2021 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre - Unità Pastorale Barbarano-Mossano-Villaga

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2021 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre - Unità Pastorale Barbarano-Mossano-Villaga
2021
 UNITÀ PASTORALE
Barbarano Mossano Villaga
                              Anno
                              B
Commento e letture per i lettori
    del mese di Gennaio

                   Novembre
                              Claudio
                              Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
2021 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre - Unità Pastorale Barbarano-Mossano-Villaga
SOLENNITA’ DI MARIA
            SANTISSIMA MADRE DI DIO
                                            01 gennaio 2021

Il libro dei Numeri, quarto del Pentateuco, è poco
presente nella liturgia festiva (solo quattro
occorrenze in tutto), ma questa solenne posizione
in apertura dell’anno civile in parte compensa la
rarità delle occasioni. Riallacciandosi all’Esodo,
Numeri riprende il cammino di Israele nel deserto
verso la terra promessa (e proprio “nel deserto”,
infatti, è il nome ebraico del libro, mentre quello
latino traduce il greco che fa riferimento ai
censimenti presenti nei primi capitoli). Nella
prima parte (cc. 1-10), dalla quale è tratta questa
prima lettura, l’ambientazione è quella del Sinai,
dove vengono censiti gli Israeliti e vengono date
alcune norme legali; mediatore tra Dio e il popolo
è sempre Mosè, che trasmette le disposizioni del
Signore per la vita e l’organizzazione di Israele.
Una benedizione piena. Nel passo in questione,
tratto dal sesto capitolo, Israele si sta preparando
a lasciare il monte dell’alleanza, dove è stato
accampato per quasi un anno, per riprendere il
cammino verso la terra promessa. Non è insolito,
nell’antichità, dare benedizioni, soprattutto alla
fine di un momento di adorazione e preghiera (cfr.
Lv 9,22; Dt 21,5; 2 Cr 30,27; Sal 67,1 e 121,8). Nella formula di benedizione prescritta dal Signore ad Aronne
si può subito notare la triplice occorrenza del nome YHWH (VV. 24.25.26). Dio è il soggetto di tutte le azioni
in essa evocate: benedire, custodire, far risplendere (il suo volto), fare (grazia), rivolgere (il suo volto),
concedere (pace): un’abbondanza di azioni che esprimono la multiforme varietà dell’azione benefica di Dio
nella vita del popolo. È interessante notare che la benedizione è rivolta ad un singolo, non alla collettività:
così, ogni persona che la riceve può farla propria, anche senza voler escludere un valore comunitario alla
benedizione e all’episodio in cui è inserita. Inoltre, nell’abbondanza di azioni di grazia elencate sono
implicitamente inclusi, ma non dettagliati, tutti i doni che, direttamente o indirettamente, riempiono le nostre
vite e le rendono gioiose, sul piano fisico e spirituale, materiale e immateriale: non viene definito o escluso
alcun campo d’azione dall’efficacia della grazia di Dio. Il Dio che «custodisce» (v. 24) è il Dio che dà
sicurezza, come un pastore per il suo gregge - e certamente il popolo ha bisogno di protezione, nell’imminenza
di un viaggio così pericoloso attraverso il deserto! Se parlare del “volto” di Dio (vv. 25-26) è un modo per
“umanizzarne” l’aspetto, per dire in forma umana quello che umano non è, la luce che ne irradia e la sua
brillantezza ci ricordano la sua assoluta alterità: Dio, a differenza di tutte le volte in cui ha “nascosto il suo
volto” dal popolo - auspica la benedizione - mostrerà il suo volto all’uomo o alla donna benedetti, garantendo
loro la sua benevolenza. Luce e pace da Dio. Culmine della benedizione è la parola šalôm (v. 26): essa
racchiude un campo semantico vastissimo (prosperità, serenità, sicurezza, longevità, amicizia, benessere),
davvero difficile da delimitare. Luce e pace tornano spesso insieme a contrassegnare il tempo delle promesse
messianiche, anche nella tradizione profetica (cfr., fra tutti, il libro di Isaia). In questo tempo di Natale, per
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esempio, è interessante ricordare il cantico di Zaccaria all’inizio del Vangelo di Luca, quando l’anziano padre
(una delle figure di transizione scelte dall’evangelista per rappresentare il passaggio dall’antica alla nuova
alleanza), guardando il bambino Giovanni e profetizzando sulla sua missione, conclude dicendo: «Grazie alla
tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che
stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Le 1,78-79).
Rivestirsi del nome di Dio. In Nm 6, dopo aver “dettato” tramite Mosè la benedizione ad Aronne perché la
impartisca agli Israeliti, il Signore conclude: «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (v.
27). Con tale affermazione il Signore ricorda che è lui l’origine di ogni benedizione, non la mano di un uomo.
Quindi quello contenuto nella prima lettura di oggi non è un augurio umano, come quelli che pure
legittimamente e sinceramente ci scambiamo in questo tempo: è una parola di una qualità profondamente
diversa, perché è una promessa di Dio! Addirittura, il «nome di Dio» sarà sui benedetti: è come se il testo
dicesse che il nome di Dio diventa la nuova “veste” degli Israeliti, ciò che loro devono indossare, ciò che agli
occhi degli altri mostrerà chiaramente a chi appartengono e chi è il loro sostegno.

                                                           Salmo responsoriale              Sal.       66(67)

                                                           La splendida preghiera di benedizione comunicata
                                                           da Dio ad Aronne tramite Mosè riecheggia
                                                           all’inizio del Salmo 66: il Signore, rivelatosi al
                                                           Sinai, ha già fatto splendere il suo volto sui suoi
                                                           servi, per questo gli oranti possono fiduciosamente
                                                           chiedere ancora la sua vicinanza e la sua amicizia.
                                                           Questo Dio ha manifestato la sua presenza come
                                                           avvento di giustizia e rettitudine, guidando la storia
                                                           dell’umanità verso il bene. La sua guida ha a cuore
                                                           anche le genti straniere, tutte le “nazioni” e i popoli
                                                           che abitano i confini della terra, attraverso un creato
                                                           provvidente ma soprattutto attraverso il suo pas-
                                                           saggio benedicente in mezzo alle strade degli
                                                           uomini. Così Israele e le nazioni possono cantare a
                                                           una voce unica la lode di Dio, essendo stati già resi
                                                           tutt’uno dall’essere tutti destinatari della sua
                                                           misericordia.

