2021 Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre - Unità Pastorale Barbarano-Mossano-Villaga
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2021 UNITÀ PASTORALE Barbarano Mossano Villaga Anno B Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Novembre Claudio Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.
SOLENNITA’ DI MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO 01 gennaio 2021 Il libro dei Numeri, quarto del Pentateuco, è poco presente nella liturgia festiva (solo quattro occorrenze in tutto), ma questa solenne posizione in apertura dell’anno civile in parte compensa la rarità delle occasioni. Riallacciandosi all’Esodo, Numeri riprende il cammino di Israele nel deserto verso la terra promessa (e proprio “nel deserto”, infatti, è il nome ebraico del libro, mentre quello latino traduce il greco che fa riferimento ai censimenti presenti nei primi capitoli). Nella prima parte (cc. 1-10), dalla quale è tratta questa prima lettura, l’ambientazione è quella del Sinai, dove vengono censiti gli Israeliti e vengono date alcune norme legali; mediatore tra Dio e il popolo è sempre Mosè, che trasmette le disposizioni del Signore per la vita e l’organizzazione di Israele. Una benedizione piena. Nel passo in questione, tratto dal sesto capitolo, Israele si sta preparando a lasciare il monte dell’alleanza, dove è stato accampato per quasi un anno, per riprendere il cammino verso la terra promessa. Non è insolito, nell’antichità, dare benedizioni, soprattutto alla fine di un momento di adorazione e preghiera (cfr. Lv 9,22; Dt 21,5; 2 Cr 30,27; Sal 67,1 e 121,8). Nella formula di benedizione prescritta dal Signore ad Aronne si può subito notare la triplice occorrenza del nome YHWH (VV. 24.25.26). Dio è il soggetto di tutte le azioni in essa evocate: benedire, custodire, far risplendere (il suo volto), fare (grazia), rivolgere (il suo volto), concedere (pace): un’abbondanza di azioni che esprimono la multiforme varietà dell’azione benefica di Dio nella vita del popolo. È interessante notare che la benedizione è rivolta ad un singolo, non alla collettività: così, ogni persona che la riceve può farla propria, anche senza voler escludere un valore comunitario alla benedizione e all’episodio in cui è inserita. Inoltre, nell’abbondanza di azioni di grazia elencate sono implicitamente inclusi, ma non dettagliati, tutti i doni che, direttamente o indirettamente, riempiono le nostre vite e le rendono gioiose, sul piano fisico e spirituale, materiale e immateriale: non viene definito o escluso alcun campo d’azione dall’efficacia della grazia di Dio. Il Dio che «custodisce» (v. 24) è il Dio che dà sicurezza, come un pastore per il suo gregge - e certamente il popolo ha bisogno di protezione, nell’imminenza di un viaggio così pericoloso attraverso il deserto! Se parlare del “volto” di Dio (vv. 25-26) è un modo per “umanizzarne” l’aspetto, per dire in forma umana quello che umano non è, la luce che ne irradia e la sua brillantezza ci ricordano la sua assoluta alterità: Dio, a differenza di tutte le volte in cui ha “nascosto il suo volto” dal popolo - auspica la benedizione - mostrerà il suo volto all’uomo o alla donna benedetti, garantendo loro la sua benevolenza. Luce e pace da Dio. Culmine della benedizione è la parola šalôm (v. 26): essa racchiude un campo semantico vastissimo (prosperità, serenità, sicurezza, longevità, amicizia, benessere), davvero difficile da delimitare. Luce e pace tornano spesso insieme a contrassegnare il tempo delle promesse messianiche, anche nella tradizione profetica (cfr., fra tutti, il libro di Isaia). In questo tempo di Natale, per 1
esempio, è interessante ricordare il cantico di Zaccaria all’inizio del Vangelo di Luca, quando l’anziano padre (una delle figure di transizione scelte dall’evangelista per rappresentare il passaggio dall’antica alla nuova alleanza), guardando il bambino Giovanni e profetizzando sulla sua missione, conclude dicendo: «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Le 1,78-79). Rivestirsi del nome di Dio. In Nm 6, dopo aver “dettato” tramite Mosè la benedizione ad Aronne perché la impartisca agli Israeliti, il Signore conclude: «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (v. 27). Con tale affermazione il Signore ricorda che è lui l’origine di ogni benedizione, non la mano di un uomo. Quindi quello contenuto nella prima lettura di oggi non è un augurio umano, come quelli che pure legittimamente e sinceramente ci scambiamo in questo tempo: è una parola di una qualità profondamente diversa, perché è una promessa di Dio! Addirittura, il «nome di Dio» sarà sui benedetti: è come se il testo dicesse che il nome di Dio diventa la nuova “veste” degli Israeliti, ciò che loro devono indossare, ciò che agli occhi degli altri mostrerà chiaramente a chi appartengono e chi è il loro sostegno. Salmo responsoriale Sal. 66(67) La splendida preghiera di benedizione comunicata da Dio ad Aronne tramite Mosè riecheggia all’inizio del Salmo 66: il Signore, rivelatosi al Sinai, ha già fatto splendere il suo volto sui suoi servi, per questo gli oranti possono fiduciosamente chiedere ancora la sua vicinanza e la sua amicizia. Questo Dio ha manifestato la sua presenza come avvento di giustizia e rettitudine, guidando la storia dell’umanità verso il bene. La sua guida ha a cuore anche le genti straniere, tutte le “nazioni” e i popoli che abitano i confini della terra, attraverso un creato provvidente ma soprattutto attraverso il suo pas- saggio benedicente in mezzo alle strade degli uomini. Così Israele e le nazioni possono cantare a una voce unica la lode di Dio, essendo stati già resi tutt’uno dall’essere tutti destinatari della sua misericordia. 2
