L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Sara Durantini

Pagina creata da Raffaele Corti
 
CONTINUA A LEGGERE
L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Sara Durantini
L’evento della scrittura.
Sull’autobiografia femminile
di Colette, Marguerite Duras,
Annie    Ernaux    di    Sara
Durantini

Edito da 13Lab Editore nel 2021

Il breve saggio di Sara Durantini, L’evento della scrittura.
Sull’autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras,
Annie Ernaux, edito da 13Lab Editore nel 2021, è un inno
d’amore a tre grandi donne e scrittrici del novecento
francese.

Una finestra sulla grande letteratura che fa luce sulla forza
dirompente e universale di tre figure femminili che, ciascuna
con il proprio stile, hanno segnato con determinazione il
cammino della rappresentazione narrativa femminile.

 “La lingua inaugurata segna uno spartiacque tra ciò che è
 stato prima del loro ingresso in società e ciò che è avvenuto
 (e avverrà) dopo: è una lingua che parla alle donne e delle
 donne, spiega e converte in parole il sentire femminile, si
 nutre di spazi e tempi propri. Una lingua libera.”

Sara Durantini divide il suo lavoro in tre macro sezioni
approfondendo l’analisi per ciascuna scrittrice, lasciando
sempre aperta la mente alle contaminazioni che ciascuna di
esse ha avuto da un’energia cosmica che le ha spinte ad
aprirsi all’autobiografia come voce intima e ancestrale
L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Sara Durantini
dell’animo femminile.

Ho impiegato un bel po’ di tempo a leggere questo saggio
perché è un continuo stimolo e non ho resistito al desiderio
di tornare a sfogliare e rileggere alcuni libri di ciascuna
scrittrice. Subito dopo aver terminato la prima sezione
dedicata a Colette ho trovato nella mia libreria Hotel Bella
Vista e altri racconti; con Marguerite Duras ho rispolverato
L’amante e per Annie Ernaux mi aspettava L’altra figlia.
L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile di Colette, Marguerite Duras, Annie Sara Durantini
Che splendida avventura leggere l’analisi di Sara Durantini e
subito dopo immergersi nella lettura di un lavoro della
scrittrice in esame! È stato come se le pagine si fossero
arricchite di sfumature nuove, come se l’animo di ciascuna
scrittrice fosse stato messo in risalto e delicatamente
sottolineato dai richiami di Durantini.

Ritengo sia fondamentale in ogni lettura che ci si accinge a
fare, comprendere e immergersi nel periodo storico, culturale
e sociale durante il quale lo scrittore ha messo mano al suo
lavoro. E il lavoro certosino di Sara Durantini permette di
sviscerare l’elaborazione personale di ciascuna di loro, i
percorsi attraverso i quali sono riuscite a esternare con la
scrittura, tormenti personali e interiori con tale eccellente
bravura al punto da renderli trasposizione universale del
sentire femminile.

Argomenti come il difficile rapporto con la figura materna, la
sessualità e l’incesto, l’aborto e l’emancipazione femminile
erano temi tabù per il periodo storico durante il quale sono
vissute eppure tutte e tre, quasi passandosi il testimone,
sono riuscite a innescare una escalation liberatoria della
scrittura. Partendo da Colette, nata nel 1873 per arrivare a
Duras nata nel 1914 e infine a Ernaux nata nel 1940.

La   grande   capacità   di   Colette,   Duras   e   di   Ernaux   di
interpretare l’energia femminile attraverso il coraggio di una
scrittura autobiografica ci regala opere di una grandezza
sopraffina a testimonianza di quanta inarrestabile forza
interiore si sia celata dietro il millenario silenzio di
ciascuna donna che ci abbia preceduto. Autrici che sono
riuscite a seguire quella forza motrice interiore che le ha
spinte a trasmigrare le proprie intime emozioni nella
scrittura riuscendo a liberare loro stesse e ad interpretare
la voce di tutte le donne.

Come specifica Duras in un’intervista rilasciata a Bernard
Pivot, è una scrittura corrente che «corre, che ha fretta di
afferrare le cose più che dirle […] è una scrittura che è come
se corresse sulla crosta, per andare veloce, per non perdere.»

Scrittura individuale che si trasforma in universale perché i
lavori di Colette, Duras e Enaux toccano le corde più intime
di ogni donna riuscendo a tradurre i tormenti, le pene, le
introspezioni interiori di intere generazioni passate e,
oserei dire, future.

    “Che il mio corpo, le mie sensazioni, e i miei pensieri
  diventino scrittura” dichiara Ernaux mentre la scrittura di
   Colette, secondo Durantini, assurge “a depositaria della
           memoria, talismano per superare gli anni”

L’evento della scrittura è un saggio meticoloso e delicato e,
soprattutto, un grande omaggio d’amore verso la potenza della
scrittura femminile di tre donne che, con la propria vita e il
proprio stile, hanno dato voce a chi voce non ne ha.

Intersezioni: mini ciclo di
conferenze fra storia del
territorio,   architettura,
toponomastica e letteratura

Al Museo Città di Pomezia                                   –
Laboratorio del Novecento
Venerdì 4 febbraio, alle ore 16:00, il Museo Città di Pomezia
– Laboratorio del Novecento presenta un ciclo di mini
conferenze dedicate alle INTERSEZIONI fra storia del
territorio, architettura, toponomastica e letteratura.

