Linguistica italiana. Tra lessicografia storica e tipologia dei testi

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FRANCESCO SABATINI

Linguistica italiana. Tra lessicografia storica e tipologia dei testi
Udine - San Daniele del Friuli, 9-10 settembre 2010
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0. Premessa comune ai due interventi
Il titolo generale di questi due incontri, Tra lessicografia storica e tipologia dei testi, accosta
due ambiti di osservazione dei fatti linguistici che a prima vista sembrano avere ben poco in
comune. La “lessicografia storica” riguarda i criteri di raccolta dei materiali lessicali che sono
serviti per la compilazione dei vocabolari del passato; mentre la “tipologia dei testi” è una
branca della linguistica testuale che cerca di classificare, secondo parametri di vario genere, i
testi prodotti in un dato ambiente culturale allo scopo di rilevare tratti linguistici ricorrenti che
caratterizzino determinati tipi di testo. Il collegamento tra i due ambiti diventa evidente,
invece, nel quadro della realtà linguistica italiana, sulla base della seguente constatazione.
        L’uso standard della lingua italiana odierna risulta da una tradizione normativa molto
particolare. Nei secoli dal XVI al XIX (fino all’operazione manzoniana, peraltro di non
immediato successo), in assenza di un uso parlato sufficientemente diffuso e unitario (almeno
negli ambienti sociali dominanti) in misura paragonabile a quella di altre lingue prossime
all’italiano (il francese, lo spagnolo), l’unità e la “validità” dell’italiano erano assicurate dagli
strumenti lessicografici e grammaticali che venivano prodotti: soprattutto dal Vocabolario
degli Accademici della Crusca (1a ed. 1612; successive fino all’ediz. Cesari 1806-1809) e
dalle coeve e concordanti grammatiche. Lo standard italiano codificato nei vocabolari e nelle
grammatiche normative ancora nella prima metà e oltre del sec. XX non si è discostato
granché dal modello ereditato da quella tradizione, potendosi registrare solo alcune
depurazioni del sistema morfologico e fonologico (abbandono di doppioni nella morfologia
verbale e nominale, delle oscillazioni nei dittonghi, ecc.).
        D’altra parte, l’uso vivo e vario dell’italiano nel corso del secolo XX, specialmente
della seconda metà e degli ultimi decenni di esso, ha pienamente avallato, di fatto, tratti che
sono in contrasto con la norma stabilita da quella tradizione. Esempi: l’uso di lui, lei, loro in
funzione di soggetti; le dislocazioni nella frase segmentata, l’ipotetica con doppio indicativo,
alcune sostituzioni dell’indicativo al congiuntivo, ecc. Sembrerebbe che sia intervenuta
un’improvvisa frattura nel sistema linguistico italiano, ma non è così. Bisogna adottare criteri
meno superficiali sia nel ricostruire la fase di formazione cinque-ottocentesca dello standard,
sia nel collocare gli usi novecenteschi (e odierni) rispetto alla norma tradizionale. In sintesi:
1) la costituzione della norma cinque-ottocentesca (affidata alla lessicografia e alla
grammaticografia) va considerata come l’unica operazione allora possibile perché si

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individuasse una struttura portante del sistema linguistico italiano, operazione compiuta
attraverso l’adozione di una teoria dei “corpora” ante litteram; 2) le “libertà” dell’uso
linguistico italiano contemporaneo vanno considerate alla luce di un modello di tipologia dei
testi che preveda sia un’area di fondamentale validità dello standard storico, sia aree di
altrettanta validità di tratti divergenti, peraltro non propriamente innovativi ma riemergenti da
filoni di lingua antica esclusi dal canone stabilito dai normatori dei secoli passati.

San Daniele del Friuli, 9 settembre 2010, h. 10-12

1. Il Vocabolario della Crusca e la corpus linguistics

L’operazione compiuta dagli Accademici della Crusca negli anni dal 1590 al 1612, data di
pubblicazione della prima edizione del loro Vocabolario, va vista come il primo progetto
consapevolmente condotto di ricavare il sistema della lingua italiana da un corpus di testi
accortamente “bilanciato” (come diremmo noi oggi). Le dispute intorno alla scelta dei testi da
spogliare e citare (i “citati”), accesesi all’indomani dell’uscita dell’opera e protrattesi nei
secoli, hanno oscurato tutto il lavoro di preparazione e di selezione di questo enorme, per
quell’epoca, patrimonio di lingua tirata fuori dall’incastro testuale e ridotta nell’ordine
alfabetico dei lemmi, sottoposti a loro volta ad analisi e distinzione semantica.
        Il far ricorso a raccolte di testi per poter raffigurare la nostra lingua, esclusivamente
letteraria, nel suo laborioso costituirsi aveva un’antica tradizione. I canzonieri siciliani e
siculo-toscani duecenteschi avevano permesso già a Dante di affermare con forza (nel De
vulgari eloquentia) l’esistenza del volgare di sì, prima ancora che la sua opera maggiore
desse a questo volgare l’impulso decisivo. Altre iniziative di sillogi testuali nel corso del ‘300
e del ‘400 confermano il fatto che nella comunità culturale italiana del passato si faceva
costantemente ricorso a questo tipo di supporti per ottenere la certificazione del modello di
riferimento (si pensi al caso principe della Raccolta aragonese inviata nel 1476 da Lorenzo
de’ Medici a Federico d’Aragona). Tutto il ’500 è segnato da una ricerca costante della lingua
nei testi e già da un’attività lessicografica che punta a estrarre il sistema dall’uso degli autori
canonici: ma il corpus di testi era costituito, sostanzialmente, dalle “Tre corone” e poco più. Il
grande passo avanti fu compiuto dagli Accademici della Crusca (la loro brigata si era formata
decisivamente nel 1582) quando, partendo dalle indicazioni del principale loro esponente,
Leonardo Salviati, misero a poco a poco insieme un corpus di ben 208 autori (di cui 27
“moderni”, cioè del ’400 e ’500), per un totale di 309 opere, dalle quali ricavarono 52.862
citazioni, dalle quali furono estratti 25.056 lemmi di entrata, articolati in varie accezioni. Sono
queste le dimensioni della lingua compresa nella prima edizione del Vocabolario apparso a