La pericope tratta dal quarto capitolo della Lettera ai Galati costituisce un inno alla libertà, come caratteristica qualificante la relazione tra Dio e quanti credono nel suo figlio Gesù Cristo. I destinatari della lettera, infatti, erano stati insidiati da nuovi predicatori che annunciavano l’insufficienza della fede in Gesù e la necessità di rispettare integralmente anche la legge di Mosè. Paolo, dunque, deve difendere non solo il proprio operato (è, questa, la lettera paolina con più notizie autobiografiche tra quelle che possediamo), ma soprattutto la teologia della grazia, ossia il suo “Vangelo”. La libertà come dono derivante dall’adesione a Cristo viene espressa attraverso la contrapposizione tra l’essere servo e l’essere figlio, che nel mondo antico doveva bene esprimere una colossale distanza di diritti e possibilità. L’argomentazione che precede il nostro brano parte da lontano, dal patriarca Abramo, padre di Israele (Gal 3,6), per dimostrare che Gesù e i cristiani sono i veri eredi della promessa abramitica e che la libertà del Vangelo ha posto definitivamente fine alla schiavitù derivante dall’obbedienza della legge. Con l’esempio di un bambino che ha tutori e amministratori, nei versetti immediatamente precedenti al v. 4, Paolo cerca di rappresentare lo stato di “minorità” nel quale l’umanità si trovava prima dell’incarnazione. Ma, «quando venne la pienezza del tempo» (tò plḗrōma tû chrónu, v. 4), ossia nel tempo da Dio voluto e prescelto, «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (vv. 4-5). Ecco il cuore del Vangelo di Paolo: i credenti in Cristo non sono più in uno stato di servitù né di minorità, perché hanno ricevuto la piena dignità di figli; qualcuno ha pagato a caro prezzo un riscatto per loro, e questo qualcuno è Gesù Cristo. Quindi qualunque diminutio del valore dell’incarnazione sarebbe un ritorno alle catene che, per parafrasare il Paolo di 1 Cor 1,17, renderebbe vana la croce di Cristo! Il nuovo rapporto che lo Spirito crea tra il Padre e i figli è un rapporto di adesione libera e amorevole, non per l’obbedienza a una serie di regole, ma perché il cristiano adulto è responsabilmente coinvolto nella proposta di vita che Dio gli ha fatto in Gesù. Per questo può fare sue le stesse parole di Gesù e chiamare Dio «Abbà! Padre» con la stessa intensità, lo stesso affidamento, la stessa amorevole disponibilità di Cristo ed essere, legittimamente, erede della promessa, quella stessa che già in Abramo Dio rivolse a tutti gli uomini e che ora, in Cristo, trova il suo pieno compimento. 3
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Custodire la benedizione di Dio All'inizio di un nuovo anno civile la chiesa affida la vita dei suoi figli alla madre per eccellenza, Maria. Lo fa sotto il segno benedicente di Dio che, attraverso Mosè, si impegna a proteggere il nuovo cammino del suo popolo (prima lettura). Lo fa anche con il brano del vangelo, riproponendo la scena della notte di Natale, quando insieme ai pastori contempliamo, accanto al bambino nella mangiatoia, una giovane donna intenta a raccogliere e custodire quanto di meraviglioso, ma anche di misterioso, le viene annunciato di quel figlio. Maria, madre di Dio, ha sperimentato prima di ogni uomo la libertà dei figli di Dio, quelli adulti, responsabili che, come leggiamo nella seconda lettura, possono chiamarlo «Padre», grazie al dono a loro comunicato una volta e per sempre da Cristo. Apriamoci con fede al nuovo anno, forti della benedizione di Dio e seguendo il modello della Vergine Maria. Commento al Vangelo: Il primo giorno dell’anno civile da vari anni si celebra in tutto il mondo ‘la giornata della pace’ nel nome di Maria, madre di Dio e madre della Chiesa. La pace (šalôm) è il dono messianico per eccellenza che Gesù risorto ha portato ai suoi discepoli (cfr. Gv 20,19-21); è la salvezza degli uomini e la riconciliazione definitiva con Dio. Ma la pace di Cristo è anche la pace dell’uomo, ricca di valori umani, sociali e politici, che trova il suo fondamento, per dirla con la Pacem in terris di Giovanni XXIII, nelle condizioni di verità, di giustizia, di amore e di libertà, che sono i quattro pilastri su cui si regge la casa della pace. La costante benedizione di Dio nella prima alleanza, l’azione di Cristo svolta a vantaggio dell’intera umanità e di ogni singolo componente, lo stesso nome dato a Gesù, che ne evoca la missione di salvatore, sono tutti eventi orientati nella linea della pace, dell’alleanza, della fraternità. Dio non ha creato l’uomo per la guerra, ma per la pace e la fraternità. Il male in tutte le sue molteplici forme si contrasta solo con una costante educazione alla pace. Quella pace che la Vergine Maria, Regina della pace, ci può ottenere dal Padre: la šalôm biblica viene da Dio ed è legata alla giustizia. La radice della pace, nondimeno, risiede nel cuore dell’uomo, cioè nel rifiuto dell’idolatria, perché non c’è pace senza vera conversione, non c’è pace senza tensioni (cfr. Mt 10,34). La pace di Cristo non è come quella del mondo, perché quella di Gesù esige che ci si allontani dalla mentalità mondana. Con la venuta di Cristo la pace è offerta ad ognuno di noi, perché nasce dal cuore di Dio che è amore. O Dio, che nella verginità feconda di Maria hai donato agli uomini i beni della salvezza eterna, fa’ che sperimentiamo la sua intercessione, poiché per mezzo di lei abbiamo ricevuto l’autore della vita, Cristo tuo Figlio. 4
II Domenica dopo Natale 03 gennaio 2021 La prima lettura è tratta dal libro del Siracide, una raccolta di istruzioni e proverbi su diversi argomenti, risalente nella sua versione ebraica (non posseduta integralmente) forse intorno al 180 a.C. e nella traduzione greca al 132 a. C. circa. Alcune sue sezioni risultano oggi inaccettabili per la sensibilità moderna, soprattutto i capitoli più esplicitamente misogini, che vanno debitamente contestualizzati e relativizzati (cfr. Sir 25). Il capitolo 24, proposto oggi dalla liturgia, è forse il brano più noto per gli evidenti richiami al tema della sapienza di Dio e ai suoi sviluppi neotestamentari. In Sir 24 la Sapienza tesse il proprio elogio, sul modello di precedenti personificazioni del soggetto, come in Pr 8. Essa viene rappresentata assisa in mezzo al suo popolo (v. 1) e intenta ad aprire la bocca e proclamare la sua gloria dinanzi alle schiere dell’Altissimo (v.2). Inizia, quindi, un discorso diretto in cui la Sapienza racconta di essere uscita dalla bocca di Dio, facendo così tornare il lettore al racconto di Gen 1, quando la creazione viene narrata come realizzata attraverso la parola divina efficace e creatrice: Dio, infatti, parla e le cose vengono all’esistenza. Subito dopo ecco un’altra importante immagine antica: la Sapienza dice di avere ricoperto la terra come nube, e la presenza di Dio nella nube - che insieme nasconde e protegge - è una modalità tipica della presenza di Dio nel racconto dell’Esodo (cfr. 13,21-22). Inizialmente essa aveva la propria dimora «lassù», dice il testo, facendo immaginare una abitazione lontana dal creato. Il suo venire verso il mondo, quindi, viene descritto come un percorso di discesa, una sorta di katábasis, dalle vette più alte alla profondità degli abissi, come descriverà il v. 5 omesso dalla liturgia odierna («Ho percorso da sola il giro del cielo, ho passeggiato nelle profondità degli abissi»), Ancora nei versetti omessi, la Sapienza racconta di aver cercato tra tutti i popoli un luogo dove riposare (v. 7), ma è stato il “Creatore” a darle l’ordine di piantare la sua tenda in Giacobbe/Israele: come Dio, la Sapienza si accampa in mezzo al suo popolo e pone la sua «tenda» (non sfuggiranno al lettore attento gli sviluppi neotestamentari di questo motivo) proprio a Gerusalemme. La Sapienza, quindi, abita nella tenda santa: il riferimento evidente è al Tempio, dove la legge e la sapienza di Israele si incontrano. La selezione liturgica odierna riprende il capitolo dal v. 8, in cui i temi fondativi della relazione tra Dio e Israele (porzione particolare, eredità) vengono trasferiti per simbiosi alla relazione tra la 5
