara partecipatissima di
‘Zoccolesi’, un giornalista del quotidiano locale intervenne sul
posto, proprio davanti alla salumeria dove si svolgeva, e diede
contezza a tutta Bologna della piccola ma straordinaria
manifestazione attraverso un suo articolo corredato da tanto di
foto.
Tutto cessò allorché, ripavimentata la strada e trasformata
secondo l’assetto attuale, non fu più possibile individuare
un’area adatta al gioco. Da quei primi anni Novanta, tutto a
poco a poco cambiò, decretando inesorabilmente la fine di un
piccolo mondo.
Forse nemmeno lui, lo storico e mitico salumiere, si è mai reso
conto davvero dell’importanza fondamentale della sua
funzione.
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Quando, adesso, lo si vede passare sul grigio marciapiede
lungo una via Zoccoli percorsa da una processione di auto e
seminascosta da vetture parcheggiate ovunque, forse, come
noi, si rende conto che questa strada è ormai definitivamente
diventata una vera via, carina, forse, ma senza più anima. Una
strada come tante.
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                             MIA
                   Margherita Lanteri Cravet

 Ti ho dato questo nome non perché gli altri ti chiamino Mia
              ma per farti sentire libera sempre.

Da piccola, quando ti svegliavi di notte, ti prendevo in braccio
e ti portavo in giro per le stanze. Tu giravi il capo, vigile e
curiosa. Sembravi percepire la mia euforia e vibrare
d’eccitazione con me per la novità della tua esistenza nel
tempo insieme che ci attendeva.
Quando ci affacciavamo dalla finestrella sul tetto, ti stringevo
più forte e ti indicavo le stelle i colli le torri le luci, fiera di
abitare questa città, contenta di averti fatta nascere qui.
Restavamo in contemplazione, guancia contro guancia, gli
occhi persi nell’oscurità, finché tu non accennavi uno
sbadiglio o sbattevi le palpebre, e io ti invitavo a congedarti:
“Ecco, adesso saluta, augura la buona notte a Bologna! Mia
torna a nanna!”.
Hai imparato a fare ciao ciao con la manina, era il nostro rito
serale: aprire la finestrella della mansarda, socchiudere il vetro
incuranti delle intemperie e mettere a letto tutti. “Buona notte,
Bologna, Mia ha sonno, è ora che dormi anche tu!”.
Poi, quattro anni dopo la tua nascita, ci siamo trasferiti al
Quartiere Saragozza, e abbiamo lasciato il Quartiere San
Vitale, il nostro amato nido, il parco della Montagnola dove ti
portavo a giocare.
La prima notte nella nuova casa, non ti davi pace: “Ma dov’è
Bologna? È lontana? Quando ci torniamo? Dove sono le torri?
Perché non le vediamo? Come puoi dire che siamo a Bologna?
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Voglio tornare a casa!”. E così per innumerevoli sere a seguire,
finché un pomeriggio ti portammo a fare visita alla giovane
coppia che aveva acquistato l’appartamento e tu, trovandolo
così mutato, non riconoscendo un solo oggetto familiare, da
allora smettesti, inaspettatamente, di reclamare, come se la
memoria della “tua Bologna” si fosse dissolta all’improvviso.
Rivedere il tuo luogo del cuore profanato e perduto per sempre
ti procurò forse un dolore che siamo stati incapaci di cogliere.

Finalmente eravamo al Quartiere Saragozza, dove avevo
trascorso i miei anni dell’Università, in mezzo ai parchi più
belli, tra mille sfumature e iridescenze di verde, frutti, fiori,
canti, profumi; non mi sembrava vero che tu potessi
scorrazzare in un prato senza l’incubo delle siringhe, dopo
anni trascorsi nel degrado del centro, tra tossici, barboni,
pitbull e punkabbestia…
Qui è nata la sorellina tanto desiderata, che hai cresciuto come
una seconda mamma, divertendovi come matte, leggendole
centinaia di libri.
Tu, seria e burlona, la mia compagna leale, cucinavi
prelibatezze, scrivevi racconti, ti confidavi con me.
L’adolescenza arrivava in sordina, mentre frequentavi gli
scout, giocavi a pallavolo, studiavi a testa bassa, ti dividevi
equamente fra amici e famiglia.
Al primo colloquio i professori del Liceo mi hanno tessuto
prevedibilmente le tue lodi.
Da gennaio in poi, la catastrofe.
La casistica completa delle complicazioni dell’età, una dopo
l’altra o in contemporanea, come se si trattasse di un
esperimento sociale: bugie, volgarità, piercing, fumo,
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incidenti, fuori a notte fonda senza comunicare dove e con chi,
pessima condotta scolastica, caduta nella fontana ghiacciata,
recuperata nel bosco in ipotermia, improbabili furti di cartelli e
cucchiaini, studio approssimativo, smodata attività fisica,
alimentazione da asceta, grave carenza di sonno.
Tutto questo col cellulare in mano, anche in bici, e addio ai
libri per sempre.
La mia bambina incantevole e riflessiva, che accarezzandomi
mi diceva “ti voglio bene”, si era tramutata in una ribelle in
balia degli impulsi, a caccia di rischi e di sfide, assolutamente
fuori controllo, arrogante, crudele, feroce.
Non riconoscendoti più, non capendo la metamorfosi, mentre
mi evitavi in ogni modo, mi sforzavo di mantenere un contatto,
ma il distacco diventava voragine, ti controllavo per
proteggerti da te stessa, ti pregavo di non metterti nei guai, e tu
mi mi cacciavi, mi spingevi via, mi urlavi di lasciarti in pace.
Io mamma inadeguata, soffocante, in preda all’ansia, più tu mi
odi più ti sommergo del mio amore inesorabile, inesauribile e
pernicioso.

Annientata la famiglia, per te ci sono solo i tuoi pari, che ti
adorano: buffa e originale, acqua e sapone, sfrontata, intrepida,
resistente a ogni fatica.
Casa è come essere in carcere, tu vuoi stare fuori e basta. Il
mondo è tutto per te.