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La pericope tratta dal quarto capitolo della
Lettera ai Galati costituisce un inno alla
libertà, come caratteristica qualificante la
relazione tra Dio e quanti credono nel suo
figlio Gesù Cristo. I destinatari della lettera,
infatti, erano stati insidiati da nuovi predicatori
che annunciavano l’insufficienza della fede in
Gesù e la necessità di rispettare integralmente
anche la legge di Mosè. Paolo, dunque, deve
difendere non solo il proprio operato (è, questa,
la lettera paolina con più notizie
autobiografiche tra quelle che possediamo),
ma soprattutto la teologia della grazia, ossia il
suo “Vangelo”. La libertà come dono derivante
dall’adesione a Cristo viene espressa attraverso
la contrapposizione tra l’essere servo e l’essere
figlio, che nel mondo antico doveva bene
esprimere una colossale distanza di diritti e possibilità. L’argomentazione che precede il nostro brano parte da
lontano, dal patriarca Abramo, padre di Israele (Gal 3,6), per dimostrare che Gesù e i cristiani sono i veri eredi
della promessa abramitica e che la libertà del Vangelo ha posto definitivamente fine alla schiavitù derivante
dall’obbedienza della legge. Con l’esempio di un bambino che ha tutori e amministratori, nei versetti
immediatamente precedenti al v. 4, Paolo cerca di rappresentare lo stato di “minorità” nel quale l’umanità si
trovava prima dell’incarnazione. Ma, «quando venne la pienezza del tempo» (tò plḗrōma tû chrónu, v. 4),
ossia nel tempo da Dio voluto e prescelto, «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per
riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (vv. 4-5). Ecco il cuore del
Vangelo di Paolo: i credenti in Cristo non sono più in uno stato di servitù né di minorità, perché hanno ricevuto
la piena dignità di figli; qualcuno ha pagato a caro prezzo un riscatto per loro, e questo qualcuno è Gesù Cristo.
Quindi qualunque diminutio del valore dell’incarnazione sarebbe un ritorno alle catene che, per parafrasare il
Paolo di 1 Cor 1,17, renderebbe vana la croce di Cristo! Il nuovo rapporto che lo Spirito crea tra il Padre e i
figli è un rapporto di adesione libera e amorevole, non per l’obbedienza a una serie di regole, ma perché il
cristiano adulto è responsabilmente coinvolto nella proposta di vita che Dio gli ha fatto in Gesù. Per questo
può fare sue le stesse parole di Gesù e chiamare Dio «Abbà! Padre» con la stessa intensità, lo stesso
affidamento, la stessa amorevole disponibilità di Cristo ed essere, legittimamente, erede della promessa, quella
stessa che già in Abramo Dio rivolse a tutti gli uomini e che ora, in Cristo, trova il suo pieno compimento.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

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                                                        All'inizio di un nuovo anno civile la chiesa affida la
                                                        vita dei suoi figli alla madre per eccellenza, Maria.
                                                        Lo fa sotto il segno benedicente di Dio che,
                                                        attraverso Mosè, si impegna a proteggere il nuovo
                                                        cammino del suo popolo (prima lettura). Lo fa
                                                        anche con il brano del vangelo, riproponendo la
                                                        scena della notte di Natale, quando insieme ai
                                                        pastori contempliamo, accanto al bambino nella
                                                        mangiatoia, una giovane donna intenta a
                                                        raccogliere e custodire quanto di meraviglioso, ma
                                                        anche di misterioso, le viene annunciato di quel
                                                        figlio. Maria, madre di Dio, ha sperimentato prima
                                                        di ogni uomo la libertà dei figli di Dio, quelli adulti,
                                                        responsabili che, come leggiamo nella seconda
                                                        lettura, possono chiamarlo «Padre», grazie al dono
                                                        a loro comunicato una volta e per sempre da Cristo.
                                                        Apriamoci con fede al nuovo anno, forti della
benedizione di Dio e seguendo il modello della Vergine Maria.

Commento al Vangelo:

Il primo giorno dell’anno civile da vari anni si celebra in tutto il mondo ‘la giornata della pace’ nel nome di
Maria, madre di Dio e madre della Chiesa. La pace (šalôm) è il dono messianico per eccellenza che Gesù
risorto ha portato ai suoi discepoli (cfr. Gv 20,19-21); è la salvezza degli uomini e la riconciliazione definitiva
con Dio. Ma la pace di Cristo è anche la pace dell’uomo, ricca di valori umani, sociali e politici, che trova il
suo fondamento, per dirla con la Pacem in terris di Giovanni XXIII, nelle condizioni di verità, di giustizia, di
amore e di libertà, che sono i quattro pilastri su cui si regge la casa della pace. La costante benedizione di Dio
nella prima alleanza, l’azione di Cristo svolta a vantaggio dell’intera umanità e di ogni singolo componente,
lo stesso nome dato a Gesù, che ne evoca la missione di salvatore, sono tutti eventi orientati nella linea della
pace, dell’alleanza, della fraternità. Dio non ha creato l’uomo per la guerra, ma per la pace e la fraternità. Il
male in tutte le sue molteplici forme si contrasta solo con una costante educazione alla pace. Quella pace che
la Vergine Maria, Regina della pace, ci può ottenere dal Padre: la šalôm biblica viene da Dio ed è legata alla
giustizia. La radice della pace, nondimeno, risiede nel cuore dell’uomo, cioè nel rifiuto dell’idolatria, perché
non c’è pace senza vera conversione, non c’è pace senza tensioni (cfr. Mt 10,34). La pace di Cristo non è come
quella del mondo, perché quella di Gesù esige che ci si allontani dalla mentalità mondana. Con la venuta di
Cristo la pace è offerta ad ognuno di noi, perché nasce dal cuore di Dio che è amore.

O Dio, che nella verginità feconda di Maria hai donato agli uomini i beni della salvezza eterna, fa’ che
sperimentiamo la sua intercessione, poiché per mezzo di lei abbiamo ricevuto l’autore della vita, Cristo
tuo Figlio.

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II Domenica dopo Natale
                                              03 gennaio 2021

La prima lettura è tratta dal libro del Siracide, una
raccolta di istruzioni e proverbi su diversi
argomenti, risalente nella sua versione ebraica
(non posseduta integralmente) forse intorno al
180 a.C. e nella traduzione greca al 132 a. C.
circa. Alcune sue sezioni risultano oggi
inaccettabili per la sensibilità moderna,
soprattutto i capitoli più esplicitamente misogini,
che vanno debitamente contestualizzati e
relativizzati (cfr. Sir 25). Il capitolo 24, proposto
oggi dalla liturgia, è forse il brano più noto per gli
evidenti richiami al tema della sapienza di Dio e
ai suoi sviluppi neotestamentari. In Sir 24 la
Sapienza tesse il proprio elogio, sul modello di
precedenti personificazioni del soggetto, come in
Pr 8. Essa viene rappresentata assisa in mezzo al
suo popolo (v. 1) e intenta ad aprire la bocca e
proclamare la sua gloria dinanzi alle schiere
dell’Altissimo (v.2). Inizia, quindi, un discorso
diretto in cui la Sapienza racconta di essere uscita
dalla bocca di Dio, facendo così tornare il lettore
al racconto di Gen 1, quando la creazione viene
narrata come realizzata attraverso la parola divina
efficace e creatrice: Dio, infatti, parla e le cose
vengono all’esistenza. Subito dopo ecco un’altra
importante immagine antica: la Sapienza dice di
avere ricoperto la terra come nube, e la presenza
di Dio nella nube - che insieme nasconde e
                                                            protegge - è una modalità tipica della presenza di Dio
                                                            nel racconto dell’Esodo (cfr. 13,21-22). Inizialmente
                                                            essa aveva la propria dimora «lassù», dice il testo,
                                                            facendo immaginare una abitazione lontana dal
                                                            creato. Il suo venire verso il mondo, quindi, viene
                                                            descritto come un percorso di discesa, una sorta di
                                                            katábasis, dalle vette più alte alla profondità degli
                                                            abissi, come descriverà il v. 5 omesso dalla liturgia
                                                            odierna («Ho percorso da sola il giro del cielo, ho
passeggiato nelle profondità degli abissi»), Ancora nei versetti omessi, la Sapienza racconta di aver cercato
tra tutti i popoli un luogo dove riposare (v. 7), ma è stato il “Creatore” a darle l’ordine di piantare la sua tenda
in Giacobbe/Israele: come Dio, la Sapienza si accampa in mezzo al suo popolo e pone la sua «tenda» (non
sfuggiranno al lettore attento gli sviluppi neotestamentari di questo motivo) proprio a Gerusalemme. La
Sapienza, quindi, abita nella tenda santa: il riferimento evidente è al Tempio, dove la legge e la sapienza di
Israele si incontrano. La selezione liturgica odierna riprende il capitolo dal v. 8, in cui i temi fondativi della
relazione tra Dio e Israele (porzione particolare, eredità) vengono trasferiti per simbiosi alla relazione tra la
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Sapienza e il popolo stesso. Quindi, dal v. 13 in poi, lo splendore della Sapienza assisa a Gerusalemme viene
descritta attraverso immagini di alberi e piante rigogliosi (le palme di Engàddi, le rose di Gerico, un olivo
maestoso, un alto platano) e come spezie preziose e profumate e pietre rare (cinnamomo, balsamo di aromi,
mirra scelta, onice ecc.). Queste immagini conclusive insistono sulla bellezza e sulla desiderabilità della
Sapienza, per suscitare nel lettore il desiderio di raggiungerla. Dirà infatti la Sapienza ai vv. 19-21:
«Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me è più dolce del
miele, il possedermi vale più del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono
di me avranno ancora sete». Desiderare la Sapienza (che alla fine del capitolo si identificherà addirittura con
«il Libro dell’alleanza di Dio altissimo», 24,23) significa desiderare un rapporto autentico e “gustoso” con il
Signore, che riempia le nostre vite di bellezza, sapore e profumo inebriante.

