L'Unità fra le due guerre mondiali - Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia
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L’Unità fra le due guerre mondiali Racconti e testimonianze delle pagine più nere della nostra storia A cura di Giuseppe Di Palo Il 1861 segna per antonomasia, per la nostra Italia, la nascita di quella tanto decantata unità nazionale che nel 2011 ci ha visto tutti, da Nord a Sud della Penisola, protagonisti di solenni festeggiamenti e cerimonie. Ma ancora oggi, nonostante 150 anni di “presunta” unità, continuano a verificarsi fenomeni di divisione fondati spesso su immotivati elementi stereotipanti, pregiudizievoli e di etnocentrismo che ben ricalcano la nota espressione “abbiamo fatto l’Italia, ora occorre fare gli italiani”. Una lettura, questa, che potremmo definire non solo storico-politica, ma anche culturale che va ad individuare la nascita “non ufficializzata” della nostra identità di italiani. Ripercorrendo la storia contemporanea in alcune delle sue più tragiche sfumature possiamo evidenziare un primo verso sentimento di unità, di affezione al tricolore, nel corso delle due guerre mondiali nelle quali la nazione si è, appunto, unita per fronteggiare nemici di “oltre confine”. Un elemento, questo, che viene ben enfatizzato in alcune canzoni popolati dove si può riscontrare che effettivamente, prima del 1915, vigevano sentimenti di odio e di conflitto anche tra popolazioni diverse ma tutte residenti nello Stivale. Ne è un esempio il testo del brano musicale ripreso dall’artista Eugenio Bennato in merito ai Briganti della Basilicata (di cui va ricordata la figura del “generale” Carmine Crocco, disertore dell’esercito di Francesco di Borbone e combattente per la propria terra in nome della libertà dall’oppressore ‘straniero’) nel quale si possono leggere in particolare strofe che, rispettivamente, recitano: “e mo cantammo sta nova canzone, tutta la gente se l’adda ‘mbarà. Nun ce ne fotte do’ re Borbone, a terra è a nostra e nun s’adda tuccà” e “chi
ha visto o’lupo se miso paura, nun sape ‘bbuono qual è a verità, o vero lupo cc’a magna e criature è o piemontese c’avimma caccià” 1 Ritornando a parlare del nostro specifico argomento, notiamo che fu proprio quella “grande guerra” (1915-1918) ad essere il primo grande, tragico, ma anche vittorioso banco di prova del giovane Regno d’Italia. Erano forse in gran parte contadini che all’alba dell’ultimo secolo del secondo millennio dell’era cristiana, lasciarono le proprie case, i piccoli e poveri campi, gli armenti e, soprattutto, le proprie famiglie senza custodia, per rispondere alla chiamata alle armi ed irrobustire le file di un esercito forse per la prima volta veramente nazionale, che avrebbe dovuto difendere un confine e degli interessi di uno Stato che ancora non percepivano interamente dal punto di vista identitario, ma di cui ormai erano certamente figli. Come ben sottolinea il docente dell’Università del Molise, Lorenzo Scillitani: “Il 1861 è un anno cruciale, che segna lo snodo fondamentale di un arco temporale che si apre e si chiude con guerre: le guerre d’indipendenza, l’ultima delle quali viene fatta coincidere simbolicamente con la Prima guerra mondiale. Dal 1861 al 1915 il processo di unificazione della Penisola registra un’accelerazione senza eguali nella storia d’Italia. In poco più di cinquant’anni genti per secoli divise ritrovano la loro unità nel segno della Nazione italiana. Sentirsi italiani, da un capo all’altro dello Stivale, ha significato per decenni condividere una medesima appartenenza geografica, linguistica, spirituale. Avere una patria ha voluto dire, per gli Italiani del Nord come per quelli del Sud, sentirsi parte di un medesimo destino storico. Il 1861 non può quindi essere ricordato senza il 1870, ma oggi, forse soprattutto, senza il 1915, senza una decisione, discutibile e controversa finché si voglia, ma gravida di una conseguenza destinata ad incidersi per quasi un secolo nella memoria degli Italiani: la percezione, oggi attenuata per motivi che ancora non hanno superato lo scoglio della contingenza, non semplicemente di essere i componenti di una società, plurale e diversificata per tradizioni, usi, inclinazioni quanto si voglia, ma, più al 1 Trad. “adesso intoniamo una nuova canzone che tutta la gente dovrà imparare. Rinneghiamo il re Borbone, la terra è nostra e non si deve toccare” e “chi ha visto un lupo ha avuto paura ma non conosce la verità, il vero lupo che uccide i nostri figli è la razza piemontese che dobbiamo cacciare via”.
fondo, di essere una comunità riconoscibile per suoi elementi distintivi. E’ questo il grido che erompe dagli spiriti di coloro che caddero, martiri di una Unità che l’esperienza dura, aspra e dolorosa delle trincee seppe costruire più di qualunque discorso, più di qualunque epopea, più di qualunque riforma. L’Italia trova il suo nome scritto nei nomi di coloro che diedero la vita perché essa vivesse, unita e libera”. Ogni luogo, ogni regione, ogni paese tende a ricordare i propri eroi e, ad attribuire loro l’impegno di aver edificato questa nazione offrendo anche un sentito riconoscimento per aver messo in gioco (e spesso perso) la propria vita in nome di un ideale, quello della libertà. Troppo spesso, però, i nomi legati alla storia restano solo quelli dei grandi personaggi ignorando ed escludendo quelli di persone semplici che, forse più di figure note, hanno contribuito a realizzare non solo il sentimento di unità del quale abbiamo avuto la gioia ed il piacere di festeggiare il 150enario, ma anche la vera storia in sé. Riporteremo, di seguito, una breve rassegna stampa di storie, racconti e testimonianze di “gente comune” su quello che è stato sì uno dei conflitti più sanguinosi di tutti i tempi ma che, al contempo, si è dimostrato essere prima scintilla di una consolidata unità. CAMPOBASSO. Novantasette anni fa, il 24 maggio 1915, l’Italia entrava in guerra contro gli Imperi centrali, gettandosi nella Prima Guerra Mondiale dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità in Europa. Una data che è entrata nella Storia e che non è passata inosservata ai cittadini di Campobasso, ai tanti che ieri mattina hanno preso parte, presso il sacrario militare del Castello Monforte, alla celebrazione della Santa Messa in onore dei Caduti della guerra 1915-18. Fra loro anche il presidente della Provincia di Campobasso, Rosario De Matteis che ha così commentato la sua partecipazione all’evento: “Non ho voluto mancare ad un appuntamento sacro, legato al rispetto della storia d’Italia, dei valori legati al conflitto mondiale, alla fede ed al rispetto dei tanti Caduti, spesso giovani, che hanno perso la vita per l’Italia. E’ un segnale di vicinanza – ha dichiarato De Matteis – ai defunti, alle loro famiglie che nonostante i decenni restano unite nel ricordo lontano dei loro cari ed a loro va la vicinanza istituzionale della Provincia che ha il dovere di ricordare e apprezzare il sacrificio altrui, per un’Italia ed un Paese diverso. E il Molise, come le realtà meridionali, ha sempre pagato a caro prezzo il significato morale, economico, sociale di un conflitto. Un prezzo che si è riversato sulle famiglie che hanno avuto la forza di reagire e di costruire comunque una società moderna qual è quella odierna. Un grazie ancora ai soldati molisani e a tutti coloro che hanno sofferto le amarezze e i lutti legati alle guerre mondiali”. (La città s’inchina ai Caduti in Guerra, da Il Quotidiano del Molise del 25 maggio 2012, pag. 7).