Sapienza e il popolo stesso. Quindi, dal v. 13 in poi, lo splendore della Sapienza assisa a Gerusalemme viene descritta attraverso immagini di alberi e piante rigogliosi (le palme di Engàddi, le rose di Gerico, un olivo maestoso, un alto platano) e come spezie preziose e profumate e pietre rare (cinnamomo, balsamo di aromi, mirra scelta, onice ecc.). Queste immagini conclusive insistono sulla bellezza e sulla desiderabilità della Sapienza, per suscitare nel lettore il desiderio di raggiungerla. Dirà infatti la Sapienza ai vv. 19-21: «Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete». Desiderare la Sapienza (che alla fine del capitolo si identificherà addirittura con «il Libro dell’alleanza di Dio altissimo», 24,23) significa desiderare un rapporto autentico e “gustoso” con il Signore, che riempia le nostre vite di bellezza, sapore e profumo inebriante. Salmo responsoriale Sal. 147 Questo salmo, databile al periodo post-esilico (come è deducibile dal tema della ricostruzione di Gerusalemme da parte di Dio e del raduno degli esiliati), invita alla lode di Dio per il suo potere universale e la sua cura provvidente. Egli ha ricostruito Gerusalemme, ha radunato il popolo, ha sanato e guarito le sue creature, provvedendo a tutte loro necessità. Ecco dunque in opera la parola di Dio (v. 15), da lui inviata a «correre veloce» sulla terra per portare il suo messaggio, palesandosi in tutti i fenomeni naturali e in tutte le stagioni. Il popolo dell’alleanza sa che con nessun’altra nazione Dio ha fatto così, annunciando a Giacobbe la sua Parola e a Israele i suoi decreti e i suoi giudizi: questo è motivo di gratitudine, di responsabilità e di lode. 6
L’esordio della Lettera agli Efesini è stato già proclamato nella solennità dell’Immacolata Concezione. Anche la selezione odierna parte dal v. 3, subito dopo il saluto ai lettori, e prosegue fino al v. 6, ma poi propone i vv. 15-18, una intensa preghiera di ringraziamento e di intercessione per i destinatari della lettera, auspicando che su di loro giunga «uno spirito di sapienza e di rivelazione» (v. 17), trait d’union con le altre letture della giornata. Riecheggiano tante preghiere, giudaiche e cristiane, nell’eulogio iniziale: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (v. 3). Il motivo della benedizione sta nei doni che Dio ha fatto all’umanità attraverso Gesù Cristo, eleggendola ad essere un popolo di “santi”, “messi da parte” per lui. Tutti i doni provengono dalla libera iniziativa di Dio e dal «disegno d’amore della sua volontà» (v. 5), che trova il suo compiacimento nel Figlio diletto (ricordiamo la scena del battesimo di Gesù, secondo il Vangelo di Marco 1,11) e in quanti, grazie alla sua mediazione, ricevono il dono dell’adozione filiale. E nella morte di Gesù che siamo riscattati e che i nostri peccati vengono redenti. In questa nuova dimensione di santità e purezza possiamo (per grazia e non per meriti) accedere alla conoscenza di Dio, partecipando al suo progetto di bene per la creazione che è l’«evento» Cristo (vv. 7-12, omessi). Sarà la presenza interiore dello Spirito, sigillo dell’appartenenza a Dio come figli, a garantire che egli porterà a compimento le sue promesse (vv. 13-14, omessi). A questo punto, dunque, l’autore della lettera si rivolge amorevolmente ai suoi destinatari, dei quali ha conosciuto la fede e l’amore vicendevole (v. 15); rende grazie per loro (tutto questo esordio è un inno di ringraziamento incessante, che non dimentica nulla, dalla terra al cielo!) e garantisce il proprio accompagnamento nella preghiera (v. 16), desiderando per loro quanto abbiamo udito celebrare della Sapienza e della misericordia di Dio nelle letture precedenti. «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v. 17): il dono della sapienza è finalizzato alla relazione con Dio, non ad una crescita intellettuale! Per grazia, il volto dell’amato si disvela e l’amata lo guarda, lo conosce intimamente, lo ama; a questo è chiamata la Chiesa, ad Efeso e ovunque. «Illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (v. 18): per quanto complessa possa essere la metafora degli “occhi del cuore”, il senso dell’immagine è chiaro e parla di una speranza che non sono gli eventi drammatici o felici a distruggere o costruire; se Dio lo concede, il cuore può sollevare lo sguardo e riconoscere, con limpidezza, che la vocazione fondamentale di un cristiano è alla speranza, fondata e non illusoria, di essere erede di un tesoro grande di amore e di vita senza fine. 7
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: ... e pose la sua tenda in mezzo a noi. Cos'è la sapienza secondo la Bibbia? La liturgia odierna, in questa 2a domenica dopo Natale, ci costringe a porre diversamente la domanda: chi è la Sapienza? Non semplicemente qualcosa da avere ma qualcuno da cercare e che si lascia incontrare. Nel percorso rivelativo che va dalla personificazione in una figura femminile di Sir 24 (prima lettura) al Lògos-Verbo di Dio di Gv 7 (vangelo), la sapienza di Dio assume il volto bello, amabile, desiderabile di Gesù di Nazaret. Lui solo, il « Figlio unigenito », illuminato dall'amore e dalla relazione profonda col Padre, può rivelare la misericordia di Dio. Grazie alla salvezza ottenuta nel suo nome, coloro che appartengono al nuovo popolo di Dio possono legittimamente dirsi eredi di una speranza indistruttibile, destinatari del più grande dono che Dio ci ha fatto: poterci dire figli nel Figlio, amati da colui che adesso possiamo chiamare Padre (seconda lettura). 8
