Saragozzarte2019 i racconti premiati - Biblioteca Tassinari Clò - Comune di Bologna
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Saragozzarte2019 i racconti premiati Biblioteca Tassinari Clò Parco di Villa Spada – Via Casaglia 7 , Bologna 051.434383 – www.bibliotechebologna.it
3 INDICE Roberta Montanari SERGIO E GLI ALTRI 5 Margherita Lanteri Cravet MIA 10 Eleonora Conti C’ERA UNA VOLTA 15 Giorgio Bicocchi LA CORSIA VUOTA DEL SARAGOZZA 19 Maria Cristina Gubellini LA VENDETTA DI GINEVRA 24 Valter Serafini PRATICA 26/2019 29 Roberto Passini RIVE GAUCHE 34 Oleana Neri LE PAROLE TRA NOI LEGGERE 39 Maria Antonietta Alestra LA STRADA DEI MIEI SOGNI 45 Angela Colapinto QUARTIERE SARAGOZZA: GUIDA A DOVE INFRATTARSI 48 Maria Paola Meo, Martino Parlanti Garbero, Nicolò Mattioli, Cecilia Galliani PILLOLE DI STORIA 55
4 Prima di iniziare le lettura Quest’anno siamo giunti alla 5. edizione del premio letterario che nasce dalla collaborazione tra la Biblioteca Tassinari Clò e il gruppo di lettura Voltapagina. La longevità di questa esperienza, piccola ma legata al territorio (il Quartiere Porto Saragozza), ci sembra derivare non solo dalla costanza degli degli organizzatori, ma soprattutto dalla passione di coloro che hanno partecipato inviandoci i loro racconti e le loro opere artistiche. A tutti voi va il nostro ringraziamento. Arrivederci alla 6. edizione! La Biblioteca
5 SERGIO E GLI ALTRI: l’anima di via Zoccoli Roberta Montanari Via Zoccoli non è sempre stata via Zoccoli. E soprattutto non è sempre stata solamente una strada. Almeno per me e per chi, come me, l’ha vista nascere e trasformarsi tracciando la sua storia. Collinette erbose e frutteti occupavano fino alla fine degli anni ‘50 quel breve spazio su cui oggi si estende e che, all’epoca ancor più breve, si concludeva sul greto del torrente Ravone che correva irrequieto verso la via Andrea Costa Poi, a poco a poco, sorsero i palazzi in luogo dei campi e, con essi, andò prendendo forma il rettilineo della neonata strada. Non ebbe un nome per anni, fino al 1970, prendendolo a prestito dalla più ‘anziana’ Valeriani, di cui era naturale proseguimento oltre il suo angolo. Eppure non era ancora una strada. Rimaneva un largo spazio, aperto e vivo, per chi a poco a poco veniva lì a stabilire la propria dimora. Un luogo animato soprattutto di bambini, di tanti bambini. E c'ero anch'io fra quei piccoli fortunati che vissero qui un'infanzia indimenticabile. In quel luogo magico noi abbiamo scoperto, appreso, comunicato, praticando una vita urbana gratificante e intensa. Ci incontrammo estranei e sconosciuti e divenimmo quasi fratelli, condividendo gioie, dolori, delusioni, speranze. E intorno, un pullulare di adulti che vegliavano, protettivi e discreti, sulle nostre esperienze spesso da loro condivise con vivace partecipazione.
6 Erano le tarde serate a rincorre le lucciole nel buio, le recite in costume, le affollate ‘cocomerate’, nei giardini che ancora conservavano l'anima delle vecchie ‘corti’, allestite con panchine e vecchie sedie, accoglienti mamme intente al ricamo o al lavoro a maglia, sotto gli alberi carichi di albicocche, susine e nespole, tra lenzuola svolazzanti stese al sole. Erano i raggruppamenti festosi attorno ai carretti a pedali degli ambulanti di passaggio, l'arrotino, il solfanaio, il divertente venditore di mestoli mestolini mestolotti. Tutti lì, insieme. Adulti e bambini con gli occhi accesi di curiosità. Una comunità frizzante sottolineata da una colonna sonora di parole per voci diverse. Una comunità variegata di personaggi, straordinari nella loro tipicità: c’erano, in quella folla, il grande pittore, il famoso calciatore del Bologna, la rinomata giornalista, la ‘punturaia’ e poi la ‘gran bella figliuola’ (così si autodefiniva) che transitava con sussiego indossando abiti bizzarri completati da smisuratamente larghi cappelli di paglia e l'autista che sapeva imitare alla perfezione il suono di una tromba. Così lì, tra illustri, stravaganti e sportivi, giovani, anziani e bambini attraversavano il tempo danzando i loro riti quotidiani. Il personaggio più formidabile, però, perno di tutta quella comunità, è sempre stato lui, Sergio, il salumiere, incollato da mattina a sera al banco del suo esercizio. A quattro generazioni ha servito pane e salumi e tutti lo conoscono. E lui conosce tutti. Quando, solamente pochi anni fa dopo più di cinquant'anni, ha definitivamente abbassato la serranda della sua bottega, via Zoccoli ha perso la colonna portante della sua comunità.
7 Raccontare di Sergio e della sua bottega è dare testimonianza storica di un microcosmo, scolpendo, come in un monumento, il ricordo di quelle figure che lo hanno animato. Slanciato, non eccessivamente alto, misura extra-large di simpatia che esprime attraverso la sua bolognesità genuina, candido, nell'anima, come il lungo grembiale che indossava al lavoro, infaticabile e svelto, generoso e sensibile, possiede le qualità oggi rare che fanno dell'uomo una creatura di eccezione. E in quei pochi metri quadri pieni di ogni ben di Dio che per decenni ha gestito insieme con la moglie Mara, si è sempre respirata quell’atmosfera di umanità e di benessere da lui saputa creare. Lì, tra soave fragranza di pane fresco e avvolgente profumo di mortadella, ci si incontrava tutti. Lì si comunicavano le vicissitudini quotidiane, si ricevevano parole buone e si godeva delle battute di spirito di quel negoziante che sollevava l'animo. Aveva orecchi per tutti, per l'anziana che chiedeva mermelata, cecolata e parsiutto, per la sofisticata e profumata signora che esibiva stile elegante e linguaggio forbito, per il ragazzino vivace e irriverente pronto a mettere a soqquadro ogni cosa, per gli habitué che, vogliosi solo di chiacchierare, sostavano quotidianamente per ore nel locale, eletto a luogo di ritrovo. Per loro, l'argomento consueto di conversazione era quello di carattere sportivo, perché trovavano in Sergio un interlocutore esperto e appassionato. Praticante attivo di parecchi sport, quando ogni anno partecipava alla gara podistica Bologna-San Luca erano tutti lì, i suoi avventori, al nastro di partenza, a sostenerlo tifando per il loro beniamino. E ancora lì, assiepati in via XXI Aprile accanto al cinema Apollo, ne attendevano
8 l'arrivo entusiasti. Poi, in bottega, per giorni si commentava l’andamento della gara, mentre si godeva della vista delle coppe di metallo lucente assegnate all’atleta e posizionate sugli scaffali, quasi a far concorrenza a quelle mangerecce, di suino, in bella mostra su ripiani sottostanti. Fu proprio ancora grazie a Sergio che via Zoccoli ebbe il suo piccolo momento di notorietà, finendo sul Resto del Carlino per un’iniziativa da lui avviata. Ogni 10 agosto, il salumiere organizzava nella strada una competizione di Zacâgn, un vecchio gioco bolognese. Quell’antico trastullo si svolge lanciando a turno una giarella, ossia un grosso sasso piatto, verso una pietra predisposta su cui sono appoggiate delle monete che costituiscono la posta in gioco: una volta fatte cadere da questa, chi si avvicina maggiormente ad esse vince. Ebbene, nel 1991, durante una gara partecipatissima di ‘Zoccolesi’, un giornalista del quotidiano locale intervenne sul posto, proprio davanti alla salumeria dove si svolgeva, e diede contezza a tutta Bologna della piccola ma straordinaria manifestazione attraverso un suo articolo corredato da tanto di foto. Tutto cessò allorché, ripavimentata la strada e trasformata secondo l’assetto attuale, non fu più possibile individuare un’area adatta al gioco. Da quei primi anni Novanta, tutto a poco a poco cambiò, decretando inesorabilmente la fine di un piccolo mondo. Forse nemmeno lui, lo storico e mitico salumiere, si è mai reso conto davvero dell’importanza fondamentale della sua funzione.
