Come vivono e come parlano sul Gargano

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Come vivono e come parlano
                             sul Gargano

        Raccolgo qui alcune impressioni che sono andato fermando un
tre-quattro anni addietro, durante le inchieste che ho condotto in Puglia e in
Lucania per conto dell'Atlante Linguistico Italiano. L'opera, che è in cantiere sin
dal 1925, interessa non meno di un migliaio di comuni distribuiti su tutto il ter-
ritorio nazionale; e per ognuno di questi è stato raccolto un materiale corri-
spondente al risultato di un interrogatorio di circa una settimana su argomenti
di ordine generale, sulla famiglia, sul focolare, sulle usanze, sugli utensili, sulle
tradizioni, sulle manifestazioni di vita pubblica, sulle arti e sui mestieri, sul-
l'agricoltura, sull'arte della pesca, su tutto ciò che riguarda le attività e la vita di
un centro. Tutte notizie che saranno leggibili diffusamente in una serie con-
siderevole di carte linguistiche. In ognuna di queste carte sarà raffigurata la
fortuna che una parola o un oggetto ha avuto da un capo all'altro dell'Italia.
        Una raccolta di carattere linguistico, ma anche di carattere etnografico e
sociale. Le voci e i suoni vanno considerati insieme alle cose e alle usanze e in
considerazione dei ceti e delle categorie che costituiscono una società di uomini.
E quando si coglie l'indirizzo di una voce o di una corrente fonetica o di un
movimento lessicale, si viene a cogliere anche la parabola di un uso, di una
tradizione, di un fatto storico.
        Perché l'Atlante Linguistico Italiano (ora specialmente che la direzione è
affidata alla competenza e alla sensibilità del prof. Benvenuto Terracini) vuole
essere essenzialmente un'opera storica, o, se piace di piú, un'opera strumen-
talmente linguistica, ma sostanzialmente storica.

                                  A MANFREDONIA

       Divisa da una lunga strada centrale, che si svolge parallela alla fascia
costiera, la cittadina di Manfredonia distribuisce dalla parte di ponente quelli che
vivono del retroterra. Due categorie di abitanti che vivono di attività e di
abitudini diverse.
       I contadini e gli agricoltori hanno disposto le loro case sulla strade che li
portano a lavorare alle vicine pendici del Gargano, dove i detriti della
montagna hanno reso lussureggianti le ampie distese di ulivi, o li portano sulle
caratteristiche lande pianeggianti rese deserte

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dalla malaria che un giorno vi ha infuriato da padrona lasciando dietro di sé la
testimonianza di una solitudine che oggi è rotta solo dalla presenza di qualche
mandra di bufali che bruca un'erba rada e filiforme. Dove la terra emerge di
qualche metro sul livello del mare non vi è che tufo, uno “smalto”, che sembra
rimuovere da sé ogni possibilità di una vera e propria vegetazione, e dove si
abbassa all'altezza del mare od anche al di sotto (a meno che non vi sia giunta
l'idrovora che ridona alla luce del giorno il fondo del pantano) non vi è che
acqua stagnante e limacciosa. Un ambiente favorevole alla caccia, alle sortite
brevi, alla sosta di una giornata. I casolari costruiti con abbondanza di materiali
e senza economia di spazi sono lontani l'uno dall'altro divisi da enormi distanze,
divisi dalla comunione con gli uomini, come testimonianze di tentativi
sovrumani fatti per superare le avversità del luogo. Tentativi compiuti in tempi
lontani anche da ordini religiosi, che poi hanno ceduto abbandonando tesori di
scultura e di arte, quali quelli compendiati nell'oasi di San Leonardo, che di
tanto in tanto si cerca di abbellire e di popolare sempre senza successo. Gli
uomini vi passano come ombre. Dì vivo non vi resta che l'immagine del
mandriano, la sagoma di qualche carretto che si staglia sull'ampio ponte del
Candelaro sospeso su un mondo che sembra tutta una cosa con la immensità
del mare, l'andar trepido di un cacciatore, l'ansimare della macchina o del treno
che ti riporta dove a te pare che sia stabilita la vera stanza degli uomini. Un
mondo avvolto in un'atmosfera di fuga, di corsa o di scampo. Gente che non
vuol sentirsi sola, gente che non riesce a dominare la campagna o che va
correndo come dinnanzi a un nemico che ti insegue. Una psicosi di
devastazione tramandata dagli antichi sipontini, dai primi manfredoniani
superstiti del maremoto e della successiva infestazione malarica, che
seppellirono l'antica Siponto fondata dagli Elleni della prima colonizzazione.
Corsero al sicuro su di una costiera piú alta, proprio là dove Manfredi stava
costruendo quello che poi al Lenormant, lo storico della Magna Grecia, è parso
« opera d'ingegnere piú possente e meglio architettata che abbia lasciata il
secolo decimo-terzo ». Alla campagna va strappato tutto quello che può
offrire, di corsa, senza essere eccessivamente abitata. E cosí, tolti i giorni della
maggiore attività, al tempo della semina o del raccolto, la gente di campagna,
che poi corrisponde ad una buona metà dell'intera popolazione, vive in città,
alimentando la vita dei circoli, delle piazze, dell'interminabile corso centrale, di
ogni manifestazione piú propriamente sociale.
        Ma i marinai (pescatori, pescivendoli e calafati) vivono per conto
proprio, tagliati da tutti quanti gli altri. Un grande esercito di uomini valorosi
(80 motopescherecci, 170 motobarche, 243 removelici), che si muove di tutte le
stagioni per nutrirsi del mare che sentono veramente tutto loro. Le case che
abitano sono tante logge che spiano soltanto sul mare. Sulle imbarcazioni che
sostano in attesa di prendere il largo, su quelle che si stagliano lontano
all'orizzonte, su quelle che tornano cariche di quel pesce, di cui riescono ad
imporre e per la qualità e per l'abbondanza un primato non solo nelle Puglie,
ma in

