Spettatore cinematografico - Smart Marketing
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Addio a Franco Zeffirelli, un regista che ha segnato la mia infanzia di giovane spettatore cinematografico Ho un ricordo della mia infanzia molto forte legato ad un film di Franco Zeffirelli, era verso la fine degli anni ’70, ero molto piccolo, forse 3, 4 anni e come spesso accade i ricordi legati all’infanzia sono quelli che, non solo definiscono chi siamo diventati, ma sono la parte più indelebile della nostra memoria. Il film era Romeo e Giulietta del 1968, che ho visto in televisione con i miei genitori un po’ di anni dopo l’uscita in sala. Ovviamente ero troppo piccolo per capire l’intreccio della storia d’amore per eccellenza, troppo piccolo per comprendere elementi come la regia, il montaggio, etc., ma ero abbastanza grande e curioso da porre domande e da ricordare alcuni elementi del film, primo fra tutti la bellezza degli interni in cui era ambientata la pellicola, non sapevo si chiamasse scenografia, poi i costumi buffi e colorati e soprattutto la musica che accompagnava lo scorrere delle immagini. Era tutto bello, meraviglioso ed esagerato, oggi per dirlo userei termini come: ricercato, abbagliante e sontuoso. Più di tutto mi sono rimasti nella memoria le immagini degli interni accompagnate dalla struggente musica, una musica che, quando la risento oggi, ancora riesce a suscitare in me sentimenti di nostalgia e malinconia. La colonna sonora del film, come scoprì solo da adulto, era stata scritta e diretta dal famoso compositore Nino Rota. Ma era il tema del film, la famosa “What Is a Youth”, con testo di Eugene Walter, interpretata da Glen Weston, ad aver segnato profondamente il mio immaginario. Il brano nella versione italiana del film si intitolava “Ai giochi addio”, con il testo di Elsa Morante (scrittrice Premio Strega), che venne affidato al cantante Bruno Filippini, che nel film interpreta il menestrello (e che aveva vinto il Festival di Castrocaro insieme a Gigliola Cinquetti).
I d u e p r o t a g o n i s t i d e l film Romeo e Giulietta erano molto vicini all’età dei personaggi originali; infatti, durante le riprese Leonard Whiting (Romeo) aveva diciassette anni, Olivia Hussey (Giulietta) sedici. Va da sé che a 4 anni, non capii niente della trama, della storia, delle vite tragiche di Romeo e Giulietta, ma quando lo rividi da ragazzo 6, 7 anni dopo, con una consapevolezza e maturità diverse, il film mi impressionò e commosse oltre ogni dire e così è stato negli anni successivi, in cui l’ho rivisto, sempre con emozione e trasporto. Sicuramente il film di Zeffirelli è fra quelli che ho visto più spesso, almeno una quindicina di volte. Mi è tornato in mente questo ricordo proprio sabato scorso (15 giugno ’19) quando, davanti alla TV guardando l’edizione principale del TG1, ho appreso della morte del grande regista, scenografo e sceneggiatore italiano.
Mi sono tornati in mente altri suoi film che hanno segnato la mia giovinezza di appassionato di cinema e la mia vita adulta di cinefilo incallito: Gesù di Nazareth (1976), forse la trasposizione cinematografica più riuscita della vita di Gesù; Amleto (1990), con uno straordinario Mel Gibson nei panni del principe danese e con un cast stellare, tra cui spiccavano Glenn Close, Alan Bates e Helena Bonham Carter, un film incredibile per le scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per le musiche di Ennio Morricone e per i ricercati (e storicamente attendibili) set allestiti fra la Scozia, l’Inghilterra e la Francia. Franco Zeffirelli se n’è andato, nella sua casa di Roma, all’età di 96 anni, dopo una lunga malattia, lasciando un vuoto immenso nel mondo del cinema. Un regista amatissimo in Italia, ed ancora di più all’estero, che aveva cominciato la sua carriera come aiuto regista di Luchino Visconti per film come La terra trema e Senso, dopo aver frequentato prima il collegio del Convento di San Marco a Firenze, dove ebbe come istitutore Giorgio La Pira, e poi l’Accademia di Belle Arti della stessa città, dove aveva conseguito una laurea in scenografia. Si divise sempre fra cinema e teatro, ci lascia tanti capolavori cinematografici e un numero incredibile di regie di opere teatrali e liriche, che sono sempre state accompagnate da un grandissimo successo di critica e pubblico. Curò la regia di importanti eventi televisivi come l’apertura dell’Anno Santo nel 1974 e nel 1999 e collaborò con i più importanti teatri dell’opera del mondo fra cui La Scala di Milano, il Metropolitan Opera House e l’Opéra National de Paris. È stato un vero ambasciatore della cultura italiana nel mondo e per questo fu insignito di diverse onorificenze fra le quali: Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1977, Medaglia ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2003 e addirittura nel 2004 la Regina Elisabetta lo nominò Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Fu un grande regista, un vero Maestro, come si è detto, non solo italiano ma mondiale, fin dalle sue prime regie lavora con grandi produzioni internazionali. Cominciò giovanissimo nel dopoguerra prima al teatro e poi