9 Quando, adesso, lo si vede passare sul grigio marciapiede lungo una via Zoccoli percorsa da una processione di auto e seminascosta da vetture parcheggiate ovunque, forse, come noi, si rende conto che questa strada è ormai definitivamente diventata una vera via, carina, forse, ma senza più anima. Una strada come tante.
10 MIA Margherita Lanteri Cravet Ti ho dato questo nome non perché gli altri ti chiamino Mia ma per farti sentire libera sempre. Da piccola, quando ti svegliavi di notte, ti prendevo in braccio e ti portavo in giro per le stanze. Tu giravi il capo, vigile e curiosa. Sembravi percepire la mia euforia e vibrare d’eccitazione con me per la novità della tua esistenza nel tempo insieme che ci attendeva. Quando ci affacciavamo dalla finestrella sul tetto, ti stringevo più forte e ti indicavo le stelle i colli le torri le luci, fiera di abitare questa città, contenta di averti fatta nascere qui. Restavamo in contemplazione, guancia contro guancia, gli occhi persi nell’oscurità, finché tu non accennavi uno sbadiglio o sbattevi le palpebre, e io ti invitavo a congedarti: “Ecco, adesso saluta, augura la buona notte a Bologna! Mia torna a nanna!”. Hai imparato a fare ciao ciao con la manina, era il nostro rito serale: aprire la finestrella della mansarda, socchiudere il vetro incuranti delle intemperie e mettere a letto tutti. “Buona notte, Bologna, Mia ha sonno, è ora che dormi anche tu!”. Poi, quattro anni dopo la tua nascita, ci siamo trasferiti al Quartiere Saragozza, e abbiamo lasciato il Quartiere San Vitale, il nostro amato nido, il parco della Montagnola dove ti portavo a giocare. La prima notte nella nuova casa, non ti davi pace: “Ma dov’è Bologna? È lontana? Quando ci torniamo? Dove sono le torri? Perché non le vediamo? Come puoi dire che siamo a Bologna?
11 Voglio tornare a casa!”. E così per innumerevoli sere a seguire, finché un pomeriggio ti portammo a fare visita alla giovane coppia che aveva acquistato l’appartamento e tu, trovandolo così mutato, non riconoscendo un solo oggetto familiare, da allora smettesti, inaspettatamente, di reclamare, come se la memoria della “tua Bologna” si fosse dissolta all’improvviso. Rivedere il tuo luogo del cuore profanato e perduto per sempre ti procurò forse un dolore che siamo stati incapaci di cogliere. Finalmente eravamo al Quartiere Saragozza, dove avevo trascorso i miei anni dell’Università, in mezzo ai parchi più belli, tra mille sfumature e iridescenze di verde, frutti, fiori, canti, profumi; non mi sembrava vero che tu potessi scorrazzare in un prato senza l’incubo delle siringhe, dopo anni trascorsi nel degrado del centro, tra tossici, barboni, pitbull e punkabbestia… Qui è nata la sorellina tanto desiderata, che hai cresciuto come una seconda mamma, divertendovi come matte, leggendole centinaia di libri. Tu, seria e burlona, la mia compagna leale, cucinavi prelibatezze, scrivevi racconti, ti confidavi con me. L’adolescenza arrivava in sordina, mentre frequentavi gli scout, giocavi a pallavolo, studiavi a testa bassa, ti dividevi equamente fra amici e famiglia. Al primo colloquio i professori del Liceo mi hanno tessuto prevedibilmente le tue lodi. Da gennaio in poi, la catastrofe. La casistica completa delle complicazioni dell’età, una dopo l’altra o in contemporanea, come se si trattasse di un esperimento sociale: bugie, volgarità, piercing, fumo,
12 incidenti, fuori a notte fonda senza comunicare dove e con chi, pessima condotta scolastica, caduta nella fontana ghiacciata, recuperata nel bosco in ipotermia, improbabili furti di cartelli e cucchiaini, studio approssimativo, smodata attività fisica, alimentazione da asceta, grave carenza di sonno. Tutto questo col cellulare in mano, anche in bici, e addio ai libri per sempre. La mia bambina incantevole e riflessiva, che accarezzandomi mi diceva “ti voglio bene”, si era tramutata in una ribelle in balia degli impulsi, a caccia di rischi e di sfide, assolutamente fuori controllo, arrogante, crudele, feroce. Non riconoscendoti più, non capendo la metamorfosi, mentre mi evitavi in ogni modo, mi sforzavo di mantenere un contatto, ma il distacco diventava voragine, ti controllavo per proteggerti da te stessa, ti pregavo di non metterti nei guai, e tu mi mi cacciavi, mi spingevi via, mi urlavi di lasciarti in pace. Io mamma inadeguata, soffocante, in preda all’ansia, più tu mi odi più ti sommergo del mio amore inesorabile, inesauribile e pernicioso. Annientata la famiglia, per te ci sono solo i tuoi pari, che ti adorano: buffa e originale, acqua e sapone, sfrontata, intrepida, resistente a ogni fatica. Casa è come essere in carcere, tu vuoi stare fuori e basta. Il mondo è tutto per te. In questi due anni di tenebra, una certezza: l’amore per un ragazzino tuo compagno di classe, bello e taciturno, totalmente devoto. Tu la sua principale occupazione e ragione di vita. Siete in simbiosi, perennemente in contatto, fisico e virtuale.