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Venezia nel gennaio del 1612 e subito accolto in tutta l’Europa come un’opera innovativa per
la lessicografia delle lingue moderne e per la stessa coscienza linguistica dei popoli. Nelle
edizioni successive fino alla quarta (1729-1738), e limitandoci a considerare quelle uscite
dall’Accademia ed escludendo quelle apparse fuori di essa e variamente manipolate, i numeri
degli Autori, delle opere, delle citazioni e dei lemmi furono più che raddoppiati (nella quarta
si arrivò a 51.482 lemmi, 383 Autori, 659 opere e 155.249 citazioni).
        Quanto ai criteri di scelta dei testi e dei lemmi merita attenzione questa dichiarazione
degli Accademici, che si legge nella Presentazione dell’opera: «Non è stata nostra intenzione
di fare scelta di vocaboli dispersé [‘di per sé’, ‘singoli, particolari’], ma di raccorre, e
dichiarare universalmente, le voci e maniere di questa lingua: però [‘perciò’] non abbiamo
sfuggito di metterci le parole, e modi bassi e plebei, giudicandogli noi necessari alla perfezione
di essa, per comodità di chiunque volesse usargli nelle scritture, che gli comportano».
        C’è anche da tener presente che il volume di lingua e il tipo di lingua accolti nel
vocabolario risultano ancora più ricchi e vari (anche se non di molto) se si tiene conto della
lingua dei redattori delle voci, il cui uso va anche oltre i canoni delle scelte messe a lemma.
       Che l’opera compiuta dagli Accademici non potesse, specie nei secoli successivi,
soddisfare le esigenze di un uso linguistico più ampio e più vario, in una civiltà che si andava
evolvendo fortemente, specie dall’età illuministica in poi, è fuori discussione. Già nel pieno
secolo XIX (quando andavano maturando i gusti di un Manzoni, per intenderci),
l’inadeguatezza di quello strumento e degli altri ad esso conformi (come l’altrettanto longeva
grammatica del Corticelli) risultò evidente a tutti e agli stessi Accademici (che progettarono
faticosamente una quinta edizione, mai giunta a pieno compimento). Ma nella prospettiva del
confronto, che qui vogliamo istituire, tra le condizioni sociolinguistiche del nostro Paese nei
secoli preunitari e le esigenze linguistiche molto diverse dell’epoca successiva, dobbiamo
riconoscere che la formazione di uno standard restrittivo, raggiunta tra l’altro attraverso
operazioni molto meditate, fu la via obbligata perché l’esistenza della lingua italiana in epoche
socio-politicamente così avverse avesse una struttura di appoggio, accreditata presso gli
scrittori (tra l’altro a sostegno della trionfante opera lirica italiana) e adottata nelle scuole.

2. Una tipologia dei testi su base pragmatica

Udine, 10 settembre 2010, h. 10.30-12.30

All’indomani del cambiamento radicale delle condizioni sociopolitiche del Paese, trovatasi di
fronte a questa forma “ufficiale” della propria lingua, la società italiana ha incontrato notevoli
difficoltà nel far vivere alla luce del sole – in scritti di vario genere – un tipo di lingua
decisamente più libero, che altra volta ho denominato dell’ “uso medio”. A questo risultato
siamo pervenuti, soprattutto nella seconda metà del secolo XX, sotto la spinta di un parlato

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medio ormai di massa, fatto proprio, tra l’altro dal cinema e dai grandi mezzi di
comunicazione, accolto anche da una letteratura del tutto nuova, dall’epoca del neorealismo in
poi. Possiamo dire che in questo modo si sia aperto un contrasto insanabile con l’antico
standard? Come ho accennato nella premessa, se è indubitabile che sono state abbandonate
definitivamente, in tutti gli ambiti, forme tipiche dell’uso più tradizionale (conciossiacosaché
scompare alla fine dell’Ottocento; le forme pronominali eglino ed elleno vengono tenute in
vita da d’Annunzio e dal giovane Palazzeschi, ma non varcano la metà del secolo), lo standard
tradizionale presidia però ancora molte posizioni (si forniranno esempi). Tuttavia, il contrasto
con il più libero “uso medio” non è stridente, se giudichiamo di tale situazione assumendo i
parametri di una tipologia dei testi calzante con le modalità comunicative della civiltà attuale.
In un tipo di civiltà, qual è anche l’italiana, in cui è sufficientemente diffusa la produzione, da
una parte di testi tecnici (di vario genere: considerando tali anche quelli giuridici normativi) e
di trattazione rigorosa dei dati, e dall’altra di testi genericamente informativi, divulgativi, di
saggistica leggera e “superleggera”, nonché di testi letterari aperti a ogni forma di
sperimentazione, e in presenza dei mezzi di trasmissione del parlato, si prospetta un ventaglio
di usi che prevede proprio una notevole divaricazione all’interno dello stesso sistema.
Illustrerò i principi di un modello di tipologia dei testi che facendo riferimento al grado di
vincolo interpretativo che l’emittente pone al ricevente (una dimensione pragmatica, quindi),
individua i termini polari della rigidità-esplicitezza e della elasticità-implicitezza, adatti a
rendere conto della coesistenza fisiologica dei due filoni di lingua confluiti nel continuum
linguistico italiano attuale. Riaccennerò al fatto che molti tratti dell’italiano di “uso medio”
non sono affatto innovazioni, perché esistono, con continuità, da epoche anche remote (un
caso esemplare: il famigerato a me mi) e sono stati semplicemente riaccreditati dall’uso vivo
attuale.

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Bibliografia di riferimento

F. Sabatini, La storia dell’italiano nella prospettiva della corpus linguistics∗ (2006, ristamp.
in ID., L’italiano nel mondo moderno, Liguori, Napoli, 2010, vol. I).

1. La storia della lingua italiana è il regno della continuità. Molti studiosi sanno, altri lo scoprono
talora con qualche meraviglia, che un italiano mediamente colto di oggi può leggere con relativa
facilità, e comprendere almeno in superficie, i nostri maggiori classici letterari anche di 700 e più
anni fa. Un’espressione come la bocca mi baciò tutto tremante è un enunciato della nostra lingua
quotidiana, con fonologia, morfologia, lessico e relativa semantica, ordine delle parole e reggenze
sintattiche perfettamente rispondenti al nostro modo usuale di descrivere una simile vicenda
personale, che il verbo al passato remoto ovviamente riferisce a un tempo alquanto trascorso.
Notoriamente, si tratta di un celebre verso dantesco, nel quale si riscontra una sola piccola
differenza, registrata dalle edizioni critiche più attendibili, la palatale sibilante in basciò (differenza
che si annulla, per un concorso di circostanze, nell’odierna pronuncia italiana dell’area centrale).
Trovandosi in uno dei primi canti (il V) dell’Inferno, questo verso, sovrapponibile all’enunciato in
italiano di oggi, sta per compiere appunto i suoi 700 anni.
    Non è un esempio tirato a forza, perché è ben dimostrato che la struttura linguistica – mettendo da
parte aspetti stilistici specifici e difficoltà concettuali, che sono altra cosa – della Commedia e di altri
classici italiani di radice toscana prodotti dalla fine del Duecento in poi è largamente coincidente con
l’italiano di oggi. Per quanto riguarda il lessico, la parte più mutevole della lingua, calcoli
finalmente condotti con mezzi informatici hanno mostrato che il 61% del vocabolario di alta
disponibilità (circa 9000 lemmi) dell’italiano odierno resiste nell’uso fin dal secolo XIV e la
percentuale sale al 76,5% se includiamo il secolo XVI1. Gli altri livelli del sistema linguistico si
rivelano anche più stabili, e la coincidenza è maggiore se l’italiano di oggi viene messo a confronto
proprio con la lingua dei trecentisti, anziché con quella degli scrittori più vicini a noi di un secolo o
due. Questo andamento apparentemente bizzarro della nostra lingua non si spiega senza conoscere
almeno nelle sue linee essenziali la nostra storia linguistica. Non basta, infatti, evocare le condizioni
socio-politiche generali della comunità italiana, che ha tardato moltissimo a costituirsi in organismo
unitario dotato di un dinamismo complessivo, né è sufficiente riferirsi genericamente alla forte
preminenza dell’uso scritto, al quale è stata affidata a lungo l’esistenza dell’italiano. Bisogna
arrivare a considerare le circostanze particolari e i modi specifici in cui è stato conferito all’italiano
quel carattere di stabilità che finora ha sfidato i secoli e, chissà, potrebbe raggiungere il millennio: le
circostanze, cioè, nelle quali operatori dotati di grandissima autorità hanno proposto
consapevolmente agli apprendenti della lingua quel carattere come un valore primario, riuscendo a
imporlo. Si scopre così che più e più volte, nel corso storico della nostra lingua, l’accettabilità
dell’uso linguistico, nonché il riconoscimento dell’esistenza della lingua stessa e ogni
argomentazione anche teorica sui fatti linguistici sono stati derivati dalla costituzione preliminare di
un concreto corpus di testi.