In questi due anni di tenebra, una certezza: l’amore per un
ragazzino tuo compagno di classe, bello e taciturno, totalmente
devoto. Tu la sua principale occupazione e ragione di vita.
Siete in simbiosi, perennemente in contatto, fisico e virtuale.
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Ai nostri occhi il vostro rapporto è un mistero: non irradi luce,
non sembri felice, non lo nomini mai, sfuggi ogni domanda.
Né fai uso del “noi”, non parli al futuro. Eppure lui è sempre
con te, chiacchierate, scherzate, e l’invidia per questo
privilegio mi toglie il respiro.
Lui abita al Quartiere San Vitale nella stessa via della casa
della tua prima infanzia. Non potete ricordarvi ma avete anche
frequentato il nido insieme.
Là trascorri ogni minuto che puoi, i weekend, i pomeriggi,
spesso la sera e non di rado la notte. Quello è il tuo rifugio.
Dal Quartiere Saragozza ti tieni lontana, casa tua ti ripugna.
Qui ci siamo noi, i tuoi genitori, che non ostacoliamo il tuo
amore, non imponiamo divieti, ma per sostenerti e spronarti,
preoccupandoci del domani, imbastiamo regole, ti incalziamo,
ti esasperiamo.
Sei cresciuta troppo in fretta e non ti riconosci. Se ci guardi in
faccia leggi il tuo stesso smarrimento, e ti fa orrore. Per questo
qui stai il meno possibile.

Vorrei non avere mai cambiato casa. Adesso potrei esserti più
vicina la maggior parte del tempo. Se fossimo rimasti al
Quartiere San Vitale, il corso degli eventi avrebbe forse preso
un’altra direzione.

Un giorno sono venuta a cercarti sotto casa del tuo ragazzo,
non ti sei fatta trovare naturalmente, ma ti ho trovata lo stesso
in quelle strade in cui ho vissuto l’inizio del mio amore con
papà e i tuoi primi anni di vita, la nostalgia mi ha
accompagnata tra i ricordi mentre camminavo e mi scordavo
di te e del presente.
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Ecco Mia, alla fine, dopo dieci anni, ce l’hai fatta a tornare
nella tua Bologna.
Passata l’adolescenza, riavremo un posto nella tua vita? Ci
restituirai un brandello di tempo?
Tornerai qui in Saragozza? Da sola, solo per noi, a casa tua
davvero, lo sguardo dritto in viso, con il sorriso limpido e gli
occhi splendenti?

Ora vai in Nepal, a 16 anni, a far volontariato negli ospedali, e
nonostante la mia angoscia, anzi a maggior ragione, non
rinuncerai a questa avventura. Chissà, una volta rientrata,
assorbito lo choc di un’esperienza così estrema, dopo aver
respirato lo smog di Kathmandu, apprezzerai fugacemente
l’ambiente protetto della famiglia, l’aria pulita di Villa Spada;
tu che hai il coraggio di andare da sola dall’altra parte del
mondo rientrerai più volentieri nella tua casa-prigione, e con la
certezza di ripartire fra non molto, magari definitivamente, ti
scoprirai quasi indulgente verso chi amandoti ti ha tormentata.
Per un momento troverai un po’ di pace, tu quasi adulta.

Tanto ti chiami Mia, e nessuno, non una madre apprensiva né
un padre esperto in pianificazione né un fidanzato di lunga
data, può illudersi che quel nome risuoni se non proprio per te.
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            C’ERA UNA VOLTA … 50 ANNI FA
                    Eleonora Conti

A giugno compirò 64 anni, ho abitato in via Turati fino al ‘66,
poi fino al ‘75 in via Brizio, di fronte alla chiesa di S. Paolo di
Ravone era la classica spiegazione. Il canale Ravone
fiancheggia via Brizio, fummo i primi, nel ’65-’66, a tombarlo
nei lavori di ampliamento della casa, appena acquistata. IL
’66, l’anno della storica alluvione di Firenze, anche da noi ci
furono danni, straripò il Reno alla chiusa di Casalecchio, lo
ricordo perché fu inondato e poi demolito il ristorante sulla
riva del fiume, meta delle poche uscite a pranzo domenicali
della mia famiglia: noi bambini, i nostri genitori e i nonni
materni con cui abitavamo. E anche il Ravone arrivò allora
quasi a livello della nostra terrazza, spaventandoci ed
eccitandoci con la sua violenza trascinatrice e fangosa.
Ma torniamo indietro a prima del ’66: il cortile di via Turati, la
scuola Bombicci, il teatro dei burattini a piazza Volta… mi è
concesso dire – senza peccare troppo di nostalgia – che il
quartiere era, allora, a misura di bambino? Il controllo degli
adulti era rappresentato dai negozianti di via Turati, gli stessi
che, quando tornavamo troppo tardi dai giochi in altri cortili o
dai giri in bicicletta, ci anticipavano la preoccupazione e l’ira
funesta dei nostri genitori, foriere di scapaccioni, una specie di
rito questi ritorni a casa, un misto di contrizione, vergogna e
paura.
Abitavamo in un appartamento che si affacciava su un grande
cortile quadrato, si giocava con gli altri bambini, si litigava, si
assisteva agli avvenimenti del cortile; io
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ricordo l’arrivo dei blocchi di ghiaccio al vicino che unico
possedeva una ghiacciaia e il ritorno dalla pesca del padre di
due bambine del cortile, pescava pesci gatto, chissà perché mi
è rimasto in mente, forse per la curiosità dell’accostamento.
La scuola Bombicci era frequentata da bambini di estrazione
sociale molto diversa; ad un estremo quelli delle case popolari
di via Turati, dalla parte di via Andrea Costa, quale la mia, e
dall’altro quelli delle ville signorili di via Saragozza. Di solito
i primi frequentavano anche il doposcuola, i secondi no. Il
doposcuola significava mangiare alla mensa scolastica, se ti
fermavi ad aiutare a sparecchiare, potevi rimanere un po’
anche a giocare e ti risparmiavi l’obbligo del sonnellino
pomeridiano, con la testa china sui banchi. Anche la scuola ha
subito da allora tanti cambiamenti; non c’è più, per esempio,
il grande prato dove potevi incontrare tartarughe fuggite dai
giardini vicini e arrampicarti, a giugno, a raccogliere rusticani
da un albero che nel ricordo è molto alto e con una grande
chioma rossa. E poi vi sembra poco semplicemente poter
correre su un prato?
A casa non avevamo la televisione e si andava ad assistere allo
spettacolo del sabato sera al bar Europa in via Andrea Costa;
c’era un giardinetto con la vasca dei pesci rossi, ma la saletta
rimaneva nel seminterrato e puzzava di fumo vecchio e stantio.
Ho citato prima il teatro dei burattini in piazza Volta. Questi
due luoghi/eventi, la TV al Bar Europa e i burattini in piazza
Volta, sono stati occasione per me di una recentissima
emozione. Dovete sapere che ho uno zio novantenne che
è stato fino a pochi anni fa un’enciclopedia vivente di eventi
politici, associazionismo, musica classica,
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conoscenze storiche e geografiche, ha scritto libri. Pur essendo
ora la sua mente per lo più persa in un mondo in cui è arduo
penetrare e dietro ad angosce da cui è difficile distoglierlo,
ancora conserva miracolosamente ricordi nitidi e preziosi. Il
Bar Europa sorgeva, mi ha detto, nel luogo in cui durante la
guerra c’era stata un’infermeria per i partigiani feriti, tra gli
altri vi lavorava Stella Tozzi,che lui aveva poi conosciuto,
lavorando entrambi all’ospedale Roncati dove stavano “i
matti”, in via S. Isaia 90. Per quanto riguarda i burattini,
ricordava il nome del burattinaio, Romano Danielli, che
d’estate allestiva spettacoli, oltre che a piazza Volta, in piazza
Trento e Trieste, piazza di Porta d’Azeglio, piazza Nettuno,
piazza VIII agosto.
Il quartiere aveva tre cinema: due erano sia al chiuso che
all’aperto: Olimpia in via Andrea Costa e Edison, poi Apollo,
in via XXI Aprile, il terzo era il parrocchiale della Chiesa di S.
Giuseppe. In quest’ultimo, alla domenica pomeriggio,
proiettavano in successione due film diversi, ci accompagnava
la nonna, immagino per lasciare un po’ d’intimità a figlia e
genero. Solo il parrocchiale è rimasto, gli altri cinema hanno
ceduto il posto a due supermercati.
D’estate frequentavo il campo solare di Casaglia; ci
raccoglieva un autobus in via Saragozza, i bambini venivano
da diverse parti della città e c’era una specie di gara tra gli
autobus a chi arrivava su per primo. Ricordo con emozione la
volta che il nostro autista scese ad aiutare un collega che non
riusciva a compiere una
manovra in una delle tante curve di via Casaglia. Che
orgoglio! Che applausi!
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All’inizio di via Casaglia c’è villa Spada col suo parco
meraviglioso esteso su una collina. Questa villa fa parte dei
ricordi tra gli 11 e i 14 anni quando già abitavo in via Brizio.
Eravamo una dozzina di bambini, quasi tutti coetanei, tranne
qualche fratello piccolo tra cui il mio. Via Brizio era ben poco
trafficata allora, visto che si giocava tranquillamente in strada.
Qualche volta raggiungevamo a piedi villa Spada ed erano
gare di coraggio a salire e scendere sentieri scoscesi. Ricordo
la statua del cane nel luogo della sua sepoltura. Ci sono tornata
poco tempo fa, ma la statua era crollata e il piccolo portico
quadrato transennato tutto attorno, inaccessibile.
E qui si chiude il cerchio …. Sono entrata nella luminosa
biblioteca del parco, e finalmente ho trovato qualcosa di bello
nel quartiere che non c’era una volta ed ora c’è.
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         LA CORSIA VUOTA DEL SARAGOZZA
                  Giorgio Bicocchi