13 Ai nostri occhi il vostro rapporto è un mistero: non irradi luce, non sembri felice, non lo nomini mai, sfuggi ogni domanda. Né fai uso del “noi”, non parli al futuro. Eppure lui è sempre con te, chiacchierate, scherzate, e l’invidia per questo privilegio mi toglie il respiro. Lui abita al Quartiere San Vitale nella stessa via della casa della tua prima infanzia. Non potete ricordarvi ma avete anche frequentato il nido insieme. Là trascorri ogni minuto che puoi, i weekend, i pomeriggi, spesso la sera e non di rado la notte. Quello è il tuo rifugio. Dal Quartiere Saragozza ti tieni lontana, casa tua ti ripugna. Qui ci siamo noi, i tuoi genitori, che non ostacoliamo il tuo amore, non imponiamo divieti, ma per sostenerti e spronarti, preoccupandoci del domani, imbastiamo regole, ti incalziamo, ti esasperiamo. Sei cresciuta troppo in fretta e non ti riconosci. Se ci guardi in faccia leggi il tuo stesso smarrimento, e ti fa orrore. Per questo qui stai il meno possibile. Vorrei non avere mai cambiato casa. Adesso potrei esserti più vicina la maggior parte del tempo. Se fossimo rimasti al Quartiere San Vitale, il corso degli eventi avrebbe forse preso un’altra direzione. Un giorno sono venuta a cercarti sotto casa del tuo ragazzo, non ti sei fatta trovare naturalmente, ma ti ho trovata lo stesso in quelle strade in cui ho vissuto l’inizio del mio amore con papà e i tuoi primi anni di vita, la nostalgia mi ha accompagnata tra i ricordi mentre camminavo e mi scordavo di te e del presente.
14 Ecco Mia, alla fine, dopo dieci anni, ce l’hai fatta a tornare nella tua Bologna. Passata l’adolescenza, riavremo un posto nella tua vita? Ci restituirai un brandello di tempo? Tornerai qui in Saragozza? Da sola, solo per noi, a casa tua davvero, lo sguardo dritto in viso, con il sorriso limpido e gli occhi splendenti? Ora vai in Nepal, a 16 anni, a far volontariato negli ospedali, e nonostante la mia angoscia, anzi a maggior ragione, non rinuncerai a questa avventura. Chissà, una volta rientrata, assorbito lo choc di un’esperienza così estrema, dopo aver respirato lo smog di Kathmandu, apprezzerai fugacemente l’ambiente protetto della famiglia, l’aria pulita di Villa Spada; tu che hai il coraggio di andare da sola dall’altra parte del mondo rientrerai più volentieri nella tua casa-prigione, e con la certezza di ripartire fra non molto, magari definitivamente, ti scoprirai quasi indulgente verso chi amandoti ti ha tormentata. Per un momento troverai un po’ di pace, tu quasi adulta. Tanto ti chiami Mia, e nessuno, non una madre apprensiva né un padre esperto in pianificazione né un fidanzato di lunga data, può illudersi che quel nome risuoni se non proprio per te.
15 C’ERA UNA VOLTA … 50 ANNI FA Eleonora Conti A giugno compirò 64 anni, ho abitato in via Turati fino al ‘66, poi fino al ‘75 in via Brizio, di fronte alla chiesa di S. Paolo di Ravone era la classica spiegazione. Il canale Ravone fiancheggia via Brizio, fummo i primi, nel ’65-’66, a tombarlo nei lavori di ampliamento della casa, appena acquistata. IL ’66, l’anno della storica alluvione di Firenze, anche da noi ci furono danni, straripò il Reno alla chiusa di Casalecchio, lo ricordo perché fu inondato e poi demolito il ristorante sulla riva del fiume, meta delle poche uscite a pranzo domenicali della mia famiglia: noi bambini, i nostri genitori e i nonni materni con cui abitavamo. E anche il Ravone arrivò allora quasi a livello della nostra terrazza, spaventandoci ed eccitandoci con la sua violenza trascinatrice e fangosa. Ma torniamo indietro a prima del ’66: il cortile di via Turati, la scuola Bombicci, il teatro dei burattini a piazza Volta… mi è concesso dire – senza peccare troppo di nostalgia – che il quartiere era, allora, a misura di bambino? Il controllo degli adulti era rappresentato dai negozianti di via Turati, gli stessi che, quando tornavamo troppo tardi dai giochi in altri cortili o dai giri in bicicletta, ci anticipavano la preoccupazione e l’ira funesta dei nostri genitori, foriere di scapaccioni, una specie di rito questi ritorni a casa, un misto di contrizione, vergogna e paura. Abitavamo in un appartamento che si affacciava su un grande cortile quadrato, si giocava con gli altri bambini, si litigava, si assisteva agli avvenimenti del cortile; io
16 ricordo l’arrivo dei blocchi di ghiaccio al vicino che unico possedeva una ghiacciaia e il ritorno dalla pesca del padre di due bambine del cortile, pescava pesci gatto, chissà perché mi è rimasto in mente, forse per la curiosità dell’accostamento. La scuola Bombicci era frequentata da bambini di estrazione sociale molto diversa; ad un estremo quelli delle case popolari di via Turati, dalla parte di via Andrea Costa, quale la mia, e dall’altro quelli delle ville signorili di via Saragozza. Di solito i primi frequentavano anche il doposcuola, i secondi no. Il doposcuola significava mangiare alla mensa scolastica, se ti fermavi ad aiutare a sparecchiare, potevi rimanere un po’ anche a giocare e ti risparmiavi l’obbligo del sonnellino pomeridiano, con la testa china sui banchi. Anche la scuola ha subito da allora tanti cambiamenti; non c’è più, per esempio, il grande prato dove potevi incontrare tartarughe fuggite dai giardini vicini e arrampicarti, a giugno, a raccogliere rusticani da un albero che nel ricordo è molto alto e con una grande chioma rossa. E poi vi sembra poco semplicemente poter correre su un prato? A casa non avevamo la televisione e si andava ad assistere allo spettacolo del sabato sera al bar Europa in via Andrea Costa; c’era un giardinetto con la vasca dei pesci rossi, ma la saletta rimaneva nel seminterrato e puzzava di fumo vecchio e stantio. Ho citato prima il teatro dei burattini in piazza Volta. Questi due luoghi/eventi, la TV al Bar Europa e i burattini in piazza Volta, sono stati occasione per me di una recentissima emozione. Dovete sapere che ho uno zio novantenne che è stato fino a pochi anni fa un’enciclopedia vivente di eventi politici, associazionismo, musica classica,
17 conoscenze storiche e geografiche, ha scritto libri. Pur essendo ora la sua mente per lo più persa in un mondo in cui è arduo penetrare e dietro ad angosce da cui è difficile distoglierlo, ancora conserva miracolosamente ricordi nitidi e preziosi. Il Bar Europa sorgeva, mi ha detto, nel luogo in cui durante la guerra c’era stata un’infermeria per i partigiani feriti, tra gli altri vi lavorava Stella Tozzi,che lui aveva poi conosciuto, lavorando entrambi all’ospedale Roncati dove stavano “i matti”, in via S. Isaia 90. Per quanto riguarda i burattini, ricordava il nome del burattinaio, Romano Danielli, che d’estate allestiva spettacoli, oltre che a piazza Volta, in piazza Trento e Trieste, piazza di Porta d’Azeglio, piazza Nettuno, piazza VIII agosto. Il quartiere aveva tre cinema: due erano sia al chiuso che all’aperto: Olimpia in via Andrea Costa e Edison, poi Apollo, in via XXI Aprile, il terzo era il parrocchiale della Chiesa di S. Giuseppe. In quest’ultimo, alla domenica pomeriggio, proiettavano in successione due film diversi, ci accompagnava la nonna, immagino per lasciare un po’ d’intimità a figlia e genero. Solo il parrocchiale è rimasto, gli altri cinema hanno ceduto il posto a due supermercati. D’estate frequentavo il campo solare di Casaglia; ci raccoglieva un autobus in via Saragozza, i bambini venivano da diverse parti della città e c’era una specie di gara tra gli autobus a chi arrivava su per primo. Ricordo con emozione la volta che il nostro autista scese ad aiutare un collega che non riusciva a compiere una manovra in una delle tante curve di via Casaglia. Che orgoglio! Che applausi!
