L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Sara Durantini
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L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux di Sara Durantini Edito da 13Lab Editore nel 2021 Il breve saggio di Sara Durantini, L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux, edito da 13Lab Editore nel 2021, è un inno d’amore a tre grandi donne e scrittrici del novecento francese. Una finestra sulla grande letteratura che fa luce sulla forza dirompente e universale di tre figure femminili che, ciascuna con il proprio stile, hanno segnato con determinazione il cammino della rappresentazione narrativa femminile. “La lingua inaugurata segna uno spartiacque tra ciò che è stato prima del loro ingresso in società e ciò che è avvenuto (e avverrà) dopo: è una lingua che parla alle donne e delle donne, spiega e converte in parole il sentire femminile, si nutre di spazi e tempi propri. Una lingua libera.” Sara Durantini divide il suo lavoro in tre macro sezioni approfondendo l’analisi per ciascuna scrittrice, lasciando sempre aperta la mente alle contaminazioni che ciascuna di esse ha avuto da un’energia cosmica che le ha spinte ad aprirsi all’autobiografia come voce intima e ancestrale
dell’animo femminile. Ho impiegato un bel po’ di tempo a leggere questo saggio perché è un continuo stimolo e non ho resistito al desiderio di tornare a sfogliare e rileggere alcuni libri di ciascuna scrittrice. Subito dopo aver terminato la prima sezione dedicata a Colette ho trovato nella mia libreria Hotel Bella Vista e altri racconti; con Marguerite Duras ho rispolverato L’amante e per Annie Ernaux mi aspettava L’altra figlia.
Che splendida avventura leggere l’analisi di Sara Durantini e subito dopo immergersi nella lettura di un lavoro della scrittrice in esame! È stato come se le pagine si fossero arricchite di sfumature nuove, come se l’animo di ciascuna scrittrice fosse stato messo in risalto e delicatamente sottolineato dai richiami di Durantini. Ritengo sia fondamentale in ogni lettura che ci si accinge a fare, comprendere e immergersi nel periodo storico, culturale e sociale durante il quale lo scrittore ha messo mano al suo lavoro. E il lavoro certosino di Sara Durantini permette di sviscerare l’elaborazione personale di ciascuna di loro, i percorsi attraverso i quali sono riuscite a esternare con la scrittura, tormenti personali e interiori con tale eccellente bravura al punto da renderli trasposizione universale del sentire femminile. Argomenti come il difficile rapporto con la figura materna, la sessualità e l’incesto, l’aborto e l’emancipazione femminile erano temi tabù per il periodo storico durante il quale sono vissute eppure tutte e tre, quasi passandosi il testimone, sono riuscite a innescare una escalation liberatoria della scrittura. Partendo da Colette, nata nel 1873 per arrivare a Duras nata nel 1914 e infine a Ernaux nata nel 1940. La grande capacità di Colette, Duras e di Ernaux di interpretare l’energia femminile attraverso il coraggio di una scrittura autobiografica ci regala opere di una grandezza sopraffina a testimonianza di quanta inarrestabile forza interiore si sia celata dietro il millenario silenzio di ciascuna donna che ci abbia preceduto. Autrici che sono riuscite a seguire quella forza motrice interiore che le ha spinte a trasmigrare le proprie intime emozioni nella scrittura riuscendo a liberare loro stesse e ad interpretare la voce di tutte le donne. Come specifica Duras in un’intervista rilasciata a Bernard Pivot, è una scrittura corrente che «corre, che ha fretta di
afferrare le cose più che dirle […] è una scrittura che è come se corresse sulla crosta, per andare veloce, per non perdere.» Scrittura individuale che si trasforma in universale perché i lavori di Colette, Duras e Enaux toccano le corde più intime di ogni donna riuscendo a tradurre i tormenti, le pene, le introspezioni interiori di intere generazioni passate e, oserei dire, future. “Che il mio corpo, le mie sensazioni, e i miei pensieri diventino scrittura” dichiara Ernaux mentre la scrittura di Colette, secondo Durantini, assurge “a depositaria della memoria, talismano per superare gli anni” L’evento della scrittura è un saggio meticoloso e delicato e, soprattutto, un grande omaggio d’amore verso la potenza della scrittura femminile di tre donne che, con la propria vita e il proprio stile, hanno dato voce a chi voce non ne ha. Intersezioni: mini ciclo di conferenze fra storia del territorio, architettura, toponomastica e letteratura Al Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento
Venerdì 4 febbraio, alle ore 16:00, il Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento presenta un ciclo di mini conferenze dedicate alle INTERSEZIONI fra storia del territorio, architettura, toponomastica e letteratura. In questo primo appuntamento, i professori Cristiana Luzi e Gianmaria Bagordo ci condurranno alla scoperta della sperimentazione architettonica fra le due guerre, unica e peculiare nel contesto della bonifica pontina, e tesseranno un filo ideale che da Virgilio, passando per Dante, Pasolini e Pennacchi, giungerà fino ai coloni pometini.