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tutto il Mezzogiorno. Un'attività incessante, che è in rapporto inverso con le
possibilità di penetrare nella parte viva della società. I loro stessi circoli li
riuniscono solo per il resoconto di un viaggio o per la preparazione di una,
partenza; non comunicano con gli altri, e direi fra loro stessi. Divisi in pieno
mare per la gettata delle reti, divisi ancora nelle lunghe ore di attesa, si
incontrano solo alla levata nel momento culminante di una attività che si ripete
sempre uguale con la solennità e la successione dei tempi di un rito. Quelli che
non hanno un'imbarcazione, chiusi anche essi ad un conversare libero ed esteso,
si avvicendano a tirare gli aloni della sciabica, uniti fra loro soltanto da una
stessa corda e dal ritmo di un ' oh! ' lungo e roco che accompagna ogni nuova
spinta in avanti; oppure sciolti dalle corde, dove la riva diventa scogliera, si
piantano nel mare intenti come rìcercatori di perle ad una pesca minore che sa
piú di romanticismo che di lavoro davvero redditizio e produttivo. Un lavoro
quest'ultimo che ripetuto dai tempi omerici non si adatta ad organizzarsi e a
produrre di piú. Un'ulteriore prova della solitudine che avvolge la gente di
mare ed anche una testimonianza della loro fedeltà alle tradizioni, al mestiere,
un saggio della loro indifferenza a ciò che interessa piú da vicino le vicende
della vita cittadina. Rotti alla parola e al conversar sociale gli agricoltori, chiusi in
se stessi e quasi confinati nell'uso di un lessico sempre uguale quelli del mare.
Loquaci e ciarlieri gli agricoltori, muti o di brevi cenni i marinai.
        Etnicamente però (e quindi linguisticamente) gli agricoltori e i marinai
sono i veri custodi del patrimonio storico di Manfredonia. Un patrimonio
fondamentalmente appulo, come quello di Vieste e di Monte Sant'Angelo. Un
fondamento tipicamente orientale, che è in fondo segnato nei suoi tratti piú
notevoli dai caratteri fondamentali della civiltà ellenica, dualistica, etnicamente e
socialmente, come appare ampiamente dagli studi del compianto professore
Raffaele Pettazzoni. O si è dei campi o si è del mare. Non vi è un posto di
rilievo per una categoria diversa. Lo stesso artigianato non costituisce una
categoria veramente a sé. Vive di riflessi come rifugio di chi è stanco di
navigare o di zappare. Un artigianato che completa quella classe
cittadino-borghese di negozianti, di municipali e di professionisti, che sono nati
essi pure da contadini o da marinai.
        Nonostante questa comunione di origine, linguisticamente la cittadina è
sensibilmente divisa. Una lingua che presenta tanti piani, su cui gli abitanti piú
che per ceti vanno raggruppati per generazioni. Molti manfredoniani lasciano la
loro terra per trovare delle fortune migliori, ma sono ancor di piú quelli che si
ritirano a Manfredonia. La cittadina, dove gli originari continuano a battere la
stessa strada degli antenati di epoche incalcolabili, è meta ambita degli abitanti
di Monte Sant'Angelo e dei cittadini del capoluogo della Capitanata.
        I primi, i montanari, che fino ad oggi ascendono ad un numero che
corrisponde a non meno di un quinto della intera popolazione manfredoniana,
si sono arroccati nel quartiere piú alto della città. Vi hanno trasferito il culto del
loro Patrono, al quale hanno dedicato la moderna Chiesa di San Michele, e
vivono legatissimi alle loro tra-

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dizioni e alla loro lingua. Restii ad accogliere ogni influenza da parte degli
ospitanti, compatti premono sulle abitudini e sulla lingua di Manfredonia.
Foneticamente e lessicalmente. Ed i Manfredoniani interpellati per lo
svolgimento del questionario dell'Atlante Linguistico, quelli che hanno
accompagnato il colloquio con le fonti principali, talvolta sono stati divisi nella
risposta. Alcuni hanno risposto con l'antica voce manfredoniana, ed altri con la
voce venuta dal prestito dei Montanari.
        I Foggiani poi, che arrivano a Manfredonia per utilizzare la spiaggia
locale e quella della nuova Siponto, sono numerosissimi, al punto da dare
l'impressione che ormai il golfo, specialmente nella stagione balneare, diventa
cosa tutta loro. Influenzano naturalmente anch'essi lo svolgimento della parlata
manfredoniana.
        Per avere un saggio di queste innovazioni basterà mettersi dinnanzi
(come è stato fatto dal ricercatore dell'Atlante) quattro fonti, corrispondenti a
quattro generazioni diverse: un giovane poco piú che ventenne, un quarantenne,
un sessantenne ed un ottantacinquenne. Da una parte vi è il giovane che usa
generalmente ll da LL (mullé 'bagnare', u ruzzìlle 'il cerchio', iallícchie 'lo spicchio',
ecc.) e gi da DJ (iògge HODJE, ecc.) alla maniera foggiana, o palatilizza la A
tonica di sillaba aperta (sciusscé, iaté 'soffiare', iasteié 'castigare', tucché 'toccare',
ecc.) alla maniera montanara. Dall'altra parte vi sono le restanti fonti che dal
quarantenne in su conservano fedelmente le consonanze delle origini: dd da LL
(muddé, ecc.), sc da GJ e simili (felíscene 'fuliggine', desciuno 'digiuno', ci scètta 'si
getta', ecc.) ed una a tonica che non ha ancora raggiunto un grado di completa
palatilizzazione o di riduzione al moderno e dei giovani. L'informatore della
generazione piú giovane ha dimenticato o ha trasformato molte delle parole
che poi sono mantenute intatte nella lingua di quelli che stanno oltre la
quarantina. Il che vuol dire che i tempi precipitano anche per la lingua di
Manfredonia. Ed i vent'anni che dividono il marinaio dell'ultima generazione
dalla fonte di mezza età contano molto di piú dei quaranta e cinquant'anni che
dividono quest'ultima dal vecchio di ottantacinque anni.

                               A MONTE SANT’ANGELO

        Un'inchiesta linguistica ha sempre due tempi. Uno preparatorio o di
orientamento e l'altro d'impressione o di pratica attuazione, che si svolge con il
questionario alla mano alla presenza della fonte o delle fonti prescelte. Con la
stessa seguenza di tempi si svolge l'inchiesta di Monte Sant'Angelo.
        Il paese (piace intenderlo come tale anziché come città o cittadina, per
quel non so che di antico, di sano e di composto che vi traspira da tutte le
parti) viene raggiunto con una corriera. La quale per il ricercatore è un pò come
l'anticamera del centro da studiare. Quando il mezzo arrivando da Foggia viene
a sostare a Manfredonia, nel quartiere di Monticchio (il quartiere che i
montanari hanno po-