al cinema ed ha avuto una carriera lunga oltre 70 anni. Il lavoro di Franco Zeffirelli come regista cinematografico è stato sempre caratterizzato dall’estrema eleganza formale e la predilezione per il melodramma e le storie d’amore, messe in scena con senso dello spettacolo e gusto figurativo ricercato e prezioso. Furono senza dubbio i suoi studi all’Accademia ed i primi anni di apprendistato, svolti sotto l’ala protettiva di Luchino Visconti (con il quale ebbe anche un lungo e travagliato rapporto, molto chiacchierato dalla stampa, a metà degli anni ’50), ad influenzare il suo stile registico. Fu dichiaratamente omosessuale e cattolico, oltre che politicamente anticomunista, vicino al centro- destra, per il quale fu senatore nelle file di Forza Italia dal 1994 al 2001. Non vinse mai un Oscar, per il quale ricevette solo due nomination, una nel 1969 come Miglior Regista per Romeo e Giulietta, l’altra nel 1983 per la Miglior Scenografia per La Traviata. Vinse 5 David di Donatello e solo un Nastro d’Argento nel 1969 come Regista del Miglior Film per Romeo e
Giulietta (tra l’altro il suo film più premiato). Sicuramente avrebbe meritato qualche riconoscimento in più sia all’estero che in patria, ma il pubblico non gli fece mancare mai il suo affetto e le attestazioni di stima; un pubblico che ha affollato in migliaia la camera ardente allestita a Palazzo Vecchio nella sua amata Firenze, nei due giorni successivi alla morte. Ci lascia oltre ai film e alle opere teatrali e liriche, uno sterminato patrimonio composto da disegni, bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, fotografie, filmati e una biblioteca di oltre 10mila volumi, raccolti nei settant’anni di carriera del maestro, che verranno custoditi in un apposito museo nella Fondazione Franco Zeffirelli, a due passi da Piazza della Signoria, sempre a Firenze. Un patrimonio immenso, stimabile in 180 milioni di euro. Insomma un vero e proprio gigante non solo del cinema ma della cultura, uno che un tempo si sarebbe chiamato intellettuale e/o Maestro, ma che oggi, sommersi come siamo dalla società liquida, sbrigativamente ci limitiamo a definire “solo” regista. A me mancherà tantissimo l’eleganza formale delle sue inquadrature, la bellezza delle sue scenografie e, soprattutto, il suo sguardo sul mondo; fortuna che ci rimarranno sempre le sue opere che potremo rivedere ancora ed ancora. Addio Maestro.
La Copertina d’Artista – Eco-Sistema Una grande palla di materiale composito galleggia in un mare plumbeo. A guardarlo sembra un pianeta perso in uno spazio siderale. Ma non c’è niente di stellare o alieno in questo agglomerato, il materiale che lo compone sono rifiuti di varia natura, qui e là riconosciamo i segni del consumismo e le icone del capitalismo: il logo di McDonald, un fusto con il simbolo radioattivo, un pacchetto di
sigarette, etc. Insomma questa palla di rifiuti che galleggia nel mare è lo scarto ultimo del progresso umano, è un monumento al consumismo, un vero e proprio simulacro innalzato al principale e più diffuso prodotto della modernità: il rifiuto.
A nulla serve la cornice fumettistica in cui l’artista l’ha inserita, inutili risultano i colori brillanti, superflua l’atmosfera pop che l’opera ci restituisce; nonostante gli sforzi per renderci più digeribile l’immagine, quello che davvero ci colpisce e atterrisce è il soggetto che l’artista, al secolo Comaviba, ha scelto di rappresentare. L ’ a r t i s t a C o m a v i b a a l l a v o r o n e l suo atelier. Anzi gli sforzi fatti per ammorbidirci la rappresentazione hanno l’effetto contrario, lo stile fumettistico e scintillante, alla Moebius, dona al soggetto sostanza, profondità e pregnanza; benché l’opera ci attragga e seduca con la sua bellezza, quando capiamo di cosa è fatta indietreggiamo inorriditi e quasi ci vergogniamo della nostra iniziale impressione. Per approfondire ■ Leggi il numero dedicato all’ambiente e allo sviluppo sostenibile: “Eco-Sistema”
Ha per titolo “Palla di immanenza” l’opera di Comaviba, che gioca anche con l’etimologia della parola per sottolineare ancora di più la “consistenza” della verità rappresentata. Già, perché questa gigantesca isola di rifiuti alla deriva nel mare esiste veramente, anzi ne esistono due: una, la più grande, il Pacific Trash Vortex, nell’Oceano Pacifico, l’altra, il North Atlantic Garbage Patch, nell’Atlantico. T o w e r Comaviba ci ricorda che il nostro stile di vita produce più di ogni altra cosa scarti, rifiuti, immondizia, ogni nostro gesto aumenta l’impatto sull’ecosistema, ogni nostra decisione, se presa alla leggera, ha ripercussioni importanti sul clima e l’ambiente. Insomma, come spettatori, davanti
all’opera di Comaviba, dobbiamo dare ragione alla dichiarazione di Leo Loganesi quando disse: “L’arte è un incidente dal quale non si esce mai illesi”. L’opera di Comaviba ci ghermisce, ci percuote e ci schiaffeggia e la cosa peggiore è che lo fa ammantata in una bellezza splendente. Usciamo dall’incontro con l’artista di questo numero ancora ammaccati e lividi, ma noi sappiamo che ce lo siamo meritati, noi sappiamo che siamo responsabili, noi sappiamo di essere colpevoli.
