IL MEZZOGIORNO IN MOVIMENTO. PROPOSTE E PROGETTI VERSO IL NEXT GENERATION EU - QUADERNO N. 1/2021 - Sipotra
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NEXT GENERATION EU: L’ITALIA NON AVRÀ FUTURO SE NON METTERÀ IN RETE IL SUD di Leandra D’Antone La sfida dell’interconnessione europea Agli esordi del 2000, a otto anni dal trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea, a cinque dalla conferenza di Barcellona che aveva fissato al 2010 la realizzazione della Zona mediterranea di libero scambio, avviata la moneta unica, sembrava essersi aperta davvero una nuova storia per l’Europa, l’Italia e le sue regioni meridionali. La nuova storia era rappresentata in maniera icastica dalla strategia continentale delle connessioni fisiche mediante grandi corridoi multimodali, destinati a dispiegarsi dal Nord verticalmente e trasversalmente fino al Sud dell’Unione, indicandone la Sicilia come porta mediterranea in uscita e in entrata. Grazie all’Euro e alle nuove politiche regionali europee, e, con l’istituzione in Italia del Dipartimento per le politiche di coesione e sviluppo nell’ambito del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, si poteva inaspettatamente persino tornare a parlare del Mezzogiorno italiano, un’area geografica e “una denominazione” caduti nel massimo discredito in quanto ormai considerati rappresentativi dei peggiori mali: criminalità, corruzione, clientelismo, inefficienza delle classi dirigenti. Nei fatti, dopo un ventennio di accumulo di un colossale debito pubblico per vizi più vistosi e concentrati al Sud, ma condivisi dall’intero paese, il picco dell’antimeridionalismo e della protesta leghista si erano raggiunti dacché i parametri di Maastricht nel 1992 avevano messo l’Italia di fronte alla necessità di ripartire tra territori e ceti sociali i necessari sacrifici e di abbandonare comportamenti viziosi talmente consolidati da apparire come diritti (c’è una somiglianza con i fenomeni antisistema attuali, definiti populisti con una espressione a mio parere fumosa). Il grande sistema Trans-European Transport Network (TEN-T) definiva la nuova geografia e l’economia di un continente in divenire (un mercato di 450 milioni di cittadini, con un Parlamento, una Commissione al vertice, ma senza unione fiscale e politica). Il TEN-T era ispirato all’intermodalità con integrazione dei trasporti terrestri, marittimi e arei; alla volontà di dare maggiore e più efficace estensione al traffico ferroviario ridimensionando quello stradale molto inquinante, andando nella direzione della riconversione Green. Tre grandi corridoi TEN- T interessavano l’Italia: l’asse Berlino-Palermo comprensivo dell’attraversamento stabile dello Stretto, il collegamento ferroviario e stradale Lione-Torino-Milano-Bologna-Venezia-Trieste- Lubiana-Budapest-Kiev e il progetto strada-ferrovia-traghetto da Bari verso l’Est europeo attraverso l’Albania. In quelle circostanze l’Italia aveva disegnato il suo primo Piano integrato dei trasporti e della logistica e, nel 1996, il Governo Prodi aveva avviato il processo di valutazione per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, che nel 2002 , insieme alla linea ad alta velocità Berlino-Palermo, era stato inserito nella Short List del Commissario Kerel Van Miert, la lista comprensiva delle opere strategiche europee di immediata realizzazione col contributo della Banca europea degli investimenti. Il Mezzogiorno che funziona Agli esordi del 2000 erano già evidenti i segni del declino industriale italiano e della degenerazione di un sistema politico e partitico caratterizzato da maggioranze instabili, dall’intreccio perverso tra correnti di partiti e imprese pubbliche e private, col risultato di ridurre 2
la competitività di tutto il sistema imprenditoriale del paese e di accentuare la divergenza tra grandi aree territoriali (non tanto in termini di Pil, quanto di qualità del sistema industriale, di governo del territorio e dei servizi). E tuttavia da diversi anni, un gruppo di storici e scienziati sociali, raccolti sotto al direzione di Piero Bevilacqua, intorno all’Istituto meridionale di storia e scienze sociali, alla rivista “Meridiana” e alla casa editrice Donzelli, raccontava la storia del Mezzogiorno differenziato, inserito in maniera vitale nelle relazioni internazionali: il “Mezzogiorno che funziona”, per le sue imprese innovative, internazionalizzato, pronto a radicalizzare il pur circoscritto cammino di crescita virtuosa valorizzando le migliori risorse sottoutilizzate. Le politiche regionali europee per il riequilibrio territoriale, la nascita nel 1998 del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione nell’ambito del ministero dell’Economia, Bilancio e Programmazione economica, il “movimento dei sindaci”, inauguravano effettivamente una stagione politica in cui le regioni del Sud sembrarono poter interpretare un ruolo protagonista. In quel contesto curai nel 2001 il numero monografico di “Meridiana” Il Ponte sullo Stretto Messina con la collaborazione i nostri migliori ingegneri e specialisti di economia dei trasporti che avevano portato a termine gli studi di fattibilità e di impatto (tra Agostino Nuzzolo che scrive anche per questo Quaderno); e con la partecipazione attiva di Fabrizio Barca e Gaetano Fontana, curatori per la pubblica amministrazione del Rapporto di sintesi della Direzione generale di coordinamento territoriale, rapporto contenente la valutazione degli impatti trasportistico, economico e ambientale dell’opera negli scenari alternativi. Il nostro scopo era la consapevolezza della storia e delle ragioni dell’infrastruttura. Per contribuire alla chiarezza della scelta, spettante ovviamente alla politica, volevamo rendere evidente la qualità degli studi svolti per gare internazionali, le più recenti verifiche di fattibilità e la qualità delle procedure che ne facevano un modello sia per la decisione relativa alla realizzazione o meno di grandi opere, sia per l’intero operare della nostra pubblica amministrazione. Nel 2004 con Carmine Donzelli ritenemmo necessario fare il punto sul tema delle infrastrutture di trasporto nel Mezzogiorno e evidenziare il nesso strettissimo tra la crescita culturale, economica e sociale e lo sviluppo di reti di connessione, coinvolgendo nella nostra riflessione ancora le migliori competenze tecnico-ingegneristiche ed amministrative. La questione dei trasporti tra Nord e Sud nella lunga durata della storia italiana La storia dell’Italia unita diceva che le migliori politiche pubbliche trasportistiche, caratterizzate dall’accessibilità dei territori e dalla valorizzazione di tutte le risorse produttive territoriali, avevano caratterizzato anche le fasi migliori non solo della vita delle regioni meridionali italiane, ma di quella dell’intero paese. Questo era avvenuto nel corso dell’intera storia dello Stato liberale prefascista, che, dovendo costruire una nazione senza dovizia di