18 All’inizio di via Casaglia c’è villa Spada col suo parco meraviglioso esteso su una collina. Questa villa fa parte dei ricordi tra gli 11 e i 14 anni quando già abitavo in via Brizio. Eravamo una dozzina di bambini, quasi tutti coetanei, tranne qualche fratello piccolo tra cui il mio. Via Brizio era ben poco trafficata allora, visto che si giocava tranquillamente in strada. Qualche volta raggiungevamo a piedi villa Spada ed erano gare di coraggio a salire e scendere sentieri scoscesi. Ricordo la statua del cane nel luogo della sua sepoltura. Ci sono tornata poco tempo fa, ma la statua era crollata e il piccolo portico quadrato transennato tutto attorno, inaccessibile. E qui si chiude il cerchio …. Sono entrata nella luminosa biblioteca del parco, e finalmente ho trovato qualcosa di bello nel quartiere che non c’era una volta ed ora c’è.
19 LA CORSIA VUOTA DEL SARAGOZZA Giorgio Bicocchi “Mi chiamo Carmen Longo e sono morta a Brema il 28 gennaio 1966. Ero una nuotatrice e, assieme a me, in quel giorno infame, morirono tanti ragazzi e ragazze che volevano realizzare i loro sogni. Se fossi ancora viva avrei 72 anni. Probabilmente avrei abitato nella casa che fu di mio nonno, in via Andrea Costa, se non altro per perpetuare il ricordo della mia famiglia in quel palazzo. Partivamo da lì, accompagnati dal nonno, mia sorella ed io, per andare in piscina. E l’acqua, l’odore del cloro, mi tenne compagnia fino a quando lasciai questa vita. Tanto che lo considerai quasi un oltraggio – l’ultimo – del destino quello di avermi tolto la vita facendomi precipitare, con un aereo, sulla campagna tedesca, a pochi chilometri da Brema, e non magari in mare, poco più avanti. Nel dolore per lasciare precocemente questa vita avrei avuto quasi piacere ad essere inghiottita dall’acqua, senza più respirare. Ogni tanto, al pari di tante anime, faccio capolino sopra il cielo di Bologna. Avevo lasciato – io, nata nel ’47, appena dopo la fine della guerra – una città che si volgeva al futuro, retaggio del boom economico degli Anni Cinquanta. Le osterie di Porta Saragozza sempre piene, i juke-box che diffondevano i motivi più in voga di quegli anni. Le voci di Mina, Celentano,
20 Edoardo Vianello, Nada a regalare attimi di vita spensierata. Erano gli anni del “Bandiera Gialla”: i crateri fumanti della guerra erano, per fortuna, un ricordo lontano e la gente non voleva più pensarci. Perché la musica, in fondo, è stato un mezzo per evadere, sognare e sentirsi vivi. C’era il vecchio Dall’Ara che brulicava di rossoblù, dopo lo storico scudetto vinto nel ’64, in attesa delle due Coppe Italia che, di lì a poco, sarebbero arrivate. C’erano le facce degli studenti, c’era l’odore del brodo che fuorisciva dalle trattorie. Non faccio certo fatica a rammentare che i miei genitori, da piccola, mi portavano a giocare all’interno di Villa delle Rose e di Villa Spada. Ancora oggi, da qualche squarcio di nuvole, cerco con lo sguardo le fontane di allora. Meno bianche ed immacolate, come erano allora, magari oltraggiate da qualche stupida incisione nel marmo, ma sempre presenti, monito del tempo che è evaporato. All’interno di quelle due ville – ai miei tempi – si andava anche il giorno di festa per fare festosi pic-nic.. Ricordo la moltitudine di “tigelle” che facevano da companatico ai salumi: iniziai a nuotare seriamente molto presto per cui anche quelle ore spensierate furono poche. La domenica ero fuori, vestita d’azzurro, perché la Federazione organizzava tante sfide. A Brema, in quel gelido giorno di gennaio, se ne andò la meglio gioventù del nuoto italiano. Una sciagura che riportò
21 indietro di quasi vent’anni, accumulata allo schianto di Superga e all’addio alla vita del Grande Torino. Assieme ai miei genitori, la domenica, andavo al centro di Bologna: ci andavo quando non mi allenavo. O ero fuori città per qualche gara. Prima di salire su quel maledetto aereo per Brema ero appena tornata dal Brasile. I miei ricordi – ovvio che sia così – sono pochi ma circostanziati. Bologna, il mio quartiere, Porta Saragozza, li ho vissuti per poco. Mio malgrado. Però, anima curiosa, osservo, registro, annoto e tutto mi sembra davvero cambiato. I bambini di oggi quasi non giocano più – preferendo passare il tempo, seppure all’interno delle ville – con il cellulare sempre in mano. Ed allora ti chiedi: ma non erano meglio – e più funzionali per la loro crescita – quei vecchi giochi che si praticavano in giardino? Ruba-bandiera, nascondino? Se fossi in vita mi piacerebbe indugiare all’interno della Cineteca di Bologna o del MamBo. C’è una cosa di cui vado orgogliosa di quello che fu il mio quartiere: è diventato un vero polo delle arti, accogliendo virtuosi, persone piene di inventiva, davvero poco banali. Forse anche loro – se mi avessero visto in vasca – mi avrebbero definito una artista dell’acqua. Perché anche in piscina le bracciate non sono tutte uguali e ogni nuotatore affresca le proprie come un pittore simboleggia un proprio dipinto.
22 Rispetto ai miei tempi molto è cambiato. E come non potrebbe, d’altronde? Io sono stata colpita dal destino a 19 anni, nel ’66… Molti negozi, molti ritrovi non ci sono più perché portare avanti una attività costa molto e i ricavi, spesso, non coprono i costi fissi. Anche così, però, pur in presenza di un quartiere che si è modificato, credo che avrei continuato a vivere al Saragozza. Magari a fianco di mia sorella Nicoletta, di soli 16 mesi più grande di me. Avrei portato i miei nipoti a spasso per Villa delle Rose o Villa Spada. Bologna poi è rimasta piccola. Forse meno civettuola di una volta ma piccola, compatta. Avrei acquistato qualcosa dai tanti negozi etnici che sono stati aperti per dare un tocco di colore alla mia casa. Mescolandoli alle coppe, ai trofei, ai diplomi, alle cornici con le foto delle mie vittorie o dei miei piazzamenti. Per quanti anni avrei ancora nuotato se una morte ingiusta non mi avesse ghermito? Chi lo sa… Se fossi rimasta in vista mi sarebbe piaciuta una casa luminosa, possibilmente con uno o più terrazzi perché – amante dell’acqua – lo ero anche degli spazi. Confondendomi poi, nei giorni di svago, con coloro che salgono sulla collina di San Luca, in autunno o dall’inizio della primavera. Avrei atteso con ansia anche la neve: forse ne ho vista di più girando il mondo – indossando la tuta della Nazionale di nuoto – che a Bologna. Ricordo vagamente la nevicata del 1960: solo
23 nell’arco di una notte caddero venticinque centimetri che mandarono in tilt la città. Il Comune assunse un migliaio di spalatori per fare più in fretta. Ecco, il Saragozza – al pari di tanti altri quartieri – si bloccò. I bambini scesero per strada e tutti i tetti dei nostri palazzi assomigliarono, sia pure per poche ore, a quelli delle città del Nord Europa. Dopo la morte mi hanno intitolato tante piscine. Quella di Bologna, altre in Puglia, in omaggio alle origini del miei genitori. Ve lo confesso: ne avrei fatto volentieri a meno nonostante abbia perso la vita assieme ad altre 45 persone con le quali, nel gruppo della Nazionale azzurra di nuoto, avevo imparato a dividere ore, pensieri e speranze. In quel momento infame e profondamente ingiusto fu quasi una consolazione. Ci sono sere in cui mi intrufolo nella piscina accanto allo Stadio Dall’Ara, fermandomi a leggere il nome che porta, vale a dire il mio. Avrei voluto fare altro nella vita, essere ricordata per essere una buona mamma, una buona sorella, una brava ragazza. E allora rimpiango ciò che è stato, quella fine ingiusta. Il destino che mi ha tolto dalla mia famiglia e dal mio quartiere, proteso al futuro. Entro in acqua, comincio a nuotare, muovendomi da ranista consumata come ero, quasi senza fare rumore, fendendo la superficie. Penso a ciò che poteva essere la mia vita e la paragono ad un corridoio bianco: già, la corsia vuota del Saragozza…”.
