"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
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«Il mio viaggio con padre Alexander» L’esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann di Dario Chiapetti · Sono pagine dense di storia, di storia della teologia e di storia dello spirito quelle del diario di Juliana Osorgin (1923-2017) (Il mio viaggio con padre Alexander, Lipa, Roma 2021, 111 pp., 12 euro), moglie di Alexander Schmemann (1921-1983) – il grande teologo ortodosso che ha dato un prezioso contributo al rinnovamento della teologia orientale, oltre che alla vita ecclesiale ortodossa americana, concentrandosi soprattutto sulla liturgia, l’ecclesiologia e la storia della Chiesa – che il lettore italiano ha tra le mani, tradotte dall’originale russo. In non molte pagine si è immersi nelle vicende di Juliana e Alexander, dei loro genitori, nonni, figli e nipoti, che trasportano chi legge dall’Europa dell’est della Prima Guerra Mondiale alla Francia della Seconda Guerra Mondiale e del dopo guerra agli Stati Uniti d’America quasi dei giorni nostri. Sono presentati con toni vivi i drammi delle guerre, le difficoltà dell’emigrazione, ma anche la luce che scaturisce dalla fede, vissuta nella famiglia e nella liturgia, oltre che il realizzarsi, in mezzo a queste circostanze, dei disegni di Dio, sorprendentemente rilevanti per la Chiesa e il mondo. Juliana racconta di sé, della sua nascita in Germania da una famiglia nobile russa, emigrata per la guerra civile russa,
che vanta tra i loro avi santa Juliana di Lazarevo del XVII secolo. Narra di quando, ancora piccola, si trasferì con la famiglia a Parigi, in un sobborgo presso una chiesa, il cui sacerdote era il nonno. Ricorda la sua formazione presso un collegio cattolico e il conseguimento del baccalaureato e della licenza in lettere alla Sorbona. Ripercorre l’episodio di quando, a 17 anni, presso l’Istituto di teologia Saint Serge, dove si recò per fare visita a suo zio, uno dei fondatori, incontrò il diciannovenne Alexander, nato in una famiglia russa di origine tedesche e arrivato in Francia dall’Estonia già da piccolo, il quale aveva iniziato lo studio della teologia, dopo anni di lenta, travagliata, ma progressiva e profonda maturazione spirituale. Racconta poi di quando nel 1943 si sposarono e nel 1945 Alexander divenne sacerdote. Rievoca come all’Istituto Saint Serge, dove questi redigeva il dottorato e muoveva i primi passi nell’insegnamento, vi erano prestigiosi insegnanti, come Sergej Bulgakov, ma anche altri, tra i vertici, che non davano spazio a quelle nuove figure che avrebbero rotto alcuni equilibri. Riferisce di come, all’epoca, il professor Georgij Florovskij, emigrato negli Stati Uniti, fermamente convinto dal potenziale dell’azione missionaria dell’Ortodossia in America, invitò Alexander ad insegnare al piccolo seminario St Vladimir a New York di cui era a capo. Coinvolgente è la parte che informa sulla scelta di Schmemann di accettare, rifiutando una proposta dell’Università di Oxford, e sul trasferimento, con Juliana e i tre figli che nel frattempo erano nati, mosso dal desiderio di avere una vita attiva come insegnante. Ella racconta con ammirazione di come Alexander si spendesse intensamente per rendere il Seminario una realtà accademica altamente qualificata, oltre che un luogo di vita fraterna. Riferisce della vita economicamente precaria ma anche intensa per quanto concerneva lo sviluppo del Seminario, così come pure delle incomprensioni e degli scontri tra suo marito e Florovskij che portarono quest’ultimo a ritirarsi. Ricorda poi come Alexander si buttò a capofitto nella sua attività teologica e didattica, divenendo un punto di riferimento per
l’Ortodossia americana, di come si adoperò per l’ottenimento dell’autocefalia dalla Chiesa ortodossa russa, che dopo molte difficoltà, nel 1970, arrivò, e di come trascinava in un’intensa amicizia con sé non credenti, ebrei ed ex marxisti. Ella rammenta inoltre come, oltre a tutto ciò, vi fu l’impegno trentennale con Radio Liberty, per la quale egli trasmise innumerevoli sermoni in Unione Sovietica, ascoltati e apprezzati, tra gli altri, da Aleksandr Solženicyn, col quale divenne grande amico. Juliana confessa che la famiglia si sentì finalmente a casa grazie allo spirito accogliente della vita cristiana in America e giunge così all’ultima fase della vita di Alexander, caratterizzata dall’impegno per la famiglia – nel frattempo ingrandita dai nipoti, dei quali curò la formazione cristiana – e dall’esperienza della malattia (un tumore ai polmoni che aveva generato metastasi al cervello) che lo trasferì in «un altro livello di esistenza». Il diario termina con le pagine, che trapelano profondo amore, sulla morte di Alexander nel 1983 e con l’ultimo testo che egli compose per la radio, che rivela lo spirito con cui egli la visse: il suo mirabile Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace. Ciò che vividamente emerge da questo diario è quella profonda unitarietà della vita – che compone affetti familiari, vicissitudini storiche, personali, inquietudini, difficoltà, aspirazioni, impegno teologico, ecclesiale, pastorale – che si