materie prime e capitali, aveva puntato sulla massima valorizzazione delle risorse produttive presenti in tutte le regioni italiane e favorito con le modalità più appropriate ai sistemi produttivi territoriali, i flussi delle merci e la mobilità degli uomini. Alla fine dell’età giolittiana l’Italia aveva compiuto la sua trasformazione industriale, concentrata notoriamente nel triangolo settentrionale, tenendo attiva sia la bilancia commerciale che quella dei pagamenti. Quando nei primi anni Venti il ministro delle Finanze di Mussolini, Alberto De Stefani, aveva contabilizzato la spesa pubblica nel settore dei trasporti, la ripartizione degli investimenti era risultata sostanzialmente fatta con equità territoriale e intelligenza strategica del valore delle connessioni. Riguardo alle opere ferroviarie, realizzate in concessione, col concorso dello Stato e di capitali esteri, oltre 1 miliardo e 500 milioni erano andati al Nord, oltre 792 milioni al Centro, oltre 1 miliardo e 284 milioni al Sud. Quanto alle opere stradali la ripartizione era risultata di oltre 173 milioni al Nord, quasi 150 milioni al Centro, oltre 752 milioni al Sud e isole. Per le opere marittime erano stati effettuati pagamenti per oltre 750 milioni di cui al oltre 254 milioni al Nord, oltre 129 milioni al Centro, e oltre 330 milioni al Sud e isole; di questi ultimi circa 1/3 al porto di Napoli allora quarto 3
porto italiano per merci caricate e scaricate (prima dei porti di Livorno, Ancona e Venezia). Alla vigilia della prima guerra mondiale Il Pil del Sud d’Italia, pur ridotto rispetto al momento dell’unificazione, era l’80% di quello del Centro Nord (oggi è poco più della metà), indicando di una divergenza ancora molto contenuta e statisticamente non patologica. A conclusione della seconda guerra mondiale, quando le politiche autarchiche fasciste e le distruzioni belliche avevano isolato il Mezzogiorno facendo crollare il Pil a circa metà di quello del Centro-Nord, un “interesse straordinario per il Mezzogiorno” maturato nelle istituzioni internazionali e italiane, che in Italia aveva portato tutte le imprese e banche italiane ad aderire alla Associazione per lo sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (Svimez), aveva posto al centro dell’agenda politica ed economica della Ricostruzione il superamento del divario Nord- Sud, mediante radicali riforme in agricoltura e investimenti straordinari nelle infrastrutture di ogni tipo, da quelle idriche, a quelle energetiche, a quelle trasportistiche. Negli anni 50-70 in tema infrastrutturale furono affrontate le due partite fondamentali per mettere le regioni del Mezzogiorno in rete, con esiti e per ragioni diverse destinati ad incidere sul destino del Mezzogiorno e del suo sistema di connessioni: il prolungamento dell’autostrada del Sole, realizzata dalla Società autostrade dell’Iri da Milano a Napoli, fino a Reggio Calabria, e la realizzazione del collegamento stabile stradale e ferroviario tra la Sicilia e il Continente. Nel pieno del ciclo tecnologico dei trasporti stradali, all’inizio degli anni ’60, la politica italiana, dal governo Fanfani all’allora Ministro dei Lavori pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, decise che al Sud bastasse una autostrada diversa da quelle del Centro-Nord. Decise che essa dovesse servire tre regioni e collocarsi in gran parte in montagna, quindi con corsie meno larghe, pendenze maggiori e tempi di percorrenza più lenti, anziché seguire il percorso più breve costiero tirrenico ; e, ancora, che i cittadini meridionali non vi dovessero pagare il pedaggio perché toppo poveri ( in realtà per evidenti ragioni clientelari, visto che, in un periodo di rivoluzione della mobilità su strada per uomini e merci, il pedaggio, lo avrebbero pagato in tutto il resto della rete). La Salerno-Reggio Calabria, opera di altissimo valore ingegneristico, ma con minore valore trasportistico, fu costruita e gestita dall’Anas e divise l’Italia in due diversi sistemi di mobilità, di regole e di cittadinanza. Collegare la Sicilia alla penisola Negli stessi decenni fu perseguito l’obiettivo, allora condiviso da istituzioni, imprese e cittadini, di realizzare un collegamento stabile tra la Sicilia e il Continente e, a conclusione di un bando internazionale di gara aperto da Anas e Ferrovie dello Stato con e le regioni Sicilia e Calabria. La gara mise a confronto tre modalità (ponte a campata unica, tubo flottante sottomarino e galleria sottomarina); con accurata valutazione tecnica si arrivò alla decisione di realizzare il Ponte sospeso stradale e ferroviario a campata unica affidandone la progettazione ad una società dedicata, la Società Stretto di Messina, a maggioranza IRI. Il progetto di massima fu consegnato solo nel 1991, poiché nel frattempo l’interesse generale, compreso quello dell’Iri per una grande opera infrastrutturale nel Sud, era del tutto caduto. Nel 1996, come ricordato, il primo governo Prodi mise all’ordine del giorno del Consiglio superiore dei lavori pubblici il progetto di massima del Ponte a campata unica; ma il subentrare del governo Berlusconi (favorevole alla realizzazione e a continuare la procedura amministrativa) determinò un volo spericolato della sinistra italiana: il Ponte divenne irrimediabilmente “opera faraonica”, affare per la mafia, contraria agli interessi del Sud, ad ogni cambio di governo, bisognoso di “ben altro”. In questo difficile scenario, la svolta dell’Euro e delle grandi reti europee sembrò riaprire per il Mezzogiorno una partita sostanzialmente chiusa. Con il volumetto La rete possibile (Donzelli 2004) volemmo perciò riassumere le ragioni del passato e le speranze di futuro; pur sapendo quanto sarebbe stato difficile in Italia, in pieno dispiegarsi di ideologie e politiche leghiste trasversali a tutti i partiti italiani, spostare verso il Sud scelte di investimenti strategici che 4
avevano già preso da diversi anni una direzione territoriale contraria. Peraltro già dal 2001, nella nostra Costituzione e senza che nessuno protestasse, era stato introdotto il nefasto titolo V, dando alle Regioni incredibili poteri di veto antitetici agli interessi nazionali soprattutto in materie fondamentali come la Sanità e trasporti. L’ultimo ventennio: un bilancio deludente Ed ecco in breve il bilancio deludente dell’ultimo ventennio, per quanto non del tutto imprevisto: tra il 2004 ed oggi nessun investimento strategico e innovativo e con logica di sistema è stato fatto nel Mezzogiorno in materia di reti di trasporto e logistica. Il Piano nazionale integrato è stato completamente abbandonato. Le pur importanti opere relative a porti, aeroporti e collegamenti urbani, sono state realizzate con l’uso dei fondi strutturali europei (www.opencoesione.it), sostanzialmente con spesa sostitutiva e non aggiuntiva, straordinaria e non ordinaria. L’Alta velocità ferroviaria (300/500 km orari) si è estesa esclusivamente a tutto il Centro-Nord, confinando a Sud con Napoli-Salerno, non a caso il confine Nord della autostrada Salerno-Reggio Calabria, nel frattempo adeguata ai requisiti indicati dall’Unione, con la realizzazione della corsia di emergenza, ma rimasta autostrada sostanzialmente di montagna con le caratteristiche connesse. La Sicilia, seconda regione più popolata d’Italia dopo la Lombardia, con un immenso patrimonio culturale e ambientale, istituzioni scientifiche di qualità e imprese innovative, è pressoché priva di collegamenti ferroviari: la rete meridionale è sostanzialmente rimasta quella ottocentesca, solo parzialmente ammodernata, con tratte ancora non elettrificate e a doppio binario usate soprattutto da viaggiatori pendolari. Per qualsiasi collegamento dominano i trasporti su strada, con larghissimo uso del mezzo individuale. Il sistema autostradale meridionale, pur con un notevole miglioramento della percorribilità nell’unica autostrada longitudinale da Salerno alla Calabria, presenta gravissime carenze e non solo di manutenzione. Il tratto tra Villa San Giovanni e Reggio Calabria non è stato mai adeguato, né sono state adeguate le connessioni dell’autostrada con i centri urbani calabresi. Allo stesso modo le autostrade siciliane mancano delle tangenziali intorno ai grandi centri urbani: particolarmente grave è il caso di Palermo, grande città di 700.000 abitanti, attraversata nel suo centro dall’inteso traffico di auto provenienti dall’autostrada da Catania e dirette soprattutto verso il trapanese. Nonostante la larghissima dominanza in Sicilia dell’autotrasporto restano scandalosamente incompiute o prive di manutenzione molte autostrade siciliane. I collegamenti con gli aeroporti sono ovunque affidati prevalentemente a mezzi individuali. Dalla convergenza alla divergenza La crisi finanziaria del 2007-2011 ha interrotto il significativo, per quanto debole processo di convergenza Nord-Sud verificatosi tra il 1998 e il 2006 nel contesto delle nuove politiche regionali europee di sviluppo e coesione territoriale. Il Ponte sullo Stretto di Messina è stato cancellato, insieme all’Alta velocità ferroviaria, dal core del sistema di connessioni strategiche europee, per scelta esclusiva del governo italiano e per insipienza delle regioni meridionali, prima fra tutte la Sicilia incapace di cogliere, prima che di far valere, le giuste esigenza di accessibilità e di una mobilità efficiente. Le emergenze migratorie, le guerre nordafricane e il terrorismo hanno allontanato la prospettiva euro-mediterranea a favore di una UE a trazione mitteleuropea e orientata ad Est, neutralizzando la formazione della Zona di libero scambio e facendo perdere centralità ai porti meridionali. Questi ultimi hanno perduto parte della loro enorme potenzialità con la ridefinizione dell’asse Berlino-Palermo e con la sua deviazione nell’Adriatico, oltre che per l’assenza di una valida rete di comunicazioni terrestri con conseguente indebolimento del sistema produttivo territoriale. In conseguenza anche Gioia 5
Tauro ha perduto il suo primato mediterraneo a vantaggio di porti greci, nordafricani e de La Valletta, nel colossale traffico di transhipment di grandi navi-containers in transito dal Far West al Far Est. La pandemia: una possibile opportunità per il Sud In questo Sud nei fatti oscurato per tutto l’ultimo trentennio nelle scelte pubbliche nazionali e regionali, la crisi finanziaria del 2007-2011 si è abbattuta come una scure sulla produzione industriale, sul lavoro e sui consumi, che sono crollati di oltre il doppio rispetto a quelli del Centro-Nord, e la cui ripresa relativa era già più lenta prima che l’attuale pandemia mettesse completamente in ginocchio l’economia dell’intero paese. Il Sud ha perduto e perde i giovani e le donne più qualificati, ha inaugurato una sorprendente inversione della curva demografia, innestando una contrazione irreversibile di futuro. I rapporti Svimez da tempo ricordano come non si tratti solo del presente e del futuro del Sud, ma anche di quello delle regioni del Nord, ancora avanti a quelle del sud nella misura degli indicatori economici e sociali, ma precipitate nella graduatoria delle regioni europee. Il Presidente della Svimez Adriano Giannola ha spiegato bene e lo ribadisce anche in questa sede, come solo la prospettiva mediterranea, e quindi meridionale, possa oggi ridare forza ad un’Europa altrimenti perdente. Il carattere globale della attuale pandemia con le sue gravissime conseguenze economiche e sociali, ha riacceso le luci dell’Unione europea sugli investimenti fondamentali per la ripresa dell’economia, necessariamente lungimiranti, dunque con al centro per le giovani generazioni in maggiori difficoltà nelle sue aree più deboli; sulle giovani generazioni infatti ricadrà l’enorme debito già accumulato con gli sprechi del passato, ed ora anche legato all’emergenza sanitaria ed economica. Le uniche politiche lungimiranti non possono che rimettere al centro dell’azione gli investimenti industriali e nei servizi, quindi anche e fondamentalmente nell’accessibilità e nelle reti di mobilità e di connessione, materiali e immateriali. Si tratta di investimenti rilevanti nella generazione di reddito, ma anche fondamentali ai fini del rafforzamento della ricerca e dell’innovazione tecnologica, della crescita delle attività produttive, dell’occupazione, del risanamento ambientale (dalle reti digitali, a quelle trasportistiche e logistiche, a quelle energetiche, tutte essenziali per la riconversione green). Nell’ultimo anno, il governo in carica, sebbene mostrando parallelamente una incomprensibile virata ideologica statalista e persino anti-imprenditoriale, sembrava voler dare alla sua azione una nuova impronta meridionalista facendosi portatore, per iniziativa del Ministro per la Coesione territoriale Peppe Provenzano, di un grande “Piano per il Sud” (ancora in verità definito solo grandi linee definito) da porre al centro delle politiche nazionali. Oggi l’Unione europea ha indicato chiaramente il Mezzogiorno come prioritario spazio di una politica di riqualificazione produttiva e ambientale che guardi al futuro (oggi compromesso) delle giovani generazioni, mettendo a disposizione dell’Italia la quota più consistente delle risorse del Recovery Fund. La scomparsa delle infrastrutture meridionali nel Next Generation Italia Leggiamo proprio in questi giorni con autentico sgomento la prima bozza del PNRR, il documento di programmazione degli investimenti per 208 miliardi (127 prestiti 81 miliardi a fondo perduto) di UE Next Generation assegnati all’Italia dall’Unione europea. Non solo colpisce la misteriosa oltre che generica logica che ha ispirato la ripartizione delle risorse, tra cui limitatissime quelle assegnate alla sanità, ma suscita persino indignazione la scelta delle opere trasportistiche e di attrezzature logistiche da realizzare nel Mezzogiorno entro il 2030: non vi figura alcun porto meridionale, sulla cui essenza produttiva “mediterranea” anche in considerazione dei trasporti energetici insiste Pietro Spirito; quindi neanche le Zone 6
economiche speciali strettamente legate alla portualità, su cui qui insiste il Presidente della Svimez Adriano Giannola. Non vi figura il Ponte fra la Sicilia e la Calabria, opera ben valutata e progettata, cantierabile, anzi già cantierata, sulla quale incombe il fumo del tutto ideologico di un ipotetico tubo flottante preso in considerazione solo perché gradito ai 5stelle (peraltro già considerato ed escluso dai precedenti studi approfonditi sull’attraversamento) e qui ne argomentano, come tratto essenziale dell’Alta Velocità ferroviaria per tutto il Mezzogiorno compresa la Sicilia, Agostino Nuzzolo e Corrado Rindone. Ma soprattutto non vi figura la vera Alta Velocità, uguale a quella del resto della rete ferroviaria italiana, già in gran parte realizzata con una notevolissima spesa di oltre 100 miliardi di euro, distribuita tra tutte le regioni italiane. Vi figura invece l’Alta velocità di rete, con limite a 200 km orari, che come dimostrano le riflessioni di Francesco Russo e Agostino Nuzzolo-Corrado Rindone, non corrisponde nemmeno agli elementari riferimenti tecnico-logistici che ispirano oggi le decisioni urgentissime di ammodernamento della rete. Non basta, dice Russo, sostituire i vecchi treni con un treno a striscia rossa parlare di alta velocità! Non vi figura alcun porto meridionale, ma solo i porti di Genova e Trieste, e ne mette in rilievo la funzione essenziale in relazione al tessuto economico Pietro Spirito, che ha presieduto finora l’Autorità portuale di Napoli e ha visto indebolirsi sistemi logistici di grande potenzialità per la mancanza di una vera strategia riguardante le funzioni specifiche dei porti mediterranei. Non vi figurano interventi essenziali per gli aeroporti meridionali e per il trasporto aereo sulle cui caratteristiche si sofferma attentamente Mario Sebastiani, interventi che costituiscono l’unica mobilità veloce oggi esistente dal Mezzogiorno al Centro-Nord, con costi elevatissimi per la mancanza di alternative, e nonostante la presenza di compagnie low-cost. Nella bozza di Recovery si fantastica persino di un nuovo aeroporto internazionale nell’area dei Nebrodi, in mezzo al deserto infrastrutturale e lontano dai gangli vitali dei transiti. Proposte concrete per il futuro Questo Quaderno non è stato programmato solo per richiamare con forza l’attenzione su una occasione che potrebbe essere sprecata con conseguenze drammatiche e opposte ai bisogni urgenti dei giovani e dei cittadini delle regioni meridionali. Tutti gli esperti coinvolti hanno unito analisi e proposte, non idee generiche, ma progetti precisi e concreti da realizzare con la massima urgenza. Un governo che si definisce meridionalista sta per dividere ancor di più l’Italia in due, come già avvenuto quando fu costruita da bravissimi ingegneri, in tempi record, una autostrada diversa per il Sud, in nome di ragioni sociali. Il Sud non è una questione sociale come da due anni è tornato ad essere trattato nelle politiche pubbliche. E’ ricco di risorse culturali di valore mondiale, lo ricorda qui Lucia Trigilia, che oltre a insegnare Storia dell’Architettura moderna all’Università di Catania, ha fondato e dirige il Centro internazionale di studi sul barocco. Siti Unesco patrimonio dell’umanità restano difficilmente accessibili e pessimamente serviti. E’ ricco anche di risorse imprenditoriali che pur tra mille difficoltà percorrono la strada della Ricerca & Sviluppo e dell’internazionalizzazione: ne troviamo l’ultima testimonianza nel recente Rapporto di Studi e ricerche per il Mezzogiorno. Dispone di straordinarie risorse umane mortificate e spinte massicciamente e in forma permanente fuori dai loro contesti per la formazione e la costruzione del proprio futuro. Quel che di grave potrebbe accadere sotto i nostri occhi ci sembra davvero troppo! 7
ZONE ECONOMICHE SPECIALI? UN PROGETTO-SISTEMA DA REALIZZARE di Adriano Giannola L’opzione euromediterranea L’utilizzo delle risorse del Recovery Fund (RF) varato dall’UE individua rigide condizionalità che impongono di fissare precisi obiettivi, varare progetti e definire un percorso capace di impegnare le risorse entro il 2023 e spenderle entro il 2025 nel rispetto delle condizionalità esplicitate. A noi l’ Europa chiede di connettere il Paese rispondendo all’ esigenza di ridurre drasticamente le disuguaglianze economiche e sociali che minano alla base le potenzialità del Sistema Italia. Tradotto in chiaro, si tratta di recuperare il contributo allo sviluppo di quel 40% di territorio e di oltre il 30% di cittadini ibernati da venti anni nel ghetto delle sedicenti politiche di coesione. La condizionalità rappresentano una sollecitazione a combattere la disgregazione in atto nel Paese offrendoci al contempo una interessata investitura per articolare seriamente una fin qui fantomatica Opzione Euromediterranea. E’, quest’ ultima, una dimensione che sta assumendo un primario rilievo strategico per l’ Unione alle prese con un sempre più instabile contesto geopolitico che scuote e mette a repentaglio finanche l’ agibilità della propria frontiera sud. Questa frontiera già ora e ancor più in prospettiva diventa per molteplici ragioni condizionante per l’ UE impegnata a realizzare in forme smart e green la transizione allo sviluppo sostenibile e, quindi, alla decarbonizzazione integrale per il 2050, così come è primario l’ interesse a consolidare il proprio ruolo nei mercati dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo -dal Medio Oriente all’ Africa- detentori di materie prime strategiche e destinati ad avere un ruolo di primo piano dal punto di vista demografico e -quindi- economico. Il trauma della pandemia e il conseguente intervento eccezionale messo in campo, se adeguatamente compreso, offre al Sistema Italia l’ occasione di mettere a frutto il potenziale inagito dell’enorme rendita posizionale che il Mediterraneo rappresenta. Per coglierla, la nostra priorità è di mettere in campo un coerente Progetto-Sistema per l’ Italia, che ponga l’ obbiettivo prioritario di attivare al Sud un “secondo motore” da affiancare allo stanco procedere mittel europeo del Made in Italy. L’ impresa, non facile, diventa impossibile in assenza di una convergenza effettiva sulle linee tracciate dall’ UE. Esse infatti vanno in rotta di collisione con la priorità fin qui dominanti che in sintesi insistono ad affidare al “vento del Nord” il compito di “riprendere” la crescita: …. quella che da anni non c’è e tanto meno ci sarebbe nel dopo-pandemia visti i rendimenti rapidamente decrescenti del frustrante arroccarsi nella prospettiva mittel-europea. La realtà è che il Paese è arrivato a questo traumatico appuntamento avendo accumulato oltre al peggioramento dello storico divario Nord-Sud, un inedito ancor più preoccupante secondo divario, quello con l’UE, che tocca progressivamente le parti forti del Sistema. Un paese senza crescita Dopo oltre un decennio di stagnazione che precede la bufera della crisi finanziaria del 2007, dal 2008 Centro-Nord e Sud in progressiva frenata inseguono invano il miraggio di tornare al “paradiso perduto” del 2007. La Figura 1 illustra il disastroso evolvere del reddito pro-capite che nel prepandemico 2019 secondo EUROSTAT tocca quota 26.860 €; un livello inferiore alla media UE del 6,18% (pari a -1.770 €) segnando addirittura una riduzione assoluta del 3,9% (-1.090 €) rispetto al 2001. Fig. 1. PIL pro capite in parità di potere d’acquisto (indice EU 28=100) dal 1995 al 2019 8
Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT. Nella Tabella 1 la crescita cumulata del PIL dal 2008 evidenzia la consistenza dei due divari nel 2019. Tab.1. Tassi di crescita cumulati del PIL in termini reali (%) valori costanti anno 2015. Paesi 2008-2019 Mezzogiorno -10,3 Centro-Nord -2,1 Italia -4,0 Unione Europea a 28 paesi +12,7 Germania +15,6 Grecia -22,5 Spagna +7,5 Francia +11,6 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT ed EUROSTAT Oltre a registrare il crollo del Sud che non sorprende, è significativa l’evidente perdita di contatto del Centro-Nord dall’ Unione, già in chiara evidenza dal 2000 al 2007 e da allora in accelerazione. Considerando l’ evoluzione del reddito pro-capite tra le 280 regioni dell’ UE, la Lombardia scivola dal 17° posto del 2000 al 29° del 2007 per retrocedere al 44° posto nel 2018; l’Emilia Romagna passa dal 25° posto del 2000 al 41° del 2007 e al 55° nel 2018; similmente il Veneto dal 36° al 54° del 2007, e al 74° nel 2018. Il Piemonte dal 40° al 60° del 2007, e al 97° posto nel 2018. Alla caduta di rango si accompagna ovviamente una perdita di reddito pro-capite delle nostre “regioni forti” rispetto alla media dell’ Unione. Si aggiunga che Umbria e Marche, con reddito pro-capite nel 2018, sceso al 93% e all’ 84% di quello UE, agganciano il drappello delle regioni meridionali “segregate” nelle politiche di coesione. Una prospettiva che attende anche il Piemonte, la Toscana e il Friuli Venezia Giulia attestate nel 2018 a un pro capite sceso al 103% dai rispettivi 131%,127% e 131% del 2000. La locomotiva si è fermata La fine del Nord-locomotiva, è il paradossale lascito della terapia della sedicente austerità espansiva -in realtà “estrattiva”- somministrata con asimmetrica e (troppo) incisiva intensità all’economia meridionale. Di fatto l’ austera gestione dell’ ostinato dualismo italiano si è ridotto a barattare un effimero vantaggio della dinamica delle esportazioni incuranti della progressiva debolezza del mercato interno, condizionato dalla lenta eutanasia di un meridione sfibrato proprio dall’ efficacia delle terapie cui è sottoposto. Questa patologica dinamica consolida inoltre il più pericoloso dei paradossi alimentando le virulenti pretese Lombardo-Veneto-Emiliane illuse di trovare nell’ autonomia rafforzata una soluzione separata alla propria crisi. L’ entelechia del fulmineo corto circuito imposto dalla pandemia è un richiamo alla realtà che sollecita una attenta analisi delle ragioni, connessioni e rilievo di quel doppio divario, divenuto un baratro, che non si può ignorare e tantomeno eludere invocando che torni a soffiare il vento del Nord sopito da più 9
di venti anni. La strada da imboccare per la auspicabile ripartenza nel 2022 è quindi a dir poco in salita non fosse altro per la carenza di una chiara visione alternativa all’ ipotesi di utilizzare le risorse europeee per una manutenzione straordinaria in salsa green e smart di un motore ansimante se non fuso. Una strada che espone il Paese a rischi multipli di marginalizzazione in seno all’ Unione e alla prospettiva di patologica dipendenza. La Tabella 2 riporta la stima delle variazioni del PIL dal 2021 al 2022. Tabella 2 PIL Italia, variazioni % attese del PIL. 2019 0,3 2020 (stima) -9,9 2021 (stima) 4,1 2022 (stima) 2,8 Fonte Eurostat Grazie ad esse è possibile aggiornare anche la stima del doppio divario dall’ UE a valle della pandemia per confrontarlo con quello del 2019. Il benchmark rimane la misura percentuale del divario dal PIL del 2007 che nel 2019 era -4,3% per l’ Italia , -2,3% per il Centro-Nord e -10,8% per il Sud a fronte di un +14,5% per la Germania, +11,8% per la Francia, +5,5% per la Spagna e +10,8% per l’ UE area-euro Tabella 3 Variazione cumulata del PIL 2020-2022. Divario al 2022: stime 2020-2022 distanza dal 2007 201 distanza dal 2007 nel 2022 Italia: -3,0 -4.3 – 7,3 (+70%) Nord -1,7 -2,3 – 4,0 (+74%) Sud -7,4 -10,4 -17,0 (+64%) Germania +0,5 +15.6 +15,1 ( +3%) Francia -0,5 +11,5 +11,0 ( +4%) Spagna -2,8 +7,5 + 4,7(+37%) Area Euro -0,6 +12.7 +12,1 (+4%) Alla luce della dinamica prevista fino al 2022 ed alla “distanza” dall’ irraggiungibile (per noi) 2007, il confronto con la Ue e altri Paesi vede accentuarsi macroscopicamente il ritardo; esso sarebbe destinato ad aggravarsi nel tempo se applicassimo al dopo pandemia un’ ipotesi di ripresa della crescita commisurata alla invocata normalità prepandemica. L’ ultima colonna della tabella 3 segnala tra parentesi l’ entità della variazione percentuale macroscopicamente a nostro danno per effetto della pandemia. Sia il primo che il secondo divario continuerebbero inesorabilmente a peggiorare a conferma che l’ esigenza – sollecitata dalle condizionalità UE- di un drastico mutamento di rotta più che un’ opzione è una impellente necessità. A giudicare dai dibattiti in corso questa urgenza non traspare nelle 10
elusive argomentazioni e nelle plastiche evidenze (si rinvia alla bozza di PNNR presentata lo scorso 6 dicembre al Consiglio dei Ministri). Che fare? Ora che l’assestamento dell’economia globale invita decisamente a stimolare e governare processi di re- shoring e di accorciamento delle “catene del valore” è urgente porre in essere un contrasto attivo allo smottamento del Nord e alla desertificazione-eutanasia del Sud e puntare ad ottimizzare l’impatto delle risorse messe in campo dal Recovery Fund (RF) interpretando al meglio le condizionalità che le accompagnano. E’ perciò opportuno assumere un ruolo proattivo nel processo di ristrutturazione della globalizzazione, proporsi sia pur tardivamente, di partecipare al suo governo facendo leva sulla evidente opportunità di trarre vantaggio da una strategia di riorganizzazione e promozione del flusso dei traffici marittimi, asiatici, nordafricani ed europei e così tradurre in atti concreti il tema “Logistica a valore e Mediterraneo” che rappresenta uno snodo decisivo attraverso il quale un Sud-secondo-motore può svolgere una funzione al servizio dello sviluppo proprio e del Paese. Nel Mediterraneo, l’Italia ha una assoluta centralità geografica che le consente di istituire relazioni fondamentali, efficienti in termini di logistica economica con i paesi rivieraschi e limitrofi. Essa potrebbe dunque stimolare e partecipare con ruoli rilevanti a un processo autocentrato di sviluppo. E’ una prospettiva tutt’altro che remota, non necessariamente in contrapposizione all’ attuale posizione dominante del northern range ma semmai -nella cogente prospettiva dei criteri di sostenibilità ambientale- ad essa complementare e che ci vedrebbe portatori dei valori e dei legittimi interessi dell’ UE che potrà giovarsi già nel breve periodo delle politiche di reshoring ed accorciamento delle catene del valore. Rafforzano l’opzione euromediterranea il fatto che questa area può contare più di altre su una forza lavoro molto giovane ed in crescita, di una grande disponibilità potenziale di fonti energetiche rinnovabili, di importanti giacimenti di gas che appaiono in grado di prefigurare uno dei più significativi hub energetici mondiali. L’ auspicio è che la governance di queste opportunità sia in grado di promuovere un’area mediterranea coesa ed inclusiva avviando processi legati alle dinamiche di sviluppo del nuovo millennio. Costruire il Southern Range In questo quadro le politiche di avvicinamento delle produzioni ai mercati di sbocco non può che rafforzare il ruolo di un Southern Range tutto da costruire, mettendo adeguatamente a sistema l’attività dei porti e della logistica del Mediterraneo, una tendenza che non dovrebbe temere la annunciata rotta artica, concorrente a quella che attraversa il canale di Suez. Certo la rotta artica che parte dal Far East e attraverso la costa nord della Russia raggiunge i porti del Mare del Nord, ha un tragitto più breve di quello via Mediterraneo e risparmia i costi di transito del canale di Suez, ma sconta la fatale controindicazione che per la sua piena operatività è indispensabile un irreversibile scioglimento dei ghiacci del Polo Nord: in sostanza il fallimento della strategia dell’ UE che fa del contrasto al cambiamento climatico l’ obiettivo di assoluta preminenza dei progetti Europa 30 e 50. Inoltre i mercati del Nord e Centro Europa scontano gli effetti di un regime demografico in forte invecchiamento, tendenza esattamente opposta alla crescita demografica ed economica dell’ area mediterranea, la sola al mondo, insieme ai paesi dell’Africa sub Sahariana a sperimentare questa dinamica. Per i paesi rivieraschi del bacino si prevede nei prossimi tre decenni un aumento di popolazione dagli attuali 593 milioni a oltre 790 milioni. Una crescita resa possibile dal forte incremento previsto per i soli paesi della sponda sud ed est che costituiscono il serbatoio delle giovani generazioni e anche quello delle materie prime di base per lo sviluppo delle tecnologie e delle industrie del futuro. Esattamente di fronte a loro, la sponda nord è ricca di risorse finanziarie e di cultura tecnica e scientifica. L’incontro di queste realtà 11
così diverse ma complementari allude ad una prospettiva di sviluppo: un ricorrente evento nella storia del Mediterraneo; un destino che non dovrebbe risultare per noi difficile condividere assieme ai paesi affacciati sulle rive di un mare che, più che una barriera insormontabile, da sempre unisce. A questa opzione in marcia da tempo, proprio le emergenze globali -pandemia e clima- imprimono una accelerazione che chiarendo spazi e tempi richiede una nostra scelta e partecipazione attiva. Il sistema portuale e ruolo delle Zone economiche speciali (ZES) Purtroppo, non sembra del tutto chiaro che ci troviamo al bivio. E’ perciò da salutare con interesse l’incoraggiante novità rappresentata dall’ istituzione nel 2018 di quattro ZES nei porti di Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro che realisticamente pone il focus sul Mezzogiorno continentale; un Quadrilatero che si è già arricchito di altre due ZES di grande rilievo strategico nella Regione Siciliana e di una in Abruzzo e – in prospettiva- in Sardegna. Con un sistema appena attivato di otto ZES, l’Italia è in grado di affrontare e strutturare, in termini di mercato, il tema euro-mediterraneo fornendo un decisivo apporto alla transizione verso uno sviluppo sostenibile obiettivo del green new deal. In questa funzione dovremmo immediatamente impegnarci a definire protocolli che rendano completamente chiara in sede UE l’ esigenza di una programmazione e valorizzazione della “risorsa mediterranea” indispensabile per conseguire gli obiettivi proposti per il 2030 e il 2050, così da legittimare come prioritaria la promozione di una adeguata strutturazione logistica del Southern Range: un’ immanente incombenza che spetta prima di tutto a noi promuovere e governare in nome e per conto dell’intera UE. Le ZES vincolate, per la legge istitutiva 123 del 3 agosto 2017, a incardinarsi su porti e ad articolare la loro attività in modo prioritario negli spazi retroportuali sul modello dei distripark, rappresentano oggi nell’ assoluto torpido grigiore delle politiche di sviluppo una fertile discontinuità da rendere rapidamente operativa per non ricadere in quell’ inerzia strategica di decenni che le confinerebbe al rango di evento accidentale o preterintenzionale. Il peccato originale di una preterintenzionalità senza chiari obiettivi è ben presente visto che la loro istituzione non è frutto in una organica legge, alla cui carenza occorre sopperire con laboriose interpretazioni e richiami tesi a definire un profilo prototipale. Sarebbe stato opportuno che questo Governo che si dice “a trazione meridionale” avesse colto l’ occasione per dettare una chiara normativa così da evitare il fatto che ancora oggi, a oltre tre anni dall’ istituzione, il Quadrilatero Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro non sia ancora operativo. Che ciò non sia avvenuto in un Paese come il nostro che dagli anni ’70 non ama definire strategie segnala più che la preterintenzionalità l’ accidentalità di un provvedimento potenzialmente idoneo ad avere notevoli impatti di sistema entrato in sordina nell’ ordinamento. C’ è da augurarsi che la nascita e l’ avvio accidentato delle Zone Economiche Speciali possa rappresentare una significativa innovazione virtuosamente perequatrice capace di interpretare e mettere a terra le tante potenzialità di sviluppo dei territori ove esse operano. Anche a questo scopo la ZES non va considerata in isolamento, bensì come parte di un articolato sistema territoriale tanto più efficace quanto più autonomo dalle burocrazie consolidate che pur partecipano alla sua nascita. Emblematico è il caso del Quadrilatero che lega le prime quattro ZES. Esse diventano l’ agente di sviluppo del “perimetro” e dell’ “area” che, mentre proietta con più intensità ed efficacia quei territori nel mondo, consente di mirare ad un risultato altrettanto rilevante assolutamente nuovo: quello di attivare molteplici relazioni interne all’area vasta -in questo caso il Mezzogiorno continentale- operando una sapiente tessitura, per potenziarla e- connettendola- di valorizzarla: questo, è il modo nuovo per contrastare la fragilità e la crescente marginalità di estesi territori e che tale rimarrà finché non si guarda al sistema come a un contenitore organico che, a partire dalle sue aree metropolitane, è già dotato di competenze, di risorse produttive, di infrastrutture da sviluppare e integrare con un progetto organico di sistema per l’ intero Paese. Tanto più il volano funzionerà se il Quadrilatero si connetterà al sistema delle ZES siciliane definendo l’ Esagono in forme che siano funzionali né al regionalismo né all’ autonomismo, bensì a rispondere e 12
intercettare segnali e fattori di trasformazione interni ed esterni ai processi globali che esse sono chiamate a interpretare e governare. Le tre condizioni per iniziare Per attivare rapidamente le ZES tre sono gli strumenti immediatamente necessari: 1) una effettiva semplificazione normativa (un utile riferimento è, per questi profili, quanto è già in vigore a Taranto). Sul tema l’ articolata proposta – ignorata nel “decreto semplificazione”- è quella di una autorizzazione unica (da non confondersi con l’ istituzione dell’ ennesimo ed inutile “sportello unico”). Il Commissario di governo (ne è previsto uno per ciascuna) potrebbe attendere a questo delicato compito tramite la convocazione di una sola conferenza unificata dei servizi nella quale si convenga la cessione di sovranità condizionata in forme e limiti garantiti e attualmente in capo alla miriade di autorizzatori abilitati; 2) l’attivazione della Zona Doganale Interclusa -prevista questa sì nel decreto semplificazione- provvedendo alle necessarie infrastrutture per soddisfare i criteri di interclusione; 3) la attrezzatura infrastrutturale minima, con le necessarie bonifiche, dei retroporti per renderli il cuore produttivo della ZES secondo i canoni del distripark per lo sviluppo della logistica a valore. In realtà, a tre anni dalla istituzione delle ZES, siamo ancora ai preliminari, alla individuazione delle pre-condizioni essenziali (normative, operative, finanziarie). Solo lo scorso settembre la conversione in legge del decreto 76 del 16 luglio 2020 sulle semplificazioni ha finalmente contemplato l’istituzione di zone franche doganali intercluse limitatamente alle ZES che hanno presentato un piano alle Regioni proponenti entro il 2019. Nulla invece di concreto per quanto riguarda le semplificazioni normative riservate alle ZES trattato nel decreto semplificazioni con inutile e frustrante formalismo che non si spinge oltre a limare i termini per rispondere alle decine di richieste di autorizzazione da parte delle imprese che intendono localizzarsi. Anche il regime di privilegio fiscale è stato definito dopo un periodo di lunga incertezza tra l’alternativa di un credito di imposta automatico e quella di un credito d’ imposta che dovesse essere ogni volta autorizzato. Dopo una logorante dilatoria indecisione è finalmente prevalso il buon senso, cioè l’ applicazione del regime automatico. Così come si è risolto dopo tre anni di incertezze la surreale esclusione delle attività di logistica ora finalmente dichiarate compatibili e quindi ammesse ai regimi agevolati. Anche la previsione di un Commissario a ZES di nomina del Governo, a detta degli operatori, di fatto rischia di aggiungere un’ ulteriore intermediazione più che semplificare il groviglio esistente che condiziona e disincentiva le imprese dall’insediamento nel distripark. E’ del tutto evidente da oltre tre anni che il nuovo strumento non trova udienza in sede politica. C’è da chiedersi il perché di un così smaccato disinteresse per uno strumento innovativo che dovrebbe rappresentare invece un laboratorio prezioso per sperimentare innovazioni istituzionali da poter replicare a scala nazionale. Le ZES e le infrastrutture territoriali Ovviamente ogni ZES collocandosi in un territorio esprime esigenze specifiche di operatività ed esigenze di interventi infrastrutturali materiali ed immateriali. Ancor più rilevanti queste esigenze divengono se più ZES si collegano in relazioni operative strategiche che necessariamente coinvolgono i territori. Il caso immediatamente evidente e condizionante per l’avvio del Progetto Sistema, interessa proprio il Quadrilatero per la cui operatività, occorre bruciare i tempi di realizzazione di una serie di infrastrutture. La più rilevante ed emblematica è l’impegno a realizzare il corridoio ferroviario TAV- TAC Napoli Bari. le FFSS al lavoro da oltre dieci anni hanno fissato per un davvero troppo lontano 2026 il completamento dei lavori per questo intervento che, se non conclude almeno pone un tassello fondamentale per alleviare il gravissimo problema infrastrutturale che mina alla base la coesione sistemica del Mezzogiorno continentale e rischia di tarpare le ali alle quattro ZES del Mezzogiorno Continentale. 13
Accelerare i tempi della Napoli-Bari ha un essenziale valore strategico per dare all’area il vantaggio competitivo di una inedita trasversalità trans-europea che realizza la connessione Tirreno-Adriatico, connette due ZES “apicali”, promuove lo sviluppo dell’intermodalità, corrisponde ai canoni di sostenibilità ambientale con l’ottimizzazione logistica, promuove l’ottica della circolarità funzionale al contenimento delle emissioni, quindi coerente ai cogenti criteri fissati in sede europea. Al contempo, la posizione privilegiata rispetto ai mercati emergenti africani balcanici e medio orientali e la prospettiva della “nuova” rotta atlantica offrono alle ZES del Quadrilatero e ancor di più al complesso di quelle dell’ Esagono che include quelle siciliane, il respiro di un enorme vantaggio logistico da coltivare e sviluppare sia nell’ immediato che in una prospettiva di medio-lungo periodo come prezioso fattore economico e culturale. Nel ridisegno della globalizzazione, le ZES mediterranee (il Mezzogiorno ne può attivare 12) e le Zone Logistiche Semplificate (ZLS) al Centro-Nord possono assumere una funzione decisiva nel prospettare un reale rinascimento del sistema portuale nazionale, decisivo per massimizzare i ritorni nel processo di razionalizzazione e accorciamento delle catene del valore, incentivato dall’amara esperienza della pandemia. Il re–shoring connesso all’accorciamento delle catene del valore va quindi calibrato e inquadrato in una più generale strategia logistica, indispensabile retrostante di una coerente politica industriale attiva che guardi con attenzione allo sviluppo dei nuovi mercati del bacino mediterraneo. ZES, la politica per le aree interne e la promozione di nuovi stili di vita Contrariamente alla immagine di strumento specialistico, finalizzato a scopi territorialmente ben identificati e circoscritti, nel Mezzogiorno le ZES sono vocate a svolgere un ruolo di polivalente e innovativo strumento di sistema significativo e fortemente mobilitante. E’ il caso delle aree interne delle regioni meridionali, involontarie protagoniste di quel processo di desertificazione che contribuisce all’eutanasia del Mezzogiorno e quindi alla soluzione per estinzione della Questione meridionale. In una più che realistica e immediata prospettiva esse vengono strutturalmente coinvolte dalla riorganizzazione organica dello spazio, diventando di fatto naturali beneficiarie di occasioni di sviluppo che si possono attivare, progettare e realizzare in connessione alle molteplici forme di trasversalità ed intermodalità che il progetto promuove. Caso esemplare è il già citato tratto AV-AC che unisce le ZES di Napoli e Bari, nell’ambito del previsto corridoio trasversale Tirreno-Adriatico. Le dodici stazioni del corridoio dislocate tra Irpinia, Sannio, Murge, funzionali alle ZES, si prestano in automatico ad interventi infrastrutturali mirati naturalmente adatti a rivitalizzare borghi e territori delle aree interne resi a quel punto organicamente complementari e funzionali attraverso la identificazione di aree Vaste, enclave da organizzare in Filiere Territoriali Logistiche (FTL) che si aggiungono a quelle già identificate (come ad esempio, nell’ area Torrese in Campania, nella Valle del Crati in Calabria, nell’agro metapontino in Basilicata) così da contrastare marginalità economica e degrado demografico. Promuovere la trasversalità Tirrenico-Adriatica apre dunque un ventaglio di rilevanti dinamiche di lungo periodo che vanno dalla creazione di un nuovo corridoio transeuropeo al quale potrà connettersi l’istituenda ZES sarda, determina l’avvicinamento tra i poli metropolitani consentendo una strategia di decongestione dell’ area metropolitana di Napoli e così mitigare l’ altissimo rischio vulcanico dei Campi Flegrei, configura con la concreta azione di recupero delle aree interne una fisiologica integrazione delle due principali regioni del Mezzogiorno continentale. A quel Quadrilatero, in definitiva, spetta il compito di rivitalizzare il perimetro logistico adriatico- ionico-tirrenico, ottimizzare la trasmissione degli impulsi dei distripark all’intero Sistema, essere forza motrice nel Mezzogiorno come protagonista che orienta, dà senso e contenuto all’ altrimenti fantomatica opzione euromediterranea. 14
Le autostrade del mare e la connessione mediterranea Nord-sud Il sistema delle ZES va sviluppato in un’ ottica evolutiva secondo una logica che oggi oltre e più che al concetto di Cluster rinvia alla strategia hirschmaniana di promuovere ben strutturati nuclei operativi, accumulatori di potenza finalizzati a determinare congrue reazioni a catena secondo il principio di una cosa che conduce ad un’ altra realizzando per gradi sequenze di un progetto di sistema secondo il principio che da pochi stimoli sia possibile valorizzare potenzialità latenti da sollecitare ed organizzare. Su questa linea il progetto di sistema va attivato, come suol dirsi, per mare e per terra. Sulla terra procede come detto un quadrilatero già domani esagono e poi ottagono governato nei territori assecondando vocazioni fin qui compresse liberate e stimolate dal supporto infrastrutturale delle connessione tra i territori: la Napoli-Bari, la diagonale Taranto Potenza, e – via ponte sullo stretto – la “Roma-Catania 3 ore30” dell’ alta velocità (quella vera!) e il mitico corridoio Berlino-Palermo. Sul mare il Progetto-Sistema provvede a garantire la realizzazione degli obiettivi di sostenibilità ambientale. Il ruolo dell’ Italia -perno del Mediterraneo- attiva l’ enorme potenziale di un inedito sistema di autostrade del mare che è possibile realizzare fidando sull’intera gamma di vettori delle nostre flotte tra le più consistenti al mondo e solidamente insediate nel Mezzogiorno. Dello sviluppo di questa rete logistica l’ Italia può essere l’ indiscussa regista e protagonista. Il sistema autostrade del mare rappresenta uno strumento essenziale di logistica a valore integrata alle ZES, al servizio di una efficace politica industriale che punta a promuovere in progressione esponenziale l’intermodalità ferro-gomma-mare sulle dorsali costiere Tirrenica e Adriatica con capo-porto a Catania con funzioni propulsive allo sviluppo delle direttrici di traffico intra ed inter mediterranee. Un progetto di immediata realizzazione Il vantaggio decisivo di un modello centrato sull’inedita integrazione per linee marittime intermodali è quello di essere un progetto di immediata realizzazione molto meno condizionare e potenzialmente idoneo ad avere notevoli impatti di sistema ottimali quanto a costi e di sicura efficacia di servizio che complementa il necessario consolidamento della rete ferroviaria che non potrebbe soddisfare neanche a regime e in tempi medio-lunghi le prospettive dei volumi che il Southern Range si ripromette di mobilitare. Mare e ferro debbono quindi concorrere al comune fine di fornire e consolidare un decisivo apporto produttivo ed occupazionale e corrispondere al contempo all’ urgenza di qualificare il Southern Range con l’ulteriore essenziale requisito di essere sostenibile e compatibile con gli obiettivi della decarbonizzazone, grazie al drastico crowding out del trasporto di lunga percorrenza su gomma. I vantaggi della transizione al modello-rete dei due Corridoi co-modali paralleli alle coste italiane, si possono immediatamente cogliere grazie alla sollecita operatività del mare agendo sul doppio fronte di una progressiva messa a norma dei porti e sul versante dei vettori mettere in esercizio navi traghetto di ultima generazione. L’ipotesi di un servizio che vede tra le 5 e 10 navi per corridoio comporta un costo totale di investimento compreso tra 700/800 mln€ e 1,4 mld€, adeguato a garantire un’alta frequenza delle corse e una scelta delle rotte porto-porto basata sull’alta frequenza e capace di sottrarre a breve-medio termine dal 20% al 30% del traffico pesante “tutto strada”. Rapportato all’ obiettivo UE del 2050 ciò conferisce al Southern range un enorme immediato vantaggio “statico” condizionato al razionale riorientamento dei traffici (transiti ed approdi) mediterranei da regolare secondo protocolli UE dettati per ottimizzare la specificità logistica. Il potenziale di innovazione complessiva socioeconomica e territoriale che le ZES rivestono è dunque ben superiore alla pur decisiva innovazione logistica che esse concorrono a realizzare. Esse contribuisce a mobilitare quella “rendita mediterranea” che la globalizzazione ha reso concretamente fruibile e che, finora l’ inerzia e assenza di visione strategica del Paese ha sperperato. La prospettiva di innovazione di sistema in cui le ZES si inseriscono comporta che esse non si limitino ad essere aree di “favore“ fiscale, strumento di politica industriale, ma assurgano alla dignità di veri e propri nodi territoriali che si connettono in una maglia fitta che attraversa i territori e li collega all’ interno e con il mondo secondo un razionale e naturale sviluppo di intermodalità e trasversalità . E’ 15
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