CAMPOBASSO. “Il 24 Maggio, ogni anno, io e la signora Ezia andavamo sui Monti lungo il Viale della Rimembranza deponevamo un fiore ai piedi di ogni albero che ricorda un Caduto in Guerra “. Con insofferenza ‘Teresenella’ portava il peso della vecchiaia. Intollerante, più nei confronti dell’immobilità a cui essa la costringeva, che per gli acciacchi, spesso immaginari attraverso i quali tentava di guadagnarsi un’attenzione di cui sentiva la mancanza. La sua mente, invece, volava libera, senza costrizioni lungo i percorsi di una vita vissuta con pienezza, carica di ricordi che ad alta voce amava rievocare. Se non fosse che quei racconti coglievano chi le stava accanto del tutto impreparato o indisponibile all’ascolto, era come sfogliare un libro, o meglio un’intera enciclopedia. “Adesso che sono quasi tutti morti, chi se la ricorda più la data del 24 Maggio e tutti quei giovani i cui nomi sono affidati alla storia che non interessa più nessuno. Adesso i giovani muoiono diversamente – ripeteva come parlando a se stessa – non per un ideale e lungo le vie incontri croci che mani pietose adornano di fiori che si consumano al vento… sono i morti della strada”. “Era un pomeriggio di fine inverno – prese a raccontare Teresa Di Ricco esprimendosi attraverso un’architettura narrativa inconsueta in una donna nata contadina, sposata ad un artigiano, divoratrice dei grandi classici della letteratura . Qui davanti – ricominciò a raccontare chinandosi in avanti e spaziando con lo sguardo dalla finestra della sua camera da letto, oltre la siepe, fino a toccare i pini di San Giovannello - lungo il tratturo erano ore che si vedeva una processione di gente dirigersi su via porta Termoli, più su del mulino di Guacci. E che c’era la televisione allora che ti diceva quello che stava succedendo? Eravamo in guerra, la prima guerra , e poco dopo si sparse la notizia che dove adesso ci sono le Casermette era atterrato un aereo. La gente andava tutta in quella direzione per vederlo. Anch’io ci sono andata. Il sole era quasi al tramonto e tingeva di rosso il cielo sereno. L’aereo era lì bianco quasi traballante col motore acceso, tutto attorno i carabinieri avevano fatto quadrato e la folla era tenuta a distanza. Un ufficiale dell’aviazione si staccò dal gruppetto di persone su un lato di quel campo di atterraggio improvvisato e si avviò verso il veivolo, stava quasi per salire quando una ragazza riuscì a sgusciare fuori dal recinto e percorse correndo lo spazio fino all’aereo. Il tenente giunto quasi in cima alla scaletta, bello, austero nella sua divisa da aviatore, si voltò, rimase per un attimo immobile mentre la folla attorno era ammutolita, poi scese di nuovo le scale e ai piedi del veivolo abbracciò la ragazza, sua sorella la signora Ezia Mastropaolo. Quella fu l’ultima volta che si videro, Rodolfo Calogero, suo fratello non tornò più. Ma da quel giorno io e la signora Ezia divenimmo amiche, un’amicizia durata tutta la vita”. (Ricordi e racconti di Teresenella, di Vittoria Todisco, da Il Quotidiano del Molise del 25 maggio 2012, pag. 7). ISERNIA. Quando mi è stato chiesto di scrivere una testimonianza, da pubblicare il quattro Novembre, in occasione della commemorazione dei caduti in guerra, pur trattandosi di ricordi affettivamente dolorosi, ho accettato molto volentieri. Anche perché penso che il mio “racconto” mostri le immani sofferenze che la guerra porta al suo seguito, con i suoi
corollari di morte e distruzione, senza risparmiare niente e nessuno, nemmeno una terra piccola e tranquilla come era il Molise di settanta anni fa. La storia che mi accingo a raccontare e quella che è capitata mio nonno, che chiamerò solamente con la iniziale del suo nome G. , perché potrebbe essere tristemente simile a quella di migliaia di persone che vissero, soffrirono e in molti casi persero la vita durante il secondo conflitto mondiale. Mio nonno non era certo uno di quegli eroi retoricamente intrepidi che si vedono in molti film di propaganda di guerra Hollywoodiani girati durante o subito dopo la II Guerra Mondiale. Ciò nonostante, aveva avuto una vita notevolmente movimentata ed avventurosa. Aveva combattuto durante la I Guerra Mondiale sul Piave rimanendo ferito in un assalto alla baionetta. Congedatosi si era trasferito, pieno di belle speranze, a Tripoli in Libia, dal 1911 colonia italiana, per trovare lavoro stabile. Ma purtroppo era dovuto rientrare in patria ben presto, senza più il miraggio, propagandato dai governi di allora, delle colonie come fonti di lavoro e possibilità di creazioni di notevoli fortune. Nel 1919 si era quindi arruolato nella costituenda Regia Guardia, embrione di quella che è oggi la Polizia di Stato, i cui compiti erano essenzialmente di mantenimento dell’ordine pubblico nel tumultuoso periodo successivo alla fine della Grande Guerra dove, prima socialisti e comunisti da una parte, ed in seguito fascisti dall’altra, manifestavano e si affrontavano duramente in scontri di piazza per rivendicare ed imporre la propria visione politica. Il risultato fu che la Regia Guardia si attirò l’odio dell’una e dell’altra fazione politica, nonché il sospetto razzista degli altri corpi di polizia, visto che questa era composta per la maggior parte da meridionali. Il corpo fu quindi sciolto, improvvisamente, da un Regio Decreto nel Gennaio del 1923, voluto fortemente da Mussolini, che vedeva in essa, per alcuni episodi sanguinosi che avevano coinvolto Regia Guardia e diversi squadristi facinorosi, una forte e pericolosa componente di opposizione al costituendo regime fascista. Molti componenti della Guardia quindi, erano stati perseguitati, e in alcuni casi arrestati e processati, per essersi opposti allo scioglimento che consideravano come iniqua imposizione. Così mio nonno era stato costretto a nascondersi prima da dei parenti e poi a rifugiarsi nella più tranquilla Francia. Tornato in Italia, quando le acque si erano ormai calmate, si era arruolato nel Corpo delle Guardie Carcerarie (l’attuale Polizia Penitenziaria). L’inizio della II Guerra Mondiale, lo aveva colto quando era in servizio presso il carcere di La Spezia. Nel 1941 era stato trasferito al Carcere di Poggio Reale a Napoli. Ma dopo un pò di tempo la famiglia era stata costretta, a causa dei continui bombardamenti che martoriavano quella città, a sfollare a Campobasso, rientrando nella loro terra di origine. Mio nonno fece di tutto per riavvicinarsi ai suoi, e gli fu concesso il trasferimento proprio il fatidico (per le sorti dell’Italia in guerra) 1943. Fu infatti trasferito al carcere di Isernia. Mio nonno si sentiva finalmente soddisfatto, felice di poter stare a fianco ai suoi cari, e contento di ritornare nella sua terra, che non aveva mai cessato di amare. Il 10 Settembre 1943 per lui era un giorno di servizio, come tanti altri svolti in precedenza. Aveva preso il primo treno da Campobasso per Isernia e si era presentato come al solito puntuale ed impeccabile nella sua divisa, sul posto di lavoro, come solo una persona che aveva trascorso tanti anni sotto le armi, e al servizio dello Stato, era abituato a fare. Iniziò le solite operazioni quotidiane, che si ripetevano sempre uguali le une alle altre, giorno dopo giorno. La sveglia dei detenuti, l’appello, la distribuzione della colazione, e poi le voci di tutti i giorni che riecheggiavano nei lunghi corridoi del carcere: “ Superiore oggi mi sento poco bene, marco visita!”, “Superiore oggi questa sbobba fa più schifo del solito!”, “Fai silenzio! Se non ti va di mangiarla nessuno ti costringe a farlo!”. Poi i rumori di sempre. Le porte delle celle che si aprono e si richiudono pesantemente, il clangore dei cancelli che vengono aperti e sbattuti rumorosamente, il tintinnare ritmico delle chiavi che urtano tra loro mentre le guardie camminano. Quel 10 Settembre era un venerdì, e ad Isernia era giorno di mercato. La gente vi si recava volentieri, ed in