fa spazio nella vita nello Spirito e che la liturgia prefigura e anticipa come memoria del suo stato definitivo del regno. Tutto è carico di disarmante umanità. La teologia, per Alexander Schmemann, altro non era che l’unica cosa che, forse, dovrebbe essere: l’esposizione, più o meno sistematica, dei contenuti dogmatici appresi nell’esperienza personale come Chiesa, e riconoscibile nel suo statuto servile nei confronti della comunità cristiana e della famiglia umana. «Un giorno Alexander stava camminando lungo una strada di Harlem quando un mendicante gli si avvicinò. Era un grosso uomo di colore e chiaramente una persona gentile. “Padre, la prego, vorrei parlarle”. Alexander allungò la mano alla tasca, gli porse degli spiccioli e gli disse di comprarsi un caffè e del cibo. “No, no, padre”, disse l’uomo, “Non mi servono i suoi soldi, voglio solo parlare con lei”. Allora Alexander lo portò in un caffè e gli chiese: “Dunque, di cosa vuole parlare?”. Più tardi Alexander raccontò che c’era una premura nella sua voce. “Padre, mi spieghi la Santissima Trinità. Chi sono e perché sono tre?”. Alexander non dimenticò mai questa conversazione. La considerava l’incontro teologico umano e divino più significativo della sua vita». La Vita di Cristo dell’abate Ricciotti tra sangue e vangelo.
di Carlo Nardi · Precisamente: Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo [anno 1941] con una introduzione critica del Autore e una premessa di Luigi Santucci, I-II, Arnoldo Mondadori Editore, prima edizione Oscar Mondadori nel settembre del 1974. Prefazione alla 1a edizione La prima vaga idea di scrivere questo libro mi venne molti anni fa in circostanze straordinarie. Ero stato trasportato in un ospedaletto da campo, che stava rimpiattato sotto un bosco d’abeti in un vallone delle Alpi: per qualche tempo rimasi là tra la vita e la morte, più vicino a questa che a questa; notte e giorno il vallone rintronava schianto delle granare, attorno a me gridavano feriti e rantolati moribondi, il lezzo delle cancrene che ammorbava l’aria sembrava un preannunzio del cimitero. Aspettano la mia sorte, a un certo momento pensai che, se fossi sopravvissuto, avrei potuto scrivere una Vita di Gesù Cristo; il vangelo di lui, infatti, stava là sul mio pagliericcio, e le sue pagine ove le macchie di sangue si erano sovrapposte a guise di rubriche alle lettere greche mi parevano un simbolo intrecciato di vita e di morte. Guarito che fui e tornato alla vita normale, quell’idea della Vita di Gesù Cristo invece di attirarmi mi sgomentava, e ogni volta che vi ripensavo ne avevo sempre più paura: eppure non solo non mi abbandonava giammai, ma piuttosto diventava per il mio spirito una specie di necessità. Come si fa istintivamente di fronte alle necessità paurose, cominciai con girarle dattorno, quasi per illudere me stesso: mi detti a pubblicare studi su testi ebraici e siriaci, quindi una Storia d’Israele e poi ancora la guerra giudaica di Flavio Giuseppe, ma la cera roccaforte restava ancora là intatta nel bel mezzo nei mie giri, risparmiata dalla mia paura. Ben poco mi scossero
esortazioni d’amici e inviti d’autorevolissimi persone: risposi immutabilmente per molti anni che le mie forze non reggevano davanti a una Vita di Gesù Cristo. Invece più tardi, contro ogni previsione, ho ceduto. Ma ciò è avvenuto perché l’agonia dell’ospedaletto da campo, dopo tanti anni, si è rinnovata e in circostanze assai peggiori: quando cioè vidi che la tempesta di una nuova guerra s’addensava sull’umanità, e che l’Europa secondo ogni più facile previsione sarebbe stata nuovamente allagata di sangue, allora mi parve che non la mia persona ma tutta intera l’umanità, quella cosiddetta civile, giacesse moribonda con un vangelo macchiato di sangue sul suo pagliericcio. Quest’immagine divenne allora così imperiosa su di me fui costretto ad obbedire: essendo tornato il sangue sul mondo, bisognava pure il vangelo. E così il presente libro è stato scritto mentre l’Europa era nuovamente in preda alla guerra ossia a ciò ch’è la negazione più integrale del vangelo. Se faccio queste confidenze al lettore non è per parlare della mia insignificante