24 LA VENDETTA DI GINEVRA Mariacristina Gubellini Anni 60, notte di piena estate, a Bologna. L'elegante strada liberty è tutta silenziosa a quest'ora. Un raggio di luna entra dalla finestra tonda del primo piano e illumina delicatamente lo scrittoio del salone. Vi sono poggiate due fotografie: un uomo in età, lo sguardo composto e fiero di chi indossa con orgoglio la divisa, e un giovane che gli somiglia, elegante nel bel completo da tennis. Donna Ginevra, che ancora non dorme, è venuta nello studio a cercare pace. Sfiora le cornici con una carezza e sospirando si affaccia su via Audinot. Una notte magnifica, la luna sembra grandissima. Quanto silenzio, e che profumo di gelsomini! Tanta bellezza contrasta con il suo tormento. Domani - ormai ha deciso - la ucciderà. Suo figlio Gherardo, il giovane tennista ritratto nella foto, si era perdutamente innamorato - invaghito correggeva lei - di una cantante del varietà, tale Venusta, in arte Lola. A nulla erano valse le minacce del padre, le lacrime della madre che intuivano la feroce trappola per Gherardo, ancora troppo giovane e ingenuo. Con l'arroganza e la caparbietà dei suoi vent'anni, il loro rampollo aveva continuato a frequentare Venusta e ne era rimasto invischiato sempre più.
25 Così quando lei gli aveva annunciato che avrebbe seguito a Roma un tale gerarca che le prometteva mari e monti, Gherardo si era sentito crollare il mondo addosso. Provò per giorni a riconquistarla con regali costosi, a cercare di farle cambiare idea... Nulla. Una mattina di luglio lei partì col suo nuovo amante e Gherardo fece appena in tempo a vedere la loro Balilla sfrecciare per via Saragozza. Tornò a casa come una furia e, presa di nascosto la pistola del padre, si uccise. Il dolore per la morte del figlio amatissimo fu davvero troppo per Donna Ginevra e Vittorio. Cercarono di riprendersi, lui le comprò persino una villetta in via Audinot perché “l'appartamento di via Bellinzona – diceva - ha troppi ricordi”. Aveva sperato che sistemarla e arredarla insieme potesse loro giovare in qualche modo. Non fu così. Il cuore di Vittorio, attanagliato dal rimorso di non essere riuscito a trattenere Gherardo da quel terribile gesto, non resse più di qualche mese. E Donna Ginevra si ritrovò completamente sola nella grande casa, disperato dono d'amore del suo Vittorio. “Domani saranno trent'anni” - ricordò tristemente Ginevra - “Domani finalmente mi vendicherò”. Dopo la fine della guerra, quando certe tensioni avevano cominciato ad affievolirsi, Venusta era tornata a Bologna. Aveva affittato un piccolo bilocale in via XXI Aprile e vivacchiava dando lezioni di canto.
26 Solo il giorno prima, mentre stava sorseggiando un tè, Donna Ginevra se l'era ritrovata al Caffè Billi, al Meloncello. Invecchiata, un po' appesantita, l'aveva potuta osservare poco perché si era presa un caffelatte in piedi ma fu certa che fosse lei appena la sentì dire: “Mi chiamo Venusta. Le posso lasciare il mio indirizzo? Sa, se per caso qualche signora avesse bisogno di compagnia o se ci fossero delle scale da pulire...”. “È il destino che me la manda” - si disse Donna Ginevra e quando la cantante fu uscita, si fece dare dalla barista il suo contatto. E adesso? Aveva sognato la vendetta per tutti questi anni e ora l'occasione le si presentava su un piatto d'argento. Il cuore era in tumulto. Non riusciva a stare ferma, le sembrava che tutti la guardassero. Così uscì in fretta dal locale e si avviò per Piazza della Pace. Aveva bisogno di camminare. Riuscì a stupirsi per la meravigliosa nuvola bianca che un grande oleandro le offriva, proprio mentre girava per via Andrea Costa, E ricordò che anni addietro, quando lei era ancora giovane, si chiamava via Duca d'Aosta. Si fermò un momento, a pensare. Quante cose cambiavano e quante cose rifiorivano, proprio come questo splendido oleandro, Un velo di malinconia le offuscò gli occhi. Valeva ancora la pena di provare tanto odio? Poi si riscosse, riprese a camminare più speditamente, raggiunse casa. Decisa, fece avvisare Venusta che la signorina Bartolini l'aspettava l'indomani alle 18 per un colloquio di lavoro.
27 La cantante non si insospettì di nulla: ignorava che quello fosse il cognome di donna Ginevra da giovane né l'indirizzo di via Audinot poteva risvegliarle il passato. Così, tutta speranzosa, decise che sarebbe andata. Donna Ginevra, intanto, rigirava tra le mani la pistola di Vittorio, ripeteva frasi già imparate a memoria e pregustava il momento. Ma forse il caldo, forse un calo di pressione, cominciò a sentirsi stanca e sentì il bisogno di stendersi. Si appisolò e, cosa che non le succedeva da tempo, cominciò a sognare. Nel sogno, Vittorio e Gherardo le apparvero belli come sempre e sereni come mai. Erano in via XXI Aprile, davanti a una casa che Ginevra pensò subito essere quella di Venusta e le stavano facendo segno di no, di lasciar perdere. Le presero le mani e la condussero davanti all'oleandro che aveva visto il giorno prima, poi ancora a passeggiare per Villa Ghigi. Come stava bene con loro, quanta serenità le trasmettevano! Accanto ai suoi cari scompariva ogni rancore... Il sogno le sembrò lunghissimo perchè quando si svegliò era pomeriggio inoltrato. Donna Ginevra si alzò lentamente dal divano, ripose la pistola di Vittorio, accarezzò le cornici d'argento che teneva sullo scrittorio e andò ad affacciarsi su via Audinot. La giornata era ancora splendida, respirò il leggero venticello che stava soffiando, le parve che ora il suo cuore fosse finalmente sgombro come quel cielo terso che stava ammirando sopra casa sua. E sopra tutta la sua bellissima città.