gran numero, perché lì si poteva trovare merce fresca che i contadini portavano dalle campagne. Certo i prezzi potevano essere un pò alti, a causa del periodo bellico, ma c’era sempre il calmiere, ed i controlli erano rigidi, e poi in fondo la roba era buona e un piccolo sforzo si poteva anche fare. Il mercato si trovava proprio sullo spiazzo antistante al carcere, dove oggi sorge la villa comunale, e quel giorno di Settembre di settanta anni fa quello spiazzo era pieno di acquirenti, di commercianti e contadini, tutti indaffarati a comprare e a vendere. Il tempo sembrava volare, anche perché dopo la pioggia dei giorni precedenti, c’era un bello e tiepido sole, e lo stare fuori casa era gradevole. Inoltre poteva essere uno dei pochi giorni rimasti di bel tempo, prima che arrivasse l’inverno. Questo sarebbe stato un lungo e freddo inverno di guerra. La gente di Isernia quindi usciva volentieri di casa, le donne rimanevano sugli usci a fare i loro servizi più minuti, rammendare, fare l’uncinetto o il tombolo, pelare le poche patate trovate al mercato per il pranzo. Sono le 10,18 quando da dietro i monti matesini, dove sorgono i paesi di Sant’Agapito e Longano, cominciano a scorgersi le sagome inconfondibili di una squadriglia di bombardieri, che si avvicinano ad Isernia. Sono trentasei B 17 del XII Bomber Command, decollati alcune ore prima dall’aeroporto alleato di Foggia. In vista della città gli enormi bombardieri si dispongono a formare tre schieramenti. Il rumore diviene man mano sempre più assordante e cupo. I vetri delle abitazioni iniziano a tremare. La gente incuriosita, che era rimasta a casa, esce in strada per assistere a quell’imponente spettacolo. Decine di stelle bianche, coccarde degli aerei statunitensi, si stagliavano nel cielo azzurro e terso di quella bella mattinata di Settembre. Per molte persone che guardavano incuriosite questo insolito cielo stellato in pieno giorno, sarà l’ultima cosa che vedranno nella loro vita. Nessuno sospettava della tragedia che stava per abbattersi sulla piccola città. L’Italia aveva firmato l’armistizio con le forze aglo-amenricane; lo aveva detto perfino la radio tre giorni prima l’ 8 Settembre. La guerra era finalmente finita per molti italiani. Doveva essere finita! Inoltre i Tedeschi la notte tra l’ 8 e il 9 Settembre avevano lasciato le loro posizioni nella pianura di Pettoranello. Quindi che pericolo poteva esserci? Mio nonno, che probabilmente parlava con un suo collega, si fermò per un attimo. Il rumore dei motori dei bombardieri, che lui conosceva tristemente bene, riempì l’intero edificio e rimbalzava sui muri e nei corridoi rapido ed assordante. Sono le 10,20. Inizia l’Inferno. “Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava, fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché ci si sgozzasse a vicenda e gli fu consegnata una grande spada” (Ap 6,4). Quando finì l’orrore dei fischi delle bombe in caduta libera, del boato delle esplosioni che pareva moltiplicarsi all’infinito, e dei cumuli di terra e macerie scagliati per decine di metri in aria, la zona compresa tra l’arco di San Pietro e il viadotto di Santo Spirito non esisteva più, come fosse stata spazzata via dalla furia bestiale di un gigante. Tra il fumo e la polvere di quello scempio si sentiva solo il lamento dei feriti e dei moribondi e il pianto e le urla dei sopravvissuti. Il carcere non esisteva più. Al suo posto un cumulo di macerie e solo poche mura rimaste incredibilmente in piedi. Sotto quelle macerie era rimasto mio nonno . Vivo, miracolosamente vivo. Lui non lo sapeva ancora ma sarebbe stato l’unico sopravvissuto tra tutti i suoi colleghi e i detenuti. Il buio dov’era immerso, sotto le macerie, era totale. La polvere che inalava gli toglieva il respiro e gli bruciava i polmoni. Era immobilizzato, schiacciato con il fianco destro contro una trave. Ma non era solo! Un po’ più in basso vi era il collega con il quale stava discutendo prima del crollo del carcere. Questi si lamentava; mio nonno riuscì a prendergli la mano, non senza qualche difficoltà, e inizio a parlargli, cercando di confortarlo, rassicurandolo che presto sarebbero arrivati i soccorsi a toglierli di lì. Mio nonno confortò il suo collega per ore, mentre i lamenti di questi si facevano sempre più flebili. Poi il silenzio orribile della morte. Quest’uomo aveva stretto la mano di mio nonno come se fosse l’ultimo disperato legame che lo tenesse unito alla vita. Adesso, mentre questa lo lasciava
lentamente, altrettanto lentamente lasciò andare tutto quello che era stata la sua vita, con i suoi affetti, le sue storie, quello che aveva amato, e il suo anello matrimoniale scivolò nella mano di mio nonno. Per tutto il tempo che rimase sotto quelle maledette macerie, mio nonno conservò gelosamente quell’anello, stringendolo strettamente nel suo pugno, quasi fosse un tesoro inestimabile. Il tesoro di tutto ciò che era rimasto di un altro uomo. Appena uscì da quella enorme tomba, la prima cosa che fece fu quella di consegnare l’anello ai soccorritori, pregandoli di consegnarlo alla sfortunata moglie del suo collega. Intanto la notizia della tragedia che si era riversata su Isernia e che i morti e feriti erano tantissimi, era arrivata a Campobasso. Ciò fece precipitare nella disperazione la famiglia di mio nonno. L’unica a non voler credere nel peggio, fu mia nonna Elvira. Era sicura che il suo G. si fosse salvato. I lunghi anni di condivisione di una vita non facile, e di sacrifici dovuti ai continui spostamenti che richiedeva il lavoro di mio nonno, non potevano concludersi così orribilmente, con la morte del suo amato G. Caparbiamente l’11 Settembre incaricò il cognato, macchinista capo delle ferrovie, che faceva giornalmente la tratta Campobasso-Isernia, di andare all’ospedale della città pentra, nella speranza che mio nonno fosse stato portato lì, ferito. Ma le notizie che il cognato riportò a Campobasso, furono sconfortanti. La città di Isernia era stata quasi completamente cancellata, e con essa il carcere. In più mio nonno non era nell’elenco dei feriti ricoverati in ospedale. Ma mia nonna era una persona