persona: è invece per avvertite in quale stato d’animo è stato scritto questo libro. La quale avvertenza è, a parer mio, importantissima per giudicare ogni biografia di Gesù: il lettore che avrà la pazienza di scorrere l’ultimo capitolo all’Introduzione si convincerà facilmente che le biografie di Gesù scritto dallo Strauss, del Renen, del Loisy e di tanti ricevettero le loro particolari coloriture soprattutto allo stato d’animo del rispettivo aurore. Altrettanto avvenuto a me – e lo confesso onestamente – giacché lo stato d’animo con cui ha scritto è stato quello di uscite dal presente e raccogliermi nel passato, uscire dal sangue e raccogliermi nel vangelo. Ma appunto per questa ragione ho voluto fare opera esclusivamente storico-documentaria: ha cercato cioè il fatto antico e non la teoria moderna, la sodezza del documento e non la friabilità d’una sua interpretazione in voga: ho perfino
osato imitare la nota ‘impassibilità’ degli evangelisti canonici, i quali non hanno né una esclamazione di letizia quando Gesù nasce né un accento di lamento quando egli muore. Ho mirato, dunque, a far opera di critica. So benissimo che quest’ultima parola, comparsa critica è soltanto demolitrice e la sua ultima conclusione dove essere un ‘No’; ma non è affatto dimostrato che cotesti valentuomini abbiano ragione, e tanto meno affatto dimostrato che cotesti valentuomini abbiano ragione, e tanto meno che la loro intenzione demolitrice sia risultata realmente efficace sui documenti presi di mira: anche su questo punto l’ultimo capitolo dell’Introduzione convincerà facilmente il lettore spassionato e imparziale. Del resto cotesti demolitori sono ormai quasi ‘superati’; naturalmente essi, dopo aver imperato per parecchi anni, rifiutano di abdicare e rimangano tenacemente attaccati ai loro metodi; ma, come è già avvenuto per l’Antico Testamento, anche per il Nuovo la critica programmaticamente demolitrice dei ‘vecchi’. Oggi, in forza sia d elle recentissime scoperte documentarie sia di tante altre ragioni, la saggia critica mira ad essere costruttrice e la sua ultima conclusione vuole essere un ‘Si’. Compito difficile, senza dubbio: ma la riluttanza anche provavo a scrivere questo libro era causata specialmente da questa difficoltà, di essere nello stesso tempo critico e costruttivo.
Per amore di chiarezza, e per non costringere il lettore a ricorrere ad altri libri, ho dovuto riassumere nell’Introduzione alcune poche pagine del volume secondo della mia Storia d’Israele: trattavo infatti argomenti che ero costretto a trattare anche qui. Non si cerchino argomenti che ero costretto a trattate anche qui. Non si cerchino invece in questo libro moltissime altre cose che esse, già troppo ampio, non doveva né poteva trattare. Tale è il caso, ad esempio, della bibliografia, che per il nuovo testamento forma quasi una scienza a sé e richiederebbe un volume a parte. Solo eccezionalmente mi sono indotto a citare qua e là alcuni pochi lavori particolari, mentre per uno sguardo generale valgono – e sono anche troppi – gli autori citati nell’ultimo capitolo dell’Introduzione … Roma, gennaio 1941 Ed ora mi ritrovo in un piccolo detto che abbraccia un mondo intero con un dotto scritto che anela e induce verità. Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza, due ambiti nella vita intima del religioso a confronto con il diritto alla riservatezza (can. 630 CIC)
di Francesco Romano • La relazione tra il voto di obbedienza che obbliga il religioso “a sottomettere la propria volontà ai legittimi superiori che fanno le veci di Dio quando comandano secondo le proprie costituzioni” (can. 601) e la libertà che gli è “riconosciuta” per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), ci porta a riflettere sul fòro interno della coscienza e le possibili implicazioni nella vita consacrata. Sarà inoltre da non sottovalutare la sfumatura linguistica di non irrilevante significato che è resa presente con la distinzione tra manifestazione dell’animo e manifestazione della coscienza (can. 630 §5). La pratica della manifestazione della coscienza va affermandosi fin dagli albori del monachesimo come apertura dell’animo all’abate, al superiore o al padre spirituale, vista come strumento per la crescita spirituale nell’esercizio delle virtù e il superamento delle difficoltà della vita consacrata. Con l’inizio della vita cenobitica secondo la regola di Basilio il Grande (†379) viene ammessa l’esposizione delle proprie mancanze al praepositus, cioè all’abate, quale guida spirituale. Nella regola di S. Benedetto (†540) l’abate deve conoscere lo stato dell’anima di ciascun monaco perché possa averne cura e accompagnarlo nella via della perfezione, soprattutto quando si tratta di peccati occulti, ma anche conoscere le buone disposizioni e i frutti della grazia. La manifestazione della coscienza all’abate è segno di totale dipendenza e di umiltà dei monaci quando è fatta fuori dalla confessione. A partire dall’ottavo secolo la manifestazione della coscienza, passo dopo passo, finisce per identificarsi con la