O n f i r e Comaviba nasce a Taranto nel 1982; sin da bambina sviluppa una spiccata sensibilità per l’arte e il disegno, cominciando in tenera età a disegnare su tutte le superfici a portata di sguardo, compresi muri di casa, porte e sotto i tavoli. Si laurea in scenografia all’Accademia di Belle Arti e consegue anche un master in Graphic & Visual Design. Appassionata lettrice di fumetti e racconti di
fantascienza, è insegnante di grafica nelle scuole superiori oltre che fra le principali animatrici e grafiche della serigrafia “Ammostro”. Adora dilettarsi con illustrazioni oniriche e sfregi artistici sui manifesti elettorali. Per informazioni e per contattare l’artista Comaviba: silviacomaviba@gmail.com Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi alla selezione della quinta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed inviando un portfolio alla nostra redazione: redazione@smarknews.it Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Eco-Sistema – L’Editoriale di Raffaello Castellano
La bella stagione quest’anno stenta a partire, complice un clima imprevedibile e birichino. Questo del 2019, almeno in Europa, è il maggio più freddo e piovoso degli ultimi 30 anni. Ma prima di addentrarci nei motivi che hanno portato ad un clima impazzito, noi di Smart Marketing vogliamo portarci avanti con il lavoro e proporvi una meta, poco conosciuta, per l’estate che prima o poi comunque arriverà. A largo fra la costa americana e quella asiatica, in pieno Oceano Pacifico, fra i 135° e il 155° meridiano Ovest e il 35° e il 42° parallelo Nord, si trova un’isola di recente formazione, ma non si tratta di un’isola vulcanica o di origine calcarea, ma di un’isola formata da un’enorme chiazza galleggiante di spazzatura, prevalentemente plastica, che a causa di favorevoli correnti marine si è cominciata a formare dagli anni ’80 del secolo scorso. Il Pacific Trash Vortex, questo è il suo nome ufficiale, si stima abbia un’estensione che va da un minimo di 700.000 km2 (grande quanto la Spagna) a oltre 10 milioni di km2 (più grande degli Stati Uniti) e che sia composto da un minimo di 3 milioni di tonnellate di plastica ad un massimo di 100 milioni di tonnellate di detriti. Questo monumento alla pazzia e noncuranza umana ha effetti profondi sull’ecosistema più esteso che si trovi sulla Terra, l’oceano Pacifico, e di conseguenza su tutti gli anelli della catena alimentare che dal plancton portano, su, su, fino all’uomo, effetti che ancora non sono stati studiati con la dovuta attenzione. Quest’isola di rifiuti e la sua gemella dell’Atlantico, la North Atlantic garbage patch, sono anche il soggetto della Copertina d’Artista di questo numero affidata all’estro ed alla sensibilità di
Comaviba, un’artista e graphic & visual designer tarantina che, con la sua “Palla di Immanenza”, ci regala un’immagine potente ed allarmante. L a C o p e r t i n a d ’ A r t i s t a d i q u e s t o n u m e r o d e l l ’ a rtista Comaviba.
Insomma, basterebbero questi due esempi, quello del maggio più piovoso e freddo degli ultimi 30 anni e quello della grande isola di plastica, per spingerci a modificare profondamente il nostro modo di rapportarci al nostro pianeta. Ma se non dovesse bastare, ci viene in aiuto una sedicenne svedese che, dall’agosto del 2018, sta sensibilizzando il Mondo intero sulle tematiche ambientali e climatiche attraverso i suoi scioperi scolastici denominati FridaysForFuture (Venerdì per il futuro): sto parlando di Greta Thunberg. Recentemente questa giovane attivista ha dato alle stampe un libro che raccoglie il suo pensiero, dal titolo emblematico: La nostra casa è in fiamme – La nostra battaglia contro il cambiamento climatico. Ma di cosa altro abbiamo bisogno per sapere che la situazione ambientale e climatica è drammatica? Quanti altri disastri ambientali dobbiamo vedere? Quanti uomini e donne devono morire? Quanti raccolti devono andare perduti? Quanti nuovi migranti climatici devono partire dalle loro nazioni devastate, quanti di questi devono morire lungo il tragitto? Quanti ghiacciai devono sciogliersi, quante terre diventare deserti? Quante isole vere devono scomparire sotto il livello del mare e quante isole di plastica devono sorgere in giro per il Mondo? E quando anche la realtà delle risposte a queste domande sarà dura ed acuminata come un coltello, noi saremo soddisfatti? O piuttosto ci comporteremo come quel Presidente americano che, lo scorso 21 novembre, sorpreso da un inverno particolarmente freddo, ha ironizzato sui social con la battuta: “Folata di aria fredda brutale ed estesa che potrebbe battere tutti i record. Cosa è successo
al riscaldamento globale?” Insomma, il problema vero è: siamo pronti ad accettare la verità nuda e cruda? O piuttosto, come gli struzzi, preferiamo mettere la testa sotto la sabbia mentre un branco di leoni ci sta sbranando? Inutile dire quale sia l’atteggiamento più saggio e razionale, ma qualora doveste avere qualche dubbio leggete questo numero di Smart Marketing, dedicato alla marea green ed ambientalista che sta coinvolgendo anche imprese e social, dal titolo “Eco-Sistema”; come al solito troverete gli originali contributi dei nostri autori. Voglio lasciarvi, come d’abitudine, con una massima, e questa volta prenderò in prestito un passaggio tratto proprio dal libro di Greta Thunberg: “Ci troviamo di fronte a una catastrofe. Voglio che proviate la paura che provo io ogni giorno. Voglio che agiate come fareste in una situazione di crisi. Come se la vostra casa fosse in fiamme. Perché è quello che sta succedendo.” Il grande spirito - Il film Quello appena uscito nelle sale, ovvero Il grande spirito, è un film complesso, poeticamente stralunato e avvolto da un realismo magico, cifre distintive del cinema di Sergio Rubini e di Rocco Papaleo, attore comico “lunare”, un po’ alla Macario. Sempre in bilico fra materia e spirito, fra concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile, Il grande spirito è una storia di miseria e
nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano nervosa. Il grande spirito è dunque un piccolo gioiello, partito quasi nell’ombra, ma che ben presto ha assorbito ammiratori come una spugna assorbe l’acqua. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche profondamente calato nella realtà locale: il film è girato a Taranto, ma nella parte industriale, quella avvelenata dai veleni dell’industria siderurgica, la quale però, saggiamente, rimane sempre sullo
sfondo. I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in
basso nel sentimentalismo o nella banalità. E’ la storia di Tonino (Sergio Rubini), un ladruncolo sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno strano personaggio: Renato (Rocco Papaleo), che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo, che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà un’intesa frutto non solo dell’emarginazione, ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute. Rubini, alla sua 14esima regia, sforna un film, che sembra rifarsi allo stralunato gioiello della commedia all’italiana Non toccare la donna bianca, in cui la guerra di secessione americana, era ambientata in una cava nel centro di Parigi e le avventure dei protagonisti (Mastroianni, Tognazzi, Noiret, Piccoli), si svolgevano con i grattacieli di Parigi sullo sfondo. Allo stesso modo la storia attuale si svolge sui tetti, anziché in una cava, e sullo sfondo al posto dei grattacieli ci sono le famose ciminiere di Taranto. Le immagini della fabbrica, con le sue fornaci e i suoi tossici fumi, si mescolano alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e devozione, peccato e redenzione. Altra scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e rovinosi schianti a terra – quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare tarantino. La questione dell’Ilva insomma, pur senza invadere il campo della vicenda, permea – come un veleno silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia (mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato. Tonino e Renato sono quindi, l’uno l'”uomo del
destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce che lotta contro il buio circostante. Ma i due personaggi sono soprattutto lo specchio del talento dei due protagonisti, autori-attori di straordinario talento, poliedrici e capaci di acchiappare il pubblico di tutte le età, con un viscerale amore per il cinema, che permea dal primo all’ultimo minuto di film. Una pellicola da ricordare e…da vedere: amara e figlia dei tempi attuali. Isola di fuoco: Il concerto per visioni di Colapesce Certe emozioni non si possono raccontare con l’immediatezza dettata dai tempi giornalistici, per comprendere ed assaporarle, è necessario lasciarle sedimentare negli strati più profondi della coscienza per ristabilire un collegamento con quanto più di ancestrale ci appartiene. È il caso di “Isola di fuoco”, progetto ideato dal cantautore Colapesce che prende vita dall’omonimo documentario, girato in Sicilia alla metà degli anni ’50, dal maestro Vittorio De Seta. De Seta, uno dei più grandi documentaristi che l’Italia abbia mai conosciuto, nel 1954 gira sull’isola di Stromboli, il suo capolavoro, premiato l’anno successivo al Festival del Cinema di Cannes, raccontando un mondo prevalentemente rurale, in cui sudore, fatica, fame e sacrifici, sono spezzati da momenti conviviali e feste tradizionali religiose. Uomini e donne, con i volti segnati dal rovente sole siciliano, vivono in un costante rapporto simbiotico con il mare, la terra ed il vulcano, dove sussistenza ed opulenza si mischiano e fervore religioso e credenze popolari si confondono.
C o l a p e s c e e M a r i o C o n t e Immagini semplici, che riprendono una quotidianità aspra e che forse non siamo abituati ad immaginare, ma che fissano un’istantanea precisa e fedele di un tempo non troppo lontano dal nostro, poco più di sessant’anni, eppure concettualmente alieno rispetto alla società in cui ci siamo assuefatti a vivere. Immagini, alcune volte cruente e crudeli, altre volte dense di poesia, ma sempre pregne di una grande potenza evocativa e che lasciano ad intendere nostalgia per una maniera di vivere ormai scomparsa ma, soprattutto, in cui traspare un grande amore per la propria terra e le proprie tradizioni. Un amore smisurato che De Seta non ha mai celato e che Colapesce, al secolo Lorenzo Urciullo, anch’egli siciliano, continua a dichiarare apertamente, regalandoci performance dedicate al paese natio, come “Isola di fuoco”, che difficilmente è possibile dimenticare. Concerto per visioni, così definisce il suo progetto Colapesce, che anche lo scorso 15 marzo, ha emozionato il pubblico del Teatro Rossini di Gioia del Colle (BA), accompagnato dal musicista Mario Conte. Inesplicabile lo spettro delle sensazioni che colpiscono l’anima del variegato uditorio presente nel caratteristico Teatro Rossini; certo è che il complesso di suoni, rumori, musica e canzoni, nel senso