Commento al Vangelo: Le letture bibliche di questa domenica evidenziano che Gesù è l’immagine visibile di Dio Padre. Il Figlio, infatti, guarda incessantemente verso il Padre, che è la fonte della sua missione. Tutto gli viene dal Padre: l’insegnamento, l’attività, il potere sulla vita e sulla morte. «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Gv 7,16). «La Parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). Il Figlio non fa nulla da solo, ma «parlo come mi ha insegnato il Padre» (Gv 8,28). Gesù è in ascolto del Padre con uno sguardo di interiore contemplazione e trasmette le sue parole, anzi comunica la parola del Padre così bene, che lui stesso per l’evangelista è la Parola (Gv 1,1-2). Gesù è così il rivelatore perfetto dell’amore del Padre, perché sempre è in ascolto di Dio, ed è parimenti la Parola stessa del Padre. Il vertice, tuttavia, della rivelazione che Gesù ha trasmesso non va posto su ciò che Gesù ha insegnato con la parola, ma sull’opera che egli ha testimoniato con la vita. Egli ha compiuto fino in fondo l’opera che il Padre gli ha affidato. E l’opera che esprime il dono di sé, Gesù la compie col dare la vita sulla croce, rendendoci così figli adottivi dello stesso Padre. È da questo colle, dove si innalza la croce, che l’umanità prende coscienza della qualità dell’amore, che Gesù di Nazaret le rivela: un amore che supera ogni logica umana e sconfina in Dio. Dio onnipotente ed eterno, luce dei credenti, riempi della tua gloria il mondo intero, e rivèlati a tutti i popoli nello splendore della tua verità. 9
Epifania del Signore 06 gennaio 2021 Il capitolo 60 del libro di Isaia è il primo di tre capitoli (60-62) molto vicini tra loro e che, secondo gli studiosi, costituiscono il nucleo iniziale del cosiddetto Trito-Isaia (capp. 56-66), giacché trasmettono un messaggio molto compatto e unitario: i capitoli, infatti, non fanno altro che ripetere incessantemente un annuncio di salvezza, ma stavolta senza alcuna espressione di giudizio né di condanna, né sui singoli né sul popolo. La salvezza annunciata è in arrivo, verrà presto, ma (a differenza della dimensione storica tipica del Deutero- Isaia, che permetteva di rintracciare approssimativamente le coordinate degli eventi allusi e dei loro protagonisti) questa salvezza non è un evento storico concreto, bensì l’annuncio di una trasformazione totale dell’attuale condizione di dolore, oscurità e miseria vissuta dai destinatari e che sarà stravolta dall’azione di Dio. Destinataria dell’annuncio è Sion. Il profeta le dice: «Su (tradotto con «àlzati»), risplendi» (v. 1) e al v. 4 le dirà anche «alza gli occhi intorno e guarda». In primo luogo Sion deve rialzarsi e illuminarsi in volto, perché le viene annunciato l’arrivo della sua luce, ossia la gloria del Signore. In un linguaggio che abbiamo più volte ascoltato nel tempo di Avvento e di Natale, tenebre e luce si contrappongono, ma è la luce del Signore a vincere, come un sole che sorge su Sion e permette al suo volto di ritrovare la propria originaria luminosità. Oltre al movimento del Signore che viene verso Sion, però, questo annuncio presenta un altro movimento, ed è quello che Sion è invitata a contemplare dal v. 3 in poi: popoli che da ogni dove (i luoghi citati sono Madian, Efa, Saba) verranno spontaneamente verso Sion, riportandole i suoi figli e le sue figlie - non in catene, come schiavi, ma in braccio, come la cosa più preziosa. Addirittura si riverseranno flotte dal mare, finanche gli animali (stuoli di cammelli e dromedari) spontaneamente si recheranno nella città santa. Questa meravigliosa visione - che, come abbiamo già detto, non è la trasposizione di un evento storico, ma una proiezione profetica della salvezza da Dio promessa e riservata al suo popolo - deve riempire il cuore di Sion di commozione e di gioia. Dice il v. 5: «Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore»; il cuore di Sion impazzirà dalla gioia nel vedere che la città, un tempo abbandonata dal Signore e dai suoi figli esuli, dispersi nel mondo, sarà di nuovo il luogo in cui Dio e il popolo, e insieme a loro anche tutti i 10
popoli della terra, convergeranno portando addirittura spontaneamente ricchezze e tesori. Tale epifania del Signore porterà una doppia glorificazione, motivo della gioia dell’annuncio del Trito-Isaia: saranno proclamate le gesta gloriose del Signore, ma sarà nuovamente restituita dignità alla città e al popolo, un tempo sconfitti e oscurati. Salmo responsoriale Sal. 71(72) «Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra», ci fa ripetere il ritornello del Salmo 71. Originariamente era un’intercessione per il re, ma utilizzata non per una figura concreta e definita, quanto per un modello ideale di regalità, che appartiene propriamente a Dio e, per sua bontà, al Messia che invierà ad Israele. Tema dominante è la giustizia, che deve caratterizzare il governo del re a somiglianza del modo in cui Dio giudica e governa la terra. Urgente e assoluta è l’esigenza di protezione dell’indigente e del misero, che solo in Dio trovano il loro aiuto. I luoghi esotici nominati (Tarsis, Saba, Seba, ossia Spagna, Arabia, Etiopia) anticipano quella dilatazione della giustizia e della misericordia di Dio che sarà contemplata come luce anche nell’oriente dei magi. «Mistero»: ecco la parola al centro dello stralcio tratto dal terzo capitolo della Lettera agli Efesini e proposto come seconda lettura di oggi, termine che ben si adatta al giorno in cui la liturgia celebra l’Epifania del Signore; un mistero, infatti, o viene svelato, rivelato, o resterà tale per sempre. L’apostolo, parlando del ministero della grazia di Dio a lui affidato per il bene dei suoi destinatari, dice che gli è stato rivelato un mistero (3,3, ma il termine è ripetuto tante volte in pochissimi versetti), taciuto per generazioni (addirittura nascosto da secoli, dirà in 3,10) e «ora» rivelato per opera dello Spirito. L’enfasi con cui Paolo introduce il tema fa pregustare qualcosa di grande, un dono (non certo una minaccia, o almeno non per tutti...) e il v. 6 lo svela: «che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo». Da pagani convertiti quali siamo, ormai assuefatti almeno a parole al tema dell’universalità della salvezza, questo mistero rivelato non ci fa sgranare gli occhi e spalancare la bocca, ma non dovette essere così al tempo di Paolo. Egli, infatti, parla dei gentili che vengono ad ereditare la salvezza, insistendo sul fatto che a tutte le genti viene offerta la stessa 11