L’ingresso è gratuito e consentito solo con Green Pass rafforzato. Obbligo di mascherina FFP2. La prenotazione è obbligatoria. Per info e prenotazioni: 0691146500 museocittadipomezia@comune.pomezia.rm.it FUORI PORTA – A Sabaudia una mostra del Panathlon sulla emancipazione femminile e i giochi Olimpici *”L’emancipazione femminile vista attraverso i Giochi Olimpici”*, una mostra di elevato spessore culturale è in programma a Sabaudia a Palazzo Mazzoni. L’inaugurazione è prevista venerdì 4 febbraio, alle 11.30, visitabile fino al 19 febbraio. Il prestigioso evento apre la rassegna delle manifestazioni previste per la celebrazione di “Sabaudia comune europeo dello sport 2022”. L’organizzazione della mostra è a cura del Panathlon International – club di Latina – presieduto da Giuseppe Bonifazi.
L’evento è di stretta attualità, dopo i successi delle atlete azzurre nelle tante competizioni svoltesi recentemente, il ruolo della donna è sempre più importante, con largo seguito in ogni parte del mondo. Il club panatletico, oltre alla mostra, ha previsto durante quest’anno manifestazioni di spicco: – Marzo: Inaugurazione Monumento al Fair Play – Maggio: Convegno “La grande bellezza dello sport” – Luglio: “L’apnea tra sport, emozioni, sogno, ecologia” – Incontro con Ilaria Molinari – Settembre: evento Ewos per la Settimana Europea dello Sport – Iniziativa della Commissione Europea il cui scopo è la promozione dello sport e dell’attività fisica in tutta Europa per un miglioramento dello stile di vita. – Ottobre: Convegno “Dentro e fuori lo stadio”. È in corso di organizzazione con la Federazione Italiana Dama l’evento “I giochi della mente” (torneo interscolastico di dama) per l’anno in corso tra gli istituti di Latina, Aprilia, Pontinia, Sabaudia. La fase finale si terrà a Sabaudia in chiusura dell’anno scolastico, con forum storico culturale avente per tema “Le città di Fondazione”. Presso il Liceo ad indirizzo sportivo si terrà un concorso con premio intitolato ad Antonio Gambacorta (cofondatore dell’area Lazio del Panathlon) con prova sul tema “Lealtà e slealtà nello sport”. Un amore di Dino Buzzati UN AMORE
di Dino Buzzati Ed. Oscar Mondadori Oggi, 28 gennaio 2022, sono 50 anni dalla morte di Dino Buzzati, uno dei nostri più illustri scrittori, mi sembra doveroso rendergli un piccolo omaggio. Una penna attuale e quasi magica la sua, che percorre strade di montagna, trincee di guerra, amori tragici senza tralasciare il mondo dell’improbabile che diventa possibile. Dino Buzzati fu giornalista per desiderio della famiglia e con i suoi reportage e le sue critiche artistiche si fece conoscere in moltissimi Paesi; ma fu anche e soprattutto scrittore per passione, definito da molti come il “Kafka italiano”. Un amore è un romanzo erotico, con spunti autobiografici, pubblicato nel 1963 e incentrato su una tormentata storia sentimentale. Storia, quella qui narrata, apparentemente banale dell’innamoramento di un maturo e stimato professionista per una ragazzina che per arrotondare le sue entrate, si prostituisce. Quando il romanzo uscì, Buzzati venne criticato per aver scritto un’opera con il solo fine di ottenere un facile successo e un sicuro guadagno. Un amore è invece l’indimenticabile racconto della perdizione del protagonista che si innamora, anzi si ammala d’amore sullo sfondo di una Milano grigia e cupa.