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polato nella parte piú alta della città di mare per muovere uniti fra le attività e le
abitudini degli altri), i paesani vi ci si trovano gioiosi come a casa propria, liberi
dalle costrizioni che un ambiente non abituale impone alla lingua e al cuore.
Esplode liberamente la gioia di un affare, di un successo, di un ritrovamento
impensato, e spesso si aggiunge una nota di amarezza per un viaggio sfortunato
o la vicenda di una pena che riprende a camminare per l'antica strada. Lingua e
cuori sciolti che ti danno il quadro sincero di quello che circola nei sentimenti,
nella storia, nella cultura, nella lingua di questa gente.
        Il quadro si va compiendo o meglio incorniciando man mano che avanzi
sul rettilineo che corre parallelo alla fascia costiera. Da una parte il mare limitato
all'orizzonte dalla chioma compatta dei campi di ulivi, dalla parte del Tavoliere
campi quasi brulli dove testimoni di terre infeconde prosperano rigogliosi
sconfinati filari di fichidindia, di fronte il baluardo del Gargano su cui
svolgentisi per lunga tesa si protendono ben salde la case di Monte Sant'Angelo.
        Le casette, che lungo la strada vanno diventando piú numerose man
mano che ti accosti alla frazione di Macchia, tutte sormontate nell'architrave
dalla statuetta del loro Santo, sembrano tante ancone di uno stesso Santuario,
che ha poi il suo Sancta Sanctorurn là in alto dove in un antro immenso si apre
la caratteristica Basilica dedicata all'Arcangelo San Michele. Una civiltà cristiana
che è venuta a distendersi su di un paesaggio e di una storia che sanno tanto di
primitivo e direi di 'grotticolo'. Di una civiltà che va apparentata a quella dei
'sassi' o a quella che si è sviluppata nelle cosidette 'grave', nelle caverne, che
hanno offerto ed offrono naturalmente, senza l'intervento della mano
dell'uomo, il primo rifugio contro le avversità delle intemperie e gli assalti delle
fiere.
        Una civiltà che si è fissata lungo la strada alle pendici della montagna,
dove di sotto ai piedi improvvisi ti spuntano foggiati come enormi colonne o
come piramidi addolcite nella cuspide terminale i giganteschi fumaiuoli delle
case che sono interrate al di sotto del livello stradale. Una gente che dei sassi ha
fatto la propria ragion di vita. Nella pietra che ti acceca, là dove è tagliata di
fresco, disposti di grado in grado, hanno aperto degli ariosi terrazzì che hanno
reso fecondi col terreno portato di lontano perché vi prosperino il grano, il
mandorlo, l'ulivo, la vite. Gente attiva, intraprendente, sicura di sé, che ha
trasferito sulla montagna le iniziative e la vitalità della gente appula.
        Le peculiarità di questa stirpe vengono poste in maggiore risalto, quando
finalmente, raggiunta l'altezza della montagna, ti fermi ad aprire il colloquio con
un gruppo di montanari che vestiti di panni pesanti e strettamente imberrettati
d'inverno e d'estate si trattengono volentieri sulla loro piazza centrale quasi in
attesa di offrire, con i loro discorsi, con il loro lessico, con la loro inflessione, al
primo arrivato la testimonianza vivente delle vicende della loro storia.
        L'attenzione del ricercatore si ferma su tre fonti. Un funaro qua-
rantunenne che viene utilizzato per un questionario generale; un

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'tufarolo' in pensione di oltre sessant'anni, che viene utilizzato per un questionario
che riguarda le arti e i mestieri; un agricoltore-pastore di ottantatre anni che viene
utilizzato per il questionario speciale che riguarda le abitudini e le attività della vita di
campagna. Queste le fonti principali. Ma all'inchiesta, per correggere o per meglio
illustrare, partecipano ancora altri montanari: un giovane contadino di trentasei anni,
molto informato e molto pronto, un professionista di mezza età che ha messo a
disposizione la sua raccolta di animali locali (bruchi, coleotteri, serpi, ecc.), un
muratore di una sessantina di anni, un contadino-pastore intorno ai sessant'anni, un
contadino-boscaiolo di ottant'anni (un analfabeta che poi senza essere mai stato a
scuola ha imparato a segnare la sua firma).
        Un quadro completo dei ceti e delle generazioni, che ha fatto da sottofondo
ai tre protagonisti essenziali, che erano incoraggiati dal consenso dei presenti.
Mancano le donne, restie ad affrontare il colloquio con un forestiero, e quindi
inadatte (almeno per Monte) a dare un'impressione sincera della vita e della lingua
del loro paese.
        Il colloquio si converte in un estenuante interrogatorio che condotto
saltuariamente per cinque giorni svolge circa seimila domande. Quante bastano per
fare una rassegna completa della fonologia e del lessico di Monte.
        Le conclusioni che se ne traggono sono quelle della prima impressione. Che
qui ci troviamo in un centro tipicamente pugliese, pugliese del tipo barese (non
vogliano scandalizzarsene i daunisti ad oltranza). Gli Appuli, che hanno occupato
una lingua di terra che comprende buona parte dell'attuale Puglia e tutta la parte
orientale della Lucania, si sono assestati a Monte, conservando la schiettezza
originaria, alla stessa maniera che oggi ci è data riscontrarla dall'altezza della linea
Cerignola-Zapponeta in giú. Si conservano fondamentalmente appule Manfredonia
e Vieste, ma qui a Monte non ancora sono arrivati gli influssi del dominio
appenninico (o sono arrivati molto attenuati). Per intenderci meglio si vuol dire che
è più pugliese Monte che una Foggia, o una San Severo o una Torremaggiore, che
pur essendo molto anticamente abitate da popolazioni indubbiamente appule, oggi
(e sembrerebbe ormai da parecchio) vanno stabilizzandosi in una nuova fase
linguistica. Nel Tavoliere l'elemento appulo si è ridotto alla funzione di un sostrato
notevole, ma ormai fossile, su cui viene a stratificarsi l'incessante dilagare degli
Appenninici, che, abbandonate le montagne di origine, scendono al piano per
trovare delle nuove fonti di lavoro.
        Ma a Monte (dove la vera ed ultima immigrazione deve rimontare a quella
delle origini) il pugliese originario dà segni di grande vitalità. Tutto questo
naturalmente per la posizione particolare del paese pressoché isolato e per la sua
stessa popolosità. I montanari hanno fatto della loro montagna (tutta un sasso) un
loro edificio, a cui non sono disposti a rinunziare. Vi ci si sono arroccati come in
una fortezza, e di tanto in tanto ne scendono (non rinunziando quasi mai al diritto
di residenza) per estendere la loro attività (come agricoltori, impresari e
professionisti) fin dentro le mura della stessa