                                                            Salmo responsoriale              Sal.       147

                                                            Questo salmo, databile al periodo post-esilico
                                                            (come è deducibile dal tema della ricostruzione di
                                                            Gerusalemme da parte di Dio e del raduno degli
                                                            esiliati), invita alla lode di Dio per il suo potere
                                                            universale e la sua cura provvidente. Egli ha
                                                            ricostruito Gerusalemme, ha radunato il popolo,
                                                            ha sanato e guarito le sue creature, provvedendo a
                                                            tutte loro necessità. Ecco dunque in opera la parola
                                                            di Dio (v. 15), da lui inviata a «correre veloce»
                                                            sulla terra per portare il suo messaggio,
                                                            palesandosi in tutti i fenomeni naturali e in tutte le
                                                            stagioni. Il popolo dell’alleanza sa che con
                                                            nessun’altra nazione Dio ha fatto così,
                                                            annunciando a Giacobbe la sua Parola e a Israele i
                                                            suoi decreti e i suoi giudizi: questo è motivo di
                                                            gratitudine, di responsabilità e di lode.

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2021 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre - Unità Pastorale Barbarano-Mossano-Villaga
L’esordio della Lettera agli Efesini è stato già
proclamato nella solennità dell’Immacolata
Concezione. Anche la selezione odierna parte dal
v. 3, subito dopo il saluto ai lettori, e prosegue fino
al v. 6, ma poi propone i vv. 15-18, una intensa
preghiera di ringraziamento e di intercessione per
i destinatari della lettera, auspicando che su di loro
giunga «uno spirito di sapienza e di rivelazione»
(v. 17), trait d’union con le altre letture della
giornata. Riecheggiano tante preghiere, giudaiche
e cristiane, nell’eulogio iniziale: «Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha
benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli
in Cristo» (v. 3). Il motivo della benedizione sta
nei doni che Dio ha fatto all’umanità attraverso
Gesù Cristo, eleggendola ad essere un popolo di
“santi”, “messi da parte” per lui. Tutti i doni
provengono dalla libera iniziativa di Dio e dal
«disegno d’amore della sua volontà» (v. 5), che
trova il suo compiacimento nel Figlio diletto
(ricordiamo la scena del battesimo di Gesù,
secondo il Vangelo di Marco 1,11) e in quanti,
grazie alla sua mediazione, ricevono il dono
dell’adozione filiale. E nella morte di Gesù che
siamo riscattati e che i nostri peccati vengono redenti. In questa nuova dimensione di santità e purezza
possiamo (per grazia e non per meriti) accedere alla conoscenza di Dio, partecipando al suo progetto di bene
per la creazione che è l’«evento» Cristo (vv. 7-12, omessi). Sarà la presenza interiore dello Spirito, sigillo
dell’appartenenza a Dio come figli, a garantire che egli porterà a compimento le sue promesse (vv. 13-14,
omessi). A questo punto, dunque, l’autore della lettera si rivolge amorevolmente ai suoi destinatari, dei quali
ha conosciuto la fede e l’amore vicendevole (v. 15); rende grazie per loro (tutto questo esordio è un inno di
ringraziamento incessante, che non dimentica nulla, dalla terra al cielo!) e garantisce il proprio
accompagnamento nella preghiera (v. 16), desiderando per loro quanto abbiamo udito celebrare della
Sapienza e della misericordia di Dio nelle letture precedenti. «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre
della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v. 17): il
dono della sapienza è finalizzato alla relazione con Dio, non ad una crescita intellettuale! Per grazia, il volto
dell’amato si disvela e l’amata lo guarda, lo conosce intimamente, lo ama; a questo è chiamata la Chiesa, ad
Efeso e ovunque. «Illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati,
quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (v. 18): per quanto complessa possa essere la
metafora degli “occhi del cuore”, il senso dell’immagine è chiaro e parla di una speranza che non sono gli
eventi drammatici o felici a distruggere o costruire; se Dio lo concede, il cuore può sollevare lo sguardo e
riconoscere, con limpidezza, che la vocazione fondamentale di un cristiano è alla speranza, fondata e non
illusoria, di essere erede di un tesoro grande di amore e di vita senza fine.

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Delineiamo il percorso proposto dalle letture:
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                                                                 sapienza secondo la Bibbia? La liturgia odierna, in
                                                                 questa 2a domenica dopo Natale, ci costringe a porre
                                                                 diversamente la domanda: chi è la Sapienza? Non
                                                                 semplicemente qualcosa da avere ma qualcuno da
                                                                 cercare e che si lascia incontrare. Nel percorso
                                                                 rivelativo che va dalla personificazione in una figura

femminile di Sir 24 (prima lettura) al Lògos-Verbo
di Dio di Gv 7 (vangelo), la sapienza di Dio assume
il volto bello, amabile, desiderabile di Gesù di
Nazaret. Lui solo, il « Figlio unigenito », illuminato
dall'amore e dalla relazione profonda col Padre, può
rivelare la misericordia di Dio. Grazie alla salvezza
ottenuta nel suo nome, coloro che appartengono al
nuovo popolo di Dio possono legittimamente dirsi
eredi di una speranza indistruttibile, destinatari del più
grande dono che Dio ci ha fatto: poterci dire figli nel
Figlio, amati da colui che adesso possiamo chiamare
Padre (seconda lettura).