molto tenace, e per alcuni versi anche dura. Contattò quindi un cugino di mio nonno, appartenente all’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Antiaerea, questa organizzazione si occupava di incursioni aeree e, per la prima volta, di prevenzione della popolazione sulle tematiche di sicurezza) in partenza per Isernia per prestare opera di soccorso, perché si prodigasse per far intensificare le ricerche del marito sotto le macerie del carcere. Mia nonna non poteva saperlo ma, verso il pomeriggio di quello stesso 11 Settembre, mio nonno nel buio e nel silenzio di quella che gli appariva, ora dopo ora sempre più la sua tomba, ad un giorno di distanza dal bombardamento, aveva sentito improvvisamente dei rumori sopra di lui. Delle voci lontane. Erano i soccorsi tanto sperati. Cominciò ad urlare a chiedere aiuto, a dire che era lì, proprio sotto di loro, ed infine lo udirono. “Non preoccuparti! Adesso iniziamo a scavare, ma devi avere pazienza, dobbiamo fare piano perché le macerie che sono sopra di te potrebbero crollarti addosso”. Poi iniziarono i tonfi dei picconi e il grattare delle pale che si mischiavano alle preghiere di mio nonno, perché facessero subito a tirarlo fuori di lì e cessasse, finalmente, quel dolore intenso che provava al fianco destro schiacciato sopra quella dannata trave. Poi i rumori dello scavo cessarono improvvisamente, un tramestio concitato si sostituì a loro, e una voce frettolosa gli disse che dovevano lasciarlo, perché c’era una nuova incursione aerea, ma che sarebbero tornati subito appena cessato il bombardamento. Ai rumori dello scavo, apportatori di sollievo per la salvezza, vicina, si sostituirono quelli orribili, che toglievano letteralmente il fiato dalla gola, delle esplosioni delle bombe che ricominciavano a cadere sulla città martoriata. Mio nonno immobilizzato, non poteva neanche turarsi le orecchie per non sentire. Poteva solo urlare le sue preghiere sempre più forte perché coprissero il rumore delle esplosioni. I soccorsi furono di parola, appena cessata l’incursione tornarono a lavorare sulle macerie del carcere. Lavorarono tutta la notte alla luce delle lampade e la mattina del giorno dopo. Erano verso le 10,00 del 13 Settembre 1943, quando finalmente raggiunsero mio nonno e lo cacciarono da quella che, per ben 48 ore, era stato il suo sarcofago funerario. In quel momento sembrava rinascere a nuova vita. Quando gli dissero che nessuno dei suoi colleghi era sopravvissuto, come nessuno dei detenuti, e che lui era una sorta di miracolato, mio nonno pianse, pianse amaramente, come non aveva più fatto da quando era ragazzo. In quel momento iniziò anche la sua partita a scacchi con la morte, a cui era sfuggito quel maledetto 10
Settembre 1943, ma che continuò a seguirlo, come ombra angosciosa, instancabilmente, per il resto della sua vita. Ciò mi ha sempre impressionato notevolmente, e mi ha fatto venire in mente quel famoso film del regista svedese Ingmar BERGMAN “Il Settimo Sigillo”, in cui i due protagonisti il Cavaliere e la Morte si affrontano in un interminabile partita a scacchi, la cui sconfitta per il cavaliere, avrebbe significato perdere la vita. Mio nonno fu portato all’ospedale, aveva qualche contusione, diversi graffi e zoppicava visibilmente per il trauma da schiacciamento alla gamba destra. Ma era vivo e più che mai attaccato alla vita. In quell’ospedale non si sentiva sicuro. Aveva timore per un nuovo bombardamento. Lui che era stato a Napoli martoriata dalle continue incursioni aeree, conosceva bene la strategia dei bombardamenti degli Alleati. Duravano consecutivamente per diversi giorni, e nella maggior parte dei casi, avvenivano sempre nelle stesse ore. Decise quindi di lasciare l’ospedale per tornare subito a Campobasso in treno, visto che la linea, nonostante le incursioni, era sempre agibile. Semi svestito, si mise una coperta sulle spalle e si avviò verso la stazione ferroviaria. Il camminare con quella gamba malandata, in quello che rimaneva delle strade di Isernia, ingombre di macerie e tempestate dalle buche delle bombe cadute, era una vera tortura. Ma tenacemente si trascinava avanti. Il suo unico pensiero era quello di tornare a casa dai suoi cari per dire che era vivo. Improvvisamente alle sue spalle sentì una voce con chiaro accento tedesco: “Hei! Nonno, dove andare così!?”. Girandosi, vide che si trattava di due giovani soldati tedeschi di pattuglia a bordo di un sidecar. Il loro viso mostrava stupore per quell’uomo lacero, ancora sporco di polvere, ed affaticato dal continuo zoppicare, che si trascinava a stento verso chissà quale meta. Mio nonno, non senza qualche timore verso i soldati tedeschi che da sempre vantavano la reputazione di non essere troppo docili nei modi e sospettosi, spiegò loro brevemente che voleva raggiungere la stazione per tornare a Campobasso, dalla famiglia che lo credeva sicuramente morto dopo due giorni di silenzio. I due ragazzi in divisa non persero tempo, fermarono un carretto che stava passando di lì in quel momento, e con fare sbrigativo imposero al carrettiere di portare quel poveretto alla stazione. Non paghi di questo, seguirono il carretto con il loro sidecar fino a destinazione, per essere sicuri che il carrettiere, a dire la verità un po’ riottoso di fronte a quella imposizione, non lasciasse il suo passeggero via facendo. Poi, rassicurati, sorrisero, fecero un cenno di saluto al loro protetto e scomparvero a tutta velocità con il loro mezzo, senza dire niente, senza che mio nonno riuscisse neanche a ringraziarli delle loro attenzioni. Questo fu forse, uno dei pochi atti di pietà in tutta quella immane tragedia fatti da dei soldati, e per di più da soldati tedeschi, già divenuti, ormai, i nuovi nemici del nostro Paese. Ciò, rende ancor più encomiabile questo loro gesto. L’amore per il prossimo non fa differenza di bandiere, anche nel bel mezzo di una guerra sanguinosa e spietata. La bontà Divina, nonostante gli orrori e l’odio, riesce sempre a soffiare nel cuore degli uomini il suo fuoco inestinguibile, più forte e potente di quello di mille cannoni. Mio nonno quella sera riuscì a riabbracciare i suoi cari e l’adorata moglie, che non aveva mai creduto di averlo perso. Isernia fu bombardata di nuovo il pomeriggio di quel 12 Settembre, e stavolta fu colpito anche l’ospedale. Le incursioni sulla città continuarono ancora, il 15 Settembre ed il mese successivo dal 3 al 7 Ottobre. I morti alla fine dei bombardamenti furono 489,