“Mi chiamo Carmen Longo e sono morta a Brema il 28
gennaio 1966. Ero una nuotatrice e, assieme a me, in quel
giorno infame, morirono tanti ragazzi e ragazze che volevano
realizzare i loro sogni.

Se fossi ancora viva avrei 72 anni. Probabilmente avrei abitato
nella casa che fu di mio nonno, in via Andrea Costa, se non
altro per perpetuare il ricordo della mia famiglia in quel
palazzo.
Partivamo da lì, accompagnati dal nonno, mia sorella ed io,
per andare in piscina. E l’acqua, l’odore del cloro, mi tenne
compagnia fino a quando lasciai questa vita. Tanto che lo
considerai quasi un oltraggio – l’ultimo – del destino quello di
avermi tolto la vita facendomi precipitare, con un aereo, sulla
campagna tedesca, a pochi chilometri da Brema, e non magari
in mare, poco più avanti. Nel dolore per lasciare precocemente
questa vita avrei avuto quasi piacere ad essere inghiottita
dall’acqua, senza più respirare.

Ogni tanto, al pari di tante anime, faccio capolino sopra il cielo
di Bologna. Avevo lasciato – io, nata nel ’47, appena dopo la
fine della guerra – una città che si volgeva al futuro, retaggio
del boom economico degli Anni Cinquanta. Le osterie di Porta
Saragozza sempre piene, i juke-box che diffondevano i motivi
più in voga di quegli anni. Le voci di Mina, Celentano,
20

Edoardo Vianello, Nada a regalare attimi di vita spensierata.
Erano gli anni del “Bandiera Gialla”: i crateri
fumanti della guerra erano, per fortuna, un ricordo lontano e la
gente non voleva più pensarci.

Perché la musica, in fondo, è stato un mezzo per evadere,
sognare e sentirsi vivi. C’era il vecchio Dall’Ara che brulicava
di rossoblù, dopo lo storico scudetto vinto nel ’64, in attesa
delle due Coppe Italia che, di lì a poco, sarebbero arrivate.
C’erano le facce degli studenti, c’era l’odore del brodo che
fuorisciva dalle trattorie.

Non faccio certo fatica a rammentare che i miei genitori, da
piccola, mi portavano a giocare all’interno di Villa delle Rose
e di Villa Spada. Ancora oggi, da qualche squarcio di nuvole,
cerco con lo sguardo le fontane di allora. Meno bianche ed
immacolate, come erano allora, magari oltraggiate da qualche
stupida incisione nel marmo, ma sempre presenti, monito del
tempo che è evaporato. All’interno di quelle due ville – ai
miei tempi – si andava anche il giorno di festa per fare festosi
pic-nic..

Ricordo la moltitudine di “tigelle” che facevano da
companatico ai salumi: iniziai a nuotare seriamente molto
presto per cui anche quelle ore spensierate furono poche. La
domenica ero fuori, vestita d’azzurro, perché la Federazione
organizzava tante sfide.

A Brema, in quel gelido giorno di gennaio, se ne andò la
meglio gioventù del nuoto italiano. Una sciagura che riportò
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indietro di quasi vent’anni, accumulata allo schianto di
Superga e all’addio alla vita del Grande Torino.

Assieme ai miei genitori, la domenica, andavo al centro di
Bologna: ci andavo quando non mi allenavo. O ero fuori città
per qualche gara. Prima di salire su quel maledetto aereo per
Brema ero appena tornata dal Brasile. I miei ricordi – ovvio
che sia così – sono pochi ma circostanziati.
Bologna, il mio quartiere, Porta Saragozza, li ho vissuti per
poco. Mio malgrado.

Però, anima curiosa, osservo, registro, annoto e tutto mi
sembra davvero cambiato. I bambini di oggi quasi non giocano
più – preferendo passare il tempo, seppure all’interno delle
ville – con il cellulare sempre in mano. Ed allora ti chiedi: ma
non erano meglio – e più funzionali per la loro crescita – quei
vecchi giochi che si praticavano in giardino? Ruba-bandiera,
nascondino?