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Manfredonia ed anche oltre. Nella provincia di Potenza non vi è centro dove
non arrivi un uomo di Avigliano. Nella provincia di Foggia non vi è attività
dove non sia arrivata (e con che forza!) la penetrazione di un montanaro.
Monte fa la parte del leone in tutto il Gargano, e va modellando sensibilmente
costumi e lingua di una stessa Manfredonia, che è molto piú popolata e che
pure vanterebbe storia e tradizioni lontane.
         Un isolamento offensivo, che violenta la unità culturale e linguistica degli
altri, rinsaldando la schiettezza originaria delle proprie abitudini e della propria
lingua.
         Comunque una lingua non sarebbe mai vitale, se non avesse un suo
svolgimento, un suo fermento, una sua storia. Ed anche la lingua di Monte, per
conservativa che possa essere, offre indubbi segni di una certa disgregazione, di
un certo movimento, di un qualcosa che va mutando. Basterà esaminare i
risultati di un controllo condotto mettendo di fronte alle stesse domande due
fonti di età diverse, un quarantenne ed un ottantatreenne.
         Foneticamente non ci sarà dato annotare delle differenze notevoli. Per
l'uno e per l'altro ci si dovrà limitare a segnare delle oscillazioni. La vocale
tonica e a volte suona come una e molto aperta e a volte resta invariata. La
vocale tonica a sembra a volte pressoché invariata e a volte tendente ad un'e
apertissima (un particolare questo che viene a colpire per prima l'orecchio del
forestiero che per la parola 'stella' registra 'stalla' e viceversa per la 'stella'
annoterà una 'stalla'). I dittonghi tonici a volte sembrano piú ii ed úu e a volte
piuttosto degli íe e degli úo. Il che vuol dire che vi sono, delle incertezze e che
quindi la lingua è in uno stato di fermento. Vi è una condizione di svolgimento
endogeno per cosí dire: anche se poi la distanza che divide le generazioni non
sembra almeno da un punto di vista fonetico cosí marcata.
         Lessicalmente però è da notare che tra le generazioni sta correndo
parecchia acqua. La fonetica, solo però per i fatti piú diffusi e meglio radicati, è
legata alle nostre predisposizioni fisiche, che sono indubbiamente di natura
etnica e quindi molto antiche e molto difficilmente eliminabili. Ma il lessico
cammina con maggiore rapidità. Se arrivano notizie di cose nuove, arrivano
naturalmente dei fatti linguistici nuovi, delle parole nuove, che vengono accolte
nella lingua tante volte con la stessa fonetica di origine, alimentando quell'in-
sieme di oscillazioni che determineranno in parte anche il movimento
fonologico. I vocaboli sono un po' come le punte di avanguardia nello
svolgimento della lingua. Il controllo (condotto saltuariamente solo per un
numero limitato di voci) rivela che le due fonti, appartenenti l'una alla
generazione giovane, l'altra alla generazione anziana, pur concordando in un
congruo numero di suoni, discordano in un numero piú abbondante di voci.
         A che cosa attribuire questo passo in avanti? Esclusa la possibilità di
un'influenza veramente pesante dall'esterno, bisognerà ripiegare su qualcosa di
veramente connaturato con le esigenze di una lingua. Le esigenze di una
comunicatività piú estesa, piú raffinata,

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piú propria, e conseguentemente meno concreta. La culìma, che per la fonte
giovane è soltanto una pianta, 'l’attacamani', per la fonte di ottantatre anni fa
tutt'uno con lo 'scolatoio per il latte', che egli otteneva tutte le mattine
sistemando quest'erba nel fondo dell'imbuto del latte. Lo 'spaventapasseri' che
resta tale nella versione della fonte giovane, dalla fonte antica è indicata con gli
'stracci', (i strázze), di cui in genere è composto. Il 'pascolo', che i moderni
definiscono con un termine pressoché astratto o impreciso, dagli antichi veniva
definito con il parco (u párche) ossia a dire con un'indicazione estremamente
concreta. Un aggettivo come 'tiepido' nella fonte giovane è pressoché la stessa
cosa (tépede), ma nella fonte antica l'aggettivazione è ottenuta con un'immagine
concreta (ácqua de sóle). Un bisogno di concretezza che persiste ancor oggi, e la
stessa fonte giovane per indicare quelli «che domandano la parola» per il
fidanzamento, alludendo alla realtà della cerimonia tradizionale, dirà che quelli sò
venúti nnánze la pórta.

                             A SAN MARCO IN LAMIS

        La preoccupazione principale che un ricercatore ha quando si accinge ad
avviare un'inchiesta linguistica consiste nell'individuazione della fonte adatta a
fotografare lo stato della lingua presa in esame. O meglio consiste nella
individuazione delle fonti. Perché una sola fonte è generalmente insufficiente.
Occorrono tante fonti quanti sono i ceti, quante sono le categorie, quante sono
le generazioni. Solo così si ha un quadro veramente completo dello stato dì una
lingua, della sua storia, della parabola che la lingua va percorrendo nel giro degli
ultimi settanta-ottant'anni.
        E così arrivando a San Marco in Lamis, si pensa di mobilitare tre fonti:
un dodicenne appartenente a famiglia che vive tra la campagna e il paese,
utilizzato solo per un saggio della generazione piú giovane; un uomo di mezza
età (utilizzato per tutti e quattro i questionari), che dice di essere
fondamentalmente fabbro, ma di fatto è vissuto interessandosi di un po' tutte
la attività del paese, dei lavori di campagna, della bottega ed anche (e parrebbe
moltissimo) del ricamo di chiacchiere che gli uomini di tutte le età si
consentono di fare una volta assicuratasi la disponibilità dell'essenziale per tutta
un'annata; e da ultimo, per un saggio della generazione piú antica, un muratore
di ottant'anni che sembra sazio della sua magra pensione, che forse deve essere
molto piú abbondante della paga in natura percepita nei periodi della sua piú
fiorente attività (il pagare a contanti è un'invenzione moderna, un privilegio da
pensionati: generalmente qui si paga in natura o a credenza, che è poi una
forma di pagamento in natura dilazionato).
        Il paese vive con personaggi di questo tono. La topografia stessa del
centro abitato sembra un'ottima alleata per favorire una vita divisa dal
progresso frenetico che tutti gli altri paesi vicini stanno realizzando per crearsi
un piano di attività che vada oltre i confini della

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propria terra (e penso a quelli di San Giovanni Rotondo, che vanno
attrezzando modernamente alberghi e ospedali al punto da stabilire un primato
indiscusso fra tutti gli altri centri del Mezzogiorno, e a quelli stessi di Rignano,
della cittadella del Gargano, che sono scesi in pianura per contendere con le
attività di una San Severo o di una Foggia).
        Ma San Marco è restata chiusa nella gola delle sue montagne. Quando vi
ci si accede da Foggia, una volta lasciata a destra la massiccia costruzione del
convento di San Matteo, la Montecassino del Gargano, si ha l'impressione di
precipitare nella cava piú paurosa di tutto il promontorio. Improvvisamente ci
si inabissa in uno dei primi grandi canali che venano la compattezza del
Gargano. Sul letto di questo canale, un immenso 'decumano' naturale, si
assiepano le bianche case di San Marco. Timidamente pendendo dalle pareti
della montagna, ancora altre case, ancora tanti terrazzi guardano tutti sulla
strada principale, sul corso o sulla piazza, che è il cuore di tutto il paese. La loro
vista non va oltre le chiuse dei loro monti. Lontano, al di là di questi, non vi è
che l'emigrazione. Chi è intenzionato a distinguersi vive in agguato pronto a
scattare il volo lontano per affermarsi come ottimo professionista o come
intelligente e laborioso lavoratore. Gli altri, i piú, vivono una vita uniforme,
quasi inerte, eternamente la stessa.
        La campagna medesima in nessun altro posto sembra come qui una
cornice, un completamento del paese. Altrove si esce all'aperto per stabilire una
comunione di lavoro e di interessi con altri paesi. Qui invece la campagna,
quella veramente frequentata, non si estende oltre lo sguardo del paese. Ai
campi lontani si preferiscono quelli che consentono di far capo piú
frequentemente (anche pìú volte in una stessa giornata) al richiamo del paese,
della piazza, sia che si vada al pascolo, o che si vada a tagliar legna o che si vada
a cavar le pietre. Magre attività che vengono tutte, come le rimesse
dell'emigrante, ad alimentare una vita senza progresso.
        Sono delle condizioni queste che naturalmente vengono a stabilire una
posizione di privilegio per la unità e la conservazione (sempre limitatamente,
come si vedrà) della lingua. Non vi sono delle attività ben distinte, non vi sono
dei ceti veri e propri. Vi è una lingua che è un po' di tutti e che va colta là dove
tutti mirano, nel pieno del paese, là dove sì svolge la vita a cui tutti aspirano, là
dove i paesani nella continuità dei loro incontri vanno essi pure modellando
suoni e voci. E cosí nessun ambiente meglio di uno dei tanti circoli, che si affac-
ciano sulla piazza numerosi come gli usci di uno stesso cortile, poteva offrire
dei soggetti piú idonei a darci testimonianza delle condizioni della parlata del
paese.
        Il colloquio avviato nel circolo degli artigiani non parte da un soggetto
prestabilito. I soggetti hanno una qualifica approssimativa, e l'informazione è
fornita un po' da tutti. Si tratta di scegliere il piú paziente ed anche il piú
disinvolto, e questo soggetto si scopre strada facendo, dopo la distribuzione
delle fotografie che ricordano la loro esperienza diretta nell'agricoltura o nei
mestieri. Il questionario gene-