secondo l’ultimo attendibile censimento. I motivi del perché di quello spietato bombardamento del Settembre del 43’, non sono mai stati completamente chiariti. Nell’ ”USAAF Chronology: Combat Chronology of the US Army Air Forces” alla data di Venerdì 10 Settembre 1943, si legge di un attacco di bombardieri su Isernia, che doveva colpire strade, edifici, la linea ferroviaria e le attrezzature ferroviarie. Nel 1960 alla città di Isernia fu conferito, per il suo sacrificio in vite umane e per le distruzioni subite dai bombardamenti alleati, la medaglia d’oro a valor civile. Per mio nonno il suo calvario era appena iniziato. Ricoverato all’ospedale di Campobasso per i problemi alla gamba destra, fu trasferito, senza che fosse data notizia di ciò ai parenti, in quello di Modugno. Infatti il Comando Alleato di Campobasso aveva deciso di sgombrare l’intero ospedale per far spazio ai propri feriti. Per mia nonna si riaprì di nuovo quella che sembrava essere una angoscia che non trovava fine. Non fu semplice riuscire a reperire le informazioni dagli Alleati, nel caos generale che avevano provocato con quei repentini trasferimenti. Alla fine seppero che mio nonno si trovava a Modugno. Mia nonna fu costretta, per la terza volta, ad interessare un altro parente che prestava servizio militare a Bari, perché lo aiutasse nelle sue necessità. Purtroppo la gamba, ormai andata in cancrena, gli fu amputata completamente. Nonostante tutta questa dolorosa avventura, mio nonno visse ancora per diversi anni. Perse la sua partita a scacchi con la morte l’undici ottobre 1959 a causa dei postumi dell’amputazione. Io purtroppo non sono riuscito a conoscere mio nonno G., ma tutto quello che ho raccontato l’ho appreso da mia madre, che a tanti anni di distanza, ormai, da quei tristi avvenimenti, a doverne parlare non riesce ad evitare che gli occhi le si inumidiscano ancora di lacrime. (Storia di G., di Roberto Severino, da Il Quotidiano del Molise del 4 novembre 2010, pag. 2 e 3) . Il periodo compreso tra il 1914 ed il 1945, inoltre, si può intendere come un insieme unitario poiché si ritiene che la seconda guerra mondiale sia stata una conseguenza della mancata risoluzione della prima. Il conflitto nato dal seme dell’odio del fascismo e, ancor di più, del nazismo, ha portato gli italiani a stringersi ancor di più alla propria bandiera, alla propria gente, partorendo una viva coscienza di identità collettiva forgiata a partire dalla contrapposizione al nemico tedesco. E proprio di quest’ultima pagina buia della nostra storia possiamo trovare ancora testimonianze dai diretti protagonisti di quegli orrori vissuti, purtroppo, sulla propria pelle. Collaborando con la testata locale “Il Quotidiano del Molise” ho potuto incontrare molti dei superstiti della guerra, dei lager nazisti ai quali lo Stato ha deciso di attribuire alti riconoscimenti.
CAMPOBASSO. Gesta, spesso ignorate, che vedono persone comuni protagoniste di atti di puro eroismo; storie che rivivono solo nei racconti familiari trasmessi a figli e nipoti stretti intorno al tepore del focolare nelle fredde giornate invernali. Eventi che però, sono stati resi pubblici nel pomeriggio di ieri, in un’atmosfera solenne, nella sala consiliare della Prefettura di Campobasso dove, fra le pareti ed i soffitti affrescati con antichi dipinti e con il sottofondo musicale ad opera del maestro Fabio De Simone, dodici eroi italiani (chi presente e chi rappresentato dai propri familiari) hanno ricevuto per mano del Prefetto di Campobasso, Stefano Trotta altrettante medaglie d’onore concesse dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ai cittadini, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra. Quando, poi, nella sala comincia a sentirsi un leggero brusio, la luce si attenua e la magia del rito si compie. Documenti e memorie di quegli anni cupi, fatti di odio e violenza, reinterpretati dalla retorica dell’attrice Mena Vasellino, hanno fatto breccia nel cuore dell’intero uditorio. La luce tiepida si riflette negli occhi lucidi dei presenti, e lo sguardo dei veri protagonisti di quegli episodi è rivolto alle labbra trepidanti della lettrice,quasi a voler anticipare il racconto di quegli orrori vissuti sul proprio corpo. La commozione apparsa sui volti di tutti i presenti all’evento si alterna con la gioia
dei diretti protagonisti di aver rincontrato gli amici di una volta, coloro con i quali si sono unite le forze per affrontare e superare quella che è stata, forse, la pagina più buia della storia dell’umanità. “Ciò che è successo in passato – ha dichiarato Trotta rivolgendosi ai giovani presenti in sala – non è l’opera di un folle, ma dell’uomo in senso lato, un uomo in grado di fare del male. Bisogna, pertanto, trovare i filtri giusti affinchè tali scempi non accadano più”. “Un’occasione – le parole del vice presidente del Consiglio Regionale, Antonio Pardo D’Alete – per onorare non solo i veri eroi di questo evento, ma per educare le future generazioni a viaggiare nella giusta direzione”. “Il bisogno di non dimenticare – ha spiegato il presidente del Consiglio Provinciale, Carmine Perugini – si ancora alla motivazione di sopprimere l’odio e di professare il lato civile dell’essere umano”. Presenti all’evento anche il senatore Aldo Biscardi, il vice sindaco di Campobasso Giuseppe Cimino, i sindaci dei comuni di Portocannone, Campodipietra, Gambatesa, Casacalenda, Riccia, Ripabottoni, Mirabello Sannitico, Montefalcone nel Sannio ed illustri esponenti dell’arma e del mondo militare. Una solenne cerimonia, dunque, che attraverso un semplice pezzo di metallo ha voluto onorare il nome di dodici eroi molisani ai quali la Patria porge i suoi più sentiti ringraziamenti. (Shoah, onore agli eroi molisani, di Giuseppe Di Palo, da Il Quotidiano del Molise del 28 gennaio 2011, pag. 5). SEPINO. “Un’occasione per dire grazie a tutti coloro che si sono prodigati per rendere grande la nostra Italia”. E’con queste parole che il sindaco di Sepino, Filomena Zeoli, ha introdotto la cerimonia di consegna delle medaglie d’onore a diciotto cittadini, militari e civili deportati ed internati nei lager nazisti, e delle otto Onorificenze dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”. All’evento, svoltosi ieri presso il teatro romano ubicato nel cuore del sito archeologico di Altilia, hanno preso parte il Presidente della Regione Molise, Michele Iorio, il Prefetto di Campobasso, Stefano Trotta, il Presidente della Provincia, Rosario De Matteis, il Rettore dell’Università del Molise, Giovanni Cannata, i sindaci di diversi comuni molisani e diversi esponenti del mondo ecclesiastico e militare tra cui monsignor Teti, il Colonnello Bernardino Spensieri dell’Esercito Molise ed il Generale dell’Arma dei Carabinieri Gianfranco Rastelli. “Ringrazio il Molise – le parole di Trotta – e spero, a quasi un anno dal mio insediamento in questura, di aver ricambiato e poter ancora ricambiare l’ospitalità di questa terra. Un Prefetto da solo non è nulla se non ha al suo fianco validi collaboratori, così come una Nazione non è tale senza il contributo di grandi uomini”. A chiudere l’evento una rilettura recitata e cantata del periodo risorgimentale a cura del coro Quod Libet diretto da Vincenzo Lombardi. “La scelta del luogo – spiega Iorio – non è casuale in quanto Altilia è un simbolo d’identità della nostra regione. Un grazie va al Prefetto che ha sempre saputo esaltare le qualità del Molise”. (Il ‘grazie’ del Molise agli eroi della guerra, di Giuseppe Di Palo, da Il Quotidiano del Molise del 3 giugno 2011, pag. 3).