eredità, lo stesso corpo, la stessa promessa! E forse il mistero coinvolge anche il modo in cui Dio permette liberamente di accedere a questa eredità, anzi: che Dio abbia consentito ad un nuovo gruppo di eredi di prendere parte alla sua eredità è il mistero per eccellenza, perché è difficile comprendere che ciò non toglie nulla a coloro che erano eredi già prima! Eppure Efesini ricorda che in Cristo ci sono ricchezze infinite (3,8). La portata di questo mistero è, dunque, effettivamente cosmica e coinvolge il mondo intero, tutti i gentili che prima adoravano altri dèi e che ora vengono chiamati, attraverso Cristo, ad una fede nuova. Così essi sono messi in relazione con Dio e ricevono in eredità la sua grazia. Ecco, dunque, rivelato il mistero che Paolo ha ricevuto: Dio non vuole più che i gentili siano separati da lui ed è intervenuto nella storia per costruire con loro una nuova relazione, mediatore della quale è stato proprio Gesù Cristo. La vicinanza o la lontananza da Dio non dipendono, secondo Efesini, dall’appartenenza previa: giudei e gentili hanno bisogno ugualmente della grazia perché gli uni e gli altri sono esposti al peccato. Diventare eredi è la conseguenza di un atto libero della misericordia di Dio, che chiama tutti gli uomini alla stessa fede, addirittura a costituire un unico corpo, metafora forte per insistere sulla dimensione comunitaria e intrinsecamente relazionale della “nuova famiglia” che Dio, nella sua «multiforme sapienza» (cfr. E/3,10), si è scelto. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: La gioia del Natale per tutti i popoli. Nella solennità dell'Epifania del Signore, la liturgia della Parola presenta agli occhi dei fedeli due manifestazioni divine: quella del Gesù bambino deposto in una mangiatoia e visitato dai saggi d’oriente (vangelo) e quella del Cristo morto e risorto: proprio nel giorno dell'Epifania, infatti, viene annunciata solennemente la data della Pasqua. La luce alla quale cammineranno "le genti" nella apertura già universalizzante che ritroviamo nel profeta Isaia (prima lettura), nel tempo stabilito si fa stella che appare in oriente perché dai confini del mondo si venga ad adorare il bambino Re. Tutti i popoli della terra adoreranno il Signore (salmo), tutte le genti sono chiamate a condividere il mistero che adesso è stato rivelato (seconda lettura). Questa è la portata incontenibile del lieto annuncio di Cristo Gesù, morto e risorto per ogni uomo! Celebrando la solennità che chiude il periodo natalizio, ci incamminiamo con fede verso un orizzonte pasquale. Commento al Vangelo: Epifania vuol dire ‘manifestazione’ e la parola di Dio in questa solennità è tutta incentrata su Gesù messia, re e salvatore universale dei popoli. Egli non è venuto solo per Israele, ma anche per i pagani, cioè per tutta la famiglia umana. La venuta dei Magi è l’inizio dell’unità delle nazioni, che si realizzerà pienamente nella fede in Gesù, quando tutti gli uomini si sentiranno 12
figli dello stesso Padre e fratelli tra di loro. I Magi, quali primi ‘uditori’ e testimoni del Cristo, sono tipo e preludio di una più grande moltitudine di ‘veri adoratori’, che costituirà la messe spirituale del tempo messianico. Gesù è il seminatore, che ha portato il buon seme della Parola per tutti; lo Spirito ha fatto maturare il seme e la Chiesa è invitata a raccogliere il frutto abbondantemente seminato con la rivelazione di Gesù e fecondato con la sua morte. Come dalla vita di comunione e di amore tra il Padre e il Figlio è derivata la missione di Gesù, così dall’intimità tra Gesù e la Chiesa scaturisce la missione dei discepoli, che è quella di creare l’unità tra razze, popoli e lingue. È la Parola che crea l’unità nell’amore tra i credenti di tutti i tempi. Per mezzo di essa nasce la fede e si stabilisce nel cuore dell’uomo aperto alla verità un’esistenza vitale in Dio, che rende l’uomo contemporaneo appartenente a Cristo. A coloro che lo cercano con cuore sincero, Gesù offre unità nella fede e nell’amore. In questo ambiente vitale ‘tutti’ diventano ‘uno’ nella misura in cui accolgono Gesù e credono alla sua parola: «Saremo una cosa sola non per poter credere, ma perché avremo creduto» (SANT’AGOSTINO). In Gesù tutti possono essere una cosa sola e scoprire che la pienezza di vita è donarsi al Cristo e ai fratelli, e questo è amare nell’unità. O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria. 13
Battesimo del Signore 10 gennaio 2021 Siamo all’ultimo capitolo del libro del cosiddetto Deutero-Isaia (cc. 40-55), con un oracolo che, per certi versi, riassume inviti ed esortazioni già presenti nei capitoli precedenti, ma ne contiene anche alcuni inediti. Proprio nell’esordio, infatti, il discorso rivolto da Dio agli uomini è contrassegnato da una serie di imperativi e, se il lettore ha familiarità con «porgete l’orecchio» (v. 3) o «cercate il Signore» (v. 6), certamente ne ha di meno con: «assetati, venite all’acqua... com- prate e mangiate... venite, comprate senza denaro» (v. 1). Se dunque ci troviamo di fronte ad una sorta di invito finale affinché chi ha ascoltato la predicazione del Deutero-Isaia si volga finalmente a Dio, affinché questo invito sia davvero efficace il profeta presenta, in apertura, immagini e inviti singolari. Sembra quasi che la voce del Signore sia quella di un mercante o di un ambulante ai margini della strada o al crocicchio di una piazza. Eppure questo mercante offre merce di qualità rara (non un “non-pane” che non sazia, cfr. v. 2) e, soprattutto, non chiede denaro, ma offre gratuitamente. L’esortazione va certamente intesa in senso metaforico: l’offerta di acqua, vino, latte, pane ossia di cibi sia essenziali sia superflui, vuole presentare come gustoso, piacevole e “nutriente” l’ascolto della parola di Dio. Infatti, che l’ascolto sia al centro dell’oracolo lo capiamo dall’imperativo successivo, che certamente stavolta non va inteso in senso metaforico: «Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete» (v. 3). L’ascolto della parola di Dio, dunque, diventa via di accesso preferenziale alla partecipazione dei beni offerti da lui. A rinforzare questa prospettiva di bene torna una promessa antica: Dio offre di ristabilire con il popolo un’alleanza - stavolta definita eterna - che ripropone gli stessi favori già assicurati a Davide, richiamati attraverso immagini 14