∗
   [Pubblicato in Elisa Corino, Carla Marello e Cristina Onesti (a c. di), Atti del XII Congresso Internazionale di
Lessicografia / Proceedings XII Euralex International Congress (Torino, 6-9 settembre 2006), Edizioni dell’Orso,
Alessandria, 2006, vol. I, pp. 31-37. Questa ristampa omette l’abstract iniziale e presenta alcune correzioni o
integrazioni dell’autore. In Bibliografia: 2006.1].
1
  I calcoli sono stati fatti sulla base delle datazioni segnate in Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, Dizionario della
lingua italiana, Rizzoli – Larousse, Milano, 2006 (1a ediz. 1997). In questo dizionario di ampiezza media (85.074 lemmi,
con esclusione delle varianti e dei derivati non posti a lemma) i vocaboli considerati di alta disponibilità sono 9.059: di
essi 5.513 sono documentati già nel secolo XIV e altri 1.403 risultano in uso fin dal secolo XVI. Dal Grande Dizionario
Italiano dell’Uso di Tullio De Mauro (UTET, Torino, 1999; vedi poi Id., La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi
di lessicologia, UTET, Torino, 2005), sui 6.726 lemmi di base si ricavano percentuali molto vicine: rispettivamente 64%
e 76,3%.

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Testi scritti, naturalmente. E ciò fornisce la prova che il ricorso a quel principio era pur sempre la
conseguenza (felice conseguenza?) della mancanza di un centro geografico-socio-politico dotato di
potere di guida dell’uso linguistico vivo, quel potere che invece plasmò, com’è noto, il ben diverso
corso del francese. Ma qual che ne fosse la causa oggettiva e profonda, è certo che in molti momenti
cruciali per l’affermazione, il consolidamento e anche l’avanzamento dell’uso della nostra lingua fu
risolutivo, nella coscienza e nella prassi degli attori principali di quei processi, il loro tenace
appigliarsi a una tradizione di lingua letteraria consegnata in un canone di testi. Non resta, per
misurare il peso di questo fenomeno, che ripercorrere velocemente le tappe di questo itinerario che
dalla fine del secolo XIII ci conduce quasi all’inizio del XX, seguendo la prospettiva delle
successive canonizzazioni testuali.

    2. Ben prima di dedicarsi alla Commedia, Dante compone il De vulgari eloquentia per dimostrare
l’esistenza e le caratteristiche di una lingua letteraria italiana già formata e per lui addirittura
primeggiante sulle consorelle neolatine e fonda la sua dimostrazione sull’eredità lasciata dalla
Scuola poetica siciliana, da lui conosciuta e fruita attraverso le sillogi costituite nei celebri
Canzonieri trascritti qualche decennio prima in Toscana2: sono questi i pilastri della sua coscienza
della realtà linguistica italiana e sono qui le radici anche delle sue teorie sull’uso illustre delle lingue.
    Qualche decennio dopo, accresciuto enormemente il patrimonio di base della nostra lingua
letteraria proprio dalla produzione di Dante e di una schiera di suoi contemporanei, si sottomettono
allo stesso principio di autorità coloro che, in talune aree più attive del contesto italiano, desiderano
conquistare la lingua di quella sfolgorante letteratura. Ha funzione di corpus paradigmatico il
Canzoniere messo insieme dal trevisano Niccolò de’ Rossi, e via via nel corso dello stesso secolo e
nel successivo con varia calibratura rispondono a questo scopo le numerose sillogi di rime e anche
prose toscane che circolano (insieme con le decine e decine di manoscritti del poema dantesco) per
l’Italia: si utilizza naturalmente l’appiglio dei contenuti per giungere a possedere, in realtà, modelli
di lingua e di stile. Episodio di prima grandezza, sotto questo profilo, è quello dell’invio, nel 1476,
da Firenze a Napoli, da Lorenzo de’ Medici a Federico d’Aragona, della cosiddetta Raccolta
aragonese, una studiatissima antologia di poeti della più schietta tradizione toscana, che pone in
prima posizione Dante delle Rime ma intorno e di seguito a questo caposaldo dispone un ampio
corpus che parte ancora dai Siciliani e prosegue col fiore della produzione trecentesca e
quattrocentesca per giungere al nuovo vertice rappresentato da componimenti dello stesso Lorenzo:
nell’epistola accompagnatoria, che si attribuisce al Poliziano, si esprime chiaramente il motivo
dell’attesa e dell’offerta, attraverso i testi, di modelli linguistici.
    Si sta propagando ormai, alla fine del Quattrocento, la produzione del libro a stampa e stanno
maturando i tempi per una vera codificazione del volgare, imposta anche dal desiderio dei tipografi
di raggiungere tirature destinate a più larga diffusione. È dalle loro officine, infatti, che si fa appello
ai grammatici perché provvedano a tale bisogna, ed ecco che sotto l’insegna più celebre, quella di
Aldo Manuzio, viene fissato un ormeggio inamovibile: sono le edizioni modello (per l’epoca) dei
due testi fondamentali del Parnaso italiano, il Canzoniere petrarchesco (1501) e la Commedia
dantesca (1502), per cura di un giovane, ma agguerrito umanista ed estroso inventore di formati e
segni tipografici, Pietro Bembo. A lui, veneziano, in concorrenza con un quasi conterraneo, il
pordenonese Fortunio, va attribuito il merito (la colpa?) di aver incardinato definitivamente,
mediante l’argomentazione implacabile delle sue Prose della volgar lingua (1525), l’intera struttura
della lingua italiana nella realtà cristallizzata quasi di un solo testo, il Canzoniere petrarchesco, con
forte penalizzazione di Dante, e comunque di aver circoscritto l’area di prelievo dei modelli al

2
  Tre ne sono giunti fino a noi e sono i notissimi codici Vat. lat. 3793, Redi 9 della Biblioteca Laurenziana e B.R. 217
(già Palatino 418) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Si possono ora consultare nella splendida riproduzione
fotografica a c. di Lino Leonardi, I Canzonieri della lirica italiana delle Origini, SISMEL – Edizioni del Galluzzo,
Tavarnuzze (Firenze), 2000, in tre voll., più un quarto (2001) di Studi critici.