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Commento al Vangelo:

Le letture bibliche di questa domenica evidenziano che Gesù è l’immagine visibile di Dio Padre. Il Figlio,
infatti, guarda incessantemente verso il Padre, che è la fonte della sua missione. Tutto gli viene dal Padre:
l’insegnamento, l’attività, il potere sulla vita e sulla morte. «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha
mandato» (Gv 7,16). «La Parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24).
Il Figlio non fa nulla da solo, ma «parlo come mi ha insegnato il Padre» (Gv 8,28). Gesù è in ascolto del Padre
con uno sguardo di interiore contemplazione e trasmette le sue parole, anzi comunica la parola del Padre così
bene, che lui stesso per l’evangelista è la Parola (Gv 1,1-2). Gesù è così il rivelatore perfetto dell’amore del
Padre, perché sempre è in ascolto di Dio, ed è parimenti la Parola stessa del Padre. Il vertice, tuttavia, della
rivelazione che Gesù ha trasmesso non va posto su ciò che Gesù ha insegnato con la parola, ma sull’opera che
egli ha testimoniato con la vita. Egli ha compiuto fino in fondo l’opera che il Padre gli ha affidato. E l’opera
che esprime il dono di sé, Gesù la compie col dare la vita sulla croce, rendendoci così figli adottivi dello stesso
Padre. È da questo colle, dove si innalza la croce, che l’umanità prende coscienza della qualità dell’amore,
che Gesù di Nazaret le rivela: un amore che supera ogni logica umana e sconfina in Dio.

Dio onnipotente ed eterno, luce dei credenti, riempi della tua gloria il mondo intero, e rivèlati a tutti i
popoli nello splendore della tua verità.

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Epifania del Signore
                                             06 gennaio 2021

                                                              Il capitolo 60 del libro di Isaia è il primo di tre
                                                              capitoli (60-62) molto vicini tra loro e che,
                                                              secondo gli studiosi, costituiscono il nucleo
                                                              iniziale del cosiddetto Trito-Isaia (capp. 56-66),
                                                              giacché trasmettono un messaggio molto
                                                              compatto e unitario: i capitoli, infatti, non fanno
                                                              altro che ripetere incessantemente un annuncio di
                                                              salvezza, ma stavolta senza alcuna espressione di
                                                              giudizio né di condanna, né sui singoli né sul
                                                              popolo. La salvezza annunciata è in arrivo, verrà
                                                              presto, ma (a differenza della dimensione storica
                                                              tipica del Deutero- Isaia, che permetteva di
                                                              rintracciare approssimativamente le coordinate
                                                              degli eventi allusi e dei loro protagonisti) questa
                                                              salvezza non è un evento storico concreto, bensì
                                                              l’annuncio di una trasformazione totale
                                                              dell’attuale condizione di dolore, oscurità e
                                                              miseria vissuta dai destinatari e che sarà stravolta
                                                              dall’azione di Dio. Destinataria dell’annuncio è
                                                              Sion. Il profeta le dice: «Su (tradotto con
                                                              «àlzati»), risplendi» (v. 1) e al v. 4 le dirà anche
                                                              «alza gli occhi intorno e guarda». In primo luogo
                                                              Sion deve rialzarsi e illuminarsi in volto, perché
                                                              le viene annunciato l’arrivo della sua luce, ossia
                                                              la gloria del Signore. In un linguaggio che
                                                              abbiamo più volte ascoltato nel tempo di Avvento
                                                              e di Natale, tenebre e luce si contrappongono, ma
                                                              è la luce del Signore a vincere, come un sole che
sorge su Sion e permette al suo volto di ritrovare la
propria originaria luminosità. Oltre al movimento
del Signore che viene verso Sion, però, questo
annuncio presenta un altro movimento, ed è quello
che Sion è invitata a contemplare dal v. 3 in poi:
popoli che da ogni dove (i luoghi citati sono Madian,
Efa, Saba) verranno spontaneamente verso Sion,
riportandole i suoi figli e le sue figlie - non in catene,
come schiavi, ma in braccio, come la cosa più preziosa. Addirittura si riverseranno flotte dal mare, finanche
gli animali (stuoli di cammelli e dromedari) spontaneamente si recheranno nella città santa. Questa
meravigliosa visione - che, come abbiamo già detto, non è la trasposizione di un evento storico, ma una
proiezione profetica della salvezza da Dio promessa e riservata al suo popolo - deve riempire il cuore di Sion
di commozione e di gioia. Dice il v. 5: «Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore»;
il cuore di Sion impazzirà dalla gioia nel vedere che la città, un tempo abbandonata dal Signore e dai suoi
figli esuli, dispersi nel mondo, sarà di nuovo il luogo in cui Dio e il popolo, e insieme a loro anche tutti i

                                                         10
popoli della terra, convergeranno portando addirittura spontaneamente ricchezze e tesori. Tale epifania del
Signore porterà una doppia glorificazione, motivo della gioia dell’annuncio del Trito-Isaia: saranno
proclamate le gesta gloriose del Signore, ma sarà nuovamente restituita dignità alla città e al popolo, un
tempo sconfitti e oscurati.

Salmo responsoriale             Sal.     71(72)

«Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della
terra», ci fa ripetere il ritornello del Salmo 71.
Originariamente era un’intercessione per il re,
ma utilizzata non per una figura concreta e
definita, quanto per un modello ideale di regalità,
che appartiene propriamente a Dio e, per sua
bontà, al Messia che invierà ad Israele. Tema
dominante è la giustizia, che deve caratterizzare
il governo del re a somiglianza del modo in cui
Dio giudica e governa la terra. Urgente e assoluta
è l’esigenza di protezione dell’indigente e del
misero, che solo in Dio trovano il loro aiuto. I
luoghi esotici nominati (Tarsis, Saba, Seba, ossia
Spagna, Arabia, Etiopia) anticipano quella
dilatazione della giustizia e della misericordia di
Dio che sarà contemplata come luce anche
nell’oriente dei magi.