familiari (Davide è stato costituito «testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni», v. 4). L’alleanza si apre, però, anche ad una dimensione nuova: «Tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio» (v. 5). Al versetto seguente troviamo nuovamente un imperativo, con un’espressione che ricorre spesso nei libri profetici (cfr. Is 51,1 o Ger 50,4): «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (v. 6). Qui il linguaggio ritrova forme più convenzionali: si parla, con una classica endiadi, dell’empio e dell’uomo iniquo, della via che percorre l’uno e dei pensieri che matura l’altro. Nel citarli, essi vengono posti in contrapposizione con i pensieri e le vie di Dio, che li superano di gran lunga, in una misura “smisurata”: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (v. 9). Se dunque, da un lato, per dire le deliberazioni di Dio e il suo agire si usano le stesse immagini usate per gli uomini (via e pensieri), dall'altro, però, non si pensi che i pensieri e le vie di Dio siano commensurabili a quelli degli uomini. La similitudine conclusiva, infine - molto cara alla tradizione ecclesiale -, mette al centro la parola di Dio (vv. 10-11), comparata a fenomeni atmosferici (pioggia e neve) che cadono dal cielo ma, prima di risalire verso l’alto, portano fecondità, irrigano la terra, la fecondano e la fanno germogliare, permettendo a chi semina di ricevere il frutto del proprio lavoro e mangiare il pane (con un richiamo dell’immagine iniziale). Queste immagini servono a descrivere l’efficacia e la fecondità della parola uscita dalla bocca di Dio, efficacia che il lettore della Bibbia conosce sin dal racconto della Genesi: quella parola, dice il Signore, non tornerà a lui senza avere operato ciò che egli desidera, senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata (v. 11). In realtà, il compimento alluso non viene concretizzato ma resta nel vago, permanendo la distanza tra le vie e i pensieri degli uomini e le vie e i pensieri di Dio. Tuttavia, pur in questa vaghezza, la rinnovata offerta di alleanza e l'invito a tornare a Dio, «che largamente perdona» (v. 7), annunciano anche una nuova fecondità, che trova garanzia nell’efficacia della sua Parola. Salmo responsoriale Sal. Is. 12,2-6 Anziché un salmo, il responsorio di oggi è tratto dal dodicesimo capitolo del libro di Isaia, in cui il profeta immagina sulla bocca del popolo un canto per il giorno in cui sarà liberato dalla mortificazione della dispersione e della schiavitù. In quel giorno il popolo esalterà Dio come sua salvezza, sua forza, suo canto, perché (si noti come non manca mai, in questi inni, la narrazione dell’esperienza vera e propria che è alla base della lode) il Signore si sarà manifestato come suo liberatore e salvatore. Il ritornello richiama, invece, l’immagine delle «sorgenti della salvezza», alle quali il popolo attende di poter attingere, poiché il v. 3 dell’inno recita: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza», facendo riferimento ad una solenne processione, durante la festa delle capanne, al termine della quale il sacerdote aspergeva solennemente l’altare con l’acqua di Siloe. Ma quell’acqua è solo un segno, che rimanda alla «fonte di acqua viva», inesauribile, che è YHWH stesso e che ha scelto - e per questo merita la lode - di stare per sempre in mezzo al suo popolo. 15
Il legame tematico della seconda lettura alle altre di questa domenica è offerto dai simboli che in essa ricorrono, soprattutto lo Spirito e l’acqua. La Prima lettera di Giovanni (attribuita tradizionalmente all’apostolo che ha composto il vangelo e certamente proveniente dalla stessa comunità, date le strettissime somiglianze di lessico e temi), sebbene non espliciti i propri destinatari ma sembri piuttosto indirizzata a una pluralità di comunità, è una lettera vera e propria, che racchiude una intensa omelia contro quei falsi maestri (probabilmente di derivazione gnostica) che negavano l’incarnazione e l’umanità di Gesù. Per questo, nell’esordio del testo (cfr. 1 Gv 1,1-4) l’autore insiste tanto su verbi di percezione (toccare, udire, vedere) e per questo anche nella seconda lettura di oggi, tratta dal quinto ed ultimo capitolo, Gesù Cristo, Figlio di Dio, viene presen- tato come colui che «è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue» (v. 6). Ricorderemo certamente la scena della crocifissione nel quarto vangelo: «Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,32-34). Il sangue di Gesù è la sua vita donata sulla croce, è il segno più drammatico e iconico del dono di sé. L’acqua, invece, rappresenta il battesimo, immersione nel sangue di Cristo e nella sua vita donata. Gesù, morendo sulla croce, ha consegnato il suo spirito e affidato alla sua comunità il sangue e l’acqua dell’eucarestia e del battesimo. Quell’acqua offerta da Dio nel Deutero-Isaia e promessa da Gesù («Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva», Gv 7,37- 38) ritorna ora, ridonata, dalla croce, insieme allo Spirito e al sangue, affinché i redenti in lui abbiano una triplice, indefettibile testimonianza della sua identità come Figlio di Dio («Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi», vv. 7-8). Chi aderisce a Cristo viene rigenerato da Dio attraverso l’acqua del battesimo, con cui Gesù gli comunica la vita stessa di Dio. Per questo l’apostolo può dire con forza: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (v. 4). 16
Delineiamo il percorso proposto dalle letture: La testimonianza dello Spirito rivela il Figlio. Le letture del giorno del Battesimo del Signore - seconda manifestazione di Gesù, dopo l’Epifania - sono caratterizzate da un movimento discendente, dal cielo alla terra, dall’alto verso il basso. Nella prima lettura, tratta dal profeta Isaia, dal cielo, come pioggia, scende la parola di Dio, che non torna a lui senza aver portato frutto. Nelle acque del Giordano, come ci racconta il vangelo, di fronte a Giovanni il Battista, scende Gesù, inabissandosi, per partecipare al destino degli uomini; dal cielo scende, come colomba, lo Spirito di Dio e si posa su Gesù, dando così inizio al suo ministero pubblico. Nel giorno del battesimo, Dio dà testimonianza al suo Figlio prediletto e questa testimonianza eccezionale, superiore a quella di qualsiasi altro profeta, garantisce saldamente la fede di chiunque aderisca a Gesù di Nazaret: solo una vittoria vince il mondo, ed è la fede in colui che è il Figlio amato rivelazione definitiva che «Dio è amore» (seconda lettura). Commento al Vangelo: Da tanto tempo Israele attendeva la venuta del