In questo primo appuntamento, i professori Cristiana Luzi e
Gianmaria Bagordo ci condurranno alla scoperta della
sperimentazione architettonica fra le due guerre, unica e
peculiare nel contesto della bonifica pontina, e tesseranno un
filo ideale che da Virgilio, passando per Dante, Pasolini
e Pennacchi, giungerà fino ai coloni pometini.
L’ingresso è gratuito e consentito solo con Green Pass
rafforzato. Obbligo di mascherina FFP2.

La prenotazione è obbligatoria.

                 Per info e prenotazioni:

                         0691146500

        museocittadipomezia@comune.pomezia.rm.it

FUORI PORTA – A Sabaudia una
mostra del Panathlon sulla
emancipazione femminile e i
giochi Olimpici
*”L’emancipazione femminile vista attraverso i Giochi
Olimpici”*, una mostra di elevato spessore culturale è in
programma a Sabaudia a Palazzo Mazzoni.

L’inaugurazione è prevista venerdì 4 febbraio, alle 11.30,
visitabile fino al 19 febbraio. Il prestigioso evento apre la
rassegna delle manifestazioni previste per la celebrazione di
“Sabaudia comune europeo dello sport 2022”.
L’organizzazione della mostra è a cura del Panathlon
International – club di Latina – presieduto da Giuseppe
Bonifazi.
L’evento è di stretta attualità, dopo i successi delle atlete
azzurre nelle tante competizioni svoltesi recentemente, il
ruolo della donna è sempre più importante, con largo seguito
in ogni parte del mondo.

Il club panatletico, oltre alla mostra, ha previsto durante
quest’anno manifestazioni di spicco:
– Marzo: Inaugurazione Monumento al Fair Play
– Maggio: Convegno “La grande bellezza dello sport”
– Luglio: “L’apnea tra sport, emozioni, sogno, ecologia” –
Incontro con Ilaria Molinari
– Settembre: evento Ewos per la Settimana Europea dello Sport
– Iniziativa della Commissione Europea il cui scopo è la
promozione dello sport e dell’attività fisica in tutta Europa
per un miglioramento dello stile di vita.
– Ottobre: Convegno “Dentro e fuori lo stadio”.

È in corso di organizzazione con la Federazione Italiana Dama
l’evento “I giochi della mente” (torneo interscolastico di
dama) per l’anno in corso tra gli istituti di Latina, Aprilia,
Pontinia, Sabaudia. La fase finale si terrà a Sabaudia in
chiusura dell’anno scolastico, con forum storico culturale
avente per tema “Le città di Fondazione”.
Presso il Liceo ad indirizzo sportivo si terrà un concorso con
premio intitolato ad Antonio Gambacorta (cofondatore dell’area
Lazio del Panathlon) con prova sul tema “Lealtà e slealtà
nello sport”.

Un amore di Dino Buzzati
UN AMORE
di Dino Buzzati

Ed. Oscar Mondadori

Oggi, 28 gennaio 2022, sono 50 anni dalla morte di Dino
Buzzati, uno dei nostri più illustri scrittori, mi sembra
doveroso rendergli un piccolo omaggio.

Una penna attuale e quasi magica la sua, che percorre strade
di montagna, trincee di guerra, amori tragici senza
tralasciare il mondo dell’improbabile che diventa possibile.

Dino Buzzati fu giornalista per desiderio della famiglia e con
i suoi reportage e le sue critiche artistiche si fece
conoscere in moltissimi Paesi; ma fu anche e soprattutto
scrittore per passione, definito da molti come il “Kafka
italiano”.

Un amore è un romanzo erotico, con spunti autobiografici,
pubblicato nel 1963 e incentrato su una tormentata storia
sentimentale.

Storia, quella qui narrata, apparentemente banale
dell’innamoramento di un maturo e stimato professionista per
una ragazzina   che   per   arrotondare   le   sue   entrate,   si
prostituisce.

Quando il romanzo uscì, Buzzati venne criticato per aver
scritto un’opera con il solo fine di ottenere un facile
successo e un sicuro guadagno.

Un amore è invece l’indimenticabile racconto della perdizione
del protagonista che si innamora, anzi si ammala d’amore sullo
sfondo di una Milano grigia e cupa.
Più di una volta, aveva constatato l’ incredibile potenza
   dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e
pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due
 sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della
            vita, da un capo all’altro del mondo.

Il destino è una costante negli scritti di Buzzati, romanzi o
racconti che siano; il destino è onnipotente e beffardo e
impescrutabile. Ed è proprio in quest’ottica che viene
descritto anche il rapporto amoroso tra Antonio e Laide,
opposti non solo nel genere ma anche nel rapportarsi uno con
l’altro.

Uno stile quello del nostro immortale autore, lineare ma
tumultuoso, elegante e tossico allo stesso tempo; non concede
via di scampo al lettore che legge.

             L’amore è vita, ma anche disgrazia.

Per finire vorrei fare un piccolo accenno anche ai racconti:
ho conosciuto Buzzati proprio con gli scritti brevi, in cui la
sua abilità di entrare nel fantastico, dove l’impossibile è
reso reale, è all’ennesima potenza. Non posso dimenticare
Sette Piani, I topi, Ombra del sud, Eppure battono alla porta,
Sciopero dei telefoni e tanti altri.