                                                                                   53
rale viene svolto successivamente, quando ormai la fonte ha superato quello
stato di disagio che si viene necessariamente a stabilire al primo contatto con un
interrogante non abituale. Gli interventi dei presenti ci vanno convincendo che
una gamma di oscìllazioni non manca, ma queste sono proprie della stessa
fonte principale, sono proprie di tutte le fonti.
        Non si vede che si possano determinare dei gruppi di parlanti bene
individuati e ben distinti nei loro ceti o nelle loro categorie. In fondo il
professore di liceo (un giovane valoroso che ha raccolto nel gabinetto di
scienze della sua scuola tutta la fauna e tutta la flora del paese) è intervenuto di
frequente per illustrare e talvolta per correggere, ma la sua parlata non si
distingueva gran che dalla parlata del nostro fabbro.
        Dei gruppi debbono esserci però quando i parlantì vengono considerati
nei piani delle varie generazioni. La prova dì questa varietà per generazione è
balzata fuori attraverso un breve controllo, che si è voluto spingere dalla
generazione piú giovane (quella del ragazzo dodícenne mai uscito dalla gola dei
suoi monti) alla generazione piú antica (a quella del vecchìo ottantenne che ha
passato tutta la sua vita stando sempre legato alle consuetudini del suo paese).
        Foneticamente le oscillazioni piú frequenti delle fonti consultate con
maggiore insistenza riguardano la pronunzia della vocale a in posizione tonica e
in posìzione di atonìa. La a finale, propria in genere dei femminili ìtaliani, e tante
volte anche della terza persona singolare dei verbi, e qualche rara volta di
espressioni pronunciate con enfasi (particolari che potrebbero suggerire di
esaminare la cosa per stabilire se la vocale debba intendersi come il
continuatore dell'A latina o solo come una variante dell'abituale schwa delle
regioni centro-meridionali), nelle 17 voci esaminate ricorre 9 volte nella fonte
giovanissima, 8 volte nella fonte di mezza età e 12 volte nella fonte antica. Un
certo vantaggio a favore dell'ultima fonte, che comunque non è bastevole per
definire esattamente la curva del fenomeno.
        La a protonica di 6 vocì prese in esame è pronunziata come leggermente
palatilizzata una sola volta dalla fonte giovanissima, due volte dalla fonte di
mezza età e nessuna volta dalla fonte piú antica. Indicazioni di un fenomeno in
atto, dì cui però non si riesce ugualmente a stabilire la direzione.
        La a tonica in sillaba aperta considerata in 7 voci è generalmente
palatilizzata dal giovanissimo (due volte debolmente e 5 volte fortemente), è
palatilizzata 4 volte dalla generazione di mezzo ed è pronunciata senza essere
palatìlizzata dalla generazione antica. Un fatto notevole questo che dovrebbe
dire a chiare note che certi turbamenti fonetici sono avvenutì in epoca molto
recente e sono naturalmente attribuibili all'azione dei paesi del contermine, del
foggiano, del territorio di San Severo, della parlata del tipo montanaro. Tutte
parlate che riscono a far sentire il loro peso, non ostante che i sammarchesi
siano così gelosi del patrimonio linguistico. Le strade che vengono a morire a
San Marco dalla parte di San Severo, dalla parte di Foggia, dalla parte di
Rignano, di San Giovanni, di San Nicandro, riportano

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ogni giorno al centro di origine l'emigrante di un giorno o di un anno, che ha
da offrire qualcosa di piú fresco allo svolgimento della lingua materna.
         Nel controllo lessicale il giovanissimo non ripete la fonte di mezza età
per ben 14 volte su 20; quest'ultima fonte poi non ripete la fonte antica solo
per una o due volte. Il che vuol dire che il progresso lessicale della lingua è piú
sensibile, e che questo progresso risalta con maggiore evidenza negli ultimi
tempi. Nel complesso una lingua molto unitaria nei raggruppamenti dei ceti,
ma sensibilmente divisa nei raggruppamenti per età.
         Una lingua che fondamentalmente sembrerebbe del gruppo
appenninico-molisano e che è sottoposta agli attacchi di provenienza
tipicamente appula.
         La presenza delle dd da LL (che poi si vanno diradando sempre di piú
dinanzi alle voci moderne che entrano a far parte del patrimonio linguistico
tante volte con la fonetica che sembrerebbe propria della corrente originaria) fa
pensare a quella unità linguistica che dovette pur esservi tra la Puglia, la Lucania
(parzialmente), la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Le voci comuni che hanno
accompagnato questa antichissima e vasta comunione di popoli non
dovrebbero esser poche, ma non ancora ci è dato riconoscerle come
veramente sicure. La maggior parte di queste voci debbono essere nascoste,
nella toponomastica, nei nomi delle contrade, nei nomi dei fiumi, in qualcosa di
legato al veramente primitivo, là dove i simboli restano piú o meno gli stessi,
anche quando una lingua tramonta nella sua fisionomia di base. Simboli oscuri,
che per essere scientificamente validi debbono risultare presenti almeno in
qualche altro punto di questo vasto territorio che sembrerebbe qualificabile
come essenzialmente mediterraneo. Un problema che qui naturalmente per la
sua serietà si può delibare soltanto ponendolo.
         D'incomparabile rilievo sono le prove dell'ossatura appeninico-molisana.
Ricordiamo fra i fenomeni fonetici: la schiettezza dei suoni vocalici (che
comunque, almeno per la a, è sensibilmente intaccata nelle generazioni giovani),
gli esiti di DJ, GE e simili generalmente uscenti nella semivocale i; l'attenuazione
o la perdita di G, sia iniziale, sia intervocalico e sia componente del nesso GR;
l'inserimento di uno schwa nei nessi di L con T, K e simili; la riduzione del nesso
MBJ e del consonante NG al suono palatilizzato gni; la palatalizzazione del nesso
si. Per il lessico si potrebbero ricordare delle voci come ammuccia 'nascondere',
vussà 'spingere', ntasà 'comprimere', annicchià 'nitrire', abburretà 'avvolgere', la
cróffela 'la piaga', la puca 'il ramoscello dell'innesto', lu cóffele 'la paglia della
pannocchia', lu zencóne 'la scala a piuoli', la tónza 'il ciuffo', li grúgghie 'le rughe', li
kózze 'i contadini', la spàra 'il cercine', la lózza 'la chiavarda nella punta del
timone', l-acchie 'la bica del frumento', lu manócchie 'il covone di frumento', li listre
'la resta del frumento', li ciavúrre 'i grandi mucchi di fieno sul prato' e tante altre,
che stanno tutte a dar testimonianza del fondamento appenninico. Una
costruzione solidamente appenninica che viene però minata sempre piú. E
pensiamo al