TERMOLI. La storia non è fatta solo da grandi personaggi, i cui nomi compaiono spesso e volentieri sui libri di scuola. Ciò che in molti non sanno ed ignorano è che la storia, quella vera, viene costruita quotidianamente da chi meno te lo aspetti: i propri nonni, i vicini di casa, gli amici di famiglia, il bottegaio, un semplice studente laureato in medicina veterinaria... È la vita di quest’ultimo che oggi andremo a raccontare, a venti anni esatti dalla sua scomparsa. Stiamo parlando del dott. Antonino Luigi De Sanctis, un eroe molisano , schivo, umile ma molto amato dai suoi conoscenti e familiari. Il contributo del signor Antonino per la costruzione del nostro Paese è stato enorme, in quanto, senza batter ciglio, ha prestato anima e corpo per difendere i confini nazionali nel corso della seconda guerra mondiale. Ma partiamo dall’inizio. Dopo essersi iscritto nel 1940, all’età di diciannove anni, al corso di laurea in chimica industriale a Bologna, viene subito chiamato sotto le armi. Il 7 luglio 1943, a soli ventidue anni, salpò da Brindisi alla volta del Pireo, dove si trovò coinvolto nel conflitto della cosiddetta “scacchiera mediterranea”. Successiva tappa del suo viaggio fu Rodi, dove, purtroppo, il 24 Agosto 1943 il giovane Antonino fu catturato dai tedeschi ed internato in Germania l’8 settembre. In quei giorni, inoltre, andava frantumandosi l’alleanza Italo-tredesca. Pertanto, l’esercito nazista cercava di costringere i soldati italiani deportati nei campi di concentramento a schierarsi tra le file tedesce combattendo contro i propri connazionali. Ma la risposta del protagonista della nostra storia fu un secco “no”. Ciò portò la consapevolezza nella mente di Antonino a prepararsi a pagare le conseguenze della sua coraggiosa azione. Due lunghi anni di schiavitù in cui patì la fame e la sete subendo forti umiliazioni da quegli uomini che sembravano non nutrire alcun sentimento di compassione e di pietà. Ad aggravare ulteriormente le condizioni di vita di Antonino fu una malattia conseguita dall’aver mangiato una pagnotta andata a male, scambiata furtivamente col proprio cintolone. Fortuna volle che nella camerata del nostro malcapitato giovane vi fosse un prete italiano che, con amore e premura, procurandogli “sottobanco” latte fresco, riuscì a curarlo dal suo male. Nel 1945, Antonino ed i suoi compagni di disavventura fuggirono da quell’inferno fatto di lavori forzati e maltrattamenti continui. Giorni di cammino ininterrotto per allontanarsi il più possibile dal campo di concentramento, tra fiumi, boschi, valli, sentieri rocciosi. Non rendendosi conto di essersi allontanato dal gruppo, il nostro Antonino si ritrova da solo in un’immensa radura, guardandosi intorno per capire dove fosse e per scorgere qualche traccia di civiltà. Come dal nulla, Antonino vede da lontano una fanciulla vestita di bianco, con tanto di pellicciotto e cappuccio abbinati. “Dove vai?” chiese in tedesco la giovane. “Non lo so” rispose Antonino “Ma dove sono?”. “Sei in Polonia” rispose nuovamente la ragazza che, guardando il volto smagrito di Antonino, gli disse amorevolmente “Vieni con me”. La giovine condusse l’affaticato ed indebolito Antonino a casa propria dove, insieme a tutta la sua famiglia, provvedette a rifocillare il malcapitato e ad assicurargli un nascondiglio. Dopo un mese di permanenza presso l’abitazione polacca, Antonino riesce a tornare in Italia, recandosi presso il Comando Militare di Pescantina in provincia di Verona. Era il 6 ottobre 1945. Una persona speciale – così come lo ricordano la moglie Franca e gli amici - in grado di farsi amare e voler bene. Il signor Antonino Luigi De Santis, nato il 3 settembre 1921, ha lasciato un profondo segno nella storia del nostro Paese e nella vita di tutti coloro che hanno avuto il piacere
di incontrarlo, fino allo spiacevole giorno della sua morte, il 15 giugno del 1991. Il 2 giugno 2011 ha ricevuto, per concessione del Presidente della Repubblica, la medaglia d’onore alla memoria. In questo decennale dalla sua scomparsa, con questa storia, si intende dare testimonianza dell’operato di grandi ma semplici uomini, invitando le giovani generazioni a riflettere su quanto è stato fatto dai propri “coetanei dell’epoca”. Un grazie va, dunque, al signor Antonino ed a tutti quegli eroi che sono rimasti nell’ombra, i quali ci hanno permesso, oggi di vivere in un mondo migliore, ma che ha ancora molta strada da fare. (Antonino De Santis, eroe molisano, di Giuseppe Di Palo, da Il Quotidiano del Molise del 15 giugno 2011, pag. 22). CERCEPICCOLA. “Una comunità non può pensare di vincere le sfide culturali, sociali, economiche e morali che il progredire della storia le pone innanzi se non ha un’identità forte, consapevole e matura che affonda le proprie radici nel terreno dei valori, dei principi, del comune sentire degli antichi avi e, quindi, degli eventi di cui, consapevolmente o inconsapevolmente, furono autori”. E’ così che il sindaco di Cercepiccola, Michele Simiele, ha aperto sabato 5 novembre la cerimonia di commemorazione dei caduti di tutte le guerre, a novantatre anni dalla conclusione del primo conflitto mondiale. “E’giusto festeggiare questo evento nel migliore dei modi – ha dichiarato il primo cittadino – per dare omaggio a tanti eroi comuni che hanno dato la vita per i propri cari e per far si che la nostra Italia potesse essere libera e sempre più unita”. L’evento ha visto l’attiva partecipazione dei bambini delle scuole materna ed elementare di Cercepiccola i quali, dopo aver intonato l’inno di Mameli, hanno esposto al pubblico i propri lavori preparati per l’occasione. Il corteo si è spostato, poi, da Piazza Unità d’Italia a Piazza della Repubblica dove è stata posta una corona d’alloro dinnanzi al monumento dei caduti. “Sia la chiesa che il mondo civile – spiega il parroco della comunità, Giovanni Tramontano – hanno propri Santi ed Eroi. E’ bello ricordare e rendere omaggio a chi ha dato la vita per il bene dei propri cari ma anche rammentare l’impegno che tanti soldati e tutti i componenti delle forze dell’ordine quotidianamente elargiscono nel nostro piccolo grande mondo per assicurare pace e serenità” […]. (Onore e gloria agli eroi di tutte le guerre, di Giuseppe Di Palo, da Il Comune di Cercepiccola Informa del 11 novembre 2011, pag. 1). SAN BIASE. Quando nel 1995 nonno morì io ero troppo ragazza e, sicuramente, con ben altri interessi. Forse se avesse avuto accanto a sé un nipote le sue memorie sarebbero state salvate per essere tramandate ai posteri. Luigi de Paola, classe 1911, viveva nella sperduta provincia del regno d’Italia. All’epoca, però, i paesi dell’entroterra erano ancora molto popolati e quasi autosufficienti. San Biase, che oggi conta 215 anime, nell’anno di nascita del nonno aveva 1171 residenti. Luigi conseguì probabilmente almeno la licenza elementare. Di sicuro sapeva scrivere qualcosa oltre alla sua firma, visto che dietro a tutte le fotografie ha vergato di suo pugno un commento a ricordo dell’immagine immortalata.