Se fossi in vita mi piacerebbe indugiare all’interno della
Cineteca di Bologna o del MamBo. C’è una cosa di cui vado
orgogliosa di quello che fu il mio quartiere: è diventato un
vero polo delle arti, accogliendo virtuosi, persone piene di
inventiva, davvero poco banali. Forse anche loro – se mi
avessero visto in vasca – mi avrebbero definito una artista
dell’acqua. Perché anche in piscina le bracciate non sono tutte
uguali e ogni nuotatore affresca le proprie come un pittore
simboleggia un proprio dipinto.
22

Rispetto ai miei tempi molto è cambiato. E come non
potrebbe, d’altronde? Io sono stata colpita
dal destino a 19 anni, nel ’66… Molti negozi, molti ritrovi non
ci sono più perché portare avanti una attività costa molto e i
ricavi, spesso, non coprono i costi fissi.

Anche così, però, pur in presenza di un quartiere che si è
modificato, credo che avrei continuato a vivere al Saragozza.
Magari a fianco di mia sorella Nicoletta, di soli 16 mesi più
grande di me.
Avrei portato i miei nipoti a spasso per Villa delle Rose o Villa
Spada. Bologna poi è rimasta piccola. Forse meno civettuola
di una volta ma piccola, compatta.

Avrei acquistato qualcosa dai tanti negozi etnici che sono stati
aperti per dare un tocco di colore alla mia casa. Mescolandoli
alle coppe, ai trofei, ai diplomi, alle cornici con le foto delle
mie vittorie o dei miei piazzamenti. Per quanti anni avrei
ancora nuotato se una morte ingiusta non mi avesse ghermito?
Chi lo sa…

Se fossi rimasta in vista mi sarebbe piaciuta una casa
luminosa, possibilmente con uno o più terrazzi perché –
amante dell’acqua – lo ero anche degli spazi. Confondendomi
poi, nei giorni di svago, con coloro che salgono sulla collina di
San Luca, in autunno o dall’inizio della primavera.

Avrei atteso con ansia anche la neve: forse ne ho vista di più
girando il mondo – indossando la tuta della Nazionale di nuoto
– che a Bologna. Ricordo vagamente la nevicata del 1960: solo
23

nell’arco di una notte caddero venticinque centimetri che
mandarono in tilt la città. Il Comune assunse un migliaio di
spalatori per fare più in fretta. Ecco, il Saragozza – al pari di
tanti altri quartieri – si bloccò. I bambini scesero per strada e
tutti i tetti dei nostri palazzi assomigliarono, sia pure per poche
ore, a quelli delle città del Nord Europa.

Dopo la morte mi hanno intitolato tante piscine. Quella di
Bologna, altre in Puglia, in omaggio alle origini del miei
genitori. Ve lo confesso: ne avrei fatto volentieri a meno
nonostante abbia perso la vita assieme ad altre 45 persone con
le quali, nel gruppo della Nazionale azzurra di nuoto, avevo
imparato a dividere ore, pensieri e speranze. In quel momento
infame e profondamente ingiusto fu quasi una consolazione.

Ci sono sere in cui mi intrufolo nella piscina accanto allo
Stadio Dall’Ara, fermandomi a leggere il nome che porta, vale
a dire il mio. Avrei voluto fare altro nella vita, essere ricordata
per essere una buona mamma, una buona sorella, una brava
ragazza. E allora rimpiango ciò che è stato, quella fine
ingiusta. Il destino che mi ha tolto dalla mia famiglia e dal mio
quartiere, proteso al futuro. Entro in acqua, comincio a
nuotare, muovendomi da ranista consumata come ero, quasi
senza fare rumore, fendendo la superficie. Penso a ciò che
poteva essere la mia vita e la paragono ad un corridoio bianco:
già, la corsia vuota del Saragozza…”.
24

               LA VENDETTA DI GINEVRA
                  Mariacristina Gubellini

Anni 60, notte di piena estate, a Bologna.
L'elegante strada liberty è tutta silenziosa a quest'ora. Un
raggio di luna entra dalla finestra tonda del primo piano e
illumina delicatamente lo scrittoio del salone. Vi sono poggiate
due fotografie: un uomo in età, lo sguardo composto e fiero di
chi indossa con orgoglio la divisa, e un giovane che gli
somiglia, elegante nel bel completo da tennis.
Donna Ginevra, che ancora non dorme, è venuta nello studio a
cercare pace.
Sfiora le cornici con una carezza e sospirando si affaccia su
via Audinot.
Una notte magnifica, la luna sembra grandissima. Quanto
silenzio, e che profumo di gelsomini!
Tanta bellezza contrasta con il suo tormento.
Domani - ormai ha deciso - la ucciderà.
Suo figlio Gherardo, il giovane tennista ritratto nella foto, si
era perdutamente innamorato - invaghito correggeva lei - di
una cantante del varietà, tale Venusta, in arte Lola.
A nulla erano valse le minacce del padre, le lacrime della
madre che intuivano la feroce trappola per Gherardo, ancora
troppo giovane e ingenuo.
Con l'arroganza e la caparbietà dei suoi vent'anni, il loro
rampollo aveva continuato a frequentare Venusta e ne era
rimasto invischiato sempre più.
25

Così quando lei gli aveva annunciato che avrebbe seguito a
Roma un tale gerarca che le prometteva mari e monti,
Gherardo si era sentito crollare il mondo addosso.
Provò per giorni a riconquistarla con regali costosi, a cercare
di farle cambiare idea...
Nulla.
Una mattina di luglio lei partì col suo nuovo amante e
Gherardo fece appena in tempo a vedere la loro Balilla
sfrecciare per via Saragozza.
Tornò a casa come una furia e, presa di nascosto la pistola del
padre, si uccise.
Il dolore per la morte del figlio amatissimo fu davvero troppo
per Donna Ginevra e Vittorio. Cercarono di riprendersi, lui le
comprò persino una villetta in via Audinot perché
“l'appartamento di via Bellinzona – diceva - ha troppi ricordi”.
Aveva sperato che sistemarla e arredarla insieme potesse loro
giovare in qualche modo.
Non fu così.
Il cuore di Vittorio, attanagliato dal rimorso di non essere
riuscito a trattenere Gherardo da quel terribile gesto, non resse
più di qualche mese.
E Donna Ginevra si ritrovò completamente sola nella grande
casa, disperato dono d'amore del suo Vittorio.
“Domani saranno trent'anni” - ricordò tristemente Ginevra -
“Domani finalmente mi vendicherò”.