Più di una volta, aveva constatato l’ incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo. Il destino è una costante negli scritti di Buzzati, romanzi o racconti che siano; il destino è onnipotente e beffardo e impescrutabile. Ed è proprio in quest’ottica che viene descritto anche il rapporto amoroso tra Antonio e Laide, opposti non solo nel genere ma anche nel rapportarsi uno con l’altro. Uno stile quello del nostro immortale autore, lineare ma tumultuoso, elegante e tossico allo stesso tempo; non concede via di scampo al lettore che legge. L’amore è vita, ma anche disgrazia. Per finire vorrei fare un piccolo accenno anche ai racconti: ho conosciuto Buzzati proprio con gli scritti brevi, in cui la sua abilità di entrare nel fantastico, dove l’impossibile è reso reale, è all’ennesima potenza. Non posso dimenticare Sette Piani, I topi, Ombra del sud, Eppure battono alla porta, Sciopero dei telefoni e tanti altri. Dino Buzzati fù una persona eclettica che si sentì a proprio agio non solo nelle vesti di giornalista e scrittore, ma anche in quelle di pittore e di compositore di opere teatrali delle quali curò anche scenografie e costumi. Al termine della lettura mi è tornato in mente un altro romanzo erotico di fama, in cui però l’uomo maturo non è succube come Dorigo della sua amante bambina, ma è al
contrario un despota ossessionato dalla sua ninfetta, verso la quale nutre una passione malata che non conosce limiti né pietà. Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. V. Nabokov SINOSSI In una Milano simbolo della Babele di ogni tempo si muove il protagonista di Un amore: Dorigo, maturo professionista ingenuo e illuso riguardo all’amore, cade e rimane inesorabilmente avvinghiato nella passione verso Laide, giovanissima ma già spregiuducata e avvezza a trattare con uomini molto più grandi di lei. Un romanzo erotico dove si indaga sulle inquietitudini dell’uomo descrivendo la parabola discendente di un amore vero che sconfinerà nel tormento e nella malattia.
Tomato Red di Daniel Woodrell La vita gioca duro quando sei nato dall’altra parte della ferrovia e vivi sull’altopiano degli Ozarks, nel Missouri, nella cittadina di West Table. Un’ambientazione che non regala nulla e, fin dalle prime pagine, segna con fermezza i limiti entro i quali si muovono i protagonisti di Tomato Red di Daniel Woodrell edito da NNEditore Nascere in una baracca nella zona più degradata della città; vivere a ridosso delle rotaie con il passaggio del treno che ne scandisce il tempo; condividere il quotidiano con chi non ha altra compagnia se non quella dell’alcool e delle droghe; elementi che non permetteno di immaginare nessun altro futuro se non quello che un destino beffardo ha già disegnato per loro. “Il nostro futuro a West Table è stato deciso e stabilito lo stesso giorno in cui siamo nati […] Perciò un qualsiasi altro posto andrà benissimo” L’io narrante di Tomato Red è il giovane Sammy Barlach che, dopo una giornata a drogarsi con altri ragazzi, si introduce in un’abitazione ricca per rubare ma i compagni lo abbandonano e finisce per addormentarsi su una poltrona. Sarà svegliato da Jamalee, la ragazza dai capelli rossi, la Tomato Red del titolo, e il fratello Jason. I fratelli Merridew si sono intrufolati nella stessa casa ma non con l’intento di rubare bensì con l’idea di fingersi ricchi e abituarsi a vivere nel lusso e nel benessere. Usciranno insieme da quella casa per dare l’avvio ad una convivenza sconclusionata, claudicante e assurda ma che rappresenta, ciascuno per una caratteristica diversa, quanto di più vicino ad una famiglia i tre possano
mai ambire. Tomato Red potrebbe essere un noir, un giallo o un punto di partenza per un hard boiled come suggerisce la nota del traduttore Guido Calza. In qualsiasi genere lo si voglia inserire nella sua trama è inserita la morte di un personaggio solo che l’evento non è di per sé il fulcro del romanzo stesso quanto un ulteriore elemento scontato di una vita di inevitabili e ineluttabili sconfitte. Non è più rilevante risolvere quella morte e scoprire se sia un omicidio, un suicidio, un regolamento di conti o un semplice incidente. Quella morte rappresenta un altro elemento nefasto da aggiungere ad una vita che null’altro può offrire se non quell’appiccicoso degrado e quell’accanita povertà che pervade ogni cosa.