Messia, Verbo del Padre, più volte promessa agli antichi israeliti con un’alleanza da parte di Dio gratuita e irreversibile. Essa si è presentata ufficialmente e realizzata pienamente nella persona del Figlio di Dio, quando il profeta di Nazaret si è confuso tra gli uomini, come ogni uomo peccatore presso il Giordano, in attesa di ricevere il battesimo di penitenza. L’Innocente si è fatto peccato per la salvezza dell’uomo e così ha voluto mescolare il divino con l’umano per trasformare l’umano in divino. E la vicenda che è invitata a percorrere anche la Chiesa nel suo cammino di testimonianza tra i popoli: farsi solidale con l’umanità, rivestita di peccato e di debolezza, per liberarla dalla morte e trasformarla con i doni dello Spirito e della sua santità di vita in ricchezza davanti a Dio. L’immersione della Chiesa e di ogni comunità cristiana nella situazione di peccato degli uomini è un invito per ogni cristiano a non mimetizzarsi con il mondo per non infangarsi con esso, ma a presentarsi sempre puro e senza macchia per diffondere senza compromessi il vangelo di Gesù. Il Signore, infatti, chiama tutti ad una conversione radicale di vita e a credere alla Parola di colui che ci ha comunicato la verità del Padre (cfr. Mc 1,15). Padre onnipotente ed eterno, che dopo il battesimo nel fiume Giordano proclamasti il Cristo tuo diletto Figlio, mentre discendeva su di lui lo Spirito Santo, concedi ai tuoi figli, rinati dall’acqua e dallo Spirito, di vivere sempre nel tuo amore. 17
II Domenica del tempo ordinario 17 gennaio 2021 II luogo della presenza di Dio. Con la vocazione di Samuele Dio predispone una svolta decisiva per il suo popolo. Il contesto socio-religioso in cui avviene la chiamata di Dio a Samuele è cruciale: l’alleanza è tradita, un vecchio sacerdo- te è addormentato, i suoi figli sono corrotti, il popolo ormai solo di rado percepisce quella presenza divina che lo aveva accompagnato nel cammino dell’Esodo con mano potente. D’improvviso, la «parola rara» in quei giorni risuona di nuovo per iniziativa di Dio. Samuele è «amato dal suo Signore» (Sir 46,13) ed è chiamato a risvegliare per sempre il suo popolo. Tali eventi si svolgono nella regione centrale della Palestina (a Silo), fra le montagne di Efraim (7 Sam 1,1), e riguardano la storia, in parte intrecciata, di due famiglie: quella di Elkanà e quella del sacerdote Eli. Silo è l’attuale Seilun, tra Sichem e Betel, dove, fin dal tempo dei Giudici (Gdc 21,19) vi si celebrava una festa, da identificare con la festa del raccolto (Es 23,16) o con quella delle capanne (Dt 16,13). Per lungo tempo Silo fu il santuario centrale d’Israele in ragione dell’«arca dell’alleanza, l’arca del Dio, del Dio degli eserciti» che vi era custodita (7 Sam 4,4), ovvero l’oggetto più sacro che l’antico Israele abbia mai avuto. Una specie di cassa di legno rivestita d’oro (Es 25,10-16) conteneva le tavole della Legge (7 Re 8,9; Dt 10,1-15; Gs 3,6; cfr. Eb 9,3-5), a «testimonianza» dell’alleanza conclusa sul Sinai tra Dio e Mosè, mediatore del popolo. Sul coperchio erano collocati due cherubini scolpiti con la funzione di custodi del luogo sacro (posti già in Gen 3,24 come custodi dell’albero della vita), intermediari tra gli uomini e la divinità, simbolo dell’adorazione e della preghiera ininterrotta, che fungevano anche da trono del Signore, come è chiaro da 1 Sam 6,2. Per questo si credeva che la presenza stessa del Signore fosse legata a quella dell’arca e potesse parlare personalmente, come fa qui con Samuele (7 Sam 3,8). Samuele, nato con un intervento speciale di Dio da Anna sterile e dal papà Elkanà, è lasciato da fanciullo a servire il Signore alla presenza del sacerdote Eli (7 Sam 1,1-2,11 ), ma è solo ai primi passi di una profonda familiarità con il Signore. La vocazione di Samuele. «La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele era coricato, dove si trovava l’arca di Dio» (7 Sam 3,3). Si tratta del candelabro a sette braccia preparato al mattino che, acceso la sera, ardeva tutta la notte. Samuele viene chiamato tre volte dal Signore e lui risponde sempre: «Eccomi». Cruciale la spiegazione del narratore, che ci fa entrare nella dinamica dell’esperienza vocazionale: «In realtà 18
Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore» (7 Sam 3,7). Interviene allora il discernimento e la mediazione del sacerdote Eli, che dice al chiamato: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (7 Sam 3,8). Questo segna la svolta e la progressione nel racconto. La rivelazione notturna segna il passaggio dalla fanciullezza alla maturità di Samuele, il quale ora parla come profeta dinanzi a Eli e a tutto Israele perché «il Signore era con lui» (7 Sam 3,19; 4,1). Il legame tra Dio e Samuele si consoliderà sempre più nel corso della sua vita, sino ad «essere costituito e conosciuto profeta del Signore» (7 Sam 3,20), intercessore presso Dio per Israele come Mosè (7 Sam 1,8; Es 17,6-13); «uomo di Dio, che quanto dice si avvera e indica la via» da seguire (7 Sam 9,6-8). Un titolo quest’ultimo solitamente riferito a personaggi ai quali si riconosce la facoltà di annunciare profeticamente l’adempimento di certi eventi in forza di un legame speciale con Dio (come Mosè, Dt 33,1). Salmo responsoriale Sal. 39(40) Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà. E una liturgia di ringraziamento, un canto nuovo in cui l’orante richiama la liberazione di Dio nel passato, per poter richiedere un secondo intervento salvifico nel presente. Il salmista ricorda il suo atteggiamento fiducioso durante il pericolo («ho sperato, ho sperato»), e con cinque verbi esprime l’intervento di Dio: si è chinato, ha ascoltato, mi ha tratto, ha posto, ha reso sicuri. Il nuovo canto di ringraziamento, messo in bocca da Dio all’orante, diventa così una testimonianza e un sostegno per la fede dei suoi fratelli, riuniti nella grande assemblea. Ecco, io vengo', il salmista annunzia che intende compiere la volontà di Dio che lo ha chiamato (Eb 10 pone le medesime parole sulle labbra di Gesù Cristo). 19