Dopo la fine della guerra, quando certe tensioni avevano
cominciato ad affievolirsi, Venusta era tornata a Bologna.
Aveva affittato un piccolo bilocale in via XXI Aprile e
vivacchiava dando lezioni di canto.
26

Solo il giorno prima, mentre stava sorseggiando un tè, Donna
Ginevra se l'era ritrovata al Caffè Billi, al Meloncello.
Invecchiata, un po' appesantita, l'aveva potuta osservare poco
perché si era presa un caffelatte in piedi ma fu certa che fosse
lei appena la sentì dire: “Mi chiamo Venusta. Le posso lasciare
il mio indirizzo? Sa, se per caso qualche signora avesse
bisogno di compagnia o se ci fossero delle scale da pulire...”.
“È il destino che me la manda” - si disse Donna Ginevra e
quando la cantante fu uscita, si fece dare dalla barista il suo
contatto.
E adesso? Aveva sognato la vendetta per tutti questi anni e ora
l'occasione le si presentava su un piatto d'argento. Il cuore era
in tumulto.

Non riusciva a stare ferma, le sembrava che tutti la
guardassero. Così uscì in fretta dal locale e si avviò per Piazza
della Pace.
Aveva bisogno di camminare.
Riuscì a stupirsi per la meravigliosa nuvola bianca che un
grande oleandro le offriva, proprio mentre girava per via
Andrea Costa, E ricordò che anni addietro, quando lei era
ancora giovane, si chiamava via Duca d'Aosta.
Si fermò un momento, a pensare. Quante cose cambiavano e
quante cose rifiorivano, proprio come questo splendido
oleandro, Un velo di malinconia le offuscò gli occhi. Valeva
ancora la pena di provare tanto odio? Poi si riscosse, riprese a
camminare più speditamente, raggiunse casa. Decisa, fece
avvisare Venusta che la signorina Bartolini l'aspettava
l'indomani alle 18 per un colloquio di lavoro.
27

La cantante non si insospettì di nulla: ignorava che quello
fosse il cognome di donna Ginevra da giovane né l'indirizzo di
via Audinot poteva risvegliarle il passato. Così, tutta
speranzosa, decise che sarebbe andata.
Donna Ginevra, intanto, rigirava tra le mani la pistola di
Vittorio, ripeteva frasi già imparate a memoria e pregustava il
momento.
Ma forse il caldo, forse un calo di pressione, cominciò a
sentirsi stanca e sentì il bisogno di stendersi. Si appisolò e,
cosa che non le succedeva da tempo, cominciò a sognare.
Nel sogno, Vittorio e Gherardo le apparvero belli come sempre
e sereni come mai.
Erano in via XXI Aprile, davanti a una casa che Ginevra pensò
subito essere quella di Venusta e le stavano facendo segno di
no, di lasciar perdere.
Le presero le mani e la condussero davanti all'oleandro che
aveva visto il giorno prima, poi ancora a passeggiare per Villa
Ghigi.
Come stava bene con loro, quanta serenità le trasmettevano!
Accanto ai suoi cari scompariva ogni rancore...
Il sogno le sembrò lunghissimo perchè quando si svegliò era
pomeriggio inoltrato.
Donna Ginevra si alzò lentamente dal divano, ripose la pistola
di Vittorio, accarezzò le cornici d'argento che teneva sullo
scrittorio e andò ad affacciarsi su via Audinot.
La giornata era ancora splendida, respirò il leggero venticello
che stava soffiando, le parve che ora il suo cuore fosse
finalmente sgombro come quel cielo terso che stava
ammirando sopra casa sua. E sopra tutta la sua bellissima città.
28

Una donna non più giovane, una ex cantante stava cercando il
campanello della signorina Bartolini.
Suonò più volte.
Donna Ginevra continuò a contemplare il cielo.
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                     PRATICA 26/2019
                       Valter Serafini

L'agente Antonio Amato ha spento la sigaretta nel posacenere,
e rivolgendosi a Giovanna ha chiesto:

 - Lei abita a Bologna?-
G. Non più, ma sono vissuta in questo quartiere fino al 2006,
l'anno in cui mi sono sposata.
A. Viene frequentemente da noi?
G. Finché ho avuto mia madre in vita venivo tutte le
settimane, ma mancavo da tre anni!
A. Conosceva già l'uomo che è deceduto nella camera che le
aveva riservato la Bed & Breakfast Alberta D, il 20 Aprile?
G. No, non l'avevo mai incontrato prima di quella sera.
A. Quale motivo l'aveva portata nel nostro quartiere?
G. Desideravo rivedere il luoghi della mia infanzia e della
mia adolescenza, ed avevo deciso di trascorrervi un week
end!
A. Può raccontare cosa è successo la sera del 20 Aprile?
G. Avevo lasciato il Bed & Breakfast per andare a cena da
Biagi, un ristorante che frequentavo anche con i miei
genitori, e mi sono avviata per via Frassinago.
Dopo essermi fermata per qualche istante ad osservare
l'imponente struttura della Porta, ho proseguito per via
Saragozza quando un uomo mi ha affiancato chiedendo di
fermarmi.
A. Chi era?
G. Era Giulio … con in mano il mio portafoglio.
30

A. Come ha giustificato il possesso del suo portafoglio?
G. Ha detto che nell'estrarre il foulard dalla borsa l'avevo
inavvertitamente fatto cadere, e lui che era alle mie spalle
l'ha raccolto e mi ha inseguito per ridarmelo!
A. Lei cosa le ha detto?
G. Sono rimasta talmente sorpresa che solo dopo alcuni
secondi sono riuscita a balbettare un “grazie”!
A. Poi cosa ha fatto?
G. Ho controllato che all'interno vi fossero i documenti, il
denaro, e la carta di credito, e l'ho ringraziato nuovamente
allungandogli una banconota da 50 euro.
A. L'ha accettata?
G. No, e ha respinto ogni altra mia offerta in denaro.
A. Lei come si è comportata?
G. Sentivo il dovere di premiare la sua onestà, e sapendo che
il ristorante Biagi era poco più avanti ho avuto l'idea
d'invitarlo a cena.
A. Lui è stato d'accordo?
G. Subito ha rifiutato scuotendo il capo, ma io ho insistito
raccontandogli che odio mangiare da sola, e che mi sentivo
in obbligo di ricompensare il suo gesto.
A. L'ha convinto?
G. Sì, alla fine ha accettato la mia proposta, e dopo esserci
presentati con una stretta di mano, siamo entrati al
ristorante assieme.
A. Il 20 Aprile era un sabato, giorno in cui il Ristorante Biagi è
solitamente pieno di clienti. Lei come è riuscita a trovare un
tavolo libero?
 G. Ne avevo riservato uno telefonicamente, e al mio tavolo è
bastato far aggiungere un altro coperto!
31