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fiorentino letterario trecentesco, a scapito di quello contemporaneo3. Uno sciame di suoi seguaci
continua e consolida rapidamente la sua opera: già una “giuntina” di rime antiche, del 1527, forse
ispirata proprio da lui, mette in circolazione un serrato corpus di testi canonici. Nei decenni
successivi entrano in azione lessicografi e grammatici che estraggono a gara lessico e regole
rigorosamente dalle “tre corone” (o “tre fontane”). Infatti, se esistono, come sappiamo bene,
sostenitori di altri indirizzi, è la proposta del Bembo che, nell’assetto politico e socio-culturale
generale d’Italia, ottiene una larghissima adesione: e così il fiorentino trecentesco, riesumato nei
testi consacrati, risorge come lingua italiana per essere messo in cammino verso le età future,
ricoperto però – fatto altrettanto decisivo – di una sontuosa veste stilistica rinascimentale. È il
momento in cui la saldezza del canone di riferimento propria della lingua italiana genera invidia tra i
dotti francesi4.
   Il progetto di rifondazione dell’italiano (si potrebbe dire di sottofondazione, pensando alle opere
che ridanno vigore alle basi di un edificio preesistente) è già ben delineato nei decenni centrali del
Cinquecento. Ma perché l’edificio sorga ampio e robusto occorrono allestimenti e materiali
abbondanti, macchine edilizie adeguate: è questa l’immagine con cui si può raffigurare l’opera
messa in cantiere nell’ultimo decennio del secolo dagli Accademici della Crusca, un ridotto
manipolo di dotti e filologi fiorentini, capitanati per pochi anni da Lionardo Salviati, che
riconducono l’iniziativa nella patria della nostra lingua. Salviati è il vero mediatore della tesi
bembiana nella città che si sente ancora procreatrice di lingua ed è un convinto assertore della
funzione stabilizzatrice di un canone autoriale ben evidente, nel quale egli, allargando i vincoli posti
dal Bembo, integra decisamente Dante e accoglie autori anche di epoche posteriori, giungendo a
includere il non toscano Ariosto, ma rifiutando, com’è noto, Tasso. I suoi compagni di lavoro, che si
sono dedicati a un’impresa quasi temeraria, sono però più flessibili, ampliano la rosa degli autori
moderni (ma non accettano ancora Tasso!), si preoccupano di immettere, sia pure in misura limitata,
anche testi pratici e tecnici e perfino solo manoscritti. È evidentissima, e dichiarata nella
presentazione dell’opera, il celebre Vocabolario degli Accademici della Crusca (questo il titolo
scelto per evitare termini come fiorentino, toscano, italiano, giudicati variamente compromettenti)
che appare nel 1612, l’intenzione di pervenire alla formazione di un vero corpus universale, capace
di rappresentare tutta la lingua. Basta leggere questo brano della introduzione A’ lettori:

   Non è stata nostra intenzione di fare scelta di vocaboli dispersé [‘di per sé’, ‘singoli, particolari’], ma di
raccorre, e dichiarare universalmente, le voci e maniere di questa lingua: però [‘perciò’] non abbiamo sfuggito di
metterci le parole, e modi bassi e plebei, giudicandogli noi necessari alla perfezione di essa, per comodità di
chiunque volesse usargli nelle scritture, che gli comportano.

   Chi non credesse alle promesse dei compilatori può, more adolescentium, andare a cercare tra i
lemmi del Vocabolario anche le ‘parolacce’ canoniche e le troverà, scientificamente trattate e, specie
nelle edizioni successive, filologicamente documentate. Non occorre un lungo commento, insomma,
per capire che nell’ambiente fiorentino, agitato dalla provocazione bembiana e pur sempre
depositario di un senso vivo della lingua, l’assidua riflessione di almeno due generazioni di dotti
aveva fatto compiere un lungo passo avanti nella rappresentazione e quindi nella pianificazione della
nostra lingua. L’idea di un canone ristretto di autori modello da imitare per produrre altri testi
modello si era trasformata nel concetto di un vero corpus integrato e bilanciato, dal quale si cercava
di estrarre tutta la lingua per dare agli utenti la possibilità di usarla in tutte le maniere e per tutte le

3
  Cfr. Mirko Tavosanis, Le fonti grammaticali delle Prose, in Silvia Morgana, Mario Piotti, Massimo Prada (a c. di),
Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, (Atti del Convegno di Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000), Cisalpino,
Milano, 2001, pp. 55-76. Vedi ivi anche i saggi di Giovanna Rabitti, Tra Bembo e Fortunio: una generazione inquieta,
pp. 77-94, e di Corrado Bologna, Bembo e i poeti italiani del Duecento, pp. 95-122.
4
  Notizie in proposito nella Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini, p. 304 (cito dalla 10a ediz., a c. di Ghino
Ghinassi, Sansoni, Firenze, 1991).

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occorrenze possibili. Si rifletta almeno sulla presenza, nel brano citato, dei termini raccorre (che si
oppone a fare scelta), universalmente, voci e maniere, modi (e sono spesso ‘modi di dire’ tratti dal
parlato contemporaneo), perfezione cioè ‘completezza’, e non si trascuri quel chiunque con cui si
allude a un pubblico vasto e indifferenziato. Se poi si bada al fatto che è precisa intenzione dei
compilatori del Vocabolario fornire con dovuta ampiezza i contesti delle voci, osservabili così anche
nelle connessioni sintattiche, e che tutto il materiale lessicale viene organizzato in un’ampia rete
attraverso rinvii, ci si renderà conto che già i primi ideatori dell’opera avevano chiara l’idea del
sistema globalmente inteso – strutturale, funzionale, socio-stilistico, storico-culturale – della lingua.
    Non si dimentichi, d’altra parte, che gli Accademici avevano fatto professione di modernità anche
attraverso i loro simboli: come emblema principale dell’istituzione avevano scelto il frullone, una
macchina di recente invenzione che sostituiva l’antico setaccio a mano e che permetteva di ottenere
farina più raffinata e di produrne, con il lavoro di un solo operaio, una quantità maggiore. Era
metafora del loro lavoro di vaglio filologico dei testi e di analisi più approfondita della lingua.

   3. Tra le intenzioni e la prassi corrono certamente delle distanze. Dai testi “citati” non viene
estratto tutto il lessico, gli autori “moderni” sono, nelle prime due edizioni, ancora limitati (Tasso
verrà accolto solo nella terza edizione, la più innovativa), il settore meno rappresentato resta quello
della terminologia tecnica e scientifica. Ma i conti che oggi possiamo fare con notevole precisione
grazie alla versione elettronica dell’intera serie delle edizioni del Vocabolario5 permettono di
pronunciare giudizi più equilibrati.
   Nella sua prima edizione (1612) il Vocabolario constava di 1.092 pagine in folio, presentava
25.056 lemmi di entrata, articolati in varie accezioni, e raccoglieva 52.862 citazioni (che contengono
1.152.999 occorrenze) ricavate da 208 autori per un totale di 299 opere (27 sono gli autori
“moderni”, con 52 opere). La presenza di lingua non “d’autore”, e quindi suggerita solo dal parlato,
è molto ridotta, ma va cercata, oltre che nel lemmario, in alcuni sviluppi che talora si presentano in
coda alle voci e soprattutto nella lingua dei compilatori: un’operazione non certo inconsapevole,
paragonabile, in lessicografia, a quella che nei trattatisti di lingua (come Bembo) è stata qualificata
come «grammatica silenziosa» (Patota). Ebbene, si tratta di una “quantità” di lingua mai prima di
allora estratta da qualsiasi sorgente, scritta o parlata, commentata e messa a disposizione in
bell’ordine per i parlanti di una lingua moderna. Le edizioni successive dell’opera (II, 1623, ancora
in un volume; III, 1691, in tre volumi, arricchiti da molto lessico scientifico e tecnico; IV, 1729-
1738, in sei volumi; lasciando da parte la V, 1863-1923, in undici volumi ma incompiuta) portarono
alla fine a triplicare tale quantità6. Dimensioni e impostazione dell’opera concorrono a spiegarne il