più ampio del termine, non lascia indifferente nessuno ed al tempo stesso lascia senza parole. La meraviglia, lo stupore, l’incredulità diventa ancora più palpabile quando la magistrale fotografia, colpisce l’attenzione degli spettatori e la musica si fonde con le immagini, alcune volte feroci e spietate, come nel caso della cattura del pesce spada, altre volte trasognate, e incantate, come durante una tranquilla notte di pesca avvolti dalla nebbia. Urciullo e Conte, combinano suoni, li fondono alla visione, in un unicum rigorosamente improvvisato, si lasciano guidare e guidano lo spettatore nel percorso visivo, immergendo e lasciandosi immergere in un’atmosfera onirica e surreale, che diventa poetica quando Colapesce presta la sua voce al filmato, così “Pantalica”, materializza e rende concreto il paesaggio e le sue pietre “fra il fico d’india e le stelle”. Le immagini poi, cedono il posto ad alcuni brani cantati, lasciando un ulteriore spazio alla riflessione ed all’emozione, per poi concludersi con un piccolo, ma sentito omaggio a Fabrizio De Andrè ed alla sua “Canzone dell’amore perduto”. Un amore forse più simbolico e metafisico rispetto a quello cantato da De Andrè, che invece di perdere la donna amata, si rifiuta di smarrire le proprie origini e la propria storia millenaria, a favore del mondo globalizzato. Sorge spontanea, infatti, un’ulteriore riflessione più profonda, che vede contrapposto l’antico mondo, isolano e rurale, in cui tutti vivono in simbiosi e rispetto nei confronti della natura, madre solitamente benevola, ma che talune volte, si trasforma in maligna e portatrice di calamità, nondimeno sempre bisognosa di cure, sudore e uomini, donne e bambini da sacrificare al duro
lavoro, al moderno mondo globalizzato, dove quel che conta, non è il boccone per sfamarsi, ma il profitto. Profitto inseguito ad ogni prezzo, dove l’importante è produrre senza curarsi del depauperamento delle risorse, sfruttando e distruggendo, dove le macchine si sono sostituite alla fatica delle braccia, dove non esiste rispetto per l’habitat naturale, ormai assoggettato al volere umano e slegato dalla normale ciclicità delle stagioni. I l c a n t a u t o r e C o l a p e s c e Una natura di cui non ci curiamo più e che magari, preferiamo solo ammirare attraverso lo schermo di uno smartphone. Il cantautore siciliano, invece, attraverso una dimensione quasi onirica ci spinge a riflettere, ci riporta indietro alle origini di quel mondo ormai perso, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare, cercando di ristabilire il contatto con la madre terra. L’immersione in questo mondo antico, non sarebbe stata possibile senza i sacrifici dell’Associazione “Ombre”, che si è sforzata di selezionare per il pubblico del Festival INDIEsposizioni, un cartellone così variegato e ricercato, tale da sdoganare il complesso mondo dell’Indie e le sue molteplici sfaccettature, anche a spettatori diversi, per età ed estrazione sociale.
La Copertina d’Artista – Italian Design Un volto conturbante ci osserva dalla copertina del numero di marzo, la sua faccia è divisa in due simmetriche metà, una colorata, variopinta, iridescente, vivida espressione della migliore tradizione Pop, l’altra piatta, monocromatica, geometrica, che sembra a tutti gli effetti il bozzetto di un disegno
industriale, di design appunto. Ma, benché le due metà siano così difformi, si armonizzano in un viso contraddistinto da una forte
personalità; tuttavia non è questa caratteristica ad incuriosirci, non è questo che riesce a catturare e trattenere il nostro sguardo. Allora che cosa è? Cosa ha questo volto che allo stesso tempo ci attrae così irresistibilmente e ci trasmette un certo senso di inquietudine? Il titolo scelto dall’artista, al secolo Laura Calafiore, “Addaura”, non ci aiuta molto: i più attenti e curiosi fra i nostri lettori forse ricorderanno che si tratta di un borgo marinaro di Palermo, salito alle cronache il 21 giugno 1989 per uno sventato attentato al giudice Giovanni Falcone ordito da Cosa Nostra, ed il cui toponimo deriverebbe dalla parola siciliana “addàuru”, cioè “alloro”. U n a p e r f o r m a n c e d e l l ’ artista Laura Calafiore. L’ambientazione “siciliana”, però, non sembra casuale, qualcosa in quest’opera ci ricorda questa meravigliosa isola che vide il confluire, lo scontrarsi e il confondersi di diverse culture, greca, romana, araba, normanna; sì, decisamente più guardiamo questa figura più ci convinciamo che la Sicilia c’entri qualcosa. Alla fine un’intuizione illumina i nostri pensieri, forse quest’opera rappresenta il famoso “Testa di Moro”, un oggetto iconico della tradizione siciliana, una sorta di coloratissimo vaso a forma di testa di Moro, appunto, o di una giovane donna bellissima, entrambe adornate da una splendida corona, che arricchiscono e decorano i balconi di questa splendida terra. Detti anche “graste”, questi oggetti del design siciliano hanno una storia antichissima che narra di gesta d’amore, di gelosia e vendetta che lasciamo scoprire ai nostri lettori.
M a t a H a r i Quindi nell’opera della Calafiore non solo confluiscono le tradizioni e le suggestioni di una cultura millenaria che ancora ci affascina ed avvince, ma la natura multiforme dell’opera, quel suo essere pittura, disegno e progetto insieme sono forse l’inno più puro ed autentico all’argomento mensile del nostro magazine. Sì, Laura Calafiore ci spiega, con un’opera arguta e tradizionale, che il vero segreto del successo del design italiano sta nel suo reinterpretare e riscrivere in maniere sempre nuove, diverse e creative la storia millenaria in cui il nostro Paese è immerso. Perché se non sappiamo da dove veniamo, quali sono le nostre radici, sembra dirci l’artista, è impossibile che le nostre azioni, i nostri progetti, le nostre opere possano disegnare e delineare un qualche tipo di futuro. L’opera “Addaura” che l’artista ha realizzato per la nostra copertina di marzo è anche un vero e proprio oggetto di design, un tagliere, creato e realizzato da Gabriele D’Angelo del brand Trame Siciliane.