Nel 1933 si allontanò dal Molise, una foto testimonia la sua presenza a Pisogne in provincia di Brescia. Era lì per assolvere alla ferma di leva. Nel 1935-36 era in Africa per conquistare l’impero! Come mai sia finito a combattere contro il Negus non lo so, forse fu reclutato come militare in servizio o forse fu irretito dall’idea di un guadagno economico. La paga sicuramente era più appetibile di quanto si riuscisse a ricavare dal duro lavoro nelle campagne del paese. Dubito si sia trattato di una scelta ideologica, poiché nei tanti anni di successiva convivenza non ha mai lasciato trapelare le tendenze di un “credo”. Non mi ricordo che abbia mai parlato di politica e solo di rado gli capitò di nominare Mussolini. Lo faceva nel suo dialetto eliminando quasi tutte le vocali, per cui il risultato finale era “Msslin” ed era per rammentare la visita del capo del fascismo nelle colonie appena conquistate: il duce si era recato a salutare le truppe vittoriose. Penso che il nonno non si sia mai reso conto delle atrocità ordinate da Badoglio e Graziani per concludere al più presto il conflitto, gareggiando tra loro nel tentativo di arrivare l’uno prima dell’altro ad Addis Abeba. Non posso assolutamente credere che lui così affettuoso con figli e nipoti si sia potuto macchiare di atti criminali. E’ vero che la guerra trasforma gli uomini in bestie, ma dal tono dei suoi racconti e dal tenore delle fotografie non ho motivo di dubitare della sua onestà morale. In quanto donna la mia visione del mondo non è certo quella bellicosa e prevaricatrice dei “maschietti”. Che si voglia ammettere o no siamo inguaribili sognatrici e poco ci affascina il mondo guerresco. Dalle immagini lasciateci in eredità, quale ricordo della “sua guerra”, l’idea che mi sono fatta è di un’avventura in stile salgariano, in cui si andava alla scoperta di nuove e misteriose terre. Penso sempre alla condotta più cavalleresca del vecchio quadrunviro De Bono, che tra le prime decisioni assunte sul territorio abissino conquistato procedette alla liberazione degli schiavi ed all’abolizione della schiavitù. Quella spedizione, che coinvolse i giovani dell’epoca, rappresentava forse l’unico modo per vedere altre società. Insomma… arruolatevi e girerete il mondo! Non può passare in secondo piano la retorica dei tempi e la propaganda di regime che generarono il mito dell’impero. Negli anni trenta del XX secolo, ad un venticinquenne di paese, doveva sembrare un’esperienza affascinante la visione di un continente così esotico, abitato da popoli conosciuti solo attraverso i libri, a contatto di conturbanti bellezze ben lontane dai canoni europei. Senza tralasciare la flora e la fauna completamente diverse dalle nostre. Sono certa che nonno Luigi abbia stretto amicizia con commilitoni di “buona famiglia” o che sia stato preso a ben volere da qualche graduato. Ciò spiegherebbe le numerose fotografie. Certo un povero contadino, qual lui era partito, non avrebbe potuto permettersi una macchina fotografica o pagare un fotografo. In tal maniera è riuscito a conservare un ricordo visivo di quella esperienza unica ed irripetibile. E’ vero, era un’operazione militare, ma dimenticando (se possibile) per un attimo che si uccideva e si rischiava la vita, sembrano quasi divertenti le espressioni goliardiche dei giovani avventurieri. Luigi tornò sicuramente cambiato! Non è da escludere che abbia vissuto eventi tragici e sconvolgenti. Qualcosa lo rendeva diverso dai suoi compaesani. L’aver condiviso paure, entusiasmi ed amarezze con i compagni di “trincea” non sono elementi trascurabili. Avrà visto la morte in faccia? Avrà causato la morte di qualche essere umano? Avrà raccolto le ultime parole di un commilitone morente? Contrariamente ai suoi amici rimasti in Molise, determinante per la sua crescita personale, è stato l’aver vissuto gomito a gomito con coetanei provenienti da altre regioni e di differente estrazione sociale. Con un bagaglio di esperienze così ricco ed incomprensibile per gli altri, tornò a fare il contadino. Era un guerriero vittorioso e l’essere stato artefice della conquista delle tanto enfatizzate colonie, suscitava invidia ed ammirazione in tutti coloro che avrebbero voluto interrompere la grigia routine della provincia. I suoi racconti saranno stati considerati al pari di romanzi, prima di comprendere che quella era stata una vera e propria follia, le cui conseguenze condizionarono non
poco le future scelte politiche e diplomatiche dell’Italia . Una scheggia conficcata in un occhio fu il suo salvacondotto per la guerra 1940-1945. Un conflitto di ben diverso tenore. Penso che alla base delle esternazioni causate dalla malattia, che infelicitò gli ultimi anni della sua esistenza, ci fossero anche i traumi segreti della campagna d’Africa. Nel vederlo tornare dai campi insieme a Rosina, la sua fida asina, nella mia fantasia di bambina, era l’eroe che rivedeva casa dopo un lungo esilio. Mi sono sempre chiesta se la frase scritta sul retro di una fotografia ”piccolo ricordo vicino alla mia tenda - battaglia dello Scirè, in Eritrea, marzo 1936” fosse il commento nostalgico per l’epopea che terminava o la disperata testimonianza del suo anelare la casa natìa. Comunque partecipò ad un degli scontri più cruenti e determinati per l’esito finale della Guerra d’Etiopia. Tra uomini in divisa, mezzi corazzati, belle abissine e faccette nere, qualcosa di nonno Luigi è, purtroppo, rimasto nel continente nero: la sua innocenza e la sua serenità. (Un contadino alla conquista dell’Impero, di Sabrina de Paola, da il quotidiano del Molise del 5 novembre 2010, pag. 2 e 3). CAMPOBASSO. La cartolina di precetto giunse ai nati nel 1921 prima di quelli del 1920. Restammo stupiti, ma non più di tanto, sapevamo che la Patria aveva bisogno di noi! Iniziai la guerra in Grecia, il paese che avevamo invaso. Quando sfilavamo per le strade dei centri ellenici le vecchiette, vestite di nero e con i grembiuli stretti ai fianchi, mi facevano pensare alle nostre nonne in Molise. La sensazione era molto strana: sembrava proprio di aver occupato casa nostra. Nel 1943 ero in forza alla Guardia di Frontiera prestando servizio in Slovenia. Oramai noi ufficiali avevamo compreso che l’Italia non poteva