28 Una donna non più giovane, una ex cantante stava cercando il campanello della signorina Bartolini. Suonò più volte. Donna Ginevra continuò a contemplare il cielo.
29 PRATICA 26/2019 Valter Serafini L'agente Antonio Amato ha spento la sigaretta nel posacenere, e rivolgendosi a Giovanna ha chiesto: - Lei abita a Bologna?- G. Non più, ma sono vissuta in questo quartiere fino al 2006, l'anno in cui mi sono sposata. A. Viene frequentemente da noi? G. Finché ho avuto mia madre in vita venivo tutte le settimane, ma mancavo da tre anni! A. Conosceva già l'uomo che è deceduto nella camera che le aveva riservato la Bed & Breakfast Alberta D, il 20 Aprile? G. No, non l'avevo mai incontrato prima di quella sera. A. Quale motivo l'aveva portata nel nostro quartiere? G. Desideravo rivedere il luoghi della mia infanzia e della mia adolescenza, ed avevo deciso di trascorrervi un week end! A. Può raccontare cosa è successo la sera del 20 Aprile? G. Avevo lasciato il Bed & Breakfast per andare a cena da Biagi, un ristorante che frequentavo anche con i miei genitori, e mi sono avviata per via Frassinago. Dopo essermi fermata per qualche istante ad osservare l'imponente struttura della Porta, ho proseguito per via Saragozza quando un uomo mi ha affiancato chiedendo di fermarmi. A. Chi era? G. Era Giulio … con in mano il mio portafoglio.
30 A. Come ha giustificato il possesso del suo portafoglio? G. Ha detto che nell'estrarre il foulard dalla borsa l'avevo inavvertitamente fatto cadere, e lui che era alle mie spalle l'ha raccolto e mi ha inseguito per ridarmelo! A. Lei cosa le ha detto? G. Sono rimasta talmente sorpresa che solo dopo alcuni secondi sono riuscita a balbettare un “grazie”! A. Poi cosa ha fatto? G. Ho controllato che all'interno vi fossero i documenti, il denaro, e la carta di credito, e l'ho ringraziato nuovamente allungandogli una banconota da 50 euro. A. L'ha accettata? G. No, e ha respinto ogni altra mia offerta in denaro. A. Lei come si è comportata? G. Sentivo il dovere di premiare la sua onestà, e sapendo che il ristorante Biagi era poco più avanti ho avuto l'idea d'invitarlo a cena. A. Lui è stato d'accordo? G. Subito ha rifiutato scuotendo il capo, ma io ho insistito raccontandogli che odio mangiare da sola, e che mi sentivo in obbligo di ricompensare il suo gesto. A. L'ha convinto? G. Sì, alla fine ha accettato la mia proposta, e dopo esserci presentati con una stretta di mano, siamo entrati al ristorante assieme. A. Il 20 Aprile era un sabato, giorno in cui il Ristorante Biagi è solitamente pieno di clienti. Lei come è riuscita a trovare un tavolo libero? G. Ne avevo riservato uno telefonicamente, e al mio tavolo è bastato far aggiungere un altro coperto!
31 A. Ha parlato con lui durante la cena? G. Ovviamente, e Giulio è risultato essere una delle persone più gradevoli e sensibili che io abbia conosciuto. Inoltre i suoi occhi e il suo sguardo mi ricordavano un noto attore americano che io amo molto A. Quindi l'incontro è stato positivo? G. Sì, positivo e coinvolgente perché nel corso della serata ho scoperto che tutti i suoi pensieri e le sue idee, convergevano con i miei pensieri e con le mie idee. Stesso modo di rapportarci col mondo, stessi gusti! Giulio poi era anche un amabilissimo conversatore! A. Si era quindi instaurato un clima d'intesa tra voi due. G. Di perfetta intesa aggiungerei! A. Precisi meglio! G. Mi vergogno di doverlo confessare, ma l'indefinibile atmosfera di mistero che lo circondava mi aveva conquistato, e credo che il suo misurato ed educato corteggiamento abbia indotto Cupìdo a scagliare su di me le sue frecce! A. Un colpo di fulmine dunque! G. I colpi di fulmine sono una prerogativa delle quindicenni, non delle donne della mia età … ma era qualcosa di simile! A. Si ricorda di cosa avete poi parlato? G. Di vari argomenti. Dai libri letti alle città visitate, e devo ammettere che ogni sua parola mi ammaliava perché Giulio sapeva trovare la bellezza e l'armonia in tutto ciò di cui parlavamo. A. E di personale cosa vi siete detti? G. Io gli ho raccontato del mio matrimonio fallito, mentre lui ha evitato di parlare della sua vita privata, quindi non so se era sposato, divorziato, e se aveva dei figli!
32 A. Poi cosa è successo? G. Finito di cenare, e sentenziato che i tortellini di Biagi erano da Premio Nobel, mi ha accompagnata alla B.&B Alberta D in Via Sant'Isaia 58, dove alloggiavo. A. Come ci siete andati? G. A piedi. Il ristorante Biagi e la B.&B. Alberta D non sono molto distanti, e la serata era meteorologicamente favorevole. A. Arrivati alla B.&B. cosa avete fatto? G. Ormai si erano create le condizioni perché si concludesse la serata in camera! A. E cosa è accaduto nella camera assegnatale dalla B.&B.? G. Le solite cose che succedono tra una donna e un uomo quando si piacciono e si desiderano. A. Racconti senza entrare nei particolari. G. Ci siamo scambiati delle effusioni e ci stavamo togliendo i vestiti, quando Giulio ha emesso un gemito soffocato ed è crollato sul pavimento. A. Lei come ha reagito? G. Non rispondendo ai miei richiami mi sono allarmata, quindi mi sono rivestita e sono corsa ad avvisare la responsabile della B.&B. perché chiamasse i soccorsi. A. Quando tempo ha impiegato l'autoambulanza ad arrivare? G. Credo dieci minuti un quarto d'ora al massimo, ma nonostante medico e infermieri si siano prodigati, per Giulio non c’era più nulla da fare. A. Giulio, e poi? Di lui cosa sapeva ancora? G. Giulio e basta, di lui ho conosciuto solo il nome, Giulio, Giulio, solamente Giulio! *
33 Era l'ultima domanda che l'agente Amato intendeva farle, perciò si è alzato in piedi ed ha congedato Giovanna con una stretta di mano. Lei ha risposto al saluto, ma prima d'andarsene ha voluto chiedere: .............chi......chi era Giulio?......... L'agente si è mordicchiato il labbro inferiore, ha fissato per un momento gli occhi cerulei di lei, poi ha risposto alla sua domanda facendole leggere il dispaccio ricevuto. S'informa che Giulio Roncato, nato a Scarperia di Borgo san Lorenzo il 12 Febbraio 1963, e deceduto nella Vostra circoscrizione il 20 Aprile c.a., era presule presso la Pieve di Polenta Quindi ha inserito il dispaccio all'interno di una carpetta verde sulla cui copertina era scritto con un pennarello nero Pratica 26/2019