M a d r e T e r e s a Classe 1981, nata a Roma ma di origini siciliane, Laura Calafiore è la prima donna fast-painter in Italia. Il suo spettacolo porta in scena la pittura Pop Art a ritmo di musica, un intrattenimento pittorico-musicale unico nel suo genere. Nel 1999 entra a far parte della rinomata Accademia Nazionale Francese di Arte, l’E.n.s.a.d. (Ecole Nationale Superieure des Art Decoratifs) e successivamente si laurea allo IED con il massimo dei voti in illustrazione fotografica, prendendo poi la strada della pittura a 360 gradi ed ideando il suo spettacolo che le fa girare tutta l’Italia e non solo. Fast-painter per eventi ed aziende, si è esibita in importanti trasmissioni nazionali: ■ Partecipazione come coach alla trasmissione: Si può fare, RAI 1 (anno 2014); ■ Partecipazione a Tu si Que Vales, Canale 5 in semifinale (Anno 2014); ■ Partecipazione a Domenica In (Anno 2015); ■ Partecipazione alla trasmissione Senza parole, Rai 1 (Anno 2015); ■ Partecipazione alla trasmissione Ah Ah Car, Rai 4 (Anno 2017); ■ Partecipazione a Tv 2000 (Anno 2017); ■ Partecipazione ai Soliti Ignoti, Rai 1 (Anno 2018); ■ Interport art artist presso Costa Crociere; ■ Personale Donne nel Mondo presso galleria Mondrian Suite Roma. (Marzo 2017). Per informazioni e per contattare l’artista Laura Calafiore: www.lauracalafiore.it info@lauracalafiore.it
Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi alla selezione della quinta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed inviando un portfolio alla nostra redazione: redazione@smarknews.it David di Donatello 2019: i verdetti Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti. Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel, montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale, continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più
grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.» Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations, conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano Cucchi: Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens. Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi. L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata. Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie davvero, non me lo aspettavo.» Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio «alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di Gabriele Muccino.
D e b a c l e t o t a l e p e r L a z zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino che, a fronte rispettivamente di 9 e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio. Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo, accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation
meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar. Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David, dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica: «Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì, ma troppo tardi». Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film, Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema.
David di Donatello 2019: le candidature La 64esima edizione dei cosiddetti “Oscar italiani”, ovvero quella dei David di Donatello, è ormai imminente: si terrà infatti mercoledì 27 marzo in diretta su Rai Uno, dove la cerimonia torna, dopo le parentesi mediocri su Sky. La conduzione della serata di gala sarà affidata all’esperto Carlo Conti: una sicurezza, nonché un marchio di fabbrica di mamma Rai. L’edizione di quest’anno ha visto l’introduzione di una serie di cambiamenti, tra cui la nomina di una nuova giuria, nuove regole di ammissione dei film e la nascita del David di Donatello dello Spettatore. Il premio sarà assegnato al film uscito entro il 31 dicembre 2018 che avrà ottenuto il maggior numero di spettatori. Il direttore artistico Piera Detassis, al momento dell’annuncio alla stampa delle nominations, ha enunciato tutte le novità di un’edizione che si preannuncia innovativa, progressista, anche più internazionale se possibile. I gloriosi David alla Carriera, quelli più prestigiosi e importanti saranno assegnati al visionario e sognatore regista americano Tim Burton e al nostro Dario Argento, maestro mondiale dell’horror movie. Come per i David speciali alla carriera, anche altri premi sono stati già svelati: il David dello spettatore, assegnato al film che ha registrato più incassi al botteghino, è andato al film A casa tutti bene, opera corale di Gabriele Muccino, già vincitore del Nastro d’argento speciale a tutto il cast; il David al miglior film straniero, va a Roma di Alfonso Cuaròn, già vincitore degli Oscar come miglior film e migliore regia; il David al miglior cortometraggio, infine, è stato assegnato a Frontiera di Alessandro Di Gregorio. Tutti gli altri numerosi premi, verranno svelati la sera del 27 marzo, a fronte di una giuria numerosa che si è già pronunciata in merito. Ovviamente l’attenzione è quasi tutta concentrata sui premi principali, ovvero quelli al miglior film e alla migliore regia e ai quattro dedicati agli attori (miglior attore e miglior attrice, categorie protagonista e non protagonista). Quattro film sono presenti sia nella categoria “miglior film” che in quella dedicata alla “miglior regia”: Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino; Dogman, di Matteo Garrone; Euforia, di Valeria Golino; Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è invece presente soltanto nella
categoria “miglior film”, così come Capri-revolution, di Mario Martone è presente soltanto in quella alla “miglior regia”. L’impressione, come spesso accade, è che il premio al miglior film e alla miglior regia, andranno a combaciare nel giudizio insindacabile della giuria. Per la categoria “miglior attrice protagonista”, favoritissima la splendida Elena Sofia Ricci, per la superba interpretazione di Veronica Lario nel film Loro, di Paolo Sorrentino, già vincitrice del Nastro d’argento nella medesima categoria. Sue rivali Marianna Fontana per Capri-Revolution, Pina Turco per Il vizio della speranza, Alba Rohrwacher per Troppa grazia, Anna Foglietta per Un giorno all’improvviso. Cinquina fenomenale ed incerta anche quella al “miglior attore
protagonista”: Marcello Fonte – Dogman, Riccardo Scamarcio – Euforia, Luca Marinelli – Fabrizio De André: Principe libero, Toni Servillo – Loro, Alessandro Borghi - (quest’ultimo favoritissimo). Particolare la cinquina della categoria al “miglior attore non protagonista”: dal favorito Massimo Ghini per A casa tutti bene, ad Edoardo Pesce per Dogman, passando per l’onnipresente Valerio Mastandrea (Euforia), collezionista di premi e nominations ai David, fino al compianto Ennio Fantastichini per Fabrizio De André: Principe libero, e Fabrizio Bentivoglio per Loro. Nella stessa categoria al femminile troviamo le seguenti candidature: Donatella Finocchiaro – Capri-Revolution, Marina Confalone – Il vizio della speranza, Nicoletta Braschi – Lazzaro felice, Kasia Smutniak – Loro, Jasmine Trinca – Sulla mia pelle. Considerato anche i numerosi premi minori, precisando quel termine “minori”, come impatto mediatico e non certo per l’impegno o per le professionalità delle competenze messe in atto, a fare la parte del leone è Dogman con 15 nomination, seguito da Capri-Revolution con 13 e Chiamami col tuo nome e Loro con 12 nomination ciascuno. Tutto è pronto dunque per quella che ogni anno, tra critiche e polemiche di ogni tipo, è la serata di gala del cinema italiano, checché se ne dica, sempre vivo e pieno di fresche novità. 20 anni senza Stanley Kubrick Il 7 marzo del 1999, a pochi giorni dalla conclusione del montaggio del suo ultimo film Eyes Wide Shut, moriva stroncato da un infarto, a 77 anni, il grande cineasta Stanley Kubrick. Un regista, geniale, irriverente e visionario, leggendario per almeno 3 generazioni (fra cui la mia), che per molti, moltissimi appassionati rappresenta l’essenza stessa della regia; il suo nome è, addirittura, diventato “sinonimo” delle parole regista e cinema.