A. Ha parlato con lui durante la cena?
G. Ovviamente, e Giulio è risultato essere una delle persone
più gradevoli e sensibili che io abbia conosciuto.
Inoltre i suoi occhi e il suo sguardo mi ricordavano un noto
attore americano che io amo molto
 A. Quindi l'incontro è stato positivo?
G. Sì, positivo e coinvolgente perché nel corso della serata
ho scoperto che tutti i suoi pensieri e le sue idee,
convergevano con i miei pensieri e con le mie idee. Stesso
modo di rapportarci col mondo, stessi gusti! Giulio poi era
anche un amabilissimo conversatore!
A. Si era quindi instaurato un clima d'intesa tra voi due.
G. Di perfetta intesa aggiungerei!
A. Precisi meglio!
G. Mi vergogno di doverlo confessare, ma l'indefinibile
atmosfera di mistero che lo circondava mi aveva conquistato,
e credo che il suo misurato ed educato corteggiamento abbia
indotto Cupìdo a scagliare su di me le sue frecce!
A. Un colpo di fulmine dunque!
G. I colpi di fulmine sono una prerogativa delle quindicenni,
non delle donne della mia età … ma era qualcosa di simile!
A. Si ricorda di cosa avete poi parlato?
G. Di vari argomenti. Dai libri letti alle città visitate, e devo
ammettere che ogni sua parola mi ammaliava perché Giulio
sapeva trovare la bellezza e l'armonia in tutto ciò di cui
parlavamo.
 A. E di personale cosa vi siete detti?
G. Io gli ho raccontato del mio matrimonio fallito, mentre
lui ha evitato di parlare della sua vita privata, quindi non so
se era sposato, divorziato, e se aveva dei figli!
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A. Poi cosa è successo?
G. Finito di cenare, e sentenziato che i tortellini di Biagi
erano da Premio Nobel, mi ha accompagnata alla B.&B
Alberta D in Via Sant'Isaia 58, dove alloggiavo.
A. Come ci siete andati?
G. A piedi. Il ristorante Biagi e la B.&B. Alberta D non sono
molto distanti, e la serata era meteorologicamente
favorevole.
A. Arrivati alla B.&B. cosa avete fatto?
G. Ormai si erano create le condizioni perché si concludesse
la serata in camera!
A. E cosa è accaduto nella camera assegnatale dalla B.&B.?
 G. Le solite cose che succedono tra una donna e un uomo
quando si piacciono e si desiderano.
A. Racconti senza entrare nei particolari.
G. Ci siamo scambiati delle effusioni e ci stavamo togliendo i
vestiti, quando Giulio ha emesso un gemito soffocato ed è
crollato sul pavimento.
A. Lei come ha reagito?
G. Non rispondendo ai miei richiami mi sono allarmata,
quindi mi sono rivestita e sono corsa ad avvisare la
responsabile della B.&B. perché chiamasse i soccorsi.
A. Quando tempo ha impiegato l'autoambulanza ad arrivare?
G. Credo dieci minuti un quarto d'ora al massimo, ma
nonostante medico e infermieri si siano prodigati, per Giulio
non c’era più nulla da fare.
A. Giulio, e poi? Di lui cosa sapeva ancora?
G. Giulio e basta, di lui ho conosciuto solo il nome, Giulio,
Giulio, solamente Giulio!
*
33

Era l'ultima domanda che l'agente Amato intendeva farle,
perciò si è alzato in piedi ed ha congedato Giovanna con una
stretta di mano.
Lei ha risposto al saluto, ma prima d'andarsene ha voluto
chiedere:
            .............chi......chi era Giulio?.........
L'agente si è mordicchiato il labbro inferiore, ha fissato per un
momento gli occhi cerulei di lei, poi ha risposto alla sua
domanda facendole leggere il dispaccio ricevuto.

S'informa che Giulio Roncato, nato a Scarperia di Borgo san
Lorenzo il 12 Febbraio 1963, e deceduto nella Vostra
circoscrizione il 20 Aprile c.a., era presule presso la Pieve di
Polenta

Quindi ha inserito il dispaccio all'interno di una carpetta verde
sulla cui copertina era scritto con un pennarello nero
                           Pratica 26/2019
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                 LA MIA “RIVE GAUCHE”
                      Roberto Passini