Dino Buzzati fù una persona eclettica che si sentì a proprio
agio non solo nelle vesti di giornalista e scrittore, ma anche
in quelle di pittore e di compositore di opere teatrali delle
quali curò anche scenografie e costumi.

Al termine della lettura mi è tornato in mente un altro
romanzo erotico di fama, in cui però l’uomo maturo non è
succube come Dorigo della sua amante bambina, ma è al
contrario un despota ossessionato dalla sua ninfetta, verso la
quale nutre una passione malata che non conosce limiti né
pietà.

      Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi.

                   Mio peccato, anima mia.

                          V. Nabokov

SINOSSI

In una Milano simbolo della Babele di ogni tempo si muove il
protagonista di Un amore: Dorigo, maturo professionista
ingenuo e illuso riguardo all’amore, cade e rimane
inesorabilmente avvinghiato nella passione verso Laide,
giovanissima ma già spregiuducata e avvezza a trattare con
uomini molto più grandi di lei.

Un romanzo erotico dove si indaga sulle inquietitudini
dell’uomo descrivendo la parabola discendente di un amore vero
che sconfinerà nel tormento e nella malattia.
Tomato Red di Daniel Woodrell
La vita gioca duro quando sei nato dall’altra parte della
ferrovia e vivi sull’altopiano degli Ozarks, nel Missouri,
nella cittadina di West Table. Un’ambientazione che non regala
nulla e, fin dalle prime pagine, segna con fermezza i limiti
entro i quali si muovono i protagonisti di Tomato Red di
Daniel Woodrell edito da NNEditore

Nascere in una baracca nella zona più degradata della città;
vivere a ridosso delle rotaie con il passaggio del treno che
ne scandisce il tempo; condividere il quotidiano con chi non
ha altra compagnia se non quella dell’alcool e delle droghe;
elementi che non permetteno di immaginare nessun altro futuro
se non quello che un destino beffardo ha già disegnato per
loro.

 “Il nostro futuro a West Table è stato deciso e stabilito lo
 stesso giorno in cui siamo nati […] Perciò un qualsiasi altro
 posto andrà benissimo”

L’io narrante di Tomato Red è il giovane Sammy Barlach che,
dopo una giornata a drogarsi con altri ragazzi, si introduce
in un’abitazione ricca per rubare ma i compagni lo abbandonano
e finisce per addormentarsi su una poltrona. Sarà svegliato da
Jamalee, la ragazza dai capelli rossi, la Tomato Red del
titolo, e il fratello Jason. I fratelli Merridew si sono
intrufolati nella stessa casa ma non con l’intento di rubare
bensì con l’idea di fingersi ricchi e abituarsi a vivere nel
lusso e nel benessere. Usciranno insieme da quella casa per
dare l’avvio ad una convivenza sconclusionata, claudicante e
assurda ma che rappresenta, ciascuno per una caratteristica
diversa, quanto di più vicino ad una famiglia i tre possano
mai ambire.

Tomato Red potrebbe essere un noir, un giallo o un punto di
partenza per un hard boiled come suggerisce la nota del
traduttore Guido Calza. In qualsiasi genere lo si voglia
inserire nella sua trama è inserita la morte di un personaggio
solo che l’evento non è di per sé il fulcro del romanzo
stesso quanto un ulteriore elemento scontato di una vita di
inevitabili e ineluttabili sconfitte.
Non è più rilevante risolvere quella morte e scoprire se sia
un omicidio, un suicidio, un regolamento di conti o un
semplice incidente. Quella morte rappresenta un altro elemento
nefasto da aggiungere ad una vita che null’altro può offrire
se non quell’appiccicoso degrado e quell’accanita povertà che
pervade ogni cosa.
Daniel Woodrell è abile con il suo stile asettico, immediato e
privo di inutili fronzoli a scaraventa il lettore in una
realtà così brutale e spietata da non far filtrare alcuna
possibilità di riscatto riuscendo ad offuscarne anche il
semplice pensiero di un eventuale futuro alternativo. Tutto
risulta fermo, immobile, ovvio, scontato e ogni avvenimento
non sorprende ma appare come una naturale conseguenza.

Magistrale la sua capacità di trasformare gli oggetti
inanimati in elementi integrali e funzionali alla drammaticità
della realtà che vivono i protagonisti. Woodrell anima gli
oggetti come per addensare ancora di più quelle grate entro le
quali i personaggi sono relegati, imprigionati

“La parte peggiore di luglio era piombata sulla città in
anticipo, nell’ultima settimana di maggio, e rovinava piani
ovunque andasse”

“Avevo parcheggiato di fronte alla chiesa. Era una struttura
acuminata, di un bianco lucente, e sembrava pronta a
strapazzarmi con prediche, rimproveri e spaventosi passi della
Bibbia se solo avessi camminato su quel marciapiede”

“Il caldo aveva reso gli alberi lungo le strade tronfi e avari
della propria ombra. Per giunta avevano fatto un accordo con
il vento perché non soffiasse, così il valore di quell’ombra
era salito alle stelle”

Il mese di luglio, un marciapiede, l’ombra degli alberi.
Elementi di contorno ai protagonisti che sembrano delimitarne
ancora di più il futuro, posizionati come paletti dei confini
entro i quali muoversi, per immobilizzarli al loro posto senza
soluzione di continuità.