U n a c a r r i e r a l u n g a 5 0 anni, che ci consegna solo 13 film, ma che sono altrettanti pietre miliari del cinema mondiale. Basta scorrere l’elenco per rendersene conto: “Lolita”, “Il dottor Stranamore”, “2001 Odissea nello spazio”, “Arancia meccanica”, “Shining”, “Eyes Wide Shut”, giusto per citare i più celebri. Il suo talento visionario, la cura maniacale per i particolari, il carattere riservato, il suo famigerato controllo assoluto su tutti gli aspetti del film, sono solo alcune delle caratteristiche che ne hanno aumentato la leggenda ed il mito. Stanley Kubrick resta indissolubilmente legato all’arte del cinema e rappresenta, cosa rara, uno dei pochi registi apprezzato da pubblico e critica. I suoi complessi e stratificati film, le sue smaglianti immagini, i suoi spunti narrativi ancora permeano ed influenzano profondamente, non solo la cultura alta e quella pop, ma il nostro stesso immaginario collettivo.
Sareb bero tantis sime le cose da dire su quest o strao rdina rio regist a ed i suoi film (e franc amen te sono un po’ in imbarazzo a scrivere di questo cineasta), ma vi propongo, tredici aneddoti, tanti quanti i suoi film, tredici curiosità, tredici meta-informazioni cinematografiche per farvi conoscere, approfondire, innamorare o ri-innamorare di questo regista. 1. Il primo film fu il cortometraggio/documentario Day of the Fight, è del 1951, ed è basato sul reportage fotografico che lo stesso Kubrick realizzo per la rivista Look con la quale lavorava. Il film segue per un giorno intero la preparazione del pugile Walter Cartier per un combattimento. Fu autoprodotto con un investimento di 3900 dollari e Kubrick stesso si occupò di gran parte delle mansioni della troupe, oltre a quella di regista, infatti, svolse quelle di sceneggiatore, operatore della macchina da presa, direttore della fotografia, montatore e scenografo; 2. Il primo lungometraggio è del 1953, Fear and Desire (Paura e desiderio), dove il regista con una piccola troupe filma le vicende di un plotone disperso dietro le linee nemiche. Il film rappresenta il primo approccio del regista al genere bellico e la prima disamina sull’inutilità e la violenza della guerra, argomenti sui quali tornerà con “Orizzonti di gloria” del 1957, “Full Metal Jacket” del 1987 ed, in parte, con “Barry Lyndon” del 1975. Per girare il film, gli amici del regista raccolsero 1000 dollari con una colletta fra conoscenti e parenti e, lo stesso Kubrick, coinvolse nel progetto suo zio Martin Perveler, agiato proprietario di una catena di farmacie a Los Angeles, che divenne produttore associato e fornì altri 9000 dollari. Il film fu presto ripudiato dal regista, che lo considerava un errore giovanile e che si premurò di limitarne al massimo la diffusione, acquistando e facendo “sparire” gran parte delle copie presenti negli archivi;
3. Il terzo lungometraggio The Killing (Rapina a mano armata) del 1956, viene girato dal regista appena ventottenne con un budget di 330.000 dollari e con una piccola casa di produzione fondata insieme al regista, sceneggiatore e produttore James B. Harris, che produrrà anche “Orizzonti di gloria” e “Lolita”. Il film è un flop al botteghino dove incassa solo 30.000 dollari, ma un successo di critica, alcuni commentatori parlano di Kubrick come il nuovo Orson Welles, inoltre, la pellicola, diventa un vero paradigma del genere noir. Il regista, infatti, decide di adottare uno stile di racconto non consequenziale, ma con struttura diegetica non lineare, con diversi e continui salti indietro e in avanti nel tempo, che rendono lo svolgersi del film complesso ed originalissimo. Questa struttura del racconto sarà ripresa, omaggiata e “saccheggiata” da molti altri registi del genere, tra cui Quentin Tarantino che lo utilizzerà “pari-pari” per “Le Iene” del 1992, Michael Mann per “Heat – La sfida” del 1995 e Paul McGuigan per, il più recente, “Slevin – Patto criminale” del 2006. 4. Il quarto lungometraggio Paths of Glory (Orizzonti di Gloria) del 1957 è il primo film del regista girato con una star hollywoodiana in forte ascesa, Kirk Douglas, che interpreta l’umano colonello Dax. Il film è anche il primo del regista, prodotto da una grande casa di produzione, la United Artists ed è considerato uno dei film più antibellici di sempre. La storia raccontata si ispira ad un fatto realmente accaduto durate la Prima Guerra Mondiale al 336º Reggimento di fanteria francese, comandato dal generale Géraud Réveilhac. Il film è l’occasione per mostrare la grande capacità di Kubrick di utilizzare la tecnica di ripresa in maniera fortemente espressiva. In questo film, ad esempio, il regista utilizza per le scene girate in trincea, il carrello, a precedere e seguire, montato su gomma e non su rotaia, dando alle scene delle ispezioni delle trincee del colonello Dax, una fluidità, un rigore ed una solennità fino allora impensabili. Il film di guerra è originale anche per il fatto che il dramma e la morte sono tutte interne ad un solo esercito: il nemico menzionato, evocato, combattuto, non appare in nessuna scena. Il film farà vincere il Nastro d’argento 1959 a Stanley Kubrick come “Miglior regista straniero”;