Glorificate Dio nel vostro corpo. L’apostolo interpella i cristiani di Corinto: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?» (7 Cor 6,15), rilevando anche le conseguenze esistenziali ed escatologico-ecclesiali. La mutua ap- partenenza tra il cristiano e il Signore Gesù è rivelata su più piani. Il corpo/sóma del cristiano (che è espressione dell’intera persona, uomo o donna), è strettamente unito a Cristo come suo membro ed è per il servizio del Signore. «Il corpo non è per l’impurità ma per il Signore, e il Signore è per il corpo» (6,13): Cristo infatti ha dato se stesso per la salvezza dell’uomo nella totalità del suo essere. Il Signore e i cristiani saranno sempre uniti sia nelle sofferenze di questa vita, sia nella vita futura. Se si appartiene a Cristo in modo così stretto, come le membra appartengono al corpo, e l’atto sessuale coinvolge tutta la persona di chi lo compie, il rapporto sessuale di un cristiano con una prostituta tradisce la sua appartenenza a Cristo, in quanto chi si unisce al Signore forma con lui «un solo spirito/pneûma» (6,17). Perciò Paolo ricorda ai credenti «il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo» (6,19, argomento pneumatologico) e li invita a glorificare Dio nel corpo, come atto cultuale di lode anche nella vita quotidiana. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Il discepolato: vivere in intimità con Dio. La parola e l'azione di Dio proclamate dalle Scritture di questa domenica fanno luce sulla vocazione inscritta nel cuore di ogni credente. Il Signore chiama in vista di una comunione e di una missione voluta da lui (prima lettura,), favorendo un incontro, entrando in dialogo con noi attraverso la sua Parola nella quotidianità, che svela un progetto a cui l'uomo può acconsentire. Samuele viene chiamato da Dio e il suo atteggiamento è di piena disponibilità: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Paolo, nella seconda lettura, aiuta i credenti a scoprire e a comprendere la dignità e lo splendore della propria corporeità in relazione a Cristo, allo Spirito e alla comunità ecclesiale. Il vangelo, infine, rivela l'identità di Gesù e contemporaneamente la chiamata alla sequela dei primi cinque discepoli, mostrandoli invisibilmente attirati da lui. Le chiamate sono diverse: comprenderle e corrispondervi è cruciale per il cammino umano pieno di una libertà responsabile, che comporta anche il diffondere il messaggio evangelico. 20
Commento al Vangelo: La parola di Dio ci pone di fronte al mistero della vocazione che non si dà mai per i nostri meriti o per nostre qualità umane, ma scaturisce soltanto dalla libera e misericordiosa iniziativa divina nei nostri confronti. L’incontro con Gesù, pur decidendosi nel segreto della nostra libertà, postula però la dinamica della testimo- nianza. Stando al racconto evangelico, gli incontri con i primi discepoli avvengono, infatti, come a catena-, ognuno di loro giunge a Gesù attraverso la mediazione di un altro, perché questa è concretamente la dinamica del nostro pervenire alla fede. Ne deriva un insegnamento prezioso sull’importanza di testimoni autentici che ce lo indicano come il Signore atteso e favoriscono l’incontro con lui, senza voler legare a sé l’altro quasi fosse una proprietà del testimone. Il vero testimone è dunque al servizio del cammino verso una maturità spirituale che è libertà di scelta. Esempi eccellenti in tal senso appaiono sia il sacerdote Eli con Samuele e ancor più il Battista con i suoi due discepoli. Per divenire testimoni bisogna, però, avere già incontrato il Signore e perciò essere divenuti capaci di andare oltre le apparenze, accedendo a un profondo sguardo di fede sulla realtà. Testimoniare è regalare agli altri questo sguardo che in precedenza ha cambiato la nostra vita. Questo suppone un essere entrati in una nuova forma di esistenza, in una comunione fattiva con Gesù, comunione che può essere espressa come un ‘abitare con lui’, anzi come un fermarsi presso di lui. Alla fase della ricerca, oggi spesso troppo enfatizzata, deve succedere infatti quella del nostro fermarsi, del riconoscere in Gesù la vera mèta del nostro cuore, del saper perseverare in sua compagnia: «Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui». In questo dimorare con lui prende vigore la contem- plazione e l’ascolto, il metterci a disposizione con tutte le nostre energie, come aveva detto Samuele, con la semplicità di un fanciullo: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Solo rimanendo con Gesù comprendiamo davvero che siamo stati comprati a caro prezzo e siamo diventati tempio dello Spirito Santo. Dio onnipotente ed eterno, che governi il cielo e la terra, ascolta con bontà le preghiere del tuo popolo e dona ai nostri giorni la tua pace. 21
III Domenica del tempo ordinario 24 gennaio 2021 Il racconto del profeta Giona è una chiamata a condividere un’esperienza. Al centro del brano sta una domanda che costituisce la stella polare di tutta la Scrittura: qual è il vero volto del Signore? Colui che castiga o colui che perdona? La «parola del Signore» si pone sin dall’inizio come protagonista e soggetto vero di questo messaggio di speranza narrato dal profeta Giona nella conversione dei niniviti e nel perdono divino. L’assolutezza della parola di Dio si esprime negli imperativi: «Alzati, va’, annuncia loro quanto ti dico» (Gn 3,1). Inizialmente Giona è «sordo» allo spirito (letteralmente al «vento») profetico e si dirige lontano dal Signore (verso Tarsis, Gn 1,3-4). Poi egli ubbidisce alle parole di invio da parte di Dio e va a Ninive. Così è Dio il vero autore di questa missione del profeta e la duplice ripetizione «la parola del Signore» lo sottolinea (v. 2). Inaspettatamente, l’annuncio del profeta suscita la conversione del popolo di quella città pagana e nemica («credettero in Dio», v. 5). Questi mettono in pratica scelte di penitenza e di fiduciosa speranza, espresse in opere di conversione «dalla condotta malvagia e dalla violenza» (v. 8). Così anche Dio si ravvide, perdonando misericordiosamente i niniviti (v. 10). Salmo responsoriale Sal. 24(25) Fammi conoscere, Signore, le tue vie. Questa preghiera di fiducia è la supplica di un individuo, sebbene nell’io dell’orante risuoni la voce della comunità. Il salmista appartiene al gruppo dei «poverì/'anawîm», i quali cercavano per se stessi e per gli altri un appoggio e un ammaestramento nella Sacra Scrittura. Chiedono perciò di essere guidati e istruiti dal Signore (v. 9). L’orante implora che il Signore sia il suo maestro, cercando allo stesso tempo di impartire un insegnamento. La preghiera è pensata come uno dei momenti dell’opera salvifica del Signore, e da individuale diventa comunitaria, con il passaggio dal singolare al plurale (v. 22); un cammino verso l’incontro con Dio come salvatore, che si sviluppa co- 22
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