Daniel Woodrell è abile con il suo stile asettico, immediato e privo di inutili fronzoli a scaraventa il lettore in una realtà così brutale e spietata da non far filtrare alcuna possibilità di riscatto riuscendo ad offuscarne anche il semplice pensiero di un eventuale futuro alternativo. Tutto risulta fermo, immobile, ovvio, scontato e ogni avvenimento non sorprende ma appare come una naturale conseguenza. Magistrale la sua capacità di trasformare gli oggetti inanimati in elementi integrali e funzionali alla drammaticità della realtà che vivono i protagonisti. Woodrell anima gli oggetti come per addensare ancora di più quelle grate entro le quali i personaggi sono relegati, imprigionati “La parte peggiore di luglio era piombata sulla città in anticipo, nell’ultima settimana di maggio, e rovinava piani ovunque andasse” “Avevo parcheggiato di fronte alla chiesa. Era una struttura acuminata, di un bianco lucente, e sembrava pronta a strapazzarmi con prediche, rimproveri e spaventosi passi della Bibbia se solo avessi camminato su quel marciapiede” “Il caldo aveva reso gli alberi lungo le strade tronfi e avari della propria ombra. Per giunta avevano fatto un accordo con il vento perché non soffiasse, così il valore di quell’ombra era salito alle stelle” Il mese di luglio, un marciapiede, l’ombra degli alberi. Elementi di contorno ai protagonisti che sembrano delimitarne ancora di più il futuro, posizionati come paletti dei confini entro i quali muoversi, per immobilizzarli al loro posto senza soluzione di continuità. “Sammy, a te non piacerebbe combinare qualcosa? In futuro? Contare qualcosa?” […] Nah. Io penso solo che tirerò avanti, accumulerò giorni, capisci, fino a quando farò una cazzata così grossa che il futuro verrà disdetto. O magari deciso da qualcun altro al mio posto. Ci sono buone probabilità anche
per quello.” Tomato Red rappresenta un’eccellente presentazione di come la casualità della nascita di un individuo possa determinarne inequivocabilmente il destino. Sintetizza in poco meno di 200 pagine, con scene indelebili quasi fossero fermi immagini, i turbamenti, i timori, i sogni e i turbamenti di qualsiasi generazione che guardi al futuro quando ogni cosa attorno non faccia altro che additarli come falliti, inconcludenti e perdenti. Tomato Red appare come un manifesto di sconfitta per la cecità della società stessa, malata per il suo sistema automatico di infliggere e condannare senza indugio, incanalando il destino degli esseri umani. Il romanzo è un grido di dolore che mette in luce l’intima desolazione e disarmante impotenza di chi, semplicemente, vive dall’altra parte della ferrovia. “Aspetto Godot, papà” di Meri Borriello Aspetto Godot, papà di Meri Borriello a cura di Daniele Falcioni tratto da antologia Voci Nuove
ed. Rapsodia Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente dall’ospedale. “Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto, spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo inferno” disse stancamente lui. “Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo una motorizzata, promesso, papà”. “Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi? Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza. Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni imbalsamati”. Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le cure sperimentali. “Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità. Non ho nessuna intenzione di prenderla”. Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu esaudito: suo padre si interruppe. A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco, prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore: arrampicati e prendila”.
Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà, è un giardino privato. Non si potrebbe…” Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli occhi al cielo. Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere. Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse, non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui più velocemente che poteva. “Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in macchina e partirono per far ritorno a casa. Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’ di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione, tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte. Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora stava di merda! Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa. Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò. Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo
farti vedere una cosa”. “D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più tardi”. Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto. Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le mani. “Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese: era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha un buon odore, papà. Dove devo metterla?” “Da nessuna parte. Devi intagliarla”. Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me. Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e comincia a lavorare”. Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in gola e fece come le aveva chiesto il padre. “Che cosa devo incidere, papà?” “Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è difficile. E poi le nostre iniziali”. Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e cominciò ad affondarlo nel legno. Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad
esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce che le tremava. “Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi, sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non me ne sono dimenticato”. Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”. Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire. Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato andata e ritorno…”(2) Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è assenza, non piagnisteo. Continua”. Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti. Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente che si muova da nessuna parte. Solo e andato”. Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la voce però deve essere piena, non di testa, non sei un’isterica, mantieni la voce bassa”. Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta, benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare. Quando cadrò, piangerò di gioia”. (2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.). Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo chiamò in sussurro: “Papà?” Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto.
Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”. Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare. Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo solo contava. La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi, oltre quel cielo così azzurro. “Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’ rispose: “Aspetto Godot, papà”. “Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate. Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni, Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi. Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo, gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi, le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento avevano per lei volti anonimi. Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua
camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto. C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte? Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium, orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della morte! La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso, sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le sue mani, ma questo non le bastava in quel momento. Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui, pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su quell’abito nero. Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la mano, a dirle: “Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato una testata. Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla
madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse a schermarsi a vicenda in quel dolore. Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima, ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa. Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere, stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una sigaretta. Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva, pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se dentro non avesse più niente che potesse far uscire le lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.
Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi. Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la allungò tentando di prendere un raggio. Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò. E andò avanti. Foto di Pexels / 9144 images IL PROFUMO di Patrick Süskind IL PROFUMO di Patrick Süskind Ed. TEA
Se dovessi definire l’opera di Patrick Süskind con un sostantivo che non sia libro, o romanzo o scritto, direi che Il Profumo è un quadro. Un dipinto grande, scuro, boccaccesco che, senza nulla lesinare, ci fa esplorare il “fugace” regno degli odori. La storia di Jean-Baptiste Grenouille ha dell’incredibile: nato nella miseria più nera, quest’uomo non ha odore e già nei primissimi giorni della sua vita, coloro che vengono a contatto con lui hanno premonizioni negative. In contrapposizione alla sua natura Grenouille ha un olfatto sensibilissimo ed è attratto in maniera spasmodica dagli odori; dei profumi e delle puzze fa armi per sopravvivere e…nutrire la sua anima perversa e vendicativa. Lo stile di Patrick Süskind è zeppo di dettagli e descrizioni al punto tale che durante la lettura ci sembra di sentirli quegli odori che portano il protagonista alla dannazione. Le atmosfere sono reali e i personaggi vivi, leggiamo di efferatezze senza però giudicare e quasi prendiamo in simpatia un personaggio unico e originale. Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi. Il Profumo è un libro crudele, non adatto a tutti forse, in cui fantasia e realtà si mescolano sapientemente. Un noir o uno psicologico? Non saprei classificarlo con precisione;
rimane un romanzo intenso, che non lascia riprendere fiato, da leggere e forse anche rileggere. La rilettura la collego al fatto che è scritto con uno stile incalzante, eccettuato forse una parte a mio parere un po’ lenta, in cui si narra l’autoisolamento del protagonista tra le montagne. La peculiarità del ritmo porta quindi il lettore ad esserne completamente avvinto e a non soffermarsi. Un romanzo quindi forte che però consiglio vivamente; con Il Profumo, Patrick Süskind ha creato un fenomeno editoriale, è stato pubblicato in 51 lingue e nel mondo ha venduto 15 milioni di copie. Gli uomini possono chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non possono sottrarsi al profumo. Poiché il profumo è il fratello del respiro. SINOSSI Jean-Baptiste Grenouille nasce nella Parigi del Settecento, nel luogo più mefitico della capitale: il Cimitero degli Innocenti. Orfano, brutto e apparentemente insensibile, ha una caratteristica inquietante: non emana alcun odore. È però dotato di un olfatto unico al mondo, e il suo sogno è quello di dominare il cuore degli uomini creando un profumo capace di suscitare l’amore in chiunque lo fiuti. Per realizzarlo è pronto a tutto…
Riapre la Biblioteca comunale Ugo Tognazzi Nuovi orari da gennaio 2022 La Biblioteca comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia riapre le porte tutto il giorno. Da gennaio 2022 entrano in vigore i nuovi orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle ore 18.45, il sabato dalle ore 9.00 alle ore 18.00. L’accesso, su prenotazione, è consentito esclusivamente con green pass rafforzato, come da nuova normativa anti covid. “Una buona notizia per l’intera cittadinanza, e in particolare per gli studenti e le studentesse di Pomezia – spiega la vice Sindaco Simona Morcellini – Dopo la chiusura forzata dei mesi scorsi, torniamo ad aprire le porte a uno degli spazi culturali più amati della Città che, grazie al grande murale “L’Antiporta” dell’artista Agostino Iacurci, si è arricchito diventando un’opera d’arte a cielo aperto. Un enorme patrimonio cartaceo e digitale, da custodire e diffondere”. “Vogliamo una biblioteca sempre più fruibile e accogliente – aggiunge il Sindaco Adriano Zuccalà – Un luogo di incontro, uno spazio di iniziative culturali e sociali a servizio della comunità, un punto di riferimento per bambini, ragazzi e adulti. Con la riorganizzazione degli orari, che consentirà alla cittadinanza di usufruire dei servizi tutto il giorno, incluso il sabato, e con la riqualificazione degli spazi esterni e della piazza antistante, la biblioteca comunale torna ad essere fulcro della vita culturale cittadina”.
Attivo un doppio canale di prenotazione per accedere alla struttura: 1. App TUPASSI su smartphone o accedendo al seguente link: https://www.tupassi.it/login-prenotare-servizio-con-tupa ssi/ registrandosi al portale o tramite le credenziali SPID 2. telefono: 06 91146288. Ricordiamo che tutte le attività si svolgeranno nel pieno rispetto delle norme di contenimento della pandemia da Covid-19. Presentazione del libro: Evoluzione umana: alla scoperta! Presso il Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento Il Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento è lieto di invitarvi, sabato 15 gennaio alle 16,30, alla presentazione del libro: Evoluzione umana: alla scoperta! di M.L. Belli e C. Luzi Un diario avvincente sulla storia dell’evoluzione umana, scritto per catturare l’attenzione dei ragazzi e suscitare l’interesse degli adulti; utile guida per andare alla scoperta di musei e luoghi dei ritrovamenti paleoantropologici,
disseminati nella nostra Regione e spesso ignoti ai più. La prenotazione è obbligatoria. L’ingresso è contingentato e consentito solo con super green pass. Per info e prenotazioni: 06 91146500 martedì-venerdì: 9,30-12,30/16,30-19,00; sabato e domenica: 10,30-12,30/16,30-19,00 museocittadipomezia@comune.pomezia.rm.it
Diaphorà di Latina, con sede a Fogliano, seleziona 4 giovani operatori volontari dai 18 ai 28 anni di età. È stato pubblicato il bando pubblico di concorso per la selezione di giovani da avviare in progetti di Servizio Civile Universale. La domanda di partecipazione deve essere presentata entro e non oltre le h 14.00 del 26 gennaio 2022. È previsto un rimborso spese mensile di 445 euro per 12 mesi, con 25 ore settimanali di servizio. Diaphorà aderisce al progetto “Solidalmente” (codice progetto PTCSU0005021012933NMTX) che è relativo alla tutela dei diritti sociali e ai servizi alla persona. L’obiettivo generale del progetto è quello di promuovere un miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità. Per conoscere meglio le attività che svolgiamo è possibile consultare il nostro sito www.diaphora.it.