34 LA MIA “RIVE GAUCHE” Roberto Passini E' una giornata di pioggia. Devo combattere l'inerzia; la passività, che questo clima sempre procura. Esco? Indugio un po'. Alla fine mi vinco. E' talmente comodo! Penso. Alludo al percorso che ho adottato da qualche anno per combattere la “ruggine” che pian piano, ma neanche tanto, mi si attacca. Sono circa quattro kilometri: tra andata e ritorno da casa mia; Piazza della Pace, Arco del Meloncello del Dotti, fino all'Arco del Bonaccorsi a Porta Saragozza. Questo elegante edificio dava la possibilità ai fedeli di un tempo di seguire la processione di accompagno della Madonna di S. Luca anche in caso di pioggia; praticamente dal centro di Bologna fin dentro al Santuario sul colle della Guardia, 666 arcate. Quasi una prolunga di casa mia. E' talmente comodo! Dei tanti altri di analoga lunghezza nel quartiere. Alla fine è lui che ha scelto me. Pioggia, vento e magari neve, il portico più bello del mondo ti accoglie. Inizia così il percorso verso la magnifica fuga prospettica delle arcate. Lascio alle spalle lo storico Bar Billi, ed entro dal tabaccaio. Questa piccola bottega degli anni cinquanta mi è sempre piaciuta: con il suo allestimento in legno di noce; una Boiserie totale, soffitto compreso, molto bella, che conferisce intimità. Il proprietario è molto gentile; pensate, mi fa una ricarica anche di cinque euro, con il sorriso. A un tavolino d'angolo staziona spesso una suora anziana: piccola e grassa intenta a grattare “Gratta e Vinci”. Non so se abbia mai vinto qualcosa. Ad un passo, la bottega di cornici del mio amico Angelo, dove indugerei volentieri a fare quattro chiacchiere con lui; però solo dopo le
35 dieci, perché prima di quell'ora non apre. Dalla Puglia si è portato dietro – se non il sole e i Trulli – almeno i ritmi del sud. Fare per anni la stessa via si finisce per conoscere persone, botteghe artigiane e la gente che ci lavora. E pure molti, che come me, adottano questo cammino al coperto: vecchietti accompagnati dalle badanti; per non parlare delle frotte di amanti dello jogging, specie la domenica con destinazione S. Luca. Di corsa! Li vedi di lontano e un attimo dopo quasi ti travolgono, tutti colorati, nelle loro tute tecniche aderenti, a volte vere e proprie orde; come in una esplosione caleidoscopica. Il punto di fuga della prospettiva, ad un certo punto si interrompe. Siamo alla grande curva del Bar Pipa; che un tempo era sovrastato da una grossa pipa, appunto. Una vistosa insegna che faceva da richiamo già da lontano. Poi un giorno, sicuramente una nuova gestione pensò bene di toglierla, per un malinteso senso di modernità. Fuori della porta del bar, seduto, estate e inverno, c'è sempre qualche ospite di Villa Olga, con lo sguardo perso sulla gente che passa indifferente. Villa Olga - ospizio per anziani -, nella dirimpettaia via Francesco Dotti; mi meraviglia un po' che nessuno, nottetempo, non abbia apposto una bella “T” al posto della “O”, in ossequio al noto calciatore. In qualche lunetta delle arcate un tempo affrescate, c'è ancora qualche traccia di pittura e almeno in un caso una è ancora intatta. Più avanti si passa sotto lo sguardo materno della Madonna Grassa, fresca di restauro. A due passi c'è l'abitazione di un amico, Mauro B; esperto cinefilo e topo di biblioteca: credo
36 che un suo record si aggiri attorno a centocinquanta libri letti in un anno, che se non sapessi che non risponde al citofono, suonerei, fingendomi un messo comunale, che come si sa non sono mai latori di piacevolezze. Cammino, immerso nei miei pensieri oziosi a passo svelto; devo solo evitare le numerose cacche di cane – a volte veri e propri slalom-, e ai ragazzi che camminano leggendo lo smartphone; assorti nel loro mondo. Ma non solo loro; ho visto una giovane mamma che spingendo la carrozzina col suo bimbo, cozzava contro un passante, perché intenta a smanettare. Soffro nel vedere i muri e ogni superficie, vandalizzata dalle scritte. Ultimamente però “bande” di volontari hanno cercato, con i pochi mezzi disposizione di cancellare alla meglio lo “scazugliamento” di questi cervelli brucellosi, e ne soffro ancor più perché questa stoltezza, che dura ormai da troppo tempo, rimarca ancor più la differenza tra le generazioni; al di là dell'evidente danno. All'angolo di via Turati, devo vincere la stretta allo stomaco per gli effluvi che escono da una pescheria. Però è pur sempre vita. Tutta questa parte porticata, salvo alcuni tratti ciechi, ospita negozi e botteghe artigiane. Pakistani e Indiani hanno il monopolio di frutta e verdura: se ne contano almeno cinque o sei. Ormai sono verso la fine del mio giro, ma prima di invertire la marcia sotto l'Arco del Bonaccorsi, e concludere questo percorso dal sapore “archeologico”, un' ultima annotazione in proposito. Non mi ero mai accorto della presenza molto discreta di un negozietto; una merceria degli anni cinquanta
37 ancora intonsa, che comunica tutto il suo fascino. Poi il bar Margherita, tornato alla memoria di molti, per il ricordo che Pupi Avati ha voluto dedicargli. Qualcuno mi ha detto che, abitando un tempo di fronte, ne avesse osservato la vita che gli gravitava intorno; traducendo queste immagini e ricordi in un film. Piove forte. Cammino rasente il muro perché intanto si è levato un ventaccio che spinge la pioggia fin dentro; facendomi apprezzare ancor più questa mai lodata abbastanza, opera architettonica. Questo percorso, fin dall'inizio, si accompagna al suo lato speculare, ai piedi della collina e che offre realtà del tutto diverse: più ricche e aristocratiche calate in un ambiente naturale. Architetture eleganti si susseguono ; cominciando dalla casa di riposo Lyda Borelli. Subito dopo il bel teatro moderno Il Celebrazioni. Poi Villa delle Rose in posizione preminente: dal grande scalone monumentale, nascosta da giganteschi e magnifici cedri. In prossimità della grande curva all'angolo di via di Casaglia, c'è Villa Spada con annesso museo della Tappezzeria. All'interno del suo parco trova spazio la biblioteca del nostro quartiere. Poco oltre, la magnifica Villa Benni, inserita in ettari di parco occhieggia dietro due grandi faggi. Neoclassica: costruita però negli anni venti. Durante la guerra fu requisita dai tedeschi che vi installarono il comando. Fu poi scavato un profondo bunker antiaereo che credo esista ancora. Oggi questa bella villa è sede di un B&B di lusso. Poi tutto un salto; un'infilata di ville, palazzi eleganti, dove si vive senz'altro una vita molto diversa dalla sua dirimpettaia
38 porticata; vissuta nel loro privato, senza clamori: la vita gelosa dei ricchi! I giardini poi si susseguono fino al convento dei Cappuccini con annesso cinema parrocchiale. Ma io sono ancora qui, nella mia parte, quella più popolare dove la vita si vede e si sente, che mi sento addosso come un vestito fatto su misura e guardo quel lato sotto la pioggia, e il vento che rovescia qualche ombrello. Mi infilo in un piccolo bar latteria: un piccolo negozietto non appariscente; infatti solo da poco, anche di questo ho scoperto l'esistenza. L'interno mi riporta indietro negli anni: come la merceria e la tabaccheria dell'inizio; per la modestia dell'allestimento e la scelta dei prodotti, che mi sembrano quelli di allora; nulla di costoso o ricercato. L'aspetto sereno e gentile dell’anziana padrona poi, che ti porge il caffè con garbo antico a 0.90 euro, funge da macchina del tempo di questa “Rive Gauche”.