5. Il quinto film di Kubrick è il colossal Spartacus del 1959, prodotto ed interpretato da Kirk Douglas, che volle fortemente il regista newyorkese dopo l’abbandono di Anthony Mann, con cui Douglas aveva avuto parecchi contrasti sul set. L’esperienza sarà negativa, Kubrick soffre il fatto di non avere il controllo totale sul film e delle continue intromissioni sulle scelte registiche da parte di Douglas. Il film è, a detta dello stesso regista, il meno kubrickiano dei suoi film, anche se in molte soluzioni tecniche e in moltissime spettacolari riprese, si riconosce lo sguardo e lo stile del regista. Il film vincerà 4 Oscar (Miglior attore non protagonista Peter Ustinov, Miglior fotografia, Miglior scenografia e Migliori Costumi) e sarà un successo al botteghino, ma rappresenta anche il definitivo addio di Kubrick ad Hollywood ed alle politiche delle major, l’anno dopo si trasferirà in Inghilterra, dove realizzerà tutti gli altri suoi film e che non lascerà più fino alla morte; 6. 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) l’ottavo lungometraggio di Kubrick è forse il film della storia del cinema con la più ampia letteratura critica, psicologica, filosofica dedicata. Sul film, sul suo significato, sulle sue implicazioni filosofiche, sulla sua influenza nella cultura popolare, sul suo aver ridato dignità al genere fantascientifico, fino allora di serie B, sulle sue innovazioni tecniche e stilistiche, è stato detto e scritto di tutto e risulta davvero arduo trovare un aneddoto per questa lista. Forse i più significativi, fra i tanti, sono due: il primo, legato alla lavorazione durata 4 anni ed ai costi di produzione di quasi 12 milioni di dollari di cui 6 milioni e mezzo solo per gli effetti speciali; il secondo, legato al fatto che questo film fa vincere a Kubrick l’unico Oscar della sua carriera, quello per gli effetti speciali ai quali aveva lavorato personalmente;
7. A proposito di Oscar, Stanley Kubrick ricevette nel corso della sua carriera 13 Nomination (tra cui 3 per il “Miglior Film” e 4 per la “Miglior Regia”), ma non ne vinse nemmeno uno. Come abbiamo detto, l’unico Oscar che vinse fu quello per i Migliori Effetti Speciali nel 1969 per 2001: Odissea nello spazio. 8. 2001 Odissea nello spazio sarebbe dovuto cominciare con una serie di interviste a scienziati, filosofi, ingegneri ed astronomi, che avrebbero dovuto parlare di evoluzione, intelligenza artificiale, viaggi spaziali e vita extraterrestre; il progetto fu poi abbandonato dal regista e le interviste già fatte a personalità del calibro di Isaac Asimov, Aleksandr Oparin, Margaret Mead, finirono poi nel libro “Stanley Kubrick. Interviste extraterrestri”; 9. Arancia meccanica del 1971 è il nono film realizzato dal regista, il primo degli anni ’70. Fu un successo planetario sia di critica che di pubblico, la censura fu molto severa in tutta Europa, soprattutto in Inghilterra, Germania ed Italia; addirittura in Inghilterra e Germania il regista fu costretto a ritirare la pellicola dalle sale per un certo periodo, poiché molti giovani affascinati dall’ultraviolenza cominciarono ad imitare i comportamenti dei protagonisti del film. In Italia ebbe prima il divieto a 18 anni fino al 1998 poi abbassato a 14 anni ed ebbe il suo primo passaggio televisivo nel 2007 sul canale La7, ben 35 anni dopo la sua uscita cinematografica;
10. Il film Shining rappresenta il primo film a fare un largo uso della steadycam, lo stabilizzatore per le riprese in movimento inventato dall’operatore video Garrett Brown, che lavorava nel film di Kubrick. Secondo lo stesso Brown, Shining, resta tuttora insuperato, per eleganza e capacità espressiva delle riprese, proprio grazie alle idee del regista che seppe esaltare le possibilità tecniche; 11. È leggendaria e famigerata la cura maniacale che Kubrick dedicava a tutti gli aspetti del film anche per ricreare quanto più fedelmente gli ambienti dei suoi film. Il set di Shining è emblematico a riguardo: all’epoca delle riprese era il set cinematografico più grande del mondo, tanto da contenere la facciata e l’interno dell’Overlook Hotel e lo smisurato giardino labirinto. Per ricreare la neve del labirinto di “Shining”, vennero impiegate 900 tonnellate di sale da cucina mischiato a palline di polistirolo; 12. Il regista detiene diversi record, fra i quali: quello per il maggior numero di riprese per
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