E' una giornata di pioggia. Devo combattere l'inerzia; la
passività, che questo clima sempre procura. Esco? Indugio un
po'. Alla fine mi vinco. E' talmente comodo! Penso. Alludo al
percorso che ho adottato da qualche anno per combattere la
“ruggine” che pian piano, ma neanche tanto, mi si attacca.
Sono circa quattro kilometri: tra andata e ritorno da casa mia;
Piazza della Pace, Arco del Meloncello del Dotti, fino all'Arco
del Bonaccorsi a Porta Saragozza. Questo elegante edificio
dava la possibilità ai fedeli di un tempo di seguire la
processione di accompagno della Madonna di S. Luca anche in
caso di pioggia; praticamente dal centro di Bologna fin dentro
al Santuario sul colle della Guardia, 666 arcate. Quasi una
prolunga di casa mia. E' talmente comodo!
Dei tanti altri di analoga lunghezza nel quartiere. Alla fine è lui
che ha scelto me. Pioggia, vento e magari neve, il portico più
bello del mondo ti accoglie. Inizia così il percorso verso la
magnifica fuga prospettica delle arcate. Lascio alle spalle lo
storico Bar Billi, ed entro dal tabaccaio. Questa piccola
bottega degli anni cinquanta mi è sempre piaciuta: con il suo
allestimento in legno di noce; una Boiserie totale, soffitto
compreso, molto bella, che conferisce intimità. Il proprietario
è molto gentile; pensate, mi fa una ricarica anche di cinque
euro, con il sorriso. A un tavolino d'angolo staziona spesso una
suora anziana: piccola e grassa intenta a grattare “Gratta e
Vinci”. Non so se abbia mai vinto qualcosa. Ad un passo, la
bottega di cornici del mio amico Angelo, dove indugerei
volentieri a fare quattro chiacchiere con lui; però solo dopo le
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dieci, perché prima di quell'ora non apre. Dalla Puglia si è
portato dietro – se non il sole e i Trulli – almeno i ritmi del
sud.
Fare per anni la stessa via si finisce per conoscere persone,
botteghe artigiane e la gente che ci lavora. E pure molti, che
come me, adottano questo cammino al coperto: vecchietti
accompagnati dalle badanti; per non parlare delle frotte di
amanti dello jogging, specie la domenica con destinazione S.
Luca. Di corsa! Li vedi di lontano e un attimo dopo quasi ti
travolgono, tutti colorati, nelle loro tute tecniche aderenti, a
volte vere e proprie orde; come in una esplosione
caleidoscopica.
Il punto di fuga della prospettiva, ad un certo punto si
interrompe. Siamo alla grande curva del Bar Pipa; che un
tempo era sovrastato da una grossa pipa, appunto. Una vistosa
insegna che faceva da richiamo già da lontano. Poi un giorno,
sicuramente una nuova gestione pensò bene di toglierla, per un
malinteso senso di modernità.
Fuori della porta del bar, seduto, estate e inverno, c'è sempre
qualche ospite di Villa Olga, con lo sguardo perso sulla gente
che passa indifferente. Villa Olga - ospizio per anziani -, nella
dirimpettaia via Francesco Dotti; mi meraviglia un po' che
nessuno, nottetempo, non abbia apposto una bella “T” al posto
della “O”, in ossequio al noto calciatore.
In qualche lunetta delle arcate un tempo affrescate, c'è ancora
qualche traccia di pittura e almeno in un caso una è ancora
intatta.
Più avanti si passa sotto lo sguardo materno della Madonna
Grassa, fresca di restauro. A due passi c'è l'abitazione di un
amico, Mauro B; esperto cinefilo e topo di biblioteca: credo
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che un suo record si aggiri attorno a centocinquanta libri letti
in un anno, che se non sapessi che non risponde al citofono,
suonerei, fingendomi un messo comunale, che come si sa non
sono mai latori di piacevolezze.
Cammino, immerso nei miei pensieri oziosi a passo svelto;
devo solo evitare le numerose cacche di cane – a volte veri e
propri slalom-, e ai ragazzi che camminano leggendo lo
smartphone; assorti nel loro mondo. Ma non solo loro; ho visto
una giovane mamma che spingendo la carrozzina col suo
bimbo, cozzava contro un passante, perché intenta a
smanettare.
Soffro nel vedere i muri e ogni superficie, vandalizzata dalle
scritte. Ultimamente però “bande” di volontari hanno cercato,
con i pochi mezzi disposizione di cancellare alla meglio lo
“scazugliamento” di questi cervelli brucellosi, e ne soffro
ancor più perché questa stoltezza, che dura ormai da troppo
tempo, rimarca ancor più la differenza tra le generazioni; al di
là dell'evidente danno.
All'angolo di via Turati, devo vincere la stretta allo stomaco
per gli effluvi che escono da una pescheria. Però è pur sempre
vita.
Tutta questa parte porticata, salvo alcuni tratti ciechi, ospita
negozi e botteghe artigiane. Pakistani e Indiani hanno il
monopolio di frutta e verdura: se ne contano almeno cinque o
sei.
Ormai sono verso la fine del mio giro, ma prima di invertire la
marcia sotto l'Arco del Bonaccorsi, e concludere questo
percorso dal sapore “archeologico”, un' ultima annotazione in
proposito. Non mi ero mai accorto della presenza molto
discreta di un negozietto; una merceria degli anni cinquanta
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ancora intonsa, che comunica tutto il suo fascino. Poi il bar
Margherita, tornato alla memoria di molti, per il ricordo che
Pupi Avati ha voluto dedicargli. Qualcuno mi ha detto che,
abitando un tempo di fronte, ne avesse osservato la vita che gli
gravitava intorno; traducendo queste immagini e ricordi in un
film.
Piove forte. Cammino rasente il muro perché intanto si è
levato un ventaccio che spinge la pioggia fin dentro;
facendomi apprezzare ancor più questa mai lodata abbastanza,
opera architettonica.
Questo percorso, fin dall'inizio, si accompagna al suo lato
speculare, ai piedi della collina e che offre realtà del tutto
diverse: più ricche e aristocratiche calate in un ambiente
naturale. Architetture eleganti si susseguono ; cominciando
dalla casa di riposo Lyda Borelli. Subito dopo il bel teatro
moderno Il Celebrazioni. Poi Villa delle Rose in posizione
preminente: dal grande scalone monumentale, nascosta da
giganteschi e magnifici cedri.
In prossimità della grande curva all'angolo di via di Casaglia,
c'è Villa Spada con annesso museo della Tappezzeria.
All'interno del suo parco trova spazio la biblioteca del nostro
quartiere. Poco oltre, la magnifica Villa Benni, inserita in ettari
di parco occhieggia dietro due grandi faggi. Neoclassica:
costruita però negli anni venti. Durante la guerra fu requisita
dai tedeschi che vi installarono il comando. Fu poi scavato un
profondo bunker antiaereo che credo esista ancora. Oggi
questa bella villa è sede di un B&B di lusso.
Poi tutto un salto; un'infilata di ville, palazzi eleganti, dove si
vive senz'altro una vita molto diversa dalla sua dirimpettaia
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porticata; vissuta nel loro privato, senza clamori: la vita gelosa
dei ricchi!
I giardini poi si susseguono fino al convento dei Cappuccini
con annesso cinema parrocchiale.
Ma io sono ancora qui, nella mia parte, quella più popolare
dove la vita si vede e si sente, che mi sento addosso come un
vestito fatto su misura e guardo quel lato sotto la pioggia, e il
vento che rovescia qualche ombrello. Mi infilo in un piccolo
bar latteria: un piccolo negozietto non appariscente; infatti solo
da poco, anche di questo ho scoperto l'esistenza. L'interno mi
riporta indietro negli anni: come la merceria e la tabaccheria
dell'inizio; per la modestia dell'allestimento e la scelta dei
prodotti, che mi sembrano quelli di allora; nulla di costoso o
ricercato. L'aspetto sereno e gentile dell’anziana padrona poi,
che ti porge il caffè con garbo antico a 0.90 euro, funge da
macchina del tempo di questa “Rive Gauche”.
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             LE PAROLE TRA NOI LEGGERE
                     Oleana Neri