I candidati verranno convocati per sostenere le selezioni, che potranno svolgersi in presenza o on line, a seconda della situazione emergenziale. Le selezioni si svolgeranno nel mese di febbraio 2022 e il servizio inizierà orientativamente nel mese di maggio 2022. Gli aspiranti operatori volontari devono presentare la domanda di partecipazione esclusivamente attraverso la piattaforma Domanda on Line (DOL) raggiungibile tramite PC, tablet e smartphone all’indirizzo https://domandaonline.serviziocivile.it È possibile accedere ai servizi di compilazione e presentazione domanda sulla piattaforma DOL esclusivamente con SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale. Sul sito dell’Agenzia per l’Italia Digitale www.agid.gov.it/it/piattaforme/spid sono disponibili tutte le informazioni su cosa è SPID, quali servizi offre e come si richiede. Per la Domanda On-Line di Servizio civile occorrono credenziali SPID di livello di sicurezza 2. I cittadini di Paesi appartenenti all’Unione europea e i cittadini extra comunitari regolarmente soggiornanti in Italia, troveranno informazioni dettagliate su come partecipare al bando nel sito del servizio civile https://www.politichegiovanili.gov.it/. Per tutte le informazioni o un supporto alla compilazione della domanda potete contattare Diaphorà ore ufficio al numero 3455257782 oppure scrivere a info@diaphora.it
Ricominciamo a vivere Un viaggio nella storia delle terme nell’antica Roma Il nuovo anno appena iniziato ci trova ancora un po’ assonnati, forse. Sicuramente tutti desiderosi di un nuovo “bel vivere” quotidiano! In questa materia, sappiatelo, siamo sempre stati maestri e per convincercene profondamente, ci basta rivolgerci, per esempio, al nostro passato antico romano… Pompei – Casa dei Vettii Foto da Altervista Ma scusa, direte voi, la storia dell’antica Roma non è
caratterizzata dal desiderio di conquista, dalla visione strategica, dall’attitudine pratica e costruttiva, dall’applicazione della legge: Dura lex, sed lex … (“Sebbene dura, la legge è necessaria”)? È vero, questa è la lente privilegiata attraverso la quale normalmente guardiamo ed esaminiamo la civiltà romana. Dunque, è difficile credere che la contemplazione della Natura fosse considerata dai Romani uno dei più grandi piaceri cui aspirare nella vita. Fu il fascino della cultura ellenica, entrato nel mondo italico attraverso gli Etruschi fin dall’VIII sec. a.C., a sedurre e trasformare gradualmente il volto semplice ed essenziale degli antichi abitanti dell’Italia. Per quel che riguarda Roma, dopo la conquista della Grecia, portata a termine nel 146 a.C., la bellezza, la grazia, il genio greco aprirono la mente del conquistatore allargandone i confini, raffinandola e risvegliandone la dimensione contemplativa, fino ad allora soffocata da una imperiosa istanza di affermazione corroborata da uno straordinario senso pratico. Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio (“La Grecia, conquistata, conquistò a sua volta il selvaggio vincitore e introdusse le arti nel Lazio campagnolo” racconta Orazio nelle Epistolae). Intendiamoci: questa evoluzione culturale riguarda principalmente il mondo romano più aristocratico, patrizio, colto. Un mondo sorretto da una solida base sociale fatta di servi, schiavi, attendenti, clientes.