5
   Cfr. Lessicografia della Crusca in rete, banca dati consultabile nel sito dell’Accademia della Crusca:
www.accademiadellacrusca.it/biblioteca_virtuale.shtml. Sull’intero progetto informa la relazione dei suoi coordinatori e
responsabili, Massimo Fanfani e Marco Biffi, La lessicografia della Crusca in Rete, in Elisa Corino, Carla Marello e
Cristina Onesti (a c. di), Atti del XII Congresso Internazionale di Lessicografia / Proceedings XII Euralex International
Congress (Torino, 6-9 settembre 2006), Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2006, vol. I, pp. 409-416. Le mie
considerazioni sono limitate sostanzialmente alla prima edizione del Vocabolario. Questa verrà ora riproposta anche in
carta: Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1612, ristampa anast., accompagnata da un volume di presentazione,
Una lingua, una civiltà, il Vocabolario, e dalla versione elettronica in CD-rom, a cura di Domenico De Martino e
Simone Casini, ERA Edizioni, Carbonate (Como), in stampa. Gli studi principali sulla lessicografia della Crusca (di A.
Viscardi, M. Vitale, G. Nencioni, S. Parodi, M. Sessa) si raggiungono a partire dalla bibliografia finale di questa opera.
Un filo di ragionamento complessivo sulla tradizione lessicografica italiana, con esame più attento dedicato all’opera
degli Accademici, è nel saggio di Pietro G. Beltrami e Simone Fornara, Italian Historical Dictionaries: from the
Accademia della Crusca to the Web, in “International Journal of Lexicography”, 17, 2004, 4, Special Issue.
Lexicography in Italy: specific themes and trends, a c. di Carla Marello, pp. 357-384.
6
  L’intero contenuto delle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca può essere consultato, in
edizione digitale, attraverso il sito dell’Accademia della Crusca: www.accademiadellacrusca.it. Sulla elaborazione del
canone degli autori accolti nella lessicografia della Crusca, si vedano specialmente gli studi di Maurizio Vitale, La Ia
edizione del Vocabolario della Crusca e suoi precedenti teorici e critici, 1959; La III edizione del Vocabolario della
Crusca. Tradizione e innovazione nella cultura linguistica fiorentina secentesca, 1966; La IV edizione del Vocabolario
della Crusca. Toscanismo, classicismo e filologismo nella cultura fiorentina del primo Settecento, 1971; tutti

                                                                                                                8
successo non solo in Italia ma nell’intera Europa, che risuonò a lungo di lodi all’istituzione
fiorentina, espresse da personaggi, per citarne solo alcuni più “vicini” a noi nel tempo, come
Voltaire, Samuel Johnson, i fratelli Grimm, Arthur Schopenhauer.
    Com’è noto, fin dal suo apparire il Vocabolario fu sottoposto, in Italia, anche a vivaci critiche,
alcune certo dettate da malumori o differenti gusti personali, altre nascenti da rilievi fin troppo facili
di mancanze e squilibri. Ciò non ostante, per almeno due secoli non vi fu scrittore (fino a Manzoni,
quando intraprese la stesura del suo romanzo) che non lo consultasse assiduamente. Facendo un
bilancio tra meriti e difetti dell’opera i primi risultano sicuramente superiori ai secondi. Pensando
soprattutto all’epoca più tarda della circolazione dell’opera, bisogna anche concludere che non
poteva un vocabolario, comunque concepito, sopperire all’assenza di un centro unificatore della vita
culturale del Paese e promotore di un vivo e largo flusso di nuova lingua all’interno della società.
Perché questo avvenisse occorreva che cambiassero «le condizioni d’Italia», come ebbe occasione di
dire Ugo Foscolo nel 1826.
     Dall’età illuministica in poi la fede nel repertorio di modelli, e quindi nel canone di autori, era
stata scossa, ma «le condizioni d’Italia», per riprendere subito l’espressione foscoliana, non
favorivano la formazione di un “uso” linguistico generale ben conoscibile che potesse sostituire
ampiamente il principio di autorità. Nel campo della lessicografia, il più sensibile a questo problema,
i primi tentativi di attingere più liberamente agli autori recenti, ai settori tecnici e scientifici e al
parlato (depurato di forma dialettale) furono quelli del nizzardo Francesco D’Alberti di Villanova
(1797-1805) e dell’editore napoletano Tramater (1829-1840). Due riedizioni private del Vocabolario
della Crusca (quella curata dal veronese Antonio Cesari, 1806-1811, e quella del cesenate Vincenzo
Manuzzi, 1833-1840) riproponevano invece strettamente il principio del canone di autori e quella
del Cesari in particolare ridusse fortemente questo canone al secolo XIV, escludendo comunque il
linguaggio tecnico e scientifico. Negli ultimi quarant’anni del secolo si giocò la partita decisiva della
lessicografia dell’Italia unita. Due opere cercarono di conciliare il principio del canone d’autori con
il libero prelievo dall’“uso”, un uso di cui si poteva cominciare a cogliere l’esistenza. Nel 1863 vide
la luce il primo volume della V edizione del Vocabolario della Crusca (che fu fermato all’XI
volume, con la lettera O, nel 1923, con decreto del ministro fascista Gentile), totalmente basato su
un corpus di autori, anche se esteso via via ai moderni e contemporanei (solitamente presi in
considerazione dopo la morte) e con aperture alla lingua d’uso e tecnico-scientifica anche senza
sostegno di citazioni. Un’impostazione non dissimile, ma con maggior propensione per gli autori
moderni, un’accoglienza più larga delle voci liberamente tratte dall’uso e una sensibilità più
aggiornata per le voci tecnico-scientifiche, dette Nicolò Tommaseo al suo Dizionario della lingua
italiana (1861-1879), rimasto per oltre un secolo il caposaldo della lessicografia italiana. Una terza
opera tentò l’innovazione radicale: il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di
Firenze (1870-1897), mirava programmaticamente a cancellare la tradizione del canone degli autori,
ispirandosi alla tesi manzoniana della necessità di una totale rifondazione dell’italiano nel parlato dei
Fiorentini colti contemporanei. La scarsissima accoglienza ottenuta dall’opera dimostrò
l’inaccettabilità storico-culturale e l’inattuabilità pratica di un simile proposito.
    Se si volge rapidamente lo sguardo a un campo vicino a quello della lessicografia, quello
dell’educazione allo scrivere, si può cogliere un interessante parallelismo. Durante tutto l’Ottocento
ebbero ancora molta fortuna le raccolte di autori esemplari per l’uso della lingua. Letterati di fama
vennero incaricati, dalle case editrici, di allestire simili raccolte e tra questi incontriamo, negli stessi

ripubblicati nel suo vol. L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano,
Ricciardi, Milano-Napoli, 1986, rispettivamente alle pp. 117-172, 273-393 e 349-382. Dello stesso ancora Il canone
cruscante degli Auctores e la lingua del Canzoniere del Petrarca, Accademia della Crusca, Firenze, 1996. Sulla
costituzione del corpus per l’ultima edizione cfr. Valentina Pollidori, Le Tavole dei citati della IV e della V impressione.
Criteri filologici, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana, Atti del Congresso Internazionale per il
IV Centenario dell’Accademia della Crusca, Firenze, 29 settembre – 2 ottobre 1983, Accademia della Crusca, Firenze,
1985, pp. 381-386.