 “Sammy, a te non piacerebbe combinare qualcosa? In futuro?
 Contare qualcosa?” […] Nah. Io penso solo che tirerò avanti,
 accumulerò giorni, capisci, fino a quando farò una cazzata
 così grossa che il futuro verrà disdetto. O magari deciso da
 qualcun altro al mio posto. Ci sono buone probabilità anche
per quello.”

Tomato Red rappresenta un’eccellente presentazione di come la
casualità della nascita di un individuo possa determinarne
inequivocabilmente il destino. Sintetizza in poco meno di 200
pagine, con scene indelebili quasi fossero fermi immagini, i
turbamenti, i timori, i sogni e i turbamenti di qualsiasi
generazione che guardi al futuro quando ogni cosa attorno non
faccia altro che additarli come falliti, inconcludenti e
perdenti.

Tomato Red appare come un manifesto di sconfitta per la cecità
della società stessa, malata per il suo sistema automatico di
infliggere e condannare senza indugio, incanalando il destino
degli esseri umani.
Il romanzo è un grido di dolore che mette in luce l’intima
desolazione e disarmante impotenza di chi, semplicemente, vive
dall’altra parte della ferrovia.

“Aspetto Godot, papà” di Meri
Borriello
Aspetto Godot, papà

di Meri Borriello

a cura di Daniele Falcioni

tratto da antologia Voci Nuove
ed. Rapsodia

Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente
sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto
l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente
dall’ospedale.
“Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto,
spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo
inferno” disse stancamente lui.

“Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per
alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far
fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel
film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo
una motorizzata, promesso, papà”.
“Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via
da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi?
Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza.
Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni
imbalsamati”.

Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente
disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di
prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le
cure sperimentali.
“Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità.
Non ho nessuna intenzione di prenderla”.

Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare
nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei
sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu
esaudito: suo padre si interruppe.
A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco,
prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio
tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una
rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore:
arrampicati e prendila”.
Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà,
è un giardino privato. Non si potrebbe…”
Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori
sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto
questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e
andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli
occhi al cielo.

Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere.
Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse,
non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la
rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui
più velocemente che poteva.
“Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi
poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una
bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in
macchina e partirono per far ritorno a casa.

Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre
chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi
nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma
questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’
di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani
tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione,
tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino
intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal
mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora
umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata
trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte.
Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora
stava di merda!

Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa.
Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma
sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò.

Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci
un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo
farti vedere una cosa”.
“D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più
tardi”.
Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.

Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola
era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più
lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le
mani.
“Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al
punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese:
era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha
un buon odore, papà. Dove devo metterla?”

“Da nessuna parte. Devi intagliarla”.
Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei
brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me.
Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la
intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un
coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e
comincia a lavorare”.
Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in
gola e fece come le aveva chiesto il padre.
“Che cosa devo incidere, papà?”
“Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è
difficile. E poi le nostre iniziali”.
Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad
intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e
cominciò ad affondarlo nel legno.
Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le
facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi
dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un
bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo
padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le
disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a
distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e
decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad
esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce
che le tremava.
“Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi,
sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre
intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non
me ne sono dimenticato”.
Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma
il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti
l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”.
Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le
parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono
poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire.
Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato
andata e ritorno…”(2)
Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi
troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non
serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è
assenza, non piagnisteo. Continua”.
Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani
sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti.
Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente
che si muova da nessuna parte. Solo e andato”.
Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la
voce però deve essere piena, non di         testa,   non   sei
un’isterica, mantieni la voce bassa”.
Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che
poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta,
benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare.
Quando cadrò, piangerò di gioia”.

(2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel
Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.).

Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo
chiamò in sussurro: “Papà?”
Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto.
Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”.
Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare
ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare.
Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo
padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo
lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a
portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo
solo contava.
La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di
marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella
camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un
vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle
sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava
di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla
finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi,
oltre quel cielo così azzurro.
“Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei
continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’
rispose: “Aspetto Godot, papà”.
“Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un
soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano
e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle
si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i
suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate.
Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni,
Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale
potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi.
Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte
all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a
quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel
momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide
il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo,
gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi,
le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento
avevano per lei volti anonimi.
Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul
suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua
camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel
provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che
sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto.
C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in
un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra
dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con
stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti
loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte?
Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium,
orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della
morte!
La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie
richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella
nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso
di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe
stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier:
nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che
cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non
voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso,
sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non
voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei
stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le
sue mani, ma questo non le bastava in quel momento.
Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in
lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui,
pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che
teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su
quell’abito nero.
Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella
gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo
segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la
mano, a dirle:

“Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che
avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato
una testata.
Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla
madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva
che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe
voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse
a schermarsi a vicenda in quel dolore.

Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al
massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che
sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno
della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le
aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima,
ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa.

Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette
per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere,
stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma
chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non
aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un
bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi
sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in
mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie
sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa
di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una
sigaretta.

Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe
detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui
chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare
qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva,
pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa
cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse
guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un
finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se
dentro non avesse più niente che potesse far uscire le
lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la
sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le
lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la
vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.
Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche
il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso
delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a
voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana
dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi
più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva
dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa
glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le
sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi.
Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la
allungò tentando di prendere un raggio.

Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli
sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena
un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come
in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una
custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo
ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò.
E andò avanti.

Foto di Pexels / 9144 images

IL PROFUMO di Patrick Süskind
IL PROFUMO

di Patrick Süskind

Ed. TEA
Se dovessi definire l’opera di Patrick Süskind con un
sostantivo che non sia libro, o romanzo o scritto, direi che
Il Profumo è un quadro.

Un dipinto grande, scuro, boccaccesco che, senza nulla
lesinare, ci fa esplorare il “fugace” regno degli odori.

La storia di Jean-Baptiste Grenouille ha dell’incredibile:
nato nella miseria più nera, quest’uomo non ha odore e già nei
primissimi giorni della sua vita, coloro che vengono a
contatto con lui hanno premonizioni negative.

In contrapposizione alla sua natura Grenouille ha un olfatto
sensibilissimo ed è attratto in maniera spasmodica dagli
odori; dei profumi e delle puzze fa armi per sopravvivere
e…nutrire la sua anima perversa e vendicativa.

Lo stile di Patrick Süskind è zeppo di dettagli e descrizioni
al punto tale che durante la lettura ci sembra di sentirli
quegli odori che portano il protagonista alla dannazione.

Le atmosfere sono reali e i personaggi vivi, leggiamo di
efferatezze senza però giudicare e quasi prendiamo in simpatia
un personaggio unico e originale.

 Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle
   parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà.

Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa
 penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri
  polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di
                          opporvisi.

Il Profumo è un libro crudele, non adatto a tutti forse, in
cui fantasia e realtà si mescolano sapientemente. Un noir o
uno psicologico? Non saprei classificarlo con precisione;
rimane un romanzo intenso, che non lascia riprendere fiato, da
leggere e forse anche rileggere.

La rilettura la collego al fatto che è scritto con uno stile
incalzante, eccettuato forse una parte a mio parere un po’
lenta, in cui si narra l’autoisolamento del protagonista tra
le montagne. La peculiarità del ritmo porta quindi il lettore
ad esserne completamente avvinto e a non soffermarsi.

Un romanzo quindi forte che però consiglio vivamente; con Il
Profumo, Patrick Süskind ha creato un fenomeno editoriale, è
stato pubblicato in 51 lingue e nel mondo ha venduto 15
milioni di copie.

Gli uomini possono chiudere gli occhi davanti alla grandezza,
davanti all’orrore, e turarsi le orecchie davanti a melodie o
                     a parole seducenti.

              Ma non possono sottrarsi al profumo.

          Poiché il profumo è il fratello del respiro.

SINOSSI

Jean-Baptiste Grenouille nasce nella Parigi del Settecento,
nel luogo più mefitico della capitale: il Cimitero degli
Innocenti. Orfano, brutto e apparentemente insensibile, ha una
caratteristica inquietante: non emana alcun odore. È però
dotato di un olfatto unico al mondo, e il suo sogno è quello
di dominare il cuore degli uomini creando un profumo capace di
suscitare l’amore in chiunque lo fiuti. Per realizzarlo è
pronto a tutto…
Riapre la Biblioteca comunale
Ugo Tognazzi

Nuovi orari da gennaio 2022

La Biblioteca comunale “Ugo Tognazzi” di Pomezia riapre le
porte tutto il giorno. Da gennaio 2022 entrano in vigore i
nuovi orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle ore
18.45, il sabato dalle ore 9.00 alle ore 18.00. L’accesso, su
prenotazione, è consentito esclusivamente con green pass
rafforzato, come da nuova normativa anti covid.

“Una buona notizia per l’intera cittadinanza, e in particolare
per gli studenti e le studentesse di Pomezia – spiega la vice
Sindaco Simona Morcellini – Dopo la chiusura forzata dei mesi
scorsi, torniamo ad aprire le porte a uno degli spazi
culturali più amati della Città che, grazie al grande murale
“L’Antiporta” dell’artista Agostino Iacurci, si è arricchito
diventando un’opera d’arte a cielo aperto. Un enorme
patrimonio cartaceo e digitale, da custodire e diffondere”.

“Vogliamo una biblioteca sempre più fruibile e accogliente –
aggiunge il Sindaco Adriano Zuccalà – Un luogo di incontro,
uno spazio di iniziative culturali e sociali a servizio della
comunità, un punto di riferimento per bambini, ragazzi e
adulti. Con la riorganizzazione degli orari, che consentirà
alla cittadinanza di usufruire dei servizi tutto il giorno,
incluso il sabato, e con la riqualificazione degli spazi
esterni e della piazza antistante, la biblioteca comunale
torna ad essere fulcro della vita culturale cittadina”.
Attivo un doppio canale di prenotazione per accedere alla
struttura:

1. App TUPASSI su smartphone o accedendo al seguente
link: https://www.tupassi.it/login-prenotare-servizio-con-tupa
ssi/ registrandosi al portale o tramite le credenziali SPID

2. telefono: 06 91146288.