Affresco dalla Villa di Livia a Prima Porta Foto da Itinera Barbarae – Overblog Un mondo che seppe concepire il concetto di Otium. Un concetto molto distante dall’idea che abbiamo noi di Ozio. Il nostro proverbio dice infatti che l’ozio è il padre dei vizi… L’ozio è nemico dell’anima, secondo San Benedetto da Norcia, che per esorcizzarlo raccomandava l’Ora et labora incessantemente… Invece Otium per i Romani antichi è la più nobile delle dimensioni, in cui il vuoto si riempie di studio, letture, meditazioni, contemplazione del bello, piaceri dello spirito, equilibrio tra corpo, mente e anima. Una dimensione ideale: basti pensare che la realtà opposta, fatta di lavoro, occupazioni, affari, impegno politico, fatica, è denominata Negotium, cioè “negazione dell’Otium”… “Quando sono nella mia villa di Laurento – scrive Plinio – non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio,
nessun timore mi turba.” E per Cicerone non è un uomo libero quello che non ozia di tanto in tanto. Orazio col suo Carpe Diem (“Cogli il giorno”, tema di una delle più celebri Odi del poeta di Età Augustea) ci guida entro la sua visione epicurea: affannarsi serve a poco. Nella tragica consapevolezza della propria precarietà, conviene cogliere il giorno conferendo valore, dignità e piacere a ogni istante. Se l’Otium e la visione filosofica del Carpe Diem si coltivano nella sfera sociale più aristocratica, tra giardini e domus sontuose, tra abiti e ornamenti lussuosi, tra originali e costosi manicaretti cucinati dall’Archimagirus (lo chef privato presente in molte domus e ville patrizie) e tra ottime degustazioni di vini pregiatissimi, c’è però uno specifico aspetto del bel vivere degli antichi Romani che può essere praticato da ogni classe sociale. Parliamo delle Terme, un luogo di vero piacere del corpo e dell’anima, oltre che di igiene, apprezzato in tutto l’Impero. Recarsi alle Terme è un’abitudine molto gradita al popolo romano, forse più del circo e dei giochi gladiatori.
Ricostruzione Vasca delle Terme di Caracalla Foto da Turismo Italia news Durante l’Età Repubblicana i Romani apprendono dai Greci l’abitudine di allestire una stanza da bagno nelle case di chi può permetterselo. Ma l’indole romana principalmente organizzativa, pianificatrice ed estremamente pratica comincia a immaginare una dimensione pubblica dei Bagni, strettamente correlata alla presenza dell’acqua. Si finisce così, nei secoli, con l’edificare, nella sola Roma, 11 grandi complessi termali pubblici (gratuiti o quasi) e 856 stabilimenti balneari privati. Quanto all’acqua, si arriva a 11 Acquedotti che riforniscono la città con un’abbondanza davvero eccezionale. Le prime Terme vengono create a Roma da Agrippa, genero di Augusto, nel 25 a.C. e dopo di lui gli imperatori romani fanno a gara per superare i predecessori con Terme sempre più grandiose. Così la Roma imperiale si abbellisce di impianti termali, che diffonde in tutte le sue province, come testimoniano i numerosi e imponenti resti archeologici diffusi su tutto il
territorio conquistato. Le straordinarie architetture termali conferiscono grande prestigio a ogni città, assicurando benevolenza e consenso popolare all’imperatore di turno. A Roma ricordiamo le Terme di Agrippa, le Terme Neroniane o Alessandrine, le Terme di Tito, le Terme di Traiano, le Terme Surane, le Terme Eleniane, le Terme Commodiane, le Terme di Caracalla, le Terme Deciane, le Terme Aureliane, le Terme di Diocleziano e le Terme di Costantino. Quasi tutta la città passa una volta al giorno dalle Terme: immaginiamo, quindi, gli avventori tutti in fila all’entrata e lungo i percorsi studiati appositamente per evitare ingorghi. Basti pensare che le Terme di Caracalla potevano ospitare almeno 1.600 persone all’ora… Le Terme diventano quasi un simbolo dell’Urbe e della sua filosofia di vita: il bagno precede il banchetto pomeridiano e nei giardini che sorgono intorno alle vasche si passeggia, si amoreggia e si concludono affari. L’argomento delle Terme romane è variegato e assai interessante, ma per ora ci fermiamo. Ci basti l’immagine di questi bellissimi impianti termali antichi: ci riempirà di una straordinaria frescura e ci farà sentire molto vicini ai nostri avi nel comune desiderio di riposo e bel vivere, in questo timido inizio d’anno!