39 LE PAROLE TRA NOI LEGGERE Oleana Neri Sono entrata nell’enoteca, ho urtato involontariamente una signora che stava uscendo. Ha detto “e allora?” con tono accusatorio, come se l’urto che le avevo inflitto fosse l’ultima di una serie di insopportabili angherie. Le ho sorriso e lei indignata ha scrollato le spalle, ha sbattuto la porta del negozio che si è chiusa facendo vibrare i battenti. Mi è dispiaciuto per quella donna, sinceramene. Non dovremmo vivere il quotidiano come una serie infinita di obblighi da rispettare, ma scorgere, nelle nostre giornate, piccoli attimi, occasioni per pensare alla bellezza e sorridere. Le imposizioni non mi sono mai piaciute. Federico diceva che dipende dal colore che hanno sempre avuto i miei capelli. “Le rosse sono libere per natura”, sosteneva. Io, Matilde, sono molto orgogliosa dei miei capelli rossi, ancora ricci e folti, nonostante il trascorrere del tempo. L’enoteca era piena di gente, tutti a naso in su tra gli scaffali. Adoro le enoteche, sono una serie illimitata di piaceri. Le bottiglie si lasciano ammirare, attendono con calma chi le vorrà scegliere. Il vino d’altronde, richiede quiete. Ti conquista lentamente, ti inebria di profumi, ti inonda di sapori. Per questo, stasera, ho deciso di portare a Umberto e Annalisa una bottiglia di Amarone. E’ costoso ma vale tutto quello che pretende. Annalisa mi vuole presentare suo padre arrivato ieri da Ravenna, è medico, così mi pare di aver capito.
40 Fuori piovigginava e mi ero un po’ bagnata, esco sempre senza ombrello sperando nella complicità dei portici e, se poi capita, la pioggia non m’infastidisce. Mi mettono un senso di gioiosa leggerezza le goccioline fresche sul viso, mi attrae l’odore di pulito che lava la città. Ho scrollato i capelli approfittando di un angolo in penombra, mi si è formata intorno una lieve nuvoletta di vapore. Ho sorriso. E’ stato allora che mi sono sentita osservata. Un’ombra, stagliata in controluce. Alto, sì, mi è parso alto. Si è girato, ho sentito che mi guardava. Gli sguardi sono sensazioni che si colgono. Ti arrivano addosso, li senti come se li potessi toccare. Gli sguardi degli uomini, specialmente. Capita che mi senta osservata, anche se non sono più così attraente. La mia età, poi, sembra non appartenermi, forse sarà per questo. O anche perché sorrido spesso. Ho letto da qualche parte che agli uomini piacciono le donne che sorridono. Ho alzato la testa, aperto gli occhi, volevo vedere com’era. E’ stato strano. Non guardo quasi mai gli uomini. Ho avuto alcune storie dopo la separazione, ma niente di entusiasmante. Io soffro nella vita di coppia, sono nata per stare da sola. Nella solitudine coltivo i miei segreti, ascolto i miei pensieri. E’ vero, sono stata sposata ma appena sono cresciuti i bambini, ci siamo separati. Federico, conoscendomi, non se l’è presa nemmeno tanto, ha dato la colpa ai miei capelli rossi. Abbiamo sempre trascorso le vacanze e molti momenti piacevoli con i ragazzi, come se la nostra fosse una situazione più che naturale. Sono andata a vivere con Umberto e Attilio, i nostri figli, in un appartamento al quinto piano, piccolo, ma il cielo
41 entrava dalle finestre e lo sfolgorio allegro delle campane la sera si diffondeva dai campanili vicini. Nei locali dell’enoteca le bottiglie risaltavano, lucide, sonnolente, ignare. Lui si è spostato, e per una frazione di secondo l’ho visto di sfuggita. Non riuscendo a immaginare il suo viso, ho provato l’impulso di vedere com’era. Mi sono fermata, lui si è avvicinato di qualche passo, arrivandomi quasi di fronte. C’era gente nell’enoteca, ma nessuno intorno a quei ripiani tranne noi due. Come se l’essere uno accanto all’altro avesse annullato tutto il resto, spazzato via le voci, i volti, i suoni che non avevano a che fare con il nostro incontro. Poi lui ha detto “mi perdoni” e il rumore di sottofondo si è rianimato, io ho di nuovo scosso i capelli, cercavo un gesto abituale per riprendere il controllo di me stessa. Ha chiesto se mi intendevo di vini. L’emozione mi impediva di comprendere la situazione con esattezza poi ho capito che voleva qualcosa da me, un suggerimento su di una bottiglia. L’ho guardato, non ho notato niente altro, solo i suoi occhi. Mi sono ripresa poi ho risposto “sì, abbastanza”, con una foga eccessiva, colta dal timore che scomparisse all’improvviso, così, come era apparso. Abbiamo iniziato a parlare di vini, in perfetto accordo sull’eccellenza dei vitigni italiani. Ha detto che preferiva i rossi intensi, corposi, fruttati. Ho risposto “Anch’io”. Temevo potesse sfuggirmi l’interesse a prolungare la conversazione, come ad esempio “qual è il suo nome” o “di che cosa si occupa” o, peggio “quando possiamo rivederci”, così mi comportavo come un sommelier al femminile invitata al convegno del Comitato Scientifico del Vino e non una signora dai capelli rossi, con le ciglia
42 allungate, vestita come Giulia e Annalisa, le incantevoli compagne dei miei figli. Improvvisamente, lui ha scelto una bottiglia, l’ha rigirata, poi l’ha riposta, ha detto “grazie” ed è uscito in gran fretta, con fare sconcertato. L’ho seguito con lo sguardo, ha esitato, si è guardato intorno poi ha attraversato la via Saragozza svanendo tra la folla. Una decina di minuti e sarei arrivata davanti al portone di casa. Per strada camminavo pensando a lui. Provavo una specie di rimpianto, come se all’improvviso mi fossi trovata a rifiutare un’occasione che avevo atteso da tempo, senza sapere di aspettarla. Avrei voluto mettermi a ridere, come spesso rido quando penso ai racconti delle amiche convincendomi che le relazioni sentimentali hanno come unico scopo quello di complicare la vita. Nessun sorriso, ero disorientata. Poi, al tepore della vasca da bagno, sono riuscita a riprendermi. Una parte di me si stava convincendo che un simile stato d’animo sarebbe durato lo spazio che io gli avrei concesso. Sono uscita. Aveva smesso di piovere e l’aria era quasi profumata. Sulla via Cesare Battisti ho rallentato il passo. La giornata stava finendo in un tramonto dalle tinte dorate, accanto alla chiesa di S. Salvatore svettava silenziosa l’imponente torre campanaria, un palazzo mostrava il suo cortile interno decorato di rose, qualche rampicante si abbarbicava agli archi e alle colonne dell’androne. “Dio mio, che meraviglia”, ho sussurrato a me stessa. Ho suonato il campanello dell’abitazione di Umberto, il cuore mi batteva stupidamente.
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