Ricordiamo che tutte le attività si svolgeranno nel pieno
rispetto delle norme di contenimento della pandemia da
Covid-19.

Presentazione   del  libro:
Evoluzione    umana:   alla
scoperta!

Presso il Museo Città di Pomezia –
Laboratorio del Novecento
Il Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento è lieto
di invitarvi, sabato 15 gennaio alle 16,30,             alla
presentazione del libro: Evoluzione umana: alla scoperta! di
M.L. Belli e C. Luzi

Un diario avvincente sulla storia dell’evoluzione umana,
scritto per catturare l’attenzione dei ragazzi e suscitare
l’interesse degli adulti; utile guida per andare alla scoperta
di musei e luoghi dei ritrovamenti paleoantropologici,
disseminati nella nostra Regione e spesso ignoti ai più.

La prenotazione è obbligatoria.
L’ingresso è contingentato e consentito solo con super green
pass.

Per info e prenotazioni:
06 91146500 martedì-venerdì:
9,30-12,30/16,30-19,00;
sabato e domenica: 10,30-12,30/16,30-19,00

museocittadipomezia@comune.pomezia.rm.it
Diaphorà di Latina, con sede
a  Fogliano,   seleziona   4
giovani operatori volontari
dai 18 ai 28 anni di età.

È stato pubblicato il bando pubblico di
concorso per la selezione di giovani da
avviare in progetti di Servizio Civile
Universale.

La domanda di partecipazione deve essere
presentata entro e non oltre le h 14.00
del 26 gennaio 2022.

È previsto un rimborso spese mensile di
445 euro per 12 mesi, con 25 ore
settimanali di servizio.

Diaphorà aderisce al progetto “Solidalmente” (codice progetto
PTCSU0005021012933NMTX) che è relativo alla tutela dei diritti
sociali e ai servizi alla persona. L’obiettivo generale del
progetto è quello di promuovere un miglioramento della qualità
della vita delle persone con disabilità.

Per conoscere meglio le attività che svolgiamo è possibile
consultare il nostro sito www.diaphora.it.
I candidati verranno convocati per sostenere le selezioni, che
potranno svolgersi in presenza o on line, a seconda della
situazione emergenziale. Le selezioni si svolgeranno nel mese
di febbraio 2022 e il servizio inizierà orientativamente nel
mese di maggio 2022.

Gli aspiranti operatori volontari devono presentare la domanda
di partecipazione esclusivamente attraverso la piattaforma
Domanda on Line (DOL) raggiungibile tramite PC, tablet e
smartphone                                    all’indirizzo
https://domandaonline.serviziocivile.it

È possibile accedere ai servizi di compilazione e
presentazione domanda sulla piattaforma DOL esclusivamente con
SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale. Sul sito
dell’Agenzia           per        l’Italia          Digitale
www.agid.gov.it/it/piattaforme/spid sono disponibili tutte le
informazioni su cosa è SPID, quali servizi offre e come si
richiede.

Per la Domanda On-Line di Servizio civile          occorrono
credenziali SPID di livello di sicurezza 2.

I cittadini di Paesi appartenenti all’Unione europea e i
cittadini extra comunitari regolarmente soggiornanti in
Italia, troveranno informazioni       dettagliate su come
partecipare al bando nel sito         del servizio civile
https://www.politichegiovanili.gov.it/.

Per tutte le informazioni o un supporto alla compilazione
della domanda potete contattare Diaphorà ore ufficio al numero
3455257782 oppure scrivere a info@diaphora.it
Ricominciamo a vivere

Un viaggio nella storia delle terme
nell’antica Roma

Il nuovo anno appena iniziato ci trova ancora un po’
assonnati, forse. Sicuramente tutti desiderosi di un nuovo
“bel vivere” quotidiano!
In questa materia, sappiatelo, siamo sempre stati maestri e
per convincercene profondamente, ci basta rivolgerci, per
esempio, al nostro passato antico romano…

        Pompei – Casa dei Vettii
        Foto da Altervista

Ma scusa, direte voi, la storia dell’antica Roma non è
caratterizzata dal desiderio di conquista, dalla visione
strategica, dall’attitudine pratica e costruttiva,
dall’applicazione della legge: Dura lex, sed lex … (“Sebbene
dura, la legge è necessaria”)?
È vero, questa è la lente privilegiata attraverso la quale
normalmente guardiamo ed esaminiamo la civiltà romana.
Dunque, è difficile credere che la contemplazione della Natura
fosse considerata dai Romani uno dei più grandi piaceri cui
aspirare nella vita.
Fu il fascino della cultura ellenica, entrato nel mondo
italico attraverso gli Etruschi fin dall’VIII sec. a.C., a
sedurre e trasformare gradualmente il volto semplice ed
essenziale degli antichi abitanti dell’Italia.

Per quel che riguarda Roma, dopo la conquista della Grecia,
portata a termine nel 146 a.C., la bellezza, la grazia, il
genio greco aprirono la mente del conquistatore allargandone i
confini, raffinandola e risvegliandone la dimensione
contemplativa, fino ad allora soffocata da una imperiosa
istanza di affermazione corroborata da uno straordinario senso
pratico.

Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti
Latio (“La Grecia, conquistata, conquistò a sua volta il
selvaggio vincitore e introdusse le arti nel Lazio campagnolo”
racconta Orazio nelle Epistolae).