                                                         «Mistero»: ecco la parola al centro dello stralcio
                                                         tratto dal terzo capitolo della Lettera agli Efesini e
                                                         proposto come seconda lettura di oggi, termine che
                                                         ben si adatta al giorno in cui la liturgia celebra
                                                         l’Epifania del Signore; un mistero, infatti, o viene
                                                         svelato, rivelato, o resterà tale per sempre.
                                                         L’apostolo, parlando del ministero della grazia di
                                                         Dio a lui affidato per il bene dei suoi destinatari,
                                                         dice che gli è stato rivelato un mistero (3,3, ma il
                                                         termine è ripetuto tante volte in pochissimi versetti),
                                                         taciuto per generazioni (addirittura nascosto da
                                                         secoli, dirà in 3,10) e «ora» rivelato per opera dello
                                                         Spirito. L’enfasi con cui Paolo introduce il tema fa
                                                         pregustare qualcosa di grande, un dono (non certo
                                                         una minaccia, o almeno non per tutti...) e il v. 6 lo
                                                         svela: «che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù,
                                                         a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso
corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo». Da pagani convertiti quali siamo,
ormai assuefatti almeno a parole al tema dell’universalità della salvezza, questo mistero rivelato non ci fa
sgranare gli occhi e spalancare la bocca, ma non dovette essere così al tempo di Paolo. Egli, infatti, parla dei
gentili che vengono ad ereditare la salvezza, insistendo sul fatto che a tutte le genti viene offerta la stessa
                                                      11
eredità, lo stesso corpo, la stessa promessa! E forse il mistero coinvolge anche il modo in cui Dio permette
liberamente di accedere a questa eredità, anzi: che Dio abbia consentito ad un nuovo gruppo di eredi di
prendere parte alla sua eredità è il mistero per eccellenza, perché è difficile comprendere che ciò non toglie
nulla a coloro che erano eredi già prima! Eppure Efesini ricorda che in Cristo ci sono ricchezze infinite (3,8).
La portata di questo mistero è, dunque, effettivamente cosmica e coinvolge il mondo intero, tutti i gentili che
prima adoravano altri dèi e che ora vengono chiamati, attraverso Cristo, ad una fede nuova. Così essi sono
messi in relazione con Dio e ricevono in eredità la sua grazia. Ecco, dunque, rivelato il mistero che Paolo ha
ricevuto: Dio non vuole più che i gentili siano separati da lui ed è intervenuto nella storia per costruire con
loro una nuova relazione, mediatore della quale è stato proprio Gesù Cristo. La vicinanza o la lontananza da
Dio non dipendono, secondo Efesini, dall’appartenenza previa: giudei e gentili hanno bisogno ugualmente
della grazia perché gli uni e gli altri sono esposti al peccato. Diventare eredi è la conseguenza di un atto libero
della misericordia di Dio, che chiama tutti gli uomini alla stessa fede, addirittura a costituire un unico corpo,
metafora forte per insistere sulla dimensione comunitaria e intrinsecamente relazionale della “nuova famiglia”
che Dio, nella sua «multiforme sapienza» (cfr. E/3,10), si è scelto.

Delineiamo il percorso proposto dalle letture:

La gioia del Natale per tutti i popoli. Nella
solennità dell'Epifania del Signore, la liturgia della
Parola presenta agli occhi dei fedeli due
manifestazioni divine: quella del Gesù bambino
deposto in una mangiatoia e visitato dai saggi
d’oriente (vangelo) e quella del Cristo morto e
risorto: proprio nel giorno dell'Epifania, infatti,
viene annunciata solennemente la data della
Pasqua. La luce alla quale cammineranno "le genti"
nella apertura già universalizzante che ritroviamo
nel profeta Isaia (prima lettura), nel tempo
stabilito si fa stella che appare in oriente perché dai
confini del mondo si venga ad adorare il bambino
Re. Tutti i popoli della terra adoreranno il Signore
(salmo), tutte le genti sono chiamate a condividere
il mistero che adesso è stato rivelato (seconda
lettura). Questa è la portata incontenibile del lieto
annuncio di Cristo Gesù, morto e risorto per ogni
uomo! Celebrando la solennità che chiude il
periodo natalizio, ci incamminiamo con fede verso
un orizzonte pasquale.

                                                               Commento al Vangelo:

                                                          Epifania vuol dire ‘manifestazione’ e la parola di Dio
                                                          in questa solennità è tutta incentrata su Gesù messia,
                                                          re e salvatore universale dei popoli. Egli non è venuto
                                                          solo per Israele, ma anche per i pagani, cioè per tutta
                                                          la famiglia umana. La venuta dei Magi è l’inizio
dell’unità delle nazioni, che si realizzerà pienamente nella fede in Gesù, quando tutti gli uomini si sentiranno

                                                          12
figli dello stesso Padre e fratelli tra di loro. I Magi, quali primi ‘uditori’ e testimoni del Cristo, sono tipo e
preludio di una più grande moltitudine di ‘veri adoratori’, che costituirà la messe spirituale del tempo
messianico. Gesù è il seminatore, che ha portato il buon seme della Parola per tutti; lo Spirito ha fatto maturare
il seme e la Chiesa è invitata a raccogliere il frutto abbondantemente seminato con la rivelazione di Gesù e
fecondato con la sua morte. Come dalla vita di comunione e di amore tra il Padre e il Figlio è derivata la
missione di Gesù, così dall’intimità tra Gesù e la Chiesa scaturisce la missione dei discepoli, che è quella di
creare l’unità tra razze, popoli e lingue. È la Parola che crea l’unità nell’amore tra i credenti di tutti i tempi.
Per mezzo di essa nasce la fede e si stabilisce nel cuore dell’uomo aperto alla verità un’esistenza vitale in Dio,
che rende l’uomo contemporaneo appartenente a Cristo. A coloro che lo cercano con cuore sincero, Gesù offre
unità nella fede e nell’amore. In questo ambiente vitale ‘tutti’ diventano ‘uno’ nella misura in cui accolgono
Gesù e credono alla sua parola: «Saremo una cosa sola non per poter credere, ma perché avremo creduto»
(SANT’AGOSTINO). In Gesù tutti possono essere una cosa sola e scoprire che la pienezza di vita è donarsi al
Cristo e ai fratelli, e questo è amare nell’unità.
O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci
benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua
gloria.

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Battesimo del Signore
                                             10 gennaio 2021

Siamo all’ultimo capitolo del libro del cosiddetto
Deutero-Isaia (cc. 40-55), con un oracolo che, per
certi versi, riassume inviti ed esortazioni già
presenti nei capitoli precedenti, ma ne contiene
anche alcuni inediti. Proprio nell’esordio, infatti,
il discorso rivolto da Dio agli uomini è
contrassegnato da una serie di imperativi e, se il
lettore ha familiarità con «porgete l’orecchio» (v.
3) o «cercate il Signore» (v. 6), certamente ne ha
di meno con: «assetati, venite all’acqua... com-
prate e mangiate... venite, comprate senza denaro»
(v. 1). Se dunque ci troviamo di fronte ad una sorta
di invito finale affinché chi ha ascoltato la
predicazione del Deutero-Isaia si volga finalmente
a Dio, affinché questo invito sia davvero efficace
il profeta presenta, in apertura, immagini e inviti
singolari. Sembra quasi che la voce del Signore sia
quella di un mercante o di un ambulante ai margini
della strada o al crocicchio di una piazza. Eppure
questo mercante offre merce di qualità rara (non
un “non-pane” che non sazia, cfr. v. 2) e,
soprattutto, non chiede denaro, ma offre
gratuitamente. L’esortazione va certamente intesa
in senso metaforico: l’offerta di acqua, vino, latte,