                                                                                                                   9
anni, il purista napoletano Basilio Puoti (Antologia di prose italiane, Napoli, 1828) e Giacomo
Leopardi (Crestomazia italiana, I, La prosa, II, La poesia, Milano, 1827 e 1828). Ma il caso più
significativo è forse quello degli Esempi del bello scrivere in prosa e in poesia proposti agli studenti
di retorica, raccolti in due volumi dal toscano Luigi Fornaciari: pubblicati la prima volta nel 1829 e
1830, ripubblicati nel 1838, furono ancora riediti, anche se accresciuti e aggiornati, a cura del figlio
Raffaello (autore di una ben “moderata” tra le nostre grammatiche di quel secolo, fronteggiata dai
manuali dei manzoniani) fino all’inizio del Novecento (1907).
   Il grande traguardo dell’unificazione politica d’Italia era stato raggiunto, ma solo l’avanzare dei
fondamentali processi conseguenti, quali l’innalzamento culturale dell’intera popolazione, un
avvicinamento delle classi sociali e uno stemperarsi delle concentrazioni regionali, avrebbe avviato
la formazione di un “uso comune” nazionale, riconoscibile e captabile dai lessicografi e praticabile,
si aggiunga, dai nuovi scrittori (e saggisti e giornalisti): un uso distinguibile, ma non separabile dal
fiume di lingua scritta che attraversando i secoli aveva permesso che esistesse, perdurasse e
giungesse fino a noi la civiltà italiana.

   4. Passando rapidamente dalla storia al presente, vorrei infine accennare alla particolare utilità dei
corpora testuali sufficientemente proiettati indietro nel tempo per la definizione dei problemi che
pone l’uso odierno della nostra lingua. Ai non pochi dubbi sulla norma tuttora esistenti per noi
parlanti e scriventi di oggi (vedi le alternative tra gli e loro pronome personale dativo plurale; alcuni
usi dell’indicativo per il congiuntivo; ecc.) potremmo dare risposte meno soggettive o cautamente
sfumate, se dalla consultazione di corpora di grande ampiezza e costruiti secondo una adeguata
tipologia dei testi potessimo ricavare che un determinato uso messo in discussione:
        a) è documentato con una certa stabilità nel corso degli ultimi duecento anni (in pratica,
            dall’incipiente rinnovamento della lingua scritta alle soglie dell’età romantica);
        b) è stato accolto, in questo arco di tempo, da un certo numero di autori di riconosciuta
            grande autorità, al di fuori di scelte stilistiche volutamente caratterizzanti sul piano
            diatopico e diafasico;
        c) è presente in una fascia di testi che fanno da ponte tra il parlato e lo scritto.

   Posso citare due casi di usi contestati dal fronte purista e che, sottoposti a questo tipo di prova, si
possono ritenere brillantemente risolti in termini positivi: il comunque assoluto (senza
completamento di una sua struttura frasale) e il per cui riferito a un intero discorso precedente (senza
testa nominale di aggancio)7.

7
  Nel primo caso si tratta di una innovazione (forse un calco sull’inglese) introdotta nei primi decenni dell’Ottocento; il
secondo è un elemento di antica coniazione sul latino per quod che entra nella lingua comune nel corso dello stesso
secolo. I due casi sono stati studiati da Domenico Proietti, Comunque dalla frase al testo, in “Studi di Grammatica
Italiana”, XX (2001), pp. 175-231; Id., Origine e vicende di per cui assoluto: un altro caso di conflitto tra norma dei
grammatici e storia, ivi, XXI (2002), pp. 195-308.

                                                                                                               10
Dati sul lemmario e sul corpus delle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della
Crusca

                               ENTRATE       AUTORI CITATI / OPERE CITATE           CITAZIONI DA TESTI

   I EDIZIONE         (1612):       25.056             208     /    299                  62.870

  II EDIZIONE         (1623):       27.626             246     /    362                 70.047

III EDIZIONE          (1691):       38.005             342 /        614                 112.549

IV EDIZIONE (1729-38):              51.482             383 /        659                 155.249

        Aspetti della continuità storica della lingua italiana
                                Permanenza nel tempo del lessico di base
                               (fondamentale, di alto uso, di alta disponibilità)

Lessico di base dell’italiano odierno, secondo:

          A) Dizionario Italiano Sabatini - Coletti                                   parole 9059

          B) Grande Dizionario Italiano dell’Uso di T. De Mauro                         “    6726

esistenti nell’uso a datare dal:

            secolo XIV
            A)        parole       5513      =      61% (di 9059)
            B)          “          4344      =      64%      (di 6726)

            secolo XVI
            A)        parole       6916      =      76,5%          (di 9059)
            B)          “          5128      =      76,3 %         (di 6726)

                                                                                                         11
TIPOLOGIA DEI TESTI

Il modello esposto fa riferimento al seguente studio:

F. Sabatini, “Rigidità-esplicitezza” vs “elasticità-implicitezza”: possibili parametri massimi
per una tipologia dei testi (1999; ristamp. in ID., L’italiano nel mondo moderno, Liguori, Napoli,
2010, vol. I). [si riproducono qui solo i paragrafi di impostazione del modello].

1. Principi teorici e di metodo
1.1. Il “patto” comunicativo e i tipi di testo
Le mie ricerche sulle tipologie testuali traggono origine da un lontano tentativo di fornire, a
fini didattici, uno strumento che guidasse i discenti nell’analisi dei testi: uno strumento
abbastanza pratico, che indicasse chiaramente sulla superficie linguistica dei testi un buon
numero di tratti distintivi, collegabili a una classificazione dei testi stessi secondo funzioni
pragmatiche attendibili e anche accostabili ai dati dell’esperienza comune. Ne è nata l’ipotesi
di un modello di tipologia8 che si differenzia molto da quella più vulgata, rappresentata dalla
trilogia dei tipi narrativo, descrittivo, argomentativo, anche nella versione più elaborata di
Werlich (1979 e 1983) che a questi tipi aggiunge l’espositivo e l’istruttivo (cioè ‘atto a dare
istruzioni, a guidare il comportamento’, sì da includere perfino i testi pubblicitari). Indico
subito alcune linee di questa diversità.
     La citata tipologia di Werlich (ripresa, accolta più o meno criticamente, ritoccata da molti
altri studiosi)9 si fonda dichiaratamente su questi due parametri:
    – l’atteggiamento conoscitivo del produttore del testo nei confronti della realtà che
    egli osserva o dei concetti che vuole presentare, atteggiamento che l’autore riconduce a
    cinque modalità di conoscenza che sarebbero «biologicamente innate» nella mente umana:
    percezione nello spazio; percezione nel tempo; comprensione mediante analisi e sintesi di
    concetti; valutazione dì concetti messi in relazione; pianificazione di comportamenti propri
    o altrui;
    – l’intenzione dello stesso produttore di focalizzare l’attenzione del destinatario su
fattori e circostanze del contesto.
   Per giungere fino ai tipi concretamente esistenti e ad alcuni tratti di superficie osservabili e
   catalogabili, Werlich è tenuto però a introdurre e incrociare vari altri criteri, quali la
   distinzione tra «realtà» e «finzione», l’invenzione di «forme testuali tipiche di una
   determinata cultura», il «punto di vista» dell’emittente e infine la scelta di uno «stile»: solo
   in questo modo egli può inquadrare i testi letterari, distinguere le «descrizioni
   impressionistiche» da quelle «tecniche», le «narrazioni in stile neutro» da quelle «in stile
   metaforico», ecc. Va detto che una classificazione di testi basata direttamente su possibili
    8
       Già esposto o utilizzato in Sabatini 1990a (e in prima ediz. 1984); 1990b; 1997a; 1997b; 1998; a queste
linee si attiene anche il DISC (Sabatini e Coletti 1997). Verifiche del modello hanno offerto Ferrari 1997, Ferrari
1999, e Dressler 1998 (pp. 612-614). – Negli anni 1995-98 ho proseguito questa ricerca presso il Centro
Interdisciplinare “B. Segre” dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Ne ho illustrato i risultati in vari seminari in
Italia e all’estero, in particolare al Centro Linguistico dell’Università “Bocconi” di Milano (cfr. Cortelazzo 1997,
pp. 38s.), alla Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona (cfr. Domenighetti 1998), all’Accademia della
Crusca (12 marzo 1997). In queste e in altre occasioni ho raccolto osservazioni e suggerimenti preziosi. Ricordo
anzitutto i compianti Maria-Elisabeth Conte e Temistocle Martines; ringrazio ancora Michele Ainis, Carla
Bazzanella, Gaetano Carcaterra, Amedeo Conte, Paolo D’Achille, Wolfgang U. Dressler, Angela Ferrari, Piero
Fiorelli, Bice Garavelli Mortara, Cristina Lavinio, Emilio Manzotti, Aldo Menichetti, Lavinia Merlini Barbaresi,
Aldo Nemesio, Tito Orlandi, Giuseppe U. Rescigno, Cesare Segre, Gunver Skytte. A Domenico Proietti devo
vari dati derivanti dalla sua tesi di dottorato (Università di Roma Tre).
     9
       Mi limito a citare, per il panorama italiano, la riconsiderazione che ne fanno Garavelli Mortara 1988 e
Lavinio 1990.