Intendiamoci: questa evoluzione culturale riguarda
principalmente il mondo romano più aristocratico, patrizio,
colto. Un mondo sorretto da una solida base sociale fatta di
servi, schiavi, attendenti, clientes.
Affresco dalla Villa di Livia a Prima Porta
     Foto da Itinera Barbarae – Overblog

Un mondo che seppe concepire il concetto di Otium.
Un concetto molto distante dall’idea che abbiamo noi di Ozio.
Il nostro proverbio dice infatti che l’ozio è il padre dei
vizi…
L’ozio è nemico dell’anima, secondo San Benedetto da Norcia,
che per esorcizzarlo raccomandava l’Ora et labora
incessantemente…

Invece Otium per i Romani antichi è la più nobile delle
dimensioni, in cui il vuoto si riempie di studio, letture,
meditazioni, contemplazione del bello, piaceri dello spirito,
equilibrio tra corpo, mente e anima.
Una dimensione ideale: basti pensare che la realtà opposta,
fatta di lavoro, occupazioni, affari, impegno politico,
fatica, è denominata Negotium, cioè “negazione dell’Otium”…

    “Quando sono nella mia villa di Laurento – scrive Plinio
 – non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non
    dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio,
nessun timore mi turba.”

E per Cicerone non è un uomo libero quello che non ozia di
tanto in tanto.
Orazio col suo Carpe Diem (“Cogli il giorno”, tema di una
delle più celebri Odi del poeta di Età Augustea) ci guida
entro la sua visione epicurea: affannarsi serve a poco. Nella
tragica consapevolezza della propria precarietà, conviene
cogliere il giorno conferendo valore, dignità e piacere a ogni
istante.
Se l’Otium e la visione filosofica del Carpe Diem si coltivano
nella sfera sociale più aristocratica, tra giardini e domus
sontuose, tra abiti e ornamenti lussuosi, tra originali e
costosi manicaretti cucinati dall’Archimagirus (lo chef
privato presente in molte domus e ville patrizie) e tra ottime
degustazioni di vini pregiatissimi, c’è però uno specifico
aspetto del bel vivere degli antichi Romani che può essere
praticato da ogni classe sociale.

Parliamo delle Terme, un luogo di vero piacere del corpo e
dell’anima, oltre che di igiene, apprezzato in tutto l’Impero.
Recarsi alle Terme è un’abitudine molto gradita al popolo
romano, forse più del circo e dei giochi gladiatori.
Ricostruzione Vasca delle Terme di Caracalla
 Foto da Turismo Italia news

Durante l’Età Repubblicana i Romani apprendono dai Greci
l’abitudine di allestire una stanza da bagno nelle case di chi
può permetterselo.
Ma   l’indole    romana   principalmente      organizzativa,
pianificatrice ed estremamente pratica comincia a immaginare
una dimensione pubblica dei Bagni, strettamente correlata alla
presenza dell’acqua.
Si finisce così, nei secoli, con l’edificare, nella sola Roma,
11 grandi complessi termali pubblici (gratuiti o quasi) e 856
stabilimenti balneari privati. Quanto all’acqua, si arriva a
11 Acquedotti che riforniscono la città con un’abbondanza
davvero eccezionale.
Le prime Terme vengono create a Roma da Agrippa, genero di
Augusto, nel 25 a.C. e dopo di lui gli imperatori romani fanno
a gara per superare i predecessori con Terme sempre più
grandiose.
Così la Roma imperiale si abbellisce di impianti termali, che
diffonde in tutte le sue province, come testimoniano i
numerosi e imponenti resti archeologici diffusi su tutto il
territorio conquistato.
Le straordinarie architetture termali conferiscono grande
prestigio a ogni città, assicurando benevolenza e consenso
popolare all’imperatore di turno.

A Roma ricordiamo le Terme di Agrippa, le Terme Neroniane o
Alessandrine, le Terme di Tito, le Terme di Traiano, le Terme
Surane, le Terme Eleniane, le Terme Commodiane, le Terme di
Caracalla, le Terme Deciane, le Terme Aureliane, le Terme di
Diocleziano e le Terme di Costantino.
Quasi tutta la città passa una volta al giorno dalle Terme:
immaginiamo, quindi, gli avventori tutti in fila all’entrata e
lungo i percorsi studiati appositamente per evitare ingorghi.
Basti pensare che le Terme di Caracalla potevano ospitare
almeno 1.600 persone all’ora…
Le Terme diventano quasi un simbolo dell’Urbe e della sua
filosofia di vita: il bagno precede il banchetto pomeridiano e
nei giardini che sorgono intorno alle vasche si passeggia, si
amoreggia e si concludono affari.

L’argomento   delle   Terme   romane   è   variegato   e   assai
interessante, ma per ora ci fermiamo.
Ci basti l’immagine di questi bellissimi impianti termali
antichi: ci riempirà di una straordinaria frescura e ci farà
sentire molto vicini ai nostri avi nel comune desiderio di
riposo e bel vivere, in questo timido inizio d’anno!
Ricostruzione Terme di Diocleziano
  Foto da video.corriere.it

Maria Cristina Zitelli

Le considerazioni di una
portinaia e altri racconti di
Giovanni Montini
Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma

Roma raccoglie e accoglie, innalza e esalta l’animo di ogni
viaggiatore che l’attraversi mentre lei, maestosa e
onnipresente, si adagia da millenni sugli stessi sette colli.
Saggiamente consapevole di come ogni cosa scelga la sua strada
naturale, ecco che Roma invita a sorprenderci dalla bellezza
dei particolari, dall’energia dei colori e dagli strati
temporali che l’avvolgono.