manifestazione dei peccati e in alcuni casi si equivoca nell’uso del termine confessione benché questa si mantenga distinta. La necessità di avere sacerdoti nei monasteri per amministrare l’assoluzione sacramentale fa sì che gli abati chiedano l’ammissione all’ordine sacro di alcuni monaci perché provvedano alla formazione spirituale dei loro confratelli secondo il proprio carisma e tradizione senza dover ricorrere a sacerdoti esterni. In questo modo la manifestazione della coscienza finisce per confluire e confondersi con il sacramento della confessione. Fino al sedicesimo secolo la regola benedettina influenza le costituzioni degli ordini religiosi e la manifestazione della coscienza finisce per restare indistinta dalla confessione sacramentale. Il Concilio Lateranense IV nel 1215 dispone che i fedeli debbano confessarsi sotto pena di invalidità con il “sacerdote proprio”, cioè il parroco proprio e per i religiosi il proprio superiore procurando il cumulo delle due cariche di confessore e direttore spirituale con il rischio di violare il sigillo sacramentale o di commettere abusi nell’utilizzare le conoscenze per il governo esterno dei sudditi. Nella vita religiosa della Compagnia di Gesù entra l’obbligo della manifestazione della coscienza da farsi al superiore o al padre spirituale nella confessione per il miglior governo dei sudditi e dell’istituto, come esigenza della vita apostolica. Tale manifestazione della coscienza finirà per essere proibita con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917, ma già con il decreto “Sanctissimum” del 26 maggio 1593 Papa Clemente VIII aveva proibito ai superiori di obbligare i propri sudditi di confessarsi con loro e di ricevere nel fòro interno sacramentale la manifestazione della coscienza che era finita per diventare come una confessione fatta al superiore fuori dal sacramento. Il Papa Leone XIII approva nel 1890 il decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari “Quemadmodum” dove deplora che i superiori laici inducano direttamente o
indirettamente i loro sudditi alla rivelazione intima della loro coscienza che corrisponde alla confessione, ma permette che questi liberamente e spontaneamente manifestino il loro animo per ricevere consiglio e aiuto nelle difficoltà. Il decreto “Quemadmodum” è la fonte del can. 530 del Codex 1917 che proibisce ai superiori religiosi di indurre i sudditi a manifestare loro la propria coscienza lasciando la disponibilità di aprirsi con filiale fiducia solo ai superiori se sono anche sacerdoti per manifestare i dubbi e le afflizioni della propria coscienza. In questo modo il can. 530 con le parole “expedit […] si sint sacerdotes” fa una chiara distinzione tra superiori sacerdoti e superiori laici permettendo ai loro sudditi di esporre questioni di coscienza solo se sacerdoti. Si va quindi diffondendo l’idea che la normativa canonica proibisca l’apertura dell’animo dei sudditi con i loro superiori (can. 518 §3 Codex 1917) ai quali debba competere solo il governo esterno della comunità e garantire l’osservanza della disciplina. Tuttavia il can. 530 §2 del Codex 1917 non proibisce al suddito di poter aprire liberamente al superiore il proprio animo. In questo caso non si ha violazione della propria intimità, ma apertura del cuore perché possa ricevere luce sull’osservanza della vita religiosa, l’inserimento nell’istituto, l’osservanza dei consigli evangelici, l’orazione ecc. Un’apertura dell’animo che restando nell’ambito del fòro esterno non comporta la violazione della propria intimità con la manifestazione della coscienza o la rivelazione dei peccati, ma al contrario offre anche al superiore la possibilità di operare il giusto discernimento e al suddito di farsi conoscere e guidare.
Basilio il Grande L’attuale Codice di Diritto Canonico presenta la relazione di fiducia tra religioso e superiore di cui al can. 630 §5 in stretta continuità con il previgente Codex del 1917. Se da un lato si proibisce ai superiori di coartare il diritto originario alla debita libertà dei religiosi per quanto riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), dall’altro i religiosi vengono esortati a rivolgersi ai superiori con fiducia per aprire il proprio animo con spontanea libertà, mentre è fatto assoluto divieