L'Unità fra le due guerre mondiali - Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia

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L’Unità fra le due guerre mondiali
Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia
A cura di Giuseppe Di Palo

Il 1861 segna per antonomasia, per la nostra Italia, la nascita di quella tanto decantata
unità nazionale che nel 2011 ci ha visto tutti, da Nord a Sud della Penisola,
protagonisti di solenni festeggiamenti e cerimonie.
Ma ancora oggi, nonostante 150 anni di “presunta” unità, continuano a verificarsi
fenomeni di divisione fondati spesso su immotivati elementi stereotipanti,
pregiudizievoli e di etnocentrismo che ben ricalcano la nota espressione “abbiamo
fatto l’Italia, ora occorre fare gli italiani”. Una lettura, questa, che potremmo definire
non solo storico-politica, ma anche culturale che va ad individuare la nascita “non
ufficializzata” della nostra identità di italiani.
Ripercorrendo la storia contemporanea in alcune delle sue più tragiche sfumature
possiamo evidenziare un primo verso sentimento di unità, di affezione al tricolore,
nel corso delle due guerre mondiali nelle quali la nazione si è, appunto, unita per
fronteggiare nemici di “oltre confine”. Un elemento, questo, che viene ben
enfatizzato in alcune canzoni popolati dove si può riscontrare che effettivamente,
prima del 1915, vigevano sentimenti di odio e di conflitto anche tra popolazioni
diverse ma tutte residenti nello Stivale. Ne è un esempio il testo del brano musicale
ripreso dall’artista Eugenio Bennato in merito ai Briganti della Basilicata (di cui va
ricordata la figura del “generale” Carmine Crocco, disertore dell’esercito di
Francesco di Borbone e combattente per la propria terra in nome della libertà
dall’oppressore ‘straniero’) nel quale si possono leggere in particolare strofe che,
rispettivamente, recitano: “e mo cantammo sta nova canzone, tutta la gente se l’adda
‘mbarà. Nun ce ne fotte do’ re Borbone, a terra è a nostra e nun s’adda tuccà” e “chi
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ha visto o’lupo se miso paura, nun sape ‘bbuono qual è a verità, o vero lupo cc’a
magna e criature è o piemontese c’avimma caccià” 1
Ritornando a parlare del nostro specifico argomento, notiamo che fu proprio quella
“grande guerra” (1915-1918) ad essere il primo grande, tragico, ma anche vittorioso
banco di prova del giovane Regno d’Italia. Erano forse in gran parte contadini che
all’alba dell’ultimo secolo del secondo millennio dell’era cristiana, lasciarono le
proprie case, i piccoli e poveri campi, gli armenti e, soprattutto, le proprie famiglie
senza custodia, per rispondere alla chiamata alle armi ed irrobustire le file di un
esercito forse per la prima volta veramente nazionale, che avrebbe dovuto difendere
un confine e degli interessi di uno Stato che ancora non percepivano interamente dal
punto di vista identitario, ma di cui ormai erano certamente figli.
Come ben sottolinea il docente dell’Università del Molise, Lorenzo Scillitani: “Il
1861 è un anno cruciale, che segna lo snodo fondamentale di un arco temporale che si
apre e si chiude con guerre: le guerre d’indipendenza, l’ultima delle quali viene fatta
coincidere simbolicamente con la Prima guerra mondiale. Dal 1861 al 1915 il
processo di unificazione della Penisola registra un’accelerazione senza eguali nella
storia d’Italia. In poco più di cinquant’anni genti per secoli divise ritrovano la loro
unità nel segno della Nazione italiana. Sentirsi italiani, da un capo all’altro dello
Stivale, ha significato per decenni condividere una medesima appartenenza
geografica, linguistica, spirituale. Avere una patria ha voluto dire, per gli Italiani del
Nord come per quelli del Sud, sentirsi parte di un medesimo destino storico. Il 1861
non può quindi essere ricordato senza il 1870, ma oggi, forse soprattutto, senza il
1915, senza una decisione, discutibile e controversa finché si voglia, ma gravida di
una conseguenza destinata ad incidersi per quasi un secolo nella memoria degli
Italiani: la percezione, oggi attenuata per motivi che ancora non hanno superato lo
scoglio della contingenza, non semplicemente di essere i componenti di una società,
plurale e diversificata per tradizioni, usi, inclinazioni quanto si voglia, ma, più al

1
          Trad. “adesso intoniamo una nuova canzone che tutta la gente dovrà imparare. Rinneghiamo il re Borbone, la
terra è nostra e non si deve toccare” e “chi ha visto un lupo ha avuto paura ma non conosce la verità, il vero lupo che
uccide i nostri figli è la razza piemontese che dobbiamo cacciare via”.
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fondo, di essere una comunità riconoscibile per suoi elementi distintivi. E’ questo il
grido che erompe dagli spiriti di coloro che caddero, martiri di una Unità che
l’esperienza dura, aspra e dolorosa delle trincee seppe costruire più di qualunque
discorso, più di qualunque epopea, più di qualunque riforma. L’Italia trova il suo
nome scritto nei nomi di coloro che diedero la vita perché essa vivesse, unita e
libera”.
Ogni luogo, ogni regione, ogni paese tende a ricordare i propri eroi e, ad attribuire
loro l’impegno di aver edificato questa nazione offrendo anche un sentito
riconoscimento per aver messo in gioco (e spesso perso) la propria vita in nome di un
ideale, quello della libertà. Troppo spesso, però, i nomi legati alla storia restano solo
quelli dei grandi personaggi ignorando ed escludendo quelli di persone semplici che,
forse più di figure note, hanno contribuito a realizzare non solo il sentimento di unità
del quale abbiamo avuto la gioia ed il piacere di festeggiare il 150enario, ma anche la
vera storia in sé. Riporteremo, di seguito, una breve rassegna stampa di storie,
racconti e testimonianze di “gente comune” su quello che è stato sì uno dei conflitti
più sanguinosi di tutti i tempi ma che, al contempo, si è dimostrato essere prima
scintilla di una consolidata unità.

CAMPOBASSO. Novantasette anni fa, il 24 maggio 1915, l’Italia entrava in guerra contro gli
Imperi centrali, gettandosi nella Prima Guerra Mondiale dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità in
Europa. Una data che è entrata nella Storia e che non è passata inosservata ai cittadini di
Campobasso, ai tanti che ieri mattina hanno preso parte, presso il sacrario militare del Castello
Monforte, alla celebrazione della Santa Messa in onore dei Caduti della guerra 1915-18. Fra loro
anche il presidente della Provincia di Campobasso, Rosario De Matteis che ha così commentato la
sua partecipazione all’evento: “Non ho voluto mancare ad un appuntamento sacro, legato al
rispetto della storia d’Italia, dei valori legati al conflitto mondiale, alla fede ed al rispetto dei tanti
Caduti, spesso giovani, che hanno perso la vita per l’Italia. E’ un segnale di vicinanza – ha
dichiarato De Matteis – ai defunti, alle loro famiglie che nonostante i decenni restano unite nel
ricordo lontano dei loro cari ed a loro va la vicinanza istituzionale della Provincia che ha il dovere
di ricordare e apprezzare il sacrificio altrui, per un’Italia ed un Paese diverso. E il Molise, come le
realtà meridionali, ha sempre pagato a caro prezzo il significato morale, economico, sociale di un
conflitto. Un prezzo che si è riversato sulle famiglie che hanno avuto la forza di reagire e di
costruire comunque una società moderna qual è quella odierna. Un grazie ancora ai soldati
molisani e a tutti coloro che hanno sofferto le amarezze e i lutti legati alle guerre mondiali”. (La
città s’inchina ai Caduti in Guerra, da Il Quotidiano del Molise del 25 maggio 2012, pag. 7).
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CAMPOBASSO. “Il 24 Maggio, ogni anno, io e la signora Ezia andavamo sui Monti lungo il Viale
della Rimembranza deponevamo un fiore ai piedi di ogni albero che ricorda un Caduto in Guerra “.
Con insofferenza ‘Teresenella’ portava il peso della vecchiaia. Intollerante, più nei confronti
dell’immobilità a cui essa la costringeva, che per gli acciacchi, spesso immaginari attraverso i quali
tentava di guadagnarsi un’attenzione di cui sentiva la mancanza. La sua mente, invece, volava
libera, senza costrizioni lungo i percorsi di una vita vissuta con pienezza, carica di ricordi che ad
alta voce amava rievocare. Se non fosse che quei racconti coglievano chi le stava accanto del tutto
impreparato o indisponibile all’ascolto, era come sfogliare un libro, o meglio un’intera
enciclopedia. “Adesso che sono quasi tutti morti, chi se la ricorda più la data del 24 Maggio e tutti
quei giovani i cui nomi sono affidati alla storia che non interessa più nessuno. Adesso i giovani
muoiono diversamente – ripeteva come parlando a se stessa – non per un ideale e lungo le vie
incontri croci che mani pietose adornano di fiori che si consumano al vento… sono i morti della
strada”. “Era un pomeriggio di fine inverno – prese a raccontare Teresa Di Ricco esprimendosi
attraverso un’architettura narrativa inconsueta in una donna nata contadina, sposata ad un artigiano,
divoratrice dei grandi classici della letteratura . Qui davanti – ricominciò a raccontare chinandosi in
avanti e spaziando con lo sguardo dalla finestra della sua camera da letto, oltre la siepe, fino a
toccare i pini di San Giovannello - lungo il tratturo erano ore che si vedeva una processione di gente
dirigersi su via porta Termoli, più su del mulino di Guacci. E che c’era la televisione allora che ti
diceva quello che stava succedendo? Eravamo in guerra, la prima guerra , e poco dopo si sparse la
notizia che dove adesso ci sono le Casermette era atterrato un aereo. La gente andava tutta in quella
direzione per vederlo. Anch’io ci sono andata. Il sole era quasi al tramonto e tingeva di rosso il cielo
sereno. L’aereo era lì bianco quasi traballante col motore acceso, tutto attorno i carabinieri avevano
fatto quadrato e la folla era tenuta a distanza. Un ufficiale dell’aviazione si staccò dal gruppetto di
persone su un lato di quel campo di atterraggio improvvisato e si avviò verso il veivolo, stava quasi
per salire quando una ragazza riuscì a sgusciare fuori dal recinto e percorse correndo lo spazio fino
                                       all’aereo. Il tenente giunto quasi in cima alla scaletta, bello,
                                       austero nella sua divisa da aviatore, si voltò, rimase per un
                                       attimo immobile mentre la folla attorno era ammutolita, poi
                                       scese di nuovo le scale e ai piedi del veivolo abbracciò la
                                       ragazza, sua sorella la signora Ezia Mastropaolo. Quella fu
                                       l’ultima volta che si videro, Rodolfo Calogero, suo fratello non
                                       tornò più. Ma da quel giorno io e la signora Ezia divenimmo
                                       amiche, un’amicizia durata tutta la vita”. (Ricordi e racconti di
                                       Teresenella, di Vittoria Todisco, da Il Quotidiano del Molise
                                       del 25 maggio 2012, pag. 7).

                                     ISERNIA. Quando mi è stato chiesto di scrivere una
                                     testimonianza, da pubblicare il quattro Novembre, in occasione
                                     della commemorazione dei caduti in guerra, pur trattandosi di
                                     ricordi affettivamente dolorosi, ho accettato molto volentieri.
                                     Anche perché penso che il mio “racconto” mostri le immani
                                     sofferenze che la guerra porta al suo seguito, con i suoi
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corollari di morte e distruzione, senza risparmiare niente e nessuno, nemmeno una terra piccola e
tranquilla come era il Molise di settanta anni fa. La storia che mi accingo a raccontare e quella che è
capitata mio nonno, che chiamerò solamente con la iniziale del suo nome G. , perché potrebbe
essere tristemente simile a quella di migliaia di persone che vissero, soffrirono e in molti casi
persero la vita durante il secondo conflitto mondiale. Mio nonno non era certo uno di quegli eroi
retoricamente intrepidi che si vedono in molti film di propaganda di guerra Hollywoodiani girati
durante o subito dopo la II Guerra Mondiale. Ciò nonostante, aveva avuto una vita notevolmente
movimentata ed avventurosa. Aveva combattuto durante la I Guerra Mondiale sul Piave rimanendo
ferito in un assalto alla baionetta. Congedatosi si era trasferito, pieno di belle speranze, a Tripoli in
Libia, dal 1911 colonia italiana, per trovare lavoro stabile. Ma purtroppo era dovuto rientrare in
patria ben presto, senza più il miraggio, propagandato dai governi di allora, delle colonie come fonti
di lavoro e possibilità di creazioni di notevoli fortune. Nel 1919 si era quindi arruolato nella
costituenda Regia Guardia, embrione di quella che è oggi la Polizia di Stato, i cui compiti erano
essenzialmente di mantenimento dell’ordine pubblico nel tumultuoso periodo successivo alla fine
della Grande Guerra dove, prima socialisti e comunisti da una parte, ed in seguito fascisti dall’altra,
manifestavano e si affrontavano duramente in scontri di piazza per rivendicare ed imporre la propria
visione politica. Il risultato fu che la Regia Guardia si attirò l’odio dell’una e dell’altra fazione
politica, nonché il sospetto razzista degli altri corpi di polizia, visto che questa era composta per la
maggior parte da meridionali. Il corpo fu quindi sciolto, improvvisamente, da un Regio Decreto nel
Gennaio del 1923, voluto fortemente da Mussolini, che vedeva in essa, per alcuni episodi
sanguinosi che avevano coinvolto Regia Guardia e diversi squadristi facinorosi, una forte e
pericolosa componente di opposizione al costituendo regime fascista. Molti componenti della
Guardia quindi, erano stati perseguitati, e in alcuni casi arrestati e processati, per essersi opposti allo
scioglimento che consideravano come iniqua imposizione. Così mio nonno era stato costretto a
nascondersi prima da dei parenti e poi a rifugiarsi nella più tranquilla Francia. Tornato in Italia,
quando le acque si erano ormai calmate, si era arruolato nel Corpo delle Guardie Carcerarie
(l’attuale Polizia Penitenziaria). L’inizio della II Guerra Mondiale, lo aveva colto quando era in
servizio presso il carcere di La Spezia. Nel 1941 era stato trasferito al Carcere di Poggio Reale a
Napoli. Ma dopo un pò di tempo la famiglia era stata costretta, a causa dei continui bombardamenti
che martoriavano quella città, a sfollare a Campobasso, rientrando nella loro terra di origine. Mio
nonno fece di tutto per riavvicinarsi ai suoi, e gli fu concesso il trasferimento proprio il fatidico (per
le sorti dell’Italia in guerra) 1943. Fu infatti trasferito al carcere di Isernia. Mio nonno si sentiva
finalmente soddisfatto, felice di poter stare a fianco ai suoi cari, e contento di ritornare nella sua
terra, che non aveva mai cessato di amare. Il 10 Settembre 1943 per lui era un giorno di servizio,
come tanti altri svolti in precedenza. Aveva preso il primo treno da Campobasso per Isernia e si era
presentato come al solito puntuale ed impeccabile nella sua divisa, sul posto di lavoro, come solo
una persona che aveva trascorso tanti anni sotto le armi, e al servizio dello Stato, era abituato a fare.
Iniziò le solite operazioni quotidiane, che si ripetevano sempre uguali le une alle altre, giorno dopo
giorno. La sveglia dei detenuti, l’appello, la distribuzione della colazione, e poi le voci di tutti i
giorni che riecheggiavano nei lunghi corridoi del carcere: “ Superiore oggi mi sento poco bene,
marco visita!”, “Superiore oggi questa sbobba fa più schifo del solito!”, “Fai silenzio! Se non ti va
di mangiarla nessuno ti costringe a farlo!”. Poi i rumori di sempre. Le porte delle celle che si aprono
e si richiudono pesantemente, il clangore dei cancelli che vengono aperti e sbattuti rumorosamente,
il tintinnare ritmico delle chiavi che urtano tra loro mentre le guardie camminano. Quel 10
Settembre era un venerdì, e ad Isernia era giorno di mercato. La gente vi si recava volentieri, ed in
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gran numero, perché lì si poteva trovare merce fresca che i contadini portavano dalle campagne.
Certo i prezzi potevano essere un pò alti, a causa del periodo bellico, ma c’era sempre il calmiere,
ed i controlli erano rigidi, e poi in fondo la roba era buona e un piccolo sforzo si poteva anche fare.
Il mercato si trovava proprio sullo spiazzo antistante al carcere, dove oggi sorge la villa comunale, e
quel giorno di Settembre di settanta anni fa quello spiazzo era pieno di acquirenti, di commercianti
e contadini, tutti indaffarati a comprare e a vendere. Il tempo sembrava volare, anche perché dopo la
pioggia dei giorni precedenti, c’era un bello e tiepido sole, e lo stare fuori casa era gradevole.
Inoltre poteva essere uno dei pochi giorni rimasti di bel tempo, prima che arrivasse l’inverno.
Questo sarebbe stato un lungo e freddo inverno di guerra. La gente di Isernia quindi usciva
volentieri di casa, le donne rimanevano sugli usci a fare i loro servizi più minuti, rammendare, fare
l’uncinetto o il tombolo, pelare le poche patate trovate al mercato per il pranzo. Sono le 10,18
quando da dietro i monti matesini, dove sorgono i paesi di Sant’Agapito e Longano, cominciano a
scorgersi le sagome inconfondibili di una squadriglia di bombardieri, che si avvicinano ad Isernia.
Sono trentasei B 17 del XII Bomber Command, decollati alcune ore prima dall’aeroporto alleato di
Foggia. In vista della città gli enormi bombardieri si dispongono a formare tre schieramenti. Il
rumore diviene man mano sempre più assordante e cupo. I vetri delle abitazioni iniziano a tremare.
La gente incuriosita, che era rimasta a casa, esce in strada per assistere a quell’imponente
spettacolo. Decine di stelle bianche, coccarde degli aerei statunitensi, si stagliavano nel cielo
azzurro e terso di quella bella mattinata di Settembre. Per molte persone che guardavano incuriosite
questo insolito cielo stellato in pieno giorno, sarà l’ultima cosa che vedranno nella loro vita.
Nessuno sospettava della tragedia che stava per abbattersi sulla piccola città. L’Italia aveva firmato
l’armistizio con le forze aglo-amenricane; lo aveva detto perfino la radio tre giorni prima l’ 8
Settembre. La guerra era finalmente finita per molti italiani. Doveva essere finita! Inoltre i Tedeschi
la notte tra l’ 8 e il 9 Settembre avevano lasciato le loro posizioni nella pianura di Pettoranello.
Quindi che pericolo poteva esserci? Mio nonno, che probabilmente parlava con un suo collega, si
fermò per un attimo. Il rumore dei motori dei bombardieri, che lui conosceva tristemente bene,
riempì l’intero edificio e rimbalzava sui muri e nei corridoi rapido ed assordante. Sono le 10,20.
Inizia l’Inferno. “Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava, fu dato potere
di togliere la pace dalla terra perché ci si sgozzasse a vicenda e gli fu consegnata una grande spada”
(Ap 6,4). Quando finì l’orrore dei fischi delle bombe in caduta libera, del boato delle esplosioni che
pareva moltiplicarsi all’infinito, e dei cumuli di terra e macerie scagliati per decine di metri in aria,
la zona compresa tra l’arco di San Pietro e il viadotto di Santo Spirito non esisteva più, come fosse
stata spazzata via dalla furia bestiale di un gigante. Tra il fumo e la polvere di quello scempio si
sentiva solo il lamento dei feriti e dei moribondi e il pianto e le urla dei sopravvissuti. Il carcere non
esisteva più. Al suo posto un cumulo di macerie e solo poche mura rimaste incredibilmente in piedi.
Sotto quelle macerie era rimasto mio nonno . Vivo, miracolosamente vivo. Lui non lo sapeva ancora
ma sarebbe stato l’unico sopravvissuto tra tutti i suoi colleghi e i detenuti. Il buio dov’era immerso,
sotto le macerie, era totale. La polvere che inalava gli toglieva il respiro e gli bruciava i polmoni.
Era immobilizzato, schiacciato con il fianco destro contro una trave. Ma non era solo! Un po’ più in
basso vi era il collega con il quale stava discutendo prima del crollo del carcere. Questi si
lamentava; mio nonno riuscì a prendergli la mano, non senza qualche difficoltà, e inizio a parlargli,
cercando di confortarlo, rassicurandolo che presto sarebbero arrivati i soccorsi a toglierli di lì. Mio
nonno confortò il suo collega per ore, mentre i lamenti di questi si facevano sempre più flebili. Poi
il silenzio orribile della morte. Quest’uomo aveva stretto la mano di mio nonno come se fosse
l’ultimo disperato legame che lo tenesse unito alla vita. Adesso, mentre questa lo lasciava
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lentamente, altrettanto lentamente lasciò andare tutto quello che era stata la sua vita, con i suoi
affetti, le sue storie, quello che aveva amato, e il suo anello matrimoniale scivolò nella mano di mio
nonno. Per tutto il tempo che rimase sotto quelle maledette macerie, mio nonno conservò
gelosamente quell’anello, stringendolo strettamente nel suo pugno, quasi fosse un tesoro
inestimabile. Il tesoro di tutto ciò che era rimasto di un altro uomo. Appena uscì da quella enorme
tomba, la prima cosa che fece fu quella di consegnare l’anello ai soccorritori, pregandoli di
consegnarlo alla sfortunata moglie del suo collega. Intanto la notizia della tragedia che si era
riversata su Isernia e che i morti e feriti erano tantissimi, era arrivata a Campobasso. Ciò fece
precipitare nella disperazione la famiglia di mio nonno. L’unica a non voler credere nel peggio, fu
mia nonna Elvira. Era sicura che il suo G. si fosse salvato. I lunghi anni di condivisione di una vita
non facile, e di sacrifici dovuti ai continui spostamenti che richiedeva il lavoro di mio nonno, non
potevano concludersi così orribilmente, con la morte del suo amato G. Caparbiamente l’11
Settembre incaricò il cognato, macchinista capo delle ferrovie, che faceva giornalmente la tratta
Campobasso-Isernia, di andare all’ospedale della città pentra, nella speranza che mio nonno fosse
stato portato lì, ferito. Ma le notizie che il cognato riportò a Campobasso, furono sconfortanti. La
città di Isernia era stata quasi completamente cancellata, e con essa il carcere. In più mio nonno non
era nell’elenco dei feriti ricoverati in ospedale. Ma mia nonna era una persona molto tenace, e per
alcuni versi anche dura. Contattò quindi un cugino di mio nonno, appartenente all’U.N.P.A.
(Unione Nazionale Protezione Antiaerea, questa organizzazione si occupava di incursioni aeree e,
per la prima volta, di prevenzione della popolazione sulle tematiche di sicurezza) in partenza per
Isernia per prestare opera di soccorso, perché si prodigasse per far intensificare le ricerche del
marito sotto le macerie del carcere. Mia nonna non poteva saperlo ma, verso il pomeriggio di quello
stesso 11 Settembre, mio nonno nel buio e nel silenzio di quella che gli appariva, ora dopo ora
sempre più la sua tomba, ad un giorno di distanza dal bombardamento, aveva sentito
improvvisamente dei rumori sopra di lui. Delle voci lontane. Erano i soccorsi tanto sperati.
Cominciò ad urlare a chiedere aiuto, a dire che era lì, proprio sotto di loro, ed infine lo udirono.
“Non preoccuparti! Adesso iniziamo a scavare, ma devi avere pazienza, dobbiamo fare piano
perché le macerie che sono sopra di te potrebbero crollarti addosso”. Poi iniziarono i tonfi dei
picconi e il grattare delle pale che si mischiavano alle preghiere di mio nonno, perché facessero
subito a tirarlo fuori di lì e cessasse, finalmente, quel dolore intenso che provava al fianco destro
schiacciato sopra quella dannata trave. Poi i rumori dello scavo cessarono improvvisamente, un
tramestio concitato si sostituì a loro, e una voce frettolosa gli disse che dovevano lasciarlo, perché
c’era una nuova incursione aerea, ma che sarebbero tornati subito appena cessato il
bombardamento. Ai rumori dello scavo, apportatori di sollievo per la salvezza, vicina, si
sostituirono quelli orribili, che toglievano letteralmente il fiato dalla gola, delle esplosioni delle
bombe che ricominciavano a cadere sulla città martoriata. Mio nonno immobilizzato, non poteva
neanche turarsi le orecchie per non sentire. Poteva solo urlare le sue preghiere sempre più forte
perché coprissero il rumore delle esplosioni. I soccorsi furono di parola, appena cessata l’incursione
tornarono a lavorare sulle macerie del carcere. Lavorarono tutta la notte alla luce delle lampade e la
mattina del giorno dopo. Erano verso le 10,00 del 13 Settembre 1943, quando finalmente
raggiunsero mio nonno e lo cacciarono da quella che, per ben 48 ore, era stato il suo sarcofago
funerario. In quel momento sembrava rinascere a nuova vita. Quando gli dissero che nessuno dei
suoi colleghi era sopravvissuto, come nessuno dei detenuti, e che lui era una sorta di miracolato,
mio nonno pianse, pianse amaramente, come non aveva più fatto da quando era ragazzo. In quel
momento iniziò anche la sua partita a scacchi con la morte, a cui era sfuggito quel maledetto 10
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Settembre 1943, ma che continuò a seguirlo, come ombra angosciosa, instancabilmente, per il resto
della sua vita. Ciò mi ha sempre impressionato notevolmente, e mi ha fatto venire in mente quel
famoso film del regista svedese Ingmar BERGMAN “Il Settimo Sigillo”, in cui i due protagonisti il
Cavaliere e la Morte si affrontano in un interminabile partita a scacchi, la cui sconfitta per il
cavaliere, avrebbe significato perdere la vita. Mio nonno fu portato all’ospedale, aveva qualche
contusione, diversi graffi e zoppicava visibilmente per il trauma da schiacciamento alla gamba
destra. Ma era vivo e più che mai attaccato alla vita. In quell’ospedale non si sentiva sicuro. Aveva
timore per un nuovo bombardamento. Lui che era stato a Napoli martoriata dalle continue
incursioni aeree, conosceva bene la strategia dei bombardamenti degli Alleati. Duravano
consecutivamente per diversi giorni, e nella maggior parte dei casi, avvenivano sempre nelle stesse
ore. Decise quindi di lasciare l’ospedale per tornare subito a Campobasso in treno, visto che la
linea, nonostante le incursioni, era sempre agibile. Semi svestito, si
mise una coperta sulle spalle e si avviò verso la stazione ferroviaria. Il
camminare con quella gamba malandata, in quello che rimaneva delle
strade di Isernia, ingombre di macerie e tempestate dalle buche delle
bombe cadute, era una vera tortura. Ma tenacemente si trascinava
avanti. Il suo unico pensiero era quello di tornare a casa dai suoi cari
per dire che era vivo. Improvvisamente alle sue spalle sentì una voce
con chiaro accento tedesco: “Hei! Nonno, dove andare così!?”.
Girandosi, vide che si trattava di due giovani soldati tedeschi di
pattuglia a bordo di un sidecar. Il loro viso mostrava stupore per
quell’uomo lacero, ancora sporco di polvere, ed affaticato dal continuo
zoppicare, che si trascinava a stento verso chissà quale meta. Mio
nonno, non senza qualche timore verso i soldati tedeschi che da sempre
vantavano la reputazione di non essere troppo docili nei modi e
sospettosi, spiegò loro brevemente che voleva raggiungere la stazione
per tornare a Campobasso, dalla famiglia che lo credeva sicuramente
morto dopo due giorni di silenzio. I due ragazzi in divisa non persero
tempo, fermarono un carretto che stava passando di lì in quel
momento, e con fare sbrigativo imposero al carrettiere di portare quel
poveretto alla stazione. Non paghi di questo, seguirono il carretto con il
loro sidecar fino a destinazione, per essere sicuri che il carrettiere, a
dire la verità un po’ riottoso di fronte a quella imposizione, non
lasciasse il suo passeggero via facendo. Poi, rassicurati, sorrisero,
fecero un cenno di saluto al loro protetto e scomparvero a tutta velocità con il loro mezzo, senza
dire niente, senza che mio nonno riuscisse neanche a ringraziarli delle loro attenzioni. Questo fu
forse, uno dei pochi atti di pietà in tutta quella immane tragedia fatti da dei soldati, e per di più da
soldati tedeschi, già divenuti, ormai, i nuovi nemici del nostro Paese. Ciò, rende ancor più
encomiabile questo loro gesto. L’amore per il prossimo non fa differenza di bandiere, anche nel bel
mezzo di una guerra sanguinosa e spietata. La bontà Divina, nonostante gli orrori e l’odio, riesce
sempre a soffiare nel cuore degli uomini il suo fuoco inestinguibile, più forte e potente di quello di
mille cannoni. Mio nonno quella sera riuscì a riabbracciare i suoi cari e l’adorata moglie, che non
aveva mai creduto di averlo perso. Isernia fu bombardata di nuovo il pomeriggio di quel 12
Settembre, e stavolta fu colpito anche l’ospedale. Le incursioni sulla città continuarono ancora, il 15
Settembre ed il mese successivo dal 3 al 7 Ottobre. I morti alla fine dei bombardamenti furono 489,
L'Unità fra le due guerre mondiali - Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia
secondo l’ultimo attendibile censimento. I motivi del perché di quello spietato bombardamento del
Settembre del 43’, non sono mai stati completamente chiariti. Nell’ ”USAAF Chronology: Combat
Chronology of the US Army Air Forces” alla data di Venerdì 10 Settembre 1943, si legge di un
attacco di bombardieri su Isernia, che doveva colpire strade, edifici, la linea ferroviaria e le
attrezzature ferroviarie. Nel 1960 alla città di Isernia fu conferito, per il suo sacrificio in vite umane
e per le distruzioni subite dai bombardamenti alleati, la medaglia d’oro a valor civile. Per mio
nonno il suo calvario era appena iniziato. Ricoverato all’ospedale di Campobasso per i problemi
alla gamba destra, fu trasferito, senza che fosse data notizia di ciò ai parenti, in quello di Modugno.
Infatti il Comando Alleato di Campobasso aveva deciso di sgombrare l’intero ospedale per far
spazio ai propri feriti. Per mia nonna si riaprì di nuovo quella che sembrava essere una angoscia che
non trovava fine. Non fu semplice riuscire a reperire le informazioni dagli Alleati, nel caos generale
che avevano provocato con quei repentini trasferimenti. Alla fine seppero che mio nonno si trovava
a Modugno. Mia nonna fu costretta, per la terza volta, ad interessare un altro parente che prestava
servizio militare a Bari, perché lo aiutasse nelle sue necessità. Purtroppo la gamba, ormai andata in
cancrena, gli fu amputata completamente. Nonostante tutta questa dolorosa avventura, mio nonno
visse ancora per diversi anni. Perse la sua partita a scacchi con la morte l’undici ottobre 1959 a
causa dei postumi dell’amputazione. Io purtroppo non sono riuscito a conoscere mio nonno G., ma
tutto quello che ho raccontato l’ho appreso da mia madre, che a tanti anni di distanza, ormai, da
quei tristi avvenimenti, a doverne parlare non riesce ad evitare che gli occhi le si inumidiscano
ancora di lacrime. (Storia di G., di Roberto Severino, da Il Quotidiano del Molise del 4 novembre
2010, pag. 2 e 3) .

Il periodo compreso tra il 1914 ed il 1945, inoltre, si può intendere come un insieme
unitario poiché si ritiene che la seconda guerra mondiale sia stata una conseguenza
della mancata risoluzione della prima. Il conflitto nato dal seme dell’odio del
fascismo e, ancor di più, del nazismo, ha portato gli italiani a stringersi ancor di più
alla propria bandiera, alla propria gente, partorendo una viva coscienza di identità
collettiva forgiata a partire dalla contrapposizione al nemico tedesco.
E proprio di quest’ultima pagina buia della nostra storia possiamo trovare ancora
testimonianze dai diretti protagonisti di quegli orrori vissuti, purtroppo, sulla propria
pelle. Collaborando con la testata locale “Il Quotidiano del Molise” ho potuto
incontrare molti dei superstiti della guerra, dei lager nazisti ai quali lo Stato ha deciso
di attribuire alti riconoscimenti.
L'Unità fra le due guerre mondiali - Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia
CAMPOBASSO. Gesta, spesso ignorate, che vedono persone comuni protagoniste di atti di puro
eroismo; storie che rivivono solo nei racconti familiari trasmessi a figli e nipoti stretti intorno al
tepore del focolare nelle fredde giornate invernali. Eventi che però, sono stati resi pubblici nel
pomeriggio di ieri, in un’atmosfera solenne, nella sala consiliare della Prefettura di Campobasso
dove, fra le pareti ed i soffitti affrescati con antichi dipinti e con il sottofondo musicale ad opera del
maestro Fabio De Simone, dodici eroi italiani (chi presente e chi rappresentato dai propri familiari)
hanno ricevuto per mano del Prefetto di Campobasso, Stefano Trotta altrettante medaglie d’onore
concesse dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ai cittadini, militari e civili, deportati
ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra. Quando, poi, nella
sala comincia a sentirsi un leggero brusio, la luce si attenua e la magia del rito si compie.
Documenti e memorie di quegli anni cupi, fatti di odio e violenza, reinterpretati dalla retorica
dell’attrice Mena Vasellino, hanno fatto breccia nel cuore dell’intero uditorio. La luce tiepida si
riflette negli occhi lucidi dei presenti, e lo sguardo dei veri protagonisti di quegli episodi è rivolto
alle labbra trepidanti della lettrice,quasi a voler anticipare il racconto di quegli orrori vissuti sul
proprio corpo. La commozione apparsa sui volti di tutti i presenti all’evento si alterna con la gioia
dei diretti protagonisti di aver rincontrato gli amici di una volta, coloro con i quali si sono unite le
forze per affrontare e superare quella che è stata, forse, la pagina più buia della storia dell’umanità.
“Ciò che è successo in passato – ha dichiarato Trotta rivolgendosi ai giovani presenti in sala – non è
l’opera di un folle, ma dell’uomo in senso lato, un uomo in grado di fare del male. Bisogna,
pertanto, trovare i filtri giusti affinchè tali scempi non accadano più”. “Un’occasione – le parole del
vice presidente del Consiglio Regionale, Antonio Pardo D’Alete – per onorare non solo i veri eroi
di questo evento, ma per educare le future generazioni a viaggiare nella giusta direzione”. “Il
bisogno di non dimenticare – ha spiegato il presidente del Consiglio Provinciale, Carmine Perugini
– si ancora alla motivazione di sopprimere l’odio e di professare il lato civile dell’essere umano”.
Presenti all’evento anche il senatore Aldo Biscardi, il vice sindaco di Campobasso Giuseppe
Cimino, i sindaci dei comuni di Portocannone, Campodipietra, Gambatesa, Casacalenda, Riccia,
Ripabottoni, Mirabello Sannitico, Montefalcone nel Sannio ed illustri esponenti dell’arma e del
mondo militare. Una solenne cerimonia, dunque, che attraverso un semplice pezzo di metallo ha
voluto onorare il nome di dodici eroi molisani ai quali la Patria porge i suoi più sentiti
ringraziamenti. (Shoah, onore agli eroi molisani, di Giuseppe Di Palo, da Il Quotidiano del Molise
del 28 gennaio 2011, pag. 5).

SEPINO. “Un’occasione per dire grazie a tutti coloro
che si sono prodigati per rendere grande la nostra Italia”.
E’con queste parole che il sindaco di Sepino, Filomena
Zeoli, ha introdotto la cerimonia di consegna delle
medaglie d’onore a diciotto cittadini, militari e civili
deportati ed internati nei lager nazisti, e delle otto
Onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica
Italiana”. All’evento, svoltosi ieri presso il teatro romano
ubicato nel cuore del sito archeologico di Altilia, hanno
preso parte il Presidente della Regione Molise, Michele
Iorio, il Prefetto di Campobasso, Stefano Trotta, il
Presidente della Provincia, Rosario De Matteis, il
Rettore dell’Università del Molise, Giovanni Cannata, i
sindaci di diversi comuni molisani e diversi esponenti
del mondo ecclesiastico e militare tra cui monsignor
Teti, il Colonnello Bernardino Spensieri dell’Esercito
Molise ed il Generale dell’Arma dei Carabinieri Gianfranco Rastelli. “Ringrazio il Molise – le
parole di Trotta – e spero, a quasi un anno dal mio insediamento in questura, di aver ricambiato e
poter ancora ricambiare l’ospitalità di questa terra. Un Prefetto da solo non è nulla se non ha al suo
fianco validi collaboratori, così come una Nazione non è tale senza il contributo di grandi uomini”.
A chiudere l’evento una rilettura recitata e cantata del periodo risorgimentale a cura del coro Quod
Libet diretto da Vincenzo Lombardi. “La scelta del luogo – spiega Iorio – non è casuale in quanto
Altilia è un simbolo d’identità della nostra regione. Un grazie va al Prefetto che ha sempre saputo
esaltare le qualità del Molise”. (Il ‘grazie’ del Molise agli eroi della guerra, di Giuseppe Di Palo, da
Il Quotidiano del Molise del 3 giugno 2011, pag. 3).
TERMOLI. La storia non è fatta solo da grandi
                                            personaggi, i cui nomi compaiono spesso e volentieri sui
                                            libri di scuola. Ciò che in molti non sanno ed ignorano è
                                            che la storia, quella vera, viene costruita quotidianamente
                                            da chi meno te lo aspetti: i propri nonni, i vicini di casa,
                                            gli amici di famiglia, il bottegaio, un semplice studente
                                            laureato in medicina veterinaria... È la vita di quest’ultimo
                                            che oggi andremo a raccontare, a venti anni esatti dalla
                                            sua scomparsa. Stiamo parlando del dott. Antonino Luigi
                                            De Sanctis, un eroe molisano , schivo, umile ma molto
                                            amato dai suoi conoscenti e familiari. Il contributo del
                                            signor Antonino per la costruzione del nostro Paese è
                                            stato enorme, in quanto, senza batter ciglio, ha prestato
                                            anima e corpo per difendere i confini nazionali nel corso
                                            della seconda guerra mondiale. Ma partiamo dall’inizio.
Dopo essersi iscritto nel 1940, all’età di diciannove anni, al corso di laurea in chimica industriale a
Bologna, viene subito chiamato sotto le armi. Il 7 luglio 1943, a soli ventidue anni, salpò da
Brindisi alla volta del Pireo, dove si trovò coinvolto nel conflitto della cosiddetta “scacchiera
mediterranea”. Successiva tappa del suo viaggio fu Rodi, dove, purtroppo, il 24 Agosto 1943 il
giovane Antonino fu catturato dai tedeschi ed internato in Germania l’8 settembre. In quei giorni,
inoltre, andava frantumandosi l’alleanza Italo-tredesca. Pertanto, l’esercito nazista cercava di
costringere i soldati italiani deportati nei campi di concentramento a schierarsi tra le file tedesce
combattendo contro i propri connazionali. Ma la risposta del protagonista della nostra storia fu un
secco “no”. Ciò portò la consapevolezza nella mente di Antonino a prepararsi a pagare le
conseguenze della sua coraggiosa azione. Due lunghi anni di schiavitù in cui patì la fame e la sete
subendo forti umiliazioni da quegli uomini che sembravano non nutrire alcun sentimento di
compassione e di pietà. Ad aggravare ulteriormente le condizioni di vita di Antonino fu una malattia
conseguita dall’aver mangiato una pagnotta andata a male, scambiata furtivamente col proprio
cintolone. Fortuna volle che nella camerata del nostro malcapitato giovane vi fosse un prete italiano
che, con amore e premura, procurandogli “sottobanco” latte fresco, riuscì a curarlo dal suo male.
Nel 1945, Antonino ed i suoi compagni di disavventura fuggirono da quell’inferno fatto di lavori
forzati e maltrattamenti continui. Giorni di cammino ininterrotto per allontanarsi il più possibile dal
campo di concentramento, tra fiumi, boschi, valli, sentieri rocciosi. Non rendendosi conto di essersi
allontanato dal gruppo, il nostro Antonino si ritrova da solo in un’immensa radura, guardandosi
intorno per capire dove fosse e per scorgere qualche traccia di civiltà. Come dal nulla, Antonino
vede da lontano una fanciulla vestita di bianco, con tanto di pellicciotto e cappuccio abbinati. “Dove
vai?” chiese in tedesco la giovane. “Non lo so” rispose Antonino “Ma dove sono?”. “Sei in Polonia”
rispose nuovamente la ragazza che, guardando il volto smagrito di Antonino, gli disse
amorevolmente “Vieni con me”. La giovine condusse l’affaticato ed indebolito Antonino a casa
propria dove, insieme a tutta la sua famiglia, provvedette a rifocillare il malcapitato e ad assicurargli
un nascondiglio. Dopo un mese di permanenza presso l’abitazione polacca, Antonino riesce a
tornare in Italia, recandosi presso il Comando Militare di Pescantina in provincia di Verona. Era il 6
ottobre 1945. Una persona speciale – così come lo ricordano la moglie Franca e gli amici - in grado
di farsi amare e voler bene. Il signor Antonino Luigi De Santis, nato il 3 settembre 1921, ha lasciato
un profondo segno nella storia del nostro Paese e nella vita di tutti coloro che hanno avuto il piacere
di incontrarlo, fino allo spiacevole giorno della sua morte, il 15 giugno del 1991. Il 2 giugno 2011
ha ricevuto, per concessione del Presidente della Repubblica, la medaglia d’onore alla memoria. In
questo decennale dalla sua scomparsa, con questa storia, si intende dare testimonianza dell’operato
di grandi ma semplici uomini, invitando le giovani generazioni a riflettere su quanto è stato fatto dai
propri “coetanei dell’epoca”. Un grazie va, dunque, al signor Antonino ed a tutti quegli eroi che
sono rimasti nell’ombra, i quali ci hanno permesso, oggi di vivere in un mondo migliore, ma che ha
ancora molta strada da fare. (Antonino De Santis, eroe molisano, di Giuseppe Di Palo, da Il
Quotidiano del Molise del 15 giugno 2011, pag. 22).

CERCEPICCOLA. “Una comunità non può pensare di vincere le sfide culturali, sociali, economiche e
morali che il progredire della storia le pone innanzi se non ha un’identità forte, consapevole e
matura che affonda le proprie radici nel terreno dei valori, dei principi, del comune sentire degli
antichi avi e, quindi, degli eventi di cui, consapevolmente o inconsapevolmente, furono autori”. E’
così che il sindaco di Cercepiccola, Michele Simiele, ha aperto sabato 5 novembre la cerimonia di
commemorazione dei caduti di tutte le guerre, a novantatre anni dalla conclusione del primo
conflitto mondiale. “E’giusto festeggiare questo evento nel migliore dei modi – ha dichiarato il
primo cittadino – per dare omaggio a tanti eroi comuni che hanno dato la vita per i propri cari e per
far si che la nostra Italia potesse essere libera e sempre più unita”. L’evento ha visto l’attiva
partecipazione dei bambini delle scuole materna ed elementare di Cercepiccola i quali, dopo aver
intonato l’inno di Mameli, hanno esposto al pubblico i propri lavori preparati per l’occasione. Il
corteo si è spostato, poi, da Piazza Unità d’Italia a Piazza della Repubblica dove è stata posta una
corona d’alloro dinnanzi al monumento dei caduti. “Sia la chiesa che il mondo civile – spiega il
parroco della comunità, Giovanni Tramontano – hanno propri Santi ed Eroi. E’ bello ricordare e
rendere omaggio a chi ha dato la vita per il bene dei propri cari ma anche rammentare l’impegno
che tanti soldati e tutti i componenti delle forze dell’ordine quotidianamente elargiscono nel nostro
piccolo grande mondo per assicurare pace e serenità” […]. (Onore e gloria agli eroi di tutte le
guerre, di Giuseppe Di Palo, da Il Comune di Cercepiccola Informa del 11 novembre 2011, pag. 1).

SAN BIASE. Quando nel 1995 nonno morì io ero troppo ragazza e, sicuramente, con ben altri
interessi. Forse se avesse avuto accanto a sé un nipote le sue memorie sarebbero state salvate per
essere tramandate ai posteri. Luigi de Paola, classe 1911, viveva nella sperduta provincia del regno
                                                              d’Italia. All’epoca, però, i paesi
                                                              dell’entroterra erano ancora molto
                                                              popolati e quasi autosufficienti. San
                                                              Biase, che oggi conta 215 anime,
                                                              nell’anno di nascita del nonno aveva
                                                              1171 residenti. Luigi conseguì
                                                              probabilmente almeno la licenza
                                                              elementare. Di sicuro sapeva scrivere
                                                              qualcosa oltre alla sua firma, visto
                                                              che dietro a tutte le fotografie ha
                                                              vergato di suo pugno un commento a
                                                              ricordo dell’immagine immortalata.
Nel 1933 si allontanò dal Molise, una foto testimonia la sua presenza a Pisogne in provincia di
Brescia. Era lì per assolvere alla ferma di leva. Nel 1935-36 era in Africa per conquistare l’impero!
Come mai sia finito a combattere contro il Negus non lo so, forse fu reclutato come militare in
servizio o forse fu irretito dall’idea di un guadagno economico. La paga sicuramente era più
appetibile di quanto si riuscisse a ricavare dal duro lavoro nelle campagne del paese. Dubito si sia
trattato di una scelta ideologica, poiché nei tanti anni di successiva convivenza non ha mai lasciato
trapelare le tendenze di un “credo”. Non mi ricordo che abbia mai parlato di politica e solo di rado
gli capitò di nominare Mussolini. Lo faceva nel suo dialetto eliminando quasi tutte le vocali, per cui
il risultato finale era “Msslin” ed era per rammentare la visita del capo del fascismo nelle colonie
appena conquistate: il duce si era recato a salutare le truppe vittoriose. Penso che il nonno non si sia
mai reso conto delle atrocità ordinate da Badoglio e Graziani per concludere al più presto il
conflitto, gareggiando tra loro nel tentativo di arrivare l’uno prima dell’altro ad Addis Abeba. Non
posso assolutamente credere che lui così affettuoso con figli e nipoti si sia potuto macchiare di atti
criminali. E’ vero che la guerra trasforma gli uomini in bestie, ma dal tono dei suoi racconti e dal
tenore delle fotografie non ho motivo di dubitare della sua onestà morale. In quanto donna la mia
visione del mondo non è certo quella bellicosa e prevaricatrice dei “maschietti”. Che si voglia
ammettere o no siamo inguaribili sognatrici e poco ci affascina il mondo guerresco. Dalle immagini
lasciateci in eredità, quale ricordo della “sua guerra”, l’idea che mi sono fatta è di un’avventura in
stile salgariano, in cui si andava alla scoperta di nuove e misteriose terre. Penso sempre alla
condotta più cavalleresca del vecchio quadrunviro De Bono, che tra le prime decisioni assunte sul
territorio abissino conquistato procedette alla liberazione degli schiavi ed all’abolizione della
schiavitù. Quella spedizione, che coinvolse i giovani dell’epoca, rappresentava forse l’unico modo
per vedere altre società. Insomma… arruolatevi e girerete il mondo! Non può passare in secondo
piano la retorica dei tempi e la propaganda di regime che generarono il mito dell’impero. Negli anni
trenta del XX secolo, ad un venticinquenne di paese, doveva sembrare un’esperienza affascinante la
visione di un continente così esotico, abitato da popoli conosciuti solo attraverso i libri, a contatto di
conturbanti bellezze ben lontane dai canoni europei. Senza tralasciare la flora e la fauna
completamente diverse dalle nostre. Sono certa che nonno Luigi abbia stretto amicizia con
commilitoni di “buona famiglia” o che sia stato preso a ben volere da qualche graduato. Ciò
spiegherebbe le numerose fotografie. Certo un povero contadino, qual lui era partito, non avrebbe
potuto permettersi una macchina fotografica o pagare un fotografo. In tal maniera è riuscito a
conservare un ricordo visivo di quella esperienza unica ed irripetibile. E’ vero, era un’operazione
militare, ma dimenticando (se possibile) per un attimo che si uccideva e si rischiava la vita,
sembrano quasi divertenti le espressioni goliardiche dei giovani avventurieri. Luigi tornò
sicuramente cambiato! Non è da escludere che abbia vissuto eventi tragici e sconvolgenti. Qualcosa
lo rendeva diverso dai suoi compaesani. L’aver condiviso paure, entusiasmi ed amarezze con i
compagni di “trincea” non sono elementi trascurabili. Avrà visto la morte in faccia? Avrà causato la
morte di qualche essere umano? Avrà raccolto le ultime parole di un commilitone morente?
Contrariamente ai suoi amici rimasti in Molise, determinante per la sua crescita personale, è stato
l’aver vissuto gomito a gomito con coetanei provenienti da altre regioni e di differente estrazione
sociale. Con un bagaglio di esperienze così ricco ed incomprensibile per gli altri, tornò a fare il
contadino. Era un guerriero vittorioso e l’essere stato artefice della conquista delle tanto enfatizzate
colonie, suscitava invidia ed ammirazione in tutti coloro che avrebbero voluto interrompere la grigia
routine della provincia. I suoi racconti saranno stati considerati al pari di romanzi, prima di
comprendere che quella era stata una vera e propria follia, le cui conseguenze condizionarono non
poco le future scelte politiche e
diplomatiche dell’Italia . Una scheggia
conficcata in un occhio fu il suo
salvacondotto per la guerra 1940-1945.
Un conflitto di ben diverso tenore.
Penso che alla base delle esternazioni
causate dalla malattia, che infelicitò gli
ultimi anni della sua esistenza, ci
fossero anche i traumi segreti della
campagna d’Africa. Nel vederlo tornare
dai campi insieme a Rosina, la sua fida
asina, nella mia fantasia di bambina, era l’eroe che rivedeva casa dopo un lungo esilio. Mi sono
sempre chiesta se la frase scritta sul retro di una fotografia ”piccolo ricordo vicino alla mia tenda -
battaglia dello Scirè, in Eritrea, marzo 1936” fosse il commento nostalgico per l’epopea che
terminava o la disperata testimonianza del suo anelare la casa natìa. Comunque partecipò ad un
degli scontri più cruenti e determinati per l’esito finale della Guerra d’Etiopia. Tra uomini in divisa,
mezzi corazzati, belle abissine e faccette nere, qualcosa di nonno Luigi è, purtroppo, rimasto nel
continente nero: la sua innocenza e la sua serenità. (Un contadino alla conquista dell’Impero, di
Sabrina de Paola, da il quotidiano del Molise del 5 novembre 2010, pag. 2 e 3).

CAMPOBASSO. La cartolina di precetto giunse ai nati nel 1921 prima di quelli del 1920.
Restammo stupiti, ma non più di tanto, sapevamo che la Patria aveva bisogno di noi! Iniziai la
guerra in Grecia, il paese che avevamo invaso. Quando sfilavamo per le strade dei centri ellenici le
vecchiette, vestite di nero e con i grembiuli stretti ai fianchi, mi facevano pensare alle nostre nonne
in Molise. La sensazione era molto strana: sembrava proprio di aver occupato casa nostra. Nel 1943
ero in forza alla Guardia di Frontiera prestando servizio in Slovenia. Oramai noi ufficiali avevamo
compreso che l’Italia non poteva più continuare una lotta divenuta impari. Quando ci giunse
l’ordine di controllare i movimenti dei tedeschi capimmo che si era all’epilogo. Fu allora che, per la
prima volta in vita mia, bestemmiai: era la sconfitta e dovevamo accettarla! Più volte mi è stato
chiesto se, quando fu proclamato l’armistizio, ci fossimo sentiti abbandonati dal nostro Re. Mentirei
se dicessi che la resa si poteva evitare. Non era più possibile continuare a combattere, non avevamo
più i mezzi per farlo! Il re doveva a tutti i costi salvare lo Stato e la corona. Probabilmente ha
sbagliato il modo, ma sicuramente ha ottenuto il risultato. Comunque con la caduta di Mussolini,
nel luglio 1943, era apparsa chiara la fine di un’epoca…la nostra. Con quella seduta del Gran
Consiglio il fascismo si era suicidato. Fino a quel giorno in Italia tutto era infarcito di fascismo! I
maestri vestivano la camicia nera, i preti salutavano romanamente ed in ogni casa c’era il quadro
del duce (fermo restando le tante eccezioni). La forte propaganda del regime aveva allevato una
generazione entusiasta, animata da certezze, pronta ad un’obbedienza cieca ed assoluta. Però
sarebbe più corretto dire che eravamo mussoliniani, affascinati dal carisma del capo e da ciò che le
sue scelte socio- politiche ci avevano lasciato credere. Penso sia giusto ammettere che eravamo
pervasi non tanto da sentimenti patriottici, quanto da una strana forma di nazionalismo che nasceva
anche dal nostro campanilismo di provincia. Insomma quel che temevamo a mesi si concretizzò nel
settembre 1943. I tedeschi erano ben armati e mal disposti verso gli ex alleati, che giudicavano, a
tutti gli effetti, dei traditori. Non eravamo assolutamente in condizioni di combattere. Ingaggiare
scontri a fuoco significava farsi trucidare. In quel frangente un ufficiale non può mandare al macello
i suoi uomini. Con che diritto potevamo decidere per i soldati a noi affidati? Il nostro compito era di
salvare le loro vite… gli atti di eroismo gli avremmo poi compiuti singolarmente, rispondendo in
prima persona delle nostre scelte e con la nostra vita. A Gradisca d’Isonzo fummo catturati da
truppe della Wermacht. Il mio “tour” a spese del “Reich”si è svolto in svariati campi di prigionia ed
uno dei primi fu Sieldce in Polonia. Eravamo una cinquantina di ufficiali, rinchiusi in più baracche.
Quando ci portavano all’esterno, per la conta giornaliera, cercavamo di proteggerci dal freddo con i
logori vestiti e con stracci recuperati qua e là. Lo scopo di tale operazione non era di verificare se
fossimo ancora tutti presenti, quanto di debilitarci ed avvilirci, trattenendoci ore ed ore alle
intemperie. Bisognava stremarci e demoralizzarci affinché accettassimo di aderire alla costituenda
Repubblica Sociale Italiana. Il primo giorno di tempo buono ci liberammo dagli indumenti in
eccesso ed alla luce del sole potemmo finalmente vedere i prigionieri delle altre baracche, che fino
ad allora erano stati solo delle sagome indistinte. Fu in quel momento che ebbi modo di riconoscere
amici e compagni di studi, tra cui Carletto Carambois, che era già una stella del calcio
campobassano. Egli era nato a Villar Perosa, la sua famiglia si era trasferita a Campobasso
seguendo il padre, giunto in Molise per lavoro. Con Carletto mi ritrovai ancora a condividere
“l’ospitalita germanica” a Sandbostel nei pressi di Brema. La Convenzione di Ginevra stabiliva che
i soldati prigionieri lavorassero, guadagnandosi il rancio, mentre agli ufficiali era riservato un
trattamento di privilegio che li esimeva dal lavoro. Ai militari italiani furono riservati i lavori più
umili e duri, sempre per il totale disprezzo che i tedeschi nutrivano verso di noi, ma per il profondo
rispetto che portavano allo spirito di casta militare la “Convenzione” veniva applicata per i graduati.
Agli ufficiali I.M.I. (Internati Militari Italiani), quindi, venivano concessi degli “svaghi” attraverso
l’uso di strumenti musicali o palloni. Per questo fu possibile organizzare un torneo di calcio tra
squadre di varie regioni. Nella compagine Abruzzo-Molise giocava Carletto Carambois. Non
rammento chi fosse l’avversario, ma ricordo che vincemmo realizzando 6 o 7gol. I nostri carcerieri
si lasciarono coinvolgere ammirando quel ragazzo lacero che, pur se gravemente debilitato dalle
privazioni della prigionia, correva, calciava, dribblava, segnava… giocando con classe e passione. -
Un altro episodio che mi preme rammentare è l’incontro con mio padre. Ero ancora a Sieldce. Per
un fortuito caso lessi la rivista di propaganda fascista “La voce della Patria”. In essa vi era una
rubrica di “ricerche” e scoprii che mio padre, capitano del regio esercito, chiedeva notizie di suo
figlio Michele. La gioia di appurare che era ancora vivo fu immensa. Stranamente mi fu concesso di
recarmi nel campo di Biala Podlaska per incontrarlo. Quello che sembrava un atto di pietà era una
subdola strategia, speravano che io aderissi alla nascente repubblica fascista. A Biala su circa 2500
“ospiti” solo 147 non avevano accettato le proposte tedesche. Mio padre, fascista, era tra gli
“aderenti”. Sicuramente oltre alla scelta ideologica ce n’era una profondamente umana: egli aveva -
di fatto adottato tre nipoti, miei cugini, rimasti orfani di madre. Essi vivevano a casa nostra ed il
ritorno del capofamiglia in Italia significava una garanzia per mia madre e per i mie fratelli. Quando
arrivai al campo compresi che si sperava in una mia adesione o forse che il mio genitore potesse,
con il suo ascendente, indurmi a cambiare idea. In realtà stava per verificarsi l’esatto contrario: pur
di non separarsi da me il Capitano Angelo Montagano era disposto ad un ripensamento. Una sera ci
incamminammo silenziosi verso il comando tedesco. Lo trovammo chiuso! Compresi la sua
intenzione e gli dissi “nella nostra famiglia basta solo un eroe”. Rispettavo e comprendevo la sua
scelta e lui doveva fare altrettanto. Però, ribadii che non avrei mai mosso per i tedeschi nemmeno
una “spingula” (spilla). Papà Angelo comprese e sorrise. “Fortunatamente” non ebbi la sventura di
combattere contro mio padre.. quante volte ho pensato con terrore all’eventualità di trovarmelo di
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