Sono entrata nell’enoteca, ho urtato involontariamente una
signora che stava uscendo. Ha detto “e allora?” con tono
accusatorio, come se l’urto che le avevo inflitto fosse l’ultima
di una serie di insopportabili angherie. Le ho sorriso e lei
indignata ha scrollato le spalle, ha sbattuto la porta del negozio
che si è chiusa facendo vibrare i battenti. Mi è dispiaciuto per
quella donna, sinceramene. Non dovremmo vivere il
quotidiano come una serie infinita di obblighi da rispettare, ma
scorgere, nelle nostre giornate, piccoli attimi, occasioni per
pensare alla bellezza e sorridere. Le imposizioni non mi sono
mai piaciute. Federico diceva che dipende dal colore che
hanno sempre avuto i miei capelli. “Le rosse sono libere per
natura”, sosteneva. Io, Matilde, sono molto orgogliosa dei
miei capelli rossi, ancora ricci e folti, nonostante il trascorrere
del tempo.
L’enoteca era piena di gente, tutti a naso in su tra gli scaffali.
Adoro le enoteche, sono una serie illimitata di piaceri. Le
bottiglie si lasciano ammirare, attendono con calma chi le
vorrà scegliere.
Il vino d’altronde, richiede quiete. Ti conquista lentamente, ti
inebria di profumi, ti inonda di sapori.
Per questo, stasera, ho deciso di portare a Umberto e Annalisa
una bottiglia di Amarone. E’ costoso ma vale tutto quello che
pretende. Annalisa mi vuole presentare suo padre arrivato ieri
da Ravenna, è medico, così mi pare di aver capito.
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Fuori piovigginava e mi ero un po’ bagnata, esco sempre senza
ombrello sperando nella complicità
dei portici e, se poi capita, la pioggia non m’infastidisce. Mi
mettono un senso di gioiosa leggerezza le goccioline fresche
sul viso, mi attrae l’odore di pulito che lava la città. Ho
scrollato i capelli approfittando di un angolo in penombra, mi
si è formata intorno una lieve nuvoletta di vapore. Ho sorriso.
E’ stato allora che mi sono sentita osservata.
Un’ombra, stagliata in controluce. Alto, sì, mi è parso alto. Si è
girato, ho sentito che mi guardava.
Gli sguardi sono sensazioni che si colgono. Ti arrivano
addosso, li senti come se li potessi toccare.
Gli sguardi degli uomini, specialmente. Capita che mi senta
osservata, anche se non sono più così
attraente. La mia età, poi, sembra non appartenermi, forse sarà
per questo. O anche perché sorrido
spesso. Ho letto da qualche parte che agli uomini piacciono le
donne che sorridono.
Ho alzato la testa, aperto gli occhi, volevo vedere com’era. E’
stato strano. Non guardo quasi mai gli uomini. Ho avuto
alcune storie dopo la separazione, ma niente di entusiasmante.
Io soffro nella vita di coppia, sono nata per stare da sola. Nella
solitudine coltivo i miei segreti, ascolto i miei pensieri.
E’ vero, sono stata sposata ma appena sono cresciuti i bambini,
ci siamo separati. Federico, conoscendomi, non se l’è presa
nemmeno tanto, ha dato la colpa ai miei capelli rossi. Abbiamo
sempre trascorso le vacanze e molti momenti piacevoli con i
ragazzi, come se la nostra fosse una situazione più che
naturale. Sono andata a vivere con Umberto e Attilio, i nostri
figli, in un appartamento al quinto piano, piccolo, ma il cielo
41

entrava dalle finestre e lo sfolgorio allegro delle campane la
sera si diffondeva dai campanili vicini.
Nei locali dell’enoteca le bottiglie risaltavano, lucide,
sonnolente, ignare. Lui si è spostato, e per una frazione di
secondo l’ho visto di sfuggita. Non riuscendo a immaginare il
suo viso, ho provato l’impulso di vedere com’era. Mi sono
fermata, lui si è avvicinato di qualche passo, arrivandomi quasi
di fronte. C’era gente nell’enoteca, ma nessuno intorno a quei
ripiani tranne noi due. Come se l’essere uno accanto all’altro
avesse annullato tutto il resto, spazzato via le voci, i volti, i
suoni che non avevano a che fare con il nostro incontro. Poi lui
ha detto “mi perdoni” e il rumore di sottofondo si è rianimato,
io ho di nuovo scosso i capelli, cercavo un gesto abituale per
riprendere il controllo di me stessa.
Ha chiesto se mi intendevo di vini. L’emozione mi impediva di
comprendere la situazione con esattezza poi ho capito che
voleva qualcosa da me, un suggerimento su di una bottiglia.
L’ho guardato, non ho notato niente altro, solo i suoi occhi. Mi
sono ripresa poi ho risposto “sì, abbastanza”, con una foga
eccessiva, colta dal timore che scomparisse all’improvviso,
così, come era apparso.
Abbiamo iniziato a parlare di vini, in perfetto accordo
sull’eccellenza dei vitigni italiani.
Ha detto che preferiva i rossi intensi, corposi, fruttati. Ho
risposto “Anch’io”. Temevo potesse sfuggirmi l’interesse a
prolungare la conversazione, come ad esempio “qual è il suo
nome” o “di che cosa si occupa” o, peggio “quando possiamo
rivederci”, così mi comportavo come un sommelier al
femminile invitata al convegno del Comitato Scientifico del
Vino e non una signora dai capelli rossi, con le ciglia
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allungate, vestita come Giulia e Annalisa, le incantevoli
compagne dei miei figli.
Improvvisamente, lui ha scelto una bottiglia, l’ha rigirata, poi
l’ha riposta, ha detto “grazie” ed è uscito in gran fretta, con
fare sconcertato.
L’ho seguito con lo sguardo, ha esitato, si è guardato intorno
poi ha attraversato la via Saragozza svanendo tra la folla.
Una decina di minuti e sarei arrivata davanti al portone di casa.
Per strada camminavo pensando a lui. Provavo una specie di
rimpianto, come se all’improvviso mi fossi trovata a rifiutare
un’occasione che avevo atteso da tempo, senza sapere di
aspettarla. Avrei voluto mettermi a ridere, come spesso rido
quando penso ai racconti delle amiche convincendomi che le
relazioni sentimentali hanno come unico scopo quello di
complicare la vita. Nessun sorriso, ero disorientata.
Poi, al tepore della vasca da bagno, sono riuscita a
riprendermi. Una parte di me si stava convincendo
che un simile stato d’animo sarebbe durato lo spazio che io gli
avrei concesso.
Sono uscita. Aveva smesso di piovere e l’aria era quasi
profumata. Sulla via Cesare Battisti ho rallentato il passo. La
giornata stava finendo in un tramonto dalle tinte dorate,
accanto alla chiesa di S. Salvatore svettava silenziosa
l’imponente torre campanaria, un palazzo mostrava il suo
cortile interno decorato di rose, qualche rampicante si
abbarbicava agli archi e alle colonne dell’androne. “Dio mio,
che meraviglia”, ho sussurrato a me stessa.
Ho suonato il campanello dell’abitazione di Umberto, il cuore
mi batteva stupidamente.
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