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caratteristico pronome impersonale ci (es. ci méte, ci pésa, ecc. per dire « si miete,
si trebbia » ecc.), alle varianti specciàvete, sbreiàvete 'muovetevi', (la prima
tipicamente appenninica, la seconda tipicamente appula), alle voci piú
propriamente pugliesi (sarebbe lungo e complesso enumerarle anche in parte).
Tutti sintomi di una disgregazione della lingua, anche quando i parlanti chiusi fra
i monti sembrerebbero messi al riparo da ogni innovazione.

                                  A SAN NICANDRO

        I paesi di montagna, a meno che non siano frequentati per delle attrattive
turistiche, offrono in genere uno spettacolo di pauroso abbandono. Case nella
maggior parte disabitate, strade pressoché deserte, solo qualche ombra di una
generazione che si va consumando. Ma qui a Sannicandro hai l'impressione di
qualcosa di robusto e di veramente vitale. Le case fanno tutt'uno con il fondo
roccioso. I muri sono innestati direttamente sulla roccia, che tante volte si
solleva dalla strada per accompagnare di qualche metro l'altezza della
costruzione. Qua e là dei portali che fanno a gara con quello imponente della
Chiesa Madre, una ricchezza di scalinate, di archi e di portici, ariose volte a
botte, grandi balconate, superbi architravi, dappertutto un uso abbondante
della bella pietra del Gargano. Ti senti con i piedi veramente al sicuro, o che tu
sia in casa o che cammini sulle strade che hanno la saldezza della pietra mai
rimossa, di un tutto pieno, di un cuniculo aperto in una roccia compatta.
Un'impressione di solidità che si completa con la disposizione topografica del
paese. Le case sono strette le une alle altre, con gli spioventi piegati tutti nella
stessa direzione, ordinate come ambienti di uno stesso edificio. La parte piú
antica del paese è quella della 'terravecchia': case basse e robuste solcate da
labirintiche stradette che si svolgono attorno al 'Castello' (u kastédde). Dalla parte
di mezzogiorno vi è il quartiere del vaddóne, dall'altezza del quale spii l'ultima
parte del Tavoliere che si stende fino al mare. Dalla 'terravecchia' e dal vaddóne si
scende alla 'terra rossa', al quartiere della Chiesa del Carmine, verso la parte un
pò pianeggiante del paese, sulla piazza o sul corso principale, la zona piú
frequentata, un passo obbligato per chi abita verso il Convento o verso San
Martino, o piú a Nord nel quartiere della 'civetta', o dalla parte del 'boschetto'
o dalla parte del Camposanto, dalla parte piú lontana della Stazione, o anche
dalla parte dello stesso villaggio Brenna. Una disposizione molto benarticolata,
ma unitaria ed adatta a favorire incontri facili e frequenti.
        Qui non trovi nulla del tipico fatalismo della gente meridionale. Hai
dinnanzi una massa di uomini in pieno fermento. Ti restano indelebilmente
fissati i tratti di questa gente di campagna che si muove per la via principale
compassata e disciplinata come sospesa nei tempi di una lunga marcia. Le
donne stesse strette nei larghi fazzolettoni neri rilegati dietro sotto la crocchia
dei capelli sembrano esse pure in procinto di metter mano ad un lavoro. Gente
compatta che ti spaura

                                                                                   56
se la vedi irrompere inquadrata in una processione o in un corteo. Anticamente
erano dei pastori, perché questa era l'unica possibilità di impiego che offriva la
loro campagna, che non produceva nient'altro al di fuori dell'erba, dei cespugli
e degli olivastri. Una campagna per giunta non loro, possesso del demanio,
fino a quando non sono passati all'occupazione arbitraria, alla divisione e
finalmente allo sfruttamento razionale dell'olìvastro, che ora hanno ingentilito e
reso fecondo di provvidenziali bacche. Una storia che si è svolta negli ultimi
cento anni e che è valsa a levare di un piano tutta la loro attività: da pastori a
piccoli contadini, a potatori, ad agricoltori. Un'attività che ha miracolosamente
accresciuto la popolazione di San Nicandro con gente che è venuta dalla vicina
San Marco in Lamis in tal numero che non vi è sannicandrese che non vanti di
avere o di avere avuto un antenato sammarchese.
        Anche senza la testimonianza di questi rapporti di parentela, l'affinità
linguistica che intercorre tra i due centri fa pensare a una comunione di vicende
molto intensa. Si azzarderebbe l'ipotesi che ci si debba trovare dinnanzi ad
un'isola caratteristica del Gargano, che, affermatasi prima tra San Nicandro e
San Marco ora si va espandendo fino a Lesina. Questo centro, che in origine
era popolato probabilmente da albanesi e poi certamente da pugliesi del tipo
foggiano-sanseverese, ora si va modellando secondo la lingua e i costumi sanni-
candresi.
        San Marco, San Nicandro, Lesina sono le tappe dell'espansione di una
stessa popolazione. Dalla cittadina chiusa nel cuore del Gargano i pastori di
origine sono scesi a popolare la terra di San Nicandro. Ed ora San Nicandro
riversa su Lesina la irruenza della sua vitalità e della sua popolosità. Gente che si
sposa giovane e che figlia abbondantemente, e che oggi disdegna di stabilire
rapporti di sangue e di lavoro con chi non sia nato e domiciliato a San
Nicandro.
        Tutte condizioni che dovrebbero favorire la conservazione di questa
singolare comunità linguistica.
        Malgrado queste misure di sicurezza, i giovani vanno parlando una lingua
che non è piú quella dei loro padri. A questa conclusione si arriva dando uno
sguardo ai risultati del controllo ottenuto mettendo di fronte alle stesse
domande un bracciante di 53 anni ed un giovanissimo di 16 anni, appartenente
a famiglia di braccianti. Su 31 voci prese in considerazione i due informatori
concordano pienamente o all'incirca 19 volte. Ma nelle restanti 12 voci
presentano delle differenze sensibili.
        La fonetica si svolge anch'essa piuttosto rapidamente. Su 27 suoni presi
in esame la concordanza piú o meno assoluta si riscontra in un numero di suoni
inferiore alla metà, mentre in un numero superiore si riscontrano, specie per
quanto riguarda l'uso delle vocali toniche, delle differenze di rilievo.
        Ma un quadro ancora piú completo della instabilità della parlata ci è
offerto dalle incertezze, dalle esitazioni, dalle correzioni ed anche dalle apparenti
contraddizioni che si possono raccogliere nelle deposizioni di altre fonti, che
pure sono state scelte fra le meglio informate