                                                        pane ossia di cibi sia essenziali sia superflui, vuole
                                                        presentare come gustoso, piacevole e “nutriente”
                                                        l’ascolto della parola di Dio. Infatti, che l’ascolto sia al
                                                        centro dell’oracolo lo capiamo dall’imperativo
                                                        successivo, che certamente stavolta non va inteso in
                                                        senso metaforico: «Porgete l’orecchio e venite a me,
                                                        ascoltate e vivrete» (v. 3). L’ascolto della parola di Dio,
                                                        dunque, diventa via di accesso preferenziale alla
                                                        partecipazione dei beni offerti da lui. A rinforzare
                                                        questa prospettiva di bene torna una promessa antica:
                                                        Dio offre di ristabilire con il popolo un’alleanza -
                                                        stavolta definita eterna - che ripropone gli stessi favori
                                                        già assicurati a Davide, richiamati attraverso immagini
                                                        14
familiari (Davide è stato costituito «testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni», v. 4). L’alleanza
si apre, però, anche ad una dimensione nuova: «Tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te
nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio» (v. 5). Al versetto seguente troviamo nuovamente
un imperativo, con un’espressione che ricorre spesso nei libri profetici (cfr. Is 51,1 o Ger 50,4): «Cercate il
Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (v. 6). Qui il linguaggio ritrova forme più
convenzionali: si parla, con una classica endiadi, dell’empio e dell’uomo iniquo, della via che percorre l’uno
e dei pensieri che matura l’altro. Nel citarli, essi vengono posti in contrapposizione con i pensieri e le vie di
Dio, che li superano di gran lunga, in una misura “smisurata”: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie
vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (v. 9). Se dunque, da un lato, per dire
le deliberazioni di Dio e il suo agire si usano le stesse immagini usate per gli uomini (via e pensieri), dall'altro,
però, non si pensi che i pensieri e le vie di Dio siano commensurabili a quelli degli uomini. La similitudine
conclusiva, infine - molto cara alla tradizione ecclesiale -, mette al centro la parola di Dio (vv. 10-11),
comparata a fenomeni atmosferici (pioggia e neve) che cadono dal cielo ma, prima di risalire verso l’alto,
portano fecondità, irrigano la terra, la fecondano e la fanno germogliare, permettendo a chi semina di ricevere
il frutto del proprio lavoro e mangiare il pane (con un richiamo dell’immagine iniziale). Queste immagini
servono a descrivere l’efficacia e la fecondità della parola uscita dalla bocca di Dio, efficacia che il lettore
della Bibbia conosce sin dal racconto della Genesi: quella parola, dice il Signore, non tornerà a lui senza avere
operato ciò che egli desidera, senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata (v. 11). In realtà, il compimento
alluso non viene concretizzato ma resta nel vago, permanendo la distanza tra le vie e i pensieri degli uomini e
le vie e i pensieri di Dio. Tuttavia, pur in questa vaghezza, la rinnovata offerta di alleanza e l'invito a tornare
a Dio, «che largamente perdona» (v. 7), annunciano anche una nuova fecondità, che trova garanzia
nell’efficacia della sua Parola.

Salmo responsoriale            Sal. Is. 12,2-6
Anziché un salmo, il responsorio di oggi è tratto
dal dodicesimo capitolo del libro di Isaia, in cui
il profeta immagina sulla bocca del popolo un
canto per il giorno in cui sarà liberato dalla
mortificazione della dispersione e della
schiavitù. In quel giorno il popolo esalterà Dio
come sua salvezza, sua forza, suo canto, perché
(si noti come non manca mai, in questi inni, la
narrazione dell’esperienza vera e propria che è
alla base della lode) il Signore si sarà manifestato
come suo liberatore e salvatore. Il ritornello
richiama, invece, l’immagine delle «sorgenti
della salvezza», alle quali il popolo attende di
poter attingere, poiché il v. 3 dell’inno recita:
«Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della
salvezza», facendo riferimento ad una solenne
processione, durante la festa delle capanne, al termine della quale il sacerdote aspergeva solennemente l’altare
con l’acqua di Siloe. Ma quell’acqua è solo un segno, che rimanda alla «fonte di acqua viva», inesauribile,
che è YHWH stesso e che ha scelto - e per questo merita la lode - di stare per sempre in mezzo al suo popolo.

                                                         15
Il legame tematico della seconda lettura alle altre
                                                              di questa domenica è offerto dai simboli che in
                                                              essa ricorrono, soprattutto lo Spirito e l’acqua. La
                                                              Prima        lettera  di     Giovanni      (attribuita
                                                              tradizionalmente all’apostolo che ha composto il
                                                              vangelo e certamente proveniente dalla stessa
                                                              comunità, date le strettissime somiglianze di
                                                              lessico e temi), sebbene non espliciti i propri
                                                              destinatari ma sembri piuttosto indirizzata a una
                                                              pluralità di comunità, è una lettera vera e propria,
                                                              che racchiude una intensa omelia contro quei falsi
                                                              maestri (probabilmente di derivazione gnostica)
                                                              che negavano l’incarnazione e l’umanità di Gesù.
                                                              Per questo, nell’esordio del testo (cfr. 1 Gv 1,1-4)
                                                              l’autore insiste tanto su verbi di percezione
                                                              (toccare, udire, vedere) e per questo anche nella
                                                              seconda lettura di oggi, tratta dal quinto ed ultimo
                                                              capitolo, Gesù Cristo, Figlio di Dio, viene presen-
                                                              tato come colui che «è venuto con acqua e sangue,
                                                              Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con
                                                              l’acqua e con il sangue» (v. 6). Ricorderemo
                                                              certamente la scena della crocifissione nel quarto
                                                              vangelo: «Vennero dunque i soldati e spezzarono
le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era
già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì
sangue e acqua» (Gv 19,32-34). Il sangue di Gesù è la sua vita donata sulla croce, è il segno più drammatico
e iconico del dono di sé. L’acqua, invece, rappresenta il battesimo, immersione nel sangue di Cristo e nella
sua vita donata. Gesù, morendo sulla croce, ha consegnato il suo spirito e affidato alla sua comunità il sangue
e l’acqua dell’eucarestia e del battesimo. Quell’acqua offerta da Dio nel Deutero-Isaia e promessa da Gesù
(«Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo
sgorgheranno fiumi di acqua viva», Gv 7,37- 38) ritorna ora, ridonata, dalla croce, insieme allo Spirito e al
sangue, affinché i redenti in lui abbiano una triplice, indefettibile testimonianza della sua identità come Figlio
di Dio («Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono
concordi», vv. 7-8). Chi aderisce a Cristo viene rigenerato da Dio attraverso l’acqua del battesimo, con cui
Gesù gli comunica la vita stessa di Dio. Per questo l’apostolo può dire con forza: «Questa è la vittoria che ha
vinto il mondo: la nostra fede» (v. 4).

                                                        16
Delineiamo il percorso proposto dalle letture:
La testimonianza dello Spirito rivela il Figlio.

Le letture del giorno del Battesimo del Signore -
seconda manifestazione di Gesù, dopo l’Epifania
- sono caratterizzate da un movimento
discendente, dal cielo alla terra, dall’alto verso il
basso. Nella prima lettura, tratta dal profeta
Isaia, dal cielo, come pioggia, scende la parola di
Dio, che non torna a lui senza aver portato frutto.
Nelle acque del Giordano, come ci racconta il
vangelo, di fronte a Giovanni il Battista, scende
Gesù, inabissandosi, per partecipare al destino
degli uomini; dal cielo scende, come colomba, lo
Spirito di Dio e si posa su Gesù, dando così inizio
al suo ministero pubblico. Nel giorno del
battesimo, Dio dà testimonianza al suo Figlio
prediletto e questa testimonianza eccezionale, superiore a quella di qualsiasi altro profeta, garantisce
saldamente la fede di chiunque aderisca a Gesù di Nazaret: solo una vittoria vince il mondo, ed è la fede in
colui che è il Figlio amato rivelazione definitiva che «Dio è amore» (seconda lettura).