Roma della bellezza ne è la regina, non perché grandi
scrittori ne abbiano sempre parlato, ma perché lei del tempo
sembra proprio non importarsene.

Roma è il tempo.

In ogni angolo, in ogni tetto, arco, colonna, architrave,
balcone, affaccio, cupola, abbaino, ponte o rovina, ecco che
Roma appare galleggiare senza tempo sebbene ne sia
completamente intrisa. Se si ha la buona creanza di lasciare
in albergo ogni tipo di orpello abbandonandosi al piacere di
viverla, ecco che Roma è capace di abbracciarti, sussurrarti
melodie e entrarti dentro come nessun’altra città è in grado
di fare.

La letteratura ha da sempre trovato ispirazione tra le strade
e le atmosfere di Roma per ambientare libri di ogni genere,
dai romanzi rosa ai gialli, dai thriller ai saggi, dalle
poesie alle canzoni ma per parlarvi di Roma ho preferito
addentrarmi in alcuni quartieri celandomi dietro la scrittura
di Giovanni Montini che di lavoro non fa lo scrittore bensì si
occupa da sempre di moda.

Ho scovato Le considerazioni di una portinaia e altri racconti
di Giovanni Montini edito da Robin Edizioni casualmente
navigando su Instagram e mi ha colpito fin da subito per la
sua copertina monocromatica gialla, quel lettering moderno con
un carattere senza grazie e quelle sfere rosse come bocche
fameliche pronte a raccontare.

Sei racconti che si dipanano in sei quartieri di Roma.
Troviamo la storica Trastevere, la Garbatella, l’Ostiense, il
ricco e aristocratico quartiere dei Parioli, il cuore del
quartiere Monti e in finale la centralissima Stazione Termini.
Cinque storie l’una distinta e distante dall’altra che
raccolgono un filo rosso a quattro zampe che scodinzola da una
storia all’altra accompagnando e esaltando la reale bellezza
di Roma.

Perché Roma è come Peppe: fedele, tenera, generosa,
giocherellona, amica. Ti abbraccia riscaldandoti con il
proprio affetto ma ha lo sguardo capace di andare oltre, che
segue la propria anima, che ascolta sempre e soltanto il
proprio cuore e, in virtù del suo carattere, resta integra e
fedele solo a se stessa.

Sei racconti che sono magistralmente incastrati per
trasformarsi in un giallo e condurre il lettore per mano in un
finale a sorpresa.

A Trastevere ci si perde nei vicoli nascosti, bui ma di colpo
assolati dove il grande e affollato Viale Trastevere diventa
un limite difficile da attraversare perché oltre non se ne
conosco i segreti. Ed è vero perché Trastevere è il cuore di
Roma, di quella vera, quella che si sente romana da sette
generazione, che canta nei vicoli dal sapore antico, dei panni
stesi tra le facciate dei palazzi, che ascolta il tuonare del
cannone giusto dietro le orecchie, là sul Gianicolo, ogni
giorno a mezzogiorno.

La pettegola e sorniona Garbatella con i suoi grandi condomini
e la portinaia che si trasforma in detective per sfuggire la
noia di un matrimonio senza amore mentre la cruda e dura
storia d’amore di Ottavio e Gabriele scelgono come testimone
il silenzioso Gazometro, simbolo del quartiere Ostiense,
conosciuto come Il Colosseo dei Poveri.

La serenità del dolce mormorio del Tevere che accoglie sulle
sue sponde l’impaurita Giuliana, fuggita dalla bellezza del
quartiere Monti, incastrata nelle rigide regole della Roma
bene che lotta perché «non era il gusto delle cose a
determinare la qualità della vita, ma la possibilità di
poterlo fare, di poter decidere». Nel suo fuggire e sfuggire
l’accoglie l’ultimo degli ultimi, quel barbone senza fissa
dimora, che vive Roma come lei non è mai riuscita neanche a
sognare.

E infine il quartiere ricco e altolocato dei Parioli dove
Giovanni Montini affresca la storia più divertente con la
creazione di un racconto basato su un malinteso che
coinvolgerà la nonna e le sue amiche del bridge in
rocambolesche azioni fuorilegge.

Racconto dopo racconto si attraversano i diversi quartieri di
Roma fino a giungere alla stazione Termini. Luogo per
antonomasia di arrivi e partenze è il momento in cui Giovanni
Montini chiama a raccolta tutti i suoi personaggi offrendo
loro la possibilità di andare come quella di restare.
Così, lungo i binari dei treni, tra pesanti valigie, tabelloni
di orari, passeggeri in transito e pensieri intimi, si apre il
viaggio più bello che si possa fare, quello con noi stessi.

Sarà una bellissima sorpresa scoprire chi tra loro partirà e
chi sceglierà di restare a Roma.
Puoi anche leggere