                                                                                                                12
funzioni cognitive è risultata del tutto insoddisfacente già a Beaugrande e Dressler (1984,
   pp. 237-243), i quali hanno tentato ulteriori articolazioni – aggiungendo ai soliti tre tipi «il
   presentare mondi alternativi» e «visioni profonde del mondo reale» (testi letterari),
   «l’ampliare le conoscenze sul mondo reale» (testi scientifici), «il diffondere le conoscenze
   assodate» (testi didattici) – ma hanno concluso (p. 242): «Neppure questo nostro modesto
   tentativo ha delineato una tipologia testuale chiaramente differenziata. Gli insiemi dei testi
   con le loro caratteristiche restano vaghi ». Noto subito, da parte mia, che in queste
   tassonomie testuali non appare affatto, o viene aggregato marginalmente ad altri, un tipo
   testuale che realizza invece un uso fondamentale e spiccatissimo della lingua: il testo
   legislativo.
   Il principio e i criteri sui quali fondo la mia tipologia sono nettamente diversi. Ho ritenuto
   di dover scegliere:
     – come piano di riferimento generale il puro e semplice rapporto o, meglio, “patto”
comunicativo che lega immancabilmente emittente e destinatario;
     – come criterio per distinguere i tipi di messaggio realizzabili il grado di vincolo
interpretativo che in quel patto l’emittente pone al destinatario.
     Mi è sembrato, insomma, di dover fare perno decisamente sul dato fondamentale che si
coglie nella comunicazione umana normalmente intenzionale e ne costituisce l’onnipresente
illocutività: l’intenzione dei suoi attori di passarsi “informazioni” (dati, concetti, opinioni,
sollecitazioni, suggestioni, ecc.) mediante un codice che, notoriamente, viene maneggiato e
regolato da entrambe le parti impegnate nell’atto di comunicazione. Se diamo per acquisito
che il senso di ogni messaggio è costruito collaborativamente, sia pure in momenti temporali
diversi, dal produttore/emittente e dal ricevente/interprete10, risulterà evidente che
l’attribuzione di senso alle parole rappresenta il piano sul quale entrambi gli attori si
incontrano realmente e operano concretamente. Per dirlo in termini estremamente semplici: è
l’intenzione (o prospettiva) comunicativa che obbliga, da una parte, il produttore del
messaggio a porsi nel suo operare la domanda (magari inconsapevole, ma immancabile) “da
queste parole si capirà quello che voglio dire?”, e induce, dall’altra parte, il fruitore a porsi nel
suo operare la domanda speculare (altrettanto onnipresente, anche quando inconsapevole)
“che cosa ha voluto dire l’autore con queste parole?”. Individuato così il piano sul quale si
trovano i fenomeni da osservare, ho ritenuto che la diversità dei tipi di testo potesse dipendere
più direttamente dai diversi gradi di rigidità introdotti nel patto comunicativo, secondo
che il senso del messaggio debba essere costruito dalle due partì con maggiore o minore
univocità. Va subito precisato che il grado di rigidità viene certo stabilito personalmente dai
due realizzatori del singolo contatto, ma nell’ambito di tradizioni formatesi e affermatesi
lungamente nel contesto culturale in cui essi operano (v. più avanti il par. 1.2.5).
    L’idea centrale che si è fatta strada con il procedere della mia ricerca è, dunque, che il
    tratto della rigidità/elasticità semantica della lingua dei testi avvolga inevitabilmente
    qualsiasi loro contenuto (cognitivo o operativo, più o meno reale o finzionale) e qualsiasi
    loro impostazione di tipo descrittivo, narrativo, argomentativo, imperativo, pattuitivo,
    ottativo, ecc.: da ciò deduco che il diverso grado di rigidità (o, rispettivamente, elasticità)
    sia il vero denominatore comune e quindi l’unico fattore capace di produrre una loro
    differenziazione tipologica definibile e “misurabile”. Tale gradazione va correlata non alla
    impostazione complessiva della composizione, ma alle diverse funzioni illocutive dettate
    dal vincolo interpretativo: funzioni chiaramente pragmatiche, che possono andare, per
    indicare subito i due estremi, dall’intenzione di elaborare e fornire conoscenze altamente

    10
       Segnalo soltanto: Gülich e Raible 1977, pp. 21-59; Corti 1980, pp. 53-71, Segre 1985, pp. 8-14; Conte
1988a, pp. 82 s.; Cornea 1993 (nel suo insieme); Mazzoleni 1996, p. 149; e anche il dibattito tra À. B. Csúri, J.-
B. Grize, J. S. Petöfi, V. Raskin, H. Rieser, E. Vasiliu in Problemi semantici 1985.

                                                                                                              13
vero-falsificabili (nella pura definizione scientifica) o norme di comportamento
   inequivocabili (nei testi legislativi e contrattualistici), fino all’intenzione di trattare, in
   termini molto soggettivi e in potenziale dialogo con qualsiasi altro essere umano, temi
   esistenziali (nel testo poetico).

1.2. Sui requisiti di un buon modello
   Lo schema qui delineato sommariamente è nato da rilevamenti empirici, che poi hanno
   portato induttivamente a un’ipotesi teorica, che naturalmente aspira ad avere le richieste
   capacità descrittive, esplicative e predittive di ogni buon modello. Prima di illustrarlo con
   maggior dettaglio, ritengo utile venire a confronto con alcune questioni di carattere
   generale prospettate anche per gli altri modelli.
1.2.1. Va anzitutto ribadita la tesi della “bilateralità” funzionale di qualsiasi testo, tesi
valida anche per i testi più liberamente concepiti dall’emittente, come quelli letterari e altri
ancora (appunti, promemoria personali e simili). È appena il caso di richiamare le conclusioni
a cui è pervenuto il dibattito sulla ineliminabilità di almeno una delle varie figure possibili di
“lettore” di un testo: si tratti pure del “lettore virtuale” o “implicito” o “modello” o addirittura
del “lettore alter ego”, cioè dell’emittente come destinatario di sé stesso11. D’altronde, l’utilità
di una tipologia dei testi sussiste solo se si è interessati ai problemi che pone la loro
interpretazione e dunque se se ne prevede una ricezione.