Commento al Vangelo:
Da tanto tempo Israele attendeva la venuta del Messia, Verbo del Padre, più volte promessa agli antichi israeliti
con un’alleanza da parte di Dio gratuita e irreversibile. Essa si è presentata ufficialmente e realizzata
pienamente nella persona del Figlio di Dio, quando il profeta di Nazaret si è confuso tra gli uomini, come ogni
uomo peccatore presso il Giordano, in attesa di ricevere il battesimo di penitenza. L’Innocente si è fatto
peccato per la salvezza dell’uomo e così ha voluto mescolare il divino con l’umano per trasformare l’umano
in divino. E la vicenda che è invitata a percorrere anche la Chiesa nel suo cammino di testimonianza tra i
popoli: farsi solidale con l’umanità, rivestita di peccato e di debolezza, per liberarla dalla morte e trasformarla
con i doni dello Spirito e della sua santità di vita in ricchezza davanti a Dio. L’immersione della Chiesa e di
ogni comunità cristiana nella situazione di peccato degli uomini è un invito per ogni cristiano a non
mimetizzarsi con il mondo per non infangarsi con esso, ma a presentarsi sempre puro e senza macchia per
diffondere senza compromessi il vangelo di Gesù. Il Signore, infatti, chiama tutti ad una conversione radicale
di vita e a credere alla Parola di colui che ci ha comunicato la verità del Padre (cfr. Mc 1,15).

Padre onnipotente ed eterno, che dopo il battesimo nel fiume Giordano proclamasti il Cristo tuo
diletto Figlio, mentre discendeva su di lui lo Spirito Santo, concedi ai tuoi figli, rinati dall’acqua e
dallo Spirito, di vivere sempre nel tuo amore.

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II Domenica del tempo ordinario
                                            17 gennaio 2021

II luogo della presenza di Dio. Con la vocazione
di Samuele Dio predispone una svolta decisiva
per il suo popolo. Il contesto socio-religioso in
cui avviene la chiamata di Dio a Samuele è
cruciale: l’alleanza è tradita, un vecchio sacerdo-
te è addormentato, i suoi figli sono corrotti, il
popolo ormai solo di rado percepisce quella
presenza divina che lo aveva accompagnato nel
cammino dell’Esodo con mano potente.
D’improvviso, la «parola rara» in quei giorni
risuona di nuovo per iniziativa di Dio. Samuele
è «amato dal suo Signore» (Sir 46,13) ed è
chiamato a risvegliare per sempre il suo popolo.
Tali eventi si svolgono nella regione centrale
della Palestina (a Silo), fra le montagne di Efraim
(7 Sam 1,1), e riguardano la storia, in parte
intrecciata, di due famiglie: quella di Elkanà e
quella del sacerdote Eli. Silo è l’attuale Seilun,
tra Sichem e Betel, dove, fin dal tempo dei
Giudici (Gdc 21,19) vi si celebrava una festa, da
identificare con la festa del raccolto (Es 23,16) o
con quella delle capanne (Dt 16,13). Per lungo
tempo Silo fu il santuario centrale d’Israele in
ragione dell’«arca dell’alleanza, l’arca del Dio,
del Dio degli eserciti» che vi era custodita (7 Sam
4,4), ovvero l’oggetto più sacro che l’antico
Israele abbia mai avuto. Una specie di cassa di
legno rivestita d’oro (Es 25,10-16) conteneva le
                                                       tavole della Legge (7 Re 8,9; Dt 10,1-15; Gs 3,6; cfr. Eb
                                                       9,3-5), a «testimonianza» dell’alleanza conclusa sul
                                                       Sinai tra Dio e Mosè, mediatore del popolo. Sul
                                                       coperchio erano collocati due cherubini scolpiti con la
                                                       funzione di custodi del luogo sacro (posti già in Gen 3,24
                                                       come custodi dell’albero della vita), intermediari tra gli
                                                       uomini e la divinità, simbolo dell’adorazione e della
                                                       preghiera ininterrotta, che fungevano anche da trono del
Signore, come è chiaro da 1 Sam 6,2. Per questo si credeva che la presenza stessa del Signore fosse legata a
quella dell’arca e potesse parlare personalmente, come fa qui con Samuele (7 Sam 3,8). Samuele, nato con
un intervento speciale di Dio da Anna sterile e dal papà Elkanà, è lasciato da fanciullo a servire il Signore
alla presenza del sacerdote Eli (7 Sam 1,1-2,11 ), ma è solo ai primi passi di una profonda familiarità con il
Signore. La vocazione di Samuele. «La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele era coricato, dove
si trovava l’arca di Dio» (7 Sam 3,3). Si tratta del candelabro a sette braccia preparato al mattino che, acceso
la sera, ardeva tutta la notte. Samuele viene chiamato tre volte dal Signore e lui risponde sempre: «Eccomi».
Cruciale la spiegazione del narratore, che ci fa entrare nella dinamica dell’esperienza vocazionale: «In realtà
                                                        18
Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del
Signore» (7 Sam 3,7). Interviene allora il discernimento e la mediazione del sacerdote Eli, che dice al
chiamato: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (7 Sam
3,8). Questo segna la svolta e la progressione nel racconto. La rivelazione notturna segna il passaggio dalla
fanciullezza alla maturità di Samuele, il quale ora parla come profeta dinanzi a Eli e a tutto Israele perché
«il Signore era con lui» (7 Sam 3,19; 4,1). Il legame tra Dio e Samuele si consoliderà sempre più nel corso
della sua vita, sino ad «essere costituito e conosciuto profeta del Signore» (7 Sam 3,20), intercessore presso
Dio per Israele come Mosè (7 Sam 1,8; Es 17,6-13); «uomo di Dio, che quanto dice si avvera e indica la via»
da seguire (7 Sam 9,6-8). Un titolo quest’ultimo solitamente riferito a personaggi ai quali si riconosce la
facoltà di annunciare profeticamente l’adempimento di certi eventi in forza di un legame speciale con Dio
(come Mosè, Dt 33,1).

                                                            Salmo responsoriale            Sal. 39(40)

                                                            Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà. E
                                                            una liturgia di ringraziamento, un canto nuovo in
                                                            cui l’orante richiama la liberazione di Dio nel
                                                            passato, per poter richiedere un secondo intervento
                                                            salvifico nel presente. Il salmista ricorda il suo
                                                            atteggiamento fiducioso durante il pericolo («ho
                                                            sperato, ho sperato»), e con cinque verbi esprime
                                                            l’intervento di Dio: si è chinato, ha ascoltato, mi
                                                            ha tratto, ha posto, ha reso sicuri. Il nuovo canto di
                                                            ringraziamento, messo in bocca da Dio all’orante,
                                                            diventa così una testimonianza e un sostegno per
                                                            la fede dei suoi fratelli, riuniti nella grande
                                                            assemblea. Ecco, io vengo', il salmista annunzia
                                                            che intende compiere la volontà di Dio che lo ha
                                                            chiamato (Eb 10 pone le medesime parole sulle
                                                            labbra di Gesù Cristo).