                                                                                 57
e le meno esposte agli elementi disgregatori. Un bracciante, che non ha fatto
neanche il servizio militare, che ha frequentato le scuole elementari del paese e
che non è andato mai oltre il tenimento del suo comune, si corregge
frequentemente, e altrettanto frequentemente offre delle varianti lessicali e
fonetiche. La a di sillaba chiusa oscilla fra un suono schietto ed un suono
palatilizzato in genere; ma sono anche molto frequenti le palatilizzazioni deboli
e non manca qualche esempio con una palatilizzazione forte. Un'oscillazione
analoga si ha per la a delle tronche degli infiniti: generalmente schietta, ma di
frequente anche palatilizzata debolmente, ed isolatamente palatilizzata con una
maggiore accentuazione. La a finale in genere non è percepita, ma non
mancano casi in cui si fa sentire con molta chiarezza. E' addirittura sconcertante
l'uso dell'articolo femminile singolare: la fonte oscilla tra la ed a. Una sola volta
è stato inteso un la con la consonante molto indebolita (una prova della
gradualità dello svolgimento dell'oscillazione, che comunque non basta per farci
intendere da che parte stia la forma piú antica). La locuzione del tipo pasqu-i-róse
('Pasqua delle rose', ossia la 'Pentecoste') oscilla con la locuzione del tipo la téle
de line, la quale ultima forma dovrebbe essere molto verosimilmente quella di
epoca piú recente.
         Le cose non cambiano quando dal bracciante passiamo al calzolaio di 71
anni. Ha l'arte della parola, e quando ti risponde dà l'impressione di volere dire
la sua come la migliore, la parola del vero sannicandrese. Eppure anche nella
solennità di questo simpaticissimo uomo rion sarà difficile raccogliere i sintomi
di qualcosa che ti fugge dinnanzi, di qualcosa di veramente vivace e mutevole.
In un interrogatorio che è durato non meno di quattro ore si corregge per ben
12 volte; la a tonica di sillaba chiusa generalmente è pronunciata schietta, ma
risulta anche palatilizzata con una certa frequenza, talvolta anche fortemente. La
stessa vocale tonica in sillaba aperta in genere viene pronunciata come una
schietta, ma di rado anche leggermente palatilizzata. La a tronca degli infiniti
generalmente suona immutata, ma non mancano esempi di a palatilizzata. La
vocale finale dei femminili è generalmente percepita come a. Ma non mancano
esempi in cui la vocale si dilegua. L'articolo singolare femminile è reso general-
mente con la, ma non mancano esempi, anche se pressoché isolati, della forma
con a. L'articolo plurale maschile in genere è ottenuto con i, ma si contano pure
pochi esempi con li.
         L'ultima fonte, l'agricoltore, quest'uomo davvero unico che ha una
conoscenza ammirevole della sua lingua e che disdegna la terminologia e
l'accentuazione degli ultimi tempi, preoccupato quasi di evocare solo ciò che vi
è di veramente antico, manifesta egli pure senza volerlo (e forse non lo
crederebbe) le sue sintomatiche incertezze. Si corregge egli pure, ma a
differenza degli altri possiede un uso costantemente schietto della a tonica ed
atona in qualsiasi posizione. Non fa sentire la a delle finali se non in qualche
esempio isolato. L'articolo singolare femminile oscilla tra la forma con a e la
forma con la, con un leggiero vantaggio per la seconda.
         Ogni fonte dunque ha una propria storia linguistica, ha delle pro-

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prie contraddizioni e riflette lo stato di disagio in cui parlano una lingua che
pure sanno di conoscere (e a ragione) in maniera perfetta.
         Se consideriamo ora nell'insieme alcuni particolari fenomeni nelle tre
fonti principali, ci accorgiamo che la parlata presenta dei piani diversi distinti
non solo a seconda delle età o delle generazioni (come quando mettiamo il
ragazzo sedicenne di fronte all'uomo fatto di 53 anni), ma anche a seconda
delle categorie professionali.
         Vi è la lingua del bracciante, che per quanto possa vivere confinato nel
territorio del suo comune, pure corre da una parte all'altra, da un padrone
all'altro ed ha dei contatti svariati anche con gente che scende a lavorare da altri
centri. Vi è la parlata vivace dell'artigiano che è investito egli pure dalle correnti
forestiere, che salgono la scaletta della sua casa assieme alle scarpe da riparare e
alla suola da acquistare. Piú conservativo sembrerebbe il piano dell'agricoltore
che ha un campo di azione che non varia: un andata e ritorno quotidiano tra la
'masseriola' e la casa del paese.
         Tre piani linguistici diversi nelle categorie professionali piú importanti, ed
un piano linguistico fra i giovani (almeno per quelli del ceto bracciantile).
         Ci troviamo cosí in una comunità che presenta quattro gruppi di parlanti
diversi. Una distinzione bastevole per farci orientare sulla direzione che la
parlata nel suo svolgimento va seguendo e sulla storia dei vari fatti fonetici,
morfologici e lessicali. Il suono della a tonica, ad esempio, che in tutte le
posizioni è generalmente schietto nella pronunzia dell'agricoltore, si tinge di una
certa palatilizzazione nella parlata dell'artigiano, si palatilizza piú frequentemente
con il bracciante e si palatilizza fortemente con il sedicenne, direbbe a chiare
note che certi turbamenti vocalici (e oltre all'a si pensi pure alla serie delle altre
vocali turbate che potrebbero indurci a fantasticare su non si sa quali precedenti
etnici) vanno messi in relazione con dei fatti storici che sono di epoca molto
recente, e piú precisamente con le correnti pugliesi che ti premono da tutte le
parti.
         L'insistenza con cui l'artigiano pronunzia la a finale dei femminili di
contro all'abituale schwa dell'agricoltore e la preferenza spiccata che il primo
rivela per un articolo femminile singolare in tutto identico alla forma italiana di
contro alle oscillazioni del secondo starebbero ad indicarci che anche qui stiamo
di fronte a correnti di epoca moderna provenienti non piú dalle parlate del
contermine ma dalla stessa lingua letteraria.
         Dei fatti notevoli questi che dovrebbero servire a farci intendere con
quanta facilità si vada svolgendo, almeno per alcuni fenomeni, il cambio della
lingua, e con quanta labilità si affaccino quelli che non sono gli elementi
veramente costitutivi di una lingua.
         D'altra parte vi sono degli altri fatti, che, ritornando con la stessa
costanza in tutti gli strati, potrebbero avviarci a riconoscere quel fondo non
trascurabile di un antico patrimonio comune. Si ricordino per tutti l'inserimento
della u in funzione di semivocale dopo il suono k, la particella impersonale ce, le
locuzioni del tipo i sfér-u llórg 'lancette dell'orologio', quel bisogno di
concretizzare o di sintetizzare le

                                                                                   59
espressioni un po' troppo astratte o letterarie, la inclinazione a portare il
colloquio ad un livello di confidenza e di bonarietà. Sono questi caratteri che ci
richiamano a quel non so che di saldo che è in tutte le manifestazioni di questa
gente, anche se poi vadano trovando ognuno per proprio conto delle vie
diverse per una maggiore affermazione delle proprie individualità.