Ricostruzione Terme di Diocleziano Foto da video.corriere.it Maria Cristina Zitelli Le considerazioni di una portinaia e altri racconti di Giovanni Montini Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma Roma raccoglie e accoglie, innalza e esalta l’animo di ogni viaggiatore che l’attraversi mentre lei, maestosa e onnipresente, si adagia da millenni sugli stessi sette colli. Saggiamente consapevole di come ogni cosa scelga la sua strada
naturale, ecco che Roma invita a sorprenderci dalla bellezza dei particolari, dall’energia dei colori e dagli strati temporali che l’avvolgono. Roma della bellezza ne è la regina, non perché grandi scrittori ne abbiano sempre parlato, ma perché lei del tempo sembra proprio non importarsene. Roma è il tempo. In ogni angolo, in ogni tetto, arco, colonna, architrave, balcone, affaccio, cupola, abbaino, ponte o rovina, ecco che Roma appare galleggiare senza tempo sebbene ne sia completamente intrisa. Se si ha la buona creanza di lasciare in albergo ogni tipo di orpello abbandonandosi al piacere di viverla, ecco che Roma è capace di abbracciarti, sussurrarti melodie e entrarti dentro come nessun’altra città è in grado di fare. La letteratura ha da sempre trovato ispirazione tra le strade e le atmosfere di Roma per ambientare libri di ogni genere, dai romanzi rosa ai gialli, dai thriller ai saggi, dalle poesie alle canzoni ma per parlarvi di Roma ho preferito addentrarmi in alcuni quartieri celandomi dietro la scrittura di Giovanni Montini che di lavoro non fa lo scrittore bensì si occupa da sempre di moda. Ho scovato Le considerazioni di una portinaia e altri racconti di Giovanni Montini edito da Robin Edizioni casualmente navigando su Instagram e mi ha colpito fin da subito per la sua copertina monocromatica gialla, quel lettering moderno con un carattere senza grazie e quelle sfere rosse come bocche fameliche pronte a raccontare. Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma. Troviamo la storica Trastevere, la Garbatella, l’Ostiense, il ricco e aristocratico quartiere dei Parioli, il cuore del quartiere Monti e in finale la centralissima Stazione Termini.
Cinque storie l’una distinta e distante dall’altra che raccolgono un filo rosso a quattro zampe che scodinzola da una storia all’altra accompagnando e esaltando la reale bellezza di Roma. Perché Roma è come Peppe: fedele, tenera, generosa, giocherellona, amica. Ti abbraccia riscaldandoti con il proprio affetto ma ha lo sguardo capace di andare oltre, che segue la propria anima, che ascolta sempre e soltanto il proprio cuore e, in virtù del suo carattere, resta integra e fedele solo a se stessa. Sei racconti che sono magistralmente incastrati per trasformarsi in un giallo e condurre il lettore per mano in un finale a sorpresa. A Trastevere ci si perde nei vicoli nascosti, bui ma di colpo assolati dove il grande e affollato Viale Trastevere diventa un limite difficile da attraversare perché oltre non se ne conosco i segreti. Ed è vero perché Trastevere è il cuore di Roma, di quella vera, quella che si sente romana da sette generazione, che canta nei vicoli dal sapore antico, dei panni stesi tra le facciate dei palazzi, che ascolta il tuonare del cannone giusto dietro le orecchie, là sul Gianicolo, ogni giorno a mezzogiorno. La pettegola e sorniona Garbatella con i suoi grandi condomini e la portinaia che si trasforma in detective per sfuggire la noia di un matrimonio senza amore mentre la cruda e dura storia d’amore di Ottavio e Gabriele scelgono come testimone il silenzioso Gazometro, simbolo del quartiere Ostiense, conosciuto come Il Colosseo dei Poveri. La serenità del dolce mormorio del Tevere che accoglie sulle sue sponde l’impaurita Giuliana, fuggita dalla bellezza del quartiere Monti, incastrata nelle rigide regole della Roma bene che lotta perché «non era il gusto delle cose a determinare la qualità della vita, ma la possibilità di
poterlo fare, di poter decidere». Nel suo fuggire e sfuggire l’accoglie l’ultimo degli ultimi, quel barbone senza fissa dimora, che vive Roma come lei non è mai riuscita neanche a sognare. E infine il quartiere ricco e altolocato dei Parioli dove Giovanni Montini affresca la storia più divertente con la creazione di un racconto basato su un malinteso che coinvolgerà la nonna e le sue amiche del bridge in rocambolesche azioni fuorilegge. Racconto dopo racconto si attraversano i diversi quartieri di Roma fino a giungere alla stazione Termini. Luogo per antonomasia di arrivi e partenze è il momento in cui Giovanni Montini chiama a raccolta tutti i suoi personaggi offrendo loro la possibilità di andare come quella di restare. Così, lungo i binari dei treni, tra pesanti valigie, tabelloni di orari, passeggeri in transito e pensieri intimi, si apre il viaggio più bello che si possa fare, quello con noi stessi. Sarà una bellissima sorpresa scoprire chi tra loro partirà e chi sceglierà di restare a Roma.
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