                                                       19
Glorificate Dio nel vostro corpo. L’apostolo
interpella i cristiani di Corinto: «Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo?» (7 Cor
6,15), rilevando anche le conseguenze esistenziali
ed escatologico-ecclesiali. La mutua ap-
partenenza tra il cristiano e il Signore Gesù è
rivelata su più piani. Il corpo/sóma del cristiano
(che è espressione dell’intera persona, uomo o
donna), è strettamente unito a Cristo come suo
membro ed è per il servizio del Signore. «Il corpo
non è per l’impurità ma per il Signore, e il Signore
è per il corpo» (6,13): Cristo infatti ha dato se
stesso per la salvezza dell’uomo nella totalità del
suo essere. Il Signore e i cristiani saranno sempre
uniti sia nelle sofferenze di questa vita, sia nella
vita futura. Se si appartiene a Cristo in modo così
stretto, come le membra appartengono al corpo, e
l’atto sessuale coinvolge tutta la persona di chi lo
compie, il rapporto sessuale di un cristiano con una prostituta tradisce la sua appartenenza a Cristo, in quanto
chi si unisce al Signore forma con lui «un solo spirito/pneûma» (6,17). Perciò Paolo ricorda ai credenti «il
vostro corpo è tempio dello Spirito Santo» (6,19, argomento pneumatologico) e li invita a glorificare Dio nel
corpo, come atto cultuale di lode anche nella vita quotidiana.

                                                           Delineiamo il percorso proposto dalle letture:
                                                           Il discepolato: vivere in intimità con Dio. La parola
                                                           e l'azione di Dio proclamate dalle Scritture di
                                                           questa domenica fanno luce sulla vocazione
                                                           inscritta nel cuore di ogni credente. Il Signore
                                                           chiama in vista di una comunione e di una missione
                                                           voluta da lui (prima lettura,), favorendo un
                                                           incontro, entrando in dialogo con noi attraverso la
                                                           sua Parola nella quotidianità, che svela un progetto
                                                           a cui l'uomo può acconsentire. Samuele viene
                                                           chiamato da Dio e il suo atteggiamento è di piena
                                                           disponibilità: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta».
                                                           Paolo, nella seconda lettura, aiuta i credenti a
                                                           scoprire e a comprendere la dignità e lo splendore
                                                           della propria corporeità in relazione a Cristo, allo
                                                           Spirito e alla comunità ecclesiale. Il vangelo,
                                                           infine,    rivela     l'identità     di    Gesù       e
                                                           contemporaneamente la chiamata alla sequela dei
                                                           primi cinque discepoli, mostrandoli invisibilmente
                                                           attirati da lui. Le chiamate sono diverse:
                                                           comprenderle e corrispondervi è cruciale per il
                                                           cammino umano pieno di una libertà responsabile,
                                                           che comporta anche il diffondere il messaggio
evangelico.

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Commento al Vangelo:
La parola di Dio ci pone di fronte al mistero della vocazione che non si dà mai per i nostri meriti o per nostre
qualità umane, ma scaturisce soltanto dalla libera e misericordiosa iniziativa divina nei nostri confronti.
L’incontro con Gesù, pur decidendosi nel segreto della nostra libertà, postula però la dinamica della testimo-
nianza. Stando al racconto evangelico, gli incontri con i primi discepoli avvengono, infatti, come a catena-,
ognuno di loro giunge a Gesù attraverso la mediazione di un altro, perché questa è concretamente la dinamica
del nostro pervenire alla fede. Ne deriva un insegnamento prezioso sull’importanza di testimoni autentici che
ce lo indicano come il Signore atteso e favoriscono l’incontro con lui, senza voler legare a sé l’altro quasi
fosse una proprietà del testimone. Il vero testimone è dunque al servizio del cammino verso una maturità
spirituale che è libertà di scelta. Esempi eccellenti in tal senso appaiono sia il sacerdote Eli con Samuele e
ancor più il Battista con i suoi due discepoli. Per divenire testimoni bisogna, però, avere già incontrato il
Signore e perciò essere divenuti capaci di andare oltre le apparenze, accedendo a un profondo sguardo di fede
sulla realtà. Testimoniare è regalare agli altri questo sguardo che in precedenza ha cambiato la nostra vita.
Questo suppone un essere entrati in una nuova forma di esistenza, in una comunione fattiva con Gesù,
comunione che può essere espressa come un ‘abitare con lui’, anzi come un fermarsi presso di lui. Alla fase
della ricerca, oggi spesso troppo enfatizzata, deve succedere infatti quella del nostro fermarsi, del riconoscere
in Gesù la vera mèta del nostro cuore, del saper perseverare in sua compagnia: «Andarono dunque e videro
dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui». In questo dimorare con lui prende vigore la contem-
plazione e l’ascolto, il metterci a disposizione con tutte le nostre energie, come aveva detto Samuele, con la
semplicità di un fanciullo: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Solo rimanendo con Gesù comprendiamo
davvero che siamo stati comprati a caro prezzo e siamo diventati tempio dello Spirito Santo.

Dio onnipotente ed eterno, che governi il cielo e la terra, ascolta con bontà le preghiere del tuo popolo e
dona ai nostri giorni la tua pace.

                                                       21
III Domenica del tempo ordinario
                                          24 gennaio 2021

Il racconto del profeta Giona è una chiamata a
condividere un’esperienza. Al centro del brano
sta una domanda che costituisce la stella polare
di tutta la Scrittura: qual è il vero volto del
Signore? Colui che castiga o colui che perdona?
La «parola del Signore» si pone sin dall’inizio
come protagonista e soggetto vero di questo
messaggio di speranza narrato dal profeta Giona
nella conversione dei niniviti e nel perdono
divino. L’assolutezza della parola di Dio si
esprime negli imperativi: «Alzati, va’, annuncia
loro quanto ti dico» (Gn 3,1). Inizialmente Giona
è «sordo» allo spirito (letteralmente al «vento»)
profetico e si dirige lontano dal Signore (verso
Tarsis, Gn 1,3-4). Poi egli ubbidisce alle parole
di invio da parte di Dio e va a Ninive. Così è Dio
il vero autore di questa missione del profeta e la
duplice ripetizione «la parola del Signore» lo
sottolinea (v. 2). Inaspettatamente, l’annuncio
del profeta suscita la conversione del popolo di
quella città pagana e nemica («credettero in
Dio», v. 5). Questi mettono in pratica scelte di
penitenza e di fiduciosa speranza, espresse in
opere di conversione «dalla condotta malvagia e
dalla violenza» (v. 8). Così anche Dio si ravvide,
perdonando misericordiosamente i niniviti (v. 10).

                                                     Salmo responsoriale           Sal.            24(25)

                                                     Fammi conoscere, Signore, le tue vie. Questa preghiera
                                                     di fiducia è la supplica di un individuo, sebbene nell’io
                                                     dell’orante risuoni la voce della comunità. Il salmista
                                                     appartiene al gruppo dei «poverì/'anawîm», i quali
                                                     cercavano per se stessi e per gli altri un appoggio e un
                                                     ammaestramento nella Sacra Scrittura. Chiedono
                                                     perciò di essere guidati e istruiti dal Signore (v. 9).
                                                     L’orante implora che il Signore sia il suo maestro,
                                                     cercando allo stesso tempo di impartire un
                                                     insegnamento. La preghiera è pensata come uno dei
                                                     momenti dell’opera salvifica del Signore, e da
                                                     individuale diventa comunitaria, con il passaggio dal
                                                     singolare al plurale (v. 22); un cammino verso
                                                     l’incontro con Dio come salvatore, che si sviluppa co-

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