1.2.2. Altra questione, spesso avanzata, riguarda la pregiudiziale secondo cui non è facile, o
forse è impossibile, trovare testi tipologicamente omogenei: tutti i testi più spesso considerati
sono testi misti. La constatazione è giusta, ma nulla toglie al fatto che si possa e si debba
parlare di tipi di testo riferendoci anche a porzioni di testo, più o meno grandi, fortemente
caratterizzate in un certo senso all’interno di un testo intero fisicamente inteso, che ne
contiene altre di altro tipo, spesso minoritarie o meramente accessorie e satellitari. D’altra
parte, testi come la Costituzione o i Codici, Civile e Penale, o le singole leggi così come
vengono pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale», o anche una raccolta di poesie di uno stesso
autore, in un’edizione anche senza note e senza introduzione del curatore, se si prescinde dai
dati tipografici della pubblicazione, presentano una omogeneità assoluta. In ogni caso, se
l’obiettivo è inquadrare il testo sotto il profilo del come esso vuole “parlare” globalmente al
destinatario, dobbiamo tener conto della somma totale dei tratti e non di eventuali aree di
calcolata difformità.

1.2.3. Un punto importante è anche quello che riguarda le modalità concrete della
comunicazione, cioè il mezzo fisico mediante il quale si realizza il testo (voce diretta in
situazione di faccia a faccia; scrittura; voce altrimenti trasmessa)12 e le connesse condizioni
spaziali e temporali dell’evento comunicativo. A questi fattori attribuisce il massimo potere
classificatorio, da ultimo, Diewald (1991 e 1995), il quale ne deriva una tipologia che mette in
sequenza il «dialogo orale faccia a faccia», il «dialogo telefonico», lo «scambio epistolare», il
«monologo orale» e il «monologo scritto». Questa classificazione ha certo un fondamento e fa
emergere tratti significativi (soprattutto quello della presenza/assenza e diversa frequenza

    11
        Le teorie sul lettore ineliminabile sono efficacemente riassunte e discusse da Cornea 1993, pp. 71-8. Ma si
vedano in proposito anche varie altre parti (specie i capp. 5 e 9-14) della sua opera, molto equilibrata e
chiarificatrice, nonché la bibliografia cit. nella nota 3.
     12
        È diventata ormai ovvia la classificazione dei canali che fa posto anche alle possibilità offerte dai mezzi
che trasmettono a distanza (e/o conservano per altre occorrenze) i messaggi fonici o fonico-visivi: oltre ad alcuni
miei saggi (Sabatini 1982 e 1997c, con relativa bibliografia), si veda quanto ne dice, proprio a proposito dei tipi
di testo, Diewald 1995, pp. 27-32.

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della deissi spaziale e temporale extratestuale e della deissi di prima e seconda persona)13, ma
molto limitati: per passare da quei tipi testuali generalissimi e avvicinarsi ai testi reali, lo
studioso ha dovuto aggiungere fattori «di secondo piano», quali sono quelli sociali, funzionali
e tematici. Il mio tentativo si differenzia da quello di Diewald perché le modalità
comunicative alle quali faccio riferimento sono già caratterizzate da specifiche intenzioni
illocutive, rispondenti ad esigenze proprie della civiltà a cui appartengono gli interlocutori14.
     La distinzione tra parlato e scritto resta comunque un dato di prim’ordine per la
definizione di un modello tipologico: non solo, com’è stato ripetutamente osservato, per i
caratteri globalmente diversi che i due mezzi, nelle rispettive situazioni di impiego,
imprimono a una quantità di messaggi15, ma per un motivo che emerge proprio dai criteri
della tipologia che propongo. Vari tratti che conferiscono “elasticità” a molti testi scritti,
anche concepiti direttamente per la scrittura e talora di notevole formalità16, sono chiaramente
derivati dall’uso parlato della lingua: segnalo subito almeno i tratti della frase segmentata,
delle “congiunzioni testuali”, degli avverbi frasali, delle frasi parentetiche, dei pronomi lui,
lei, loro come soggetti/tema, del soggetto posposto con valore rematico.
     Ritengo, tuttavia, che il tentativo di rifarsi all’intero quadro della etnografia della
comunicazione per abbracciare ogni tipo di messaggio linguistico prodotto dagli esseri umani
finisca per portare fuori strada negli studi di tipologia dei testi. Testi orali, testi scritti e testi
trasmessi sono sì comparabili qua e là tra loro, ma non inquadrabili esattamente negli stessi
schemi: bisogna ammettere che varcare la soglia della redazione scritta vuoi dire entrare in un
sistema ben diverso e preciso di regole comunicative e di rapporti tra le forme compositive17.
Cruciale, sotto questo aspetto, è la questione del taglio degli “enunciati” (v. par. 3.1). Per
questo la mia indagine non mette a confronto classi di testi orali e classi di testi scritti. Il
parlato è tenuto sempre d’occhio, anche per indicare alcuni accostamenti specifici, ma resta a
fare da sfondo, soprattutto quale generatore di particolari meccanismi di elasticizzazione del
discorso accolti selettivamente in alcuni tipi di testi scritti.

1.2.4. Poiché la classificazione dei tipi avviene, nel mio modello, analizzando direttamente la
superficie linguistica dei testi, si potrebbe sostenere che, in fin dei conti, le differenze
tipologiche si risolvono in differenze di stile. Nulla di strano, purché si riconosca che questi
“tratti di stile” non sono pure scelte individuali compiute per quel testo, ma: sono numerosi;
fanno sistema; ricorrono tipicamente in classi di testi che hanno una chiara affinità di funzione
illocutiva. Si tratta di fatti stilistici nel senso già ben illustrato da Sandig 1978 e 1986.

    13
        Il valore distintivo della deissi personale è segnalato anche nei miei primi studi: Sabatini 1990a e 1990b,
ai punti 14 e 17 della «Tabella per l’analisi dei testi» (rispettivamente alle pp. 638 s. e 703-706).
     14
         Diewald tende a stabilire una classificazione «universale» (1995, p. 21), ma anche le modalità
generalissime di comunicazione si presentano diverse (come lo stesso studioso osserva fuggevolmente in una
nota a p. 30) nel panorama mondiale, se non altro in rapporto alla presenza o assenza dell’alfabetizzazione e, ora,
anche della comunicazione linguistica “trasmessa”.
     15
        Mi limito a citare, oltre ai già ricordati lavori di Diewald 1991 e 1995, alcuni studi che hanno più diretta
attinenza col tema particolare: Sandig 1972; Halliday 1992.
     16
         Mi riferisco alla saggistica e manualistica. Avverto che il carattere della formalità, certamente
determinabile in un testo (è di solito formale un saggio critico pubblicato in una rivista scientifica, il testo scritto
di una conferenza tenuta in un alto consesso accademico, e così via), non è però pertinente nella mia definizione
dei tipi di testo.
     17
        Di ciò non ha tenuto conto, tra gli altri, Sandig 1972 nel fornire una prima suggestiva matrice che
incrociava diciotto tipi testuali (dall’intervista alla lettera alla telefonata al testo legislativo ecc., fino alla
conversazione familiare) con venti caratteristiche che sono di natura molto diversa (esterne e interne al testo). Si
veda l’esame che ne fa Berruto 1981. Sulla scia della Sandig è anche Heusinger 1995, che però si pone più
specificamente il tema della “interculturalità” di una tipologia dei testi.

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