più continuare una lotta divenuta impari. Quando ci giunse l’ordine di controllare i movimenti dei tedeschi capimmo che si era all’epilogo. Fu allora che, per la prima volta in vita mia, bestemmiai: era la sconfitta e dovevamo accettarla! Più volte mi è stato chiesto se, quando fu proclamato l’armistizio, ci fossimo sentiti abbandonati dal nostro Re. Mentirei se dicessi che la resa si poteva evitare. Non era più possibile continuare a combattere, non avevamo più i mezzi per farlo! Il re doveva a tutti i costi salvare lo Stato e la corona. Probabilmente ha sbagliato il modo, ma sicuramente ha ottenuto il risultato. Comunque con la caduta di Mussolini, nel luglio 1943, era apparsa chiara la fine di un’epoca…la nostra. Con quella seduta del Gran Consiglio il fascismo si era suicidato. Fino a quel giorno in Italia tutto era infarcito di fascismo! I maestri vestivano la camicia nera, i preti salutavano romanamente ed in ogni casa c’era il quadro del duce (fermo restando le tante eccezioni). La forte propaganda del regime aveva allevato una generazione entusiasta, animata da certezze, pronta ad un’obbedienza cieca ed assoluta. Però sarebbe più corretto dire che eravamo mussoliniani, affascinati dal carisma del capo e da ciò che le sue scelte socio- politiche ci avevano lasciato credere. Penso sia giusto ammettere che eravamo pervasi non tanto da sentimenti patriottici, quanto da una strana forma di nazionalismo che nasceva anche dal nostro campanilismo di provincia. Insomma quel che temevamo a mesi si concretizzò nel settembre 1943. I tedeschi erano ben armati e mal disposti verso gli ex alleati, che giudicavano, a tutti gli effetti, dei traditori. Non eravamo assolutamente in condizioni di combattere. Ingaggiare
scontri a fuoco significava farsi trucidare. In quel frangente un ufficiale non può mandare al macello i suoi uomini. Con che diritto potevamo decidere per i soldati a noi affidati? Il nostro compito era di salvare le loro vite… gli atti di eroismo gli avremmo poi compiuti singolarmente, rispondendo in prima persona delle nostre scelte e con la nostra vita. A Gradisca d’Isonzo fummo catturati da truppe della Wermacht. Il mio “tour” a spese del “Reich”si è svolto in svariati campi di prigionia ed uno dei primi fu Sieldce in Polonia. Eravamo una cinquantina di ufficiali, rinchiusi in più baracche. Quando ci portavano all’esterno, per la conta giornaliera, cercavamo di proteggerci dal freddo con i logori vestiti e con stracci recuperati qua e là. Lo scopo di tale operazione non era di verificare se fossimo ancora tutti presenti, quanto di debilitarci ed avvilirci, trattenendoci ore ed ore alle intemperie. Bisognava stremarci e demoralizzarci affinché accettassimo di aderire alla costituenda Repubblica Sociale Italiana. Il primo giorno di tempo buono ci liberammo dagli indumenti in eccesso ed alla luce del sole potemmo finalmente vedere i prigionieri delle altre baracche, che fino ad allora erano stati solo delle sagome indistinte. Fu in quel momento che ebbi modo di riconoscere amici e compagni di studi, tra cui Carletto Carambois, che era già una stella del calcio campobassano. Egli era nato a Villar Perosa, la sua famiglia si era trasferita a Campobasso seguendo il padre, giunto in Molise per lavoro. Con Carletto mi ritrovai ancora a condividere “l’ospitalita germanica” a Sandbostel nei pressi di Brema. La Convenzione di Ginevra stabiliva che i soldati prigionieri lavorassero, guadagnandosi il rancio, mentre agli ufficiali era riservato un trattamento di privilegio che li esimeva dal lavoro. Ai militari italiani furono riservati i lavori più umili e duri, sempre per il totale disprezzo che i tedeschi nutrivano verso di noi, ma per il profondo rispetto che portavano allo spirito di casta militare la “Convenzione” veniva applicata per i graduati. Agli ufficiali I.M.I. (Internati Militari Italiani), quindi, venivano concessi degli “svaghi” attraverso l’uso di strumenti musicali o palloni. Per questo fu possibile organizzare un torneo di calcio tra squadre di varie regioni. Nella compagine Abruzzo-Molise giocava Carletto Carambois. Non rammento chi fosse l’avversario, ma ricordo che vincemmo realizzando 6 o 7gol. I nostri carcerieri si lasciarono coinvolgere ammirando quel ragazzo lacero che, pur se gravemente debilitato dalle privazioni della prigionia, correva, calciava, dribblava, segnava… giocando con classe e passione. - Un altro episodio che mi preme rammentare è l’incontro con mio padre. Ero ancora a Sieldce. Per un fortuito caso lessi la rivista di propaganda fascista “La voce della Patria”. In essa vi era una rubrica di “ricerche” e scoprii che mio padre, capitano del regio esercito, chiedeva notizie di suo figlio Michele. La gioia di appurare che era ancora vivo fu immensa. Stranamente mi fu concesso di recarmi nel campo di Biala Podlaska per incontrarlo. Quello che sembrava un atto di pietà era una subdola strategia, speravano che io aderissi alla nascente repubblica fascista. A Biala su circa 2500 “ospiti” solo 147 non avevano accettato le proposte tedesche. Mio padre, fascista, era tra gli “aderenti”. Sicuramente oltre alla scelta ideologica ce n’era una profondamente umana: egli aveva - di fatto adottato tre nipoti, miei cugini, rimasti orfani di madre. Essi vivevano a casa nostra ed il ritorno del capofamiglia in Italia significava una garanzia per mia madre e per i mie fratelli. Quando arrivai al campo compresi che si sperava in una mia adesione o forse che il mio genitore potesse, con il suo ascendente, indurmi a cambiare idea. In realtà stava per verificarsi l’esatto contrario: pur di non separarsi da me il Capitano Angelo Montagano era disposto ad un ripensamento. Una sera ci incamminammo silenziosi verso il comando tedesco. Lo trovammo chiuso! Compresi la sua intenzione e gli dissi “nella nostra famiglia basta solo un eroe”. Rispettavo e comprendevo la sua scelta e lui doveva fare altrettanto. Però, ribadii che non avrei mai mosso per i tedeschi nemmeno una “spingula” (spilla). Papà Angelo comprese e sorrise. “Fortunatamente” non ebbi la sventura di combattere contro mio padre.. quante volte ho pensato con terrore all’eventualità di trovarmelo di
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