                                     A VIESTE

        La cittadina, qualcosa di veramente molto bello, è sistemata sulla Testa
del Gargano, come in capo al mondo. Il che potrebbe indurre a vedere
segnato dal faraglione che è detto di pízze múmme un FINIS MUNDI, e quindi
si potrebbe essere tentati a correggere la toponomastica tradizionale accertata
sulla bocca di tutti i viestani con un indicativo pízze múnne, in cui la voce múnne
dovrebbe derivare da un anteriore múnde. E saremmo cosí arrivati ad ottenere
qualcosa come il FINIS TERRAE del Capo di Leuca o, se vogliamo andar piú
lontano, come il Capo di Finisterra nella Galizia.
        Un'interpretazione seducente, che ho personalmente carezzato per un
po' di tempo, ma che ora respingerei, perché lasciando le cose come stanno
(cioè continuando a dire pízze múnne e non pízze múmme), vedo rispettata la
tradizione linguistica viestana e vedo che quel benedetto mú-mme potrebbe
essere messo in relazione con un onomatopeico del tipo 'mommo' letterario,
che poi è presente nella fantasia popolare del Mezzogiorno per indicare
bonariamente un qualcosa che non si muove e non serve a nulla.
        Per l'inchiesta sono state utilizzate tre fonti principali. Un bidello delle
scuole elementari, di 38 anni, abitante in uno dei rioni piú antichi (in dialetto
ind-a víste), per il questionario generale e per quello riguardante arti e mestieri; un
agricoltore quarantenne del quartiere piú moderno (sópe la réna) per quanto
riguarda la fauna, la flora ed in genere le occupazioni di campagna; ed un
marinaio sessantenne del quartiere che si stende dalla parte del mare (sópe la
tórre) per quanto riguarda la nomenelatura dei pesci, le attrezzature e le abitudini
della pesca. Una distribuzione per quartieri, pur cercando di tener conto delle
professioni e delle età.
        Qui il mestiere, come in tante altre parti del Mezzogiorno, sa sempre di
generico e di suppergiú. Il bidello in fondo è stato marinaio, ed aveva lavorato
al 'trabucco' paterno, là dalla parte della spiaggia di San Francesco. Ma questa
sua attività di pescatore da terra non lo dispensava dai lavori di campagna; in
famiglia oltre il 'trabucco' vi sono un uliveto da coltivare, un carretto da
guidare, dei muli da governare. La seconda fonte, l'agricoltore, dopo la sua
giornata di lavoro è in paese, e qui con il mare che ti si apre dinnanzi da tutte le
parti non puoi sentirti del tutto estraneo alla partenza delle paranze, al loro
rientro, allo scarico del pesce, alla contrattazione, alla spedizione lontana. Tutte
cose che avvengono nelle due piccole 'secche' (mi servo della loro
terminologia) che vengono ad aprirsi fin dentro al paese

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perché tutti possano essere informati delle vicende che le animano a tutte le ore
del giorno e della notte. La fonte più matura, la terza, quella che attualmente
parte ogni sera con la sua breve ciurma, in gioventù era agricoltore, e con la
stessa disciplina, con lo stesso ritmo ripeteva le sue andate e i suoi ritorni dalla
campagna. Senza allontanarsi mai molto. Perché questa è la caratteristica dei
Viestani. Non vanno oltre le sette miglia, o che stiano in mare o che stiano in
campagna. La campagna (veramente molto bella ed estesa), sempre oltre detta
distanza, la vanno abbandonando all'iniziativa di quelli di Mattinata (l'antica
frazione di Monte S. A.) che vanno popolando sempre di piú i quaranta
chilometri e piú dell'hinterland che si svolge lungo la fascia costiera della Testa
del Gargano. I Viestani si ritirano dal mare di fronte all'organizzazione dei
Molfettesi (gente che in fatto di pesca sa il fatto suo), che fanno scalo a Vieste
per alleggerirsi degli abbondanti carichi di pesce che passati su dei veloci
camions vengono indirizzati a Foggia, a Bari, a Napoli, a Roma. I Viestani, un
po' per natura e un po' perché sprovvisti di un porto che li incoraggi, assistono
tranquillamente al movimento che si svolge sotto i loro occhi. Ma non si
impegnano quasi mai in una gara di iniziative. O si impegnano solo per creare il
tanto quanto basta per tirare avanti una vita senza scosse, una vita che è fatta
solo per sostenersi. Bando dunque ad una vita professionalmente specializzata.
Ognuno produca quanto basti per non aver bisogno di altri. Una concezione
radicata nelle abitudini che viene a scartare la possibilità di stabilire o di
graduare una certa gamma di ceti e di professioni. Non resta che una
distinzione topografica, una distinzione per quartieri.
        Da una parte, dalla parte alta, il borgo, il quartiere antico, che fa capo al
castello (u kastídde), con un complesso di rioni, che prendono nome o da una
semplice disposizione topografica (mmizz-u fússe, la parte piú bassa e meno
panoramica; a d-alte, cioè in alto, dalla parte della Chiesa Madre; ngastídde,
proprio là dove sta il castello; u mundaróne, la parte scoscesa che si inerpica verso
il castello, il rione piú popolare), o dal ricordo e in parte dalla testimonianza
delle antiche mura (índ-a viste, dentro Vieste cioè e non fóre la pórte): delle case
ben salde che si inseguono come gradi di un'immensa scala tenute strette alla
mole del castello che le sovrasta da archi e da portici che sembrano essere
quegli stessi levati al tempo delle incursioni dal mare. Dall'altra parte tagliata
decisamente dal quartiere alto, in basso si stende la seconda ala del paese, dove i
rioni prendono nome dalla testimonianza di un antico edificio (u kumménte; sópe
la tórre; addrete la tórre), oppure da una chiesa (Sandakróce con la t di Santa
sonorizzata in d, come è in tutte le parlate centromeridionali), da un albero
ormai inesistente (u cilze 'il gelso') da un posto di vendita (la peskaríe), da una
depressione molto breve (la funnate) o anche da un'ariosa balconata (la bankíne,
con la b iniziale molto rafforzata analogamente con quanto avviene in tutte le
parlate del Mezzogiorno): un complesso di case molto uniformi, ma anche
molto razionali, che debbono essere state costruite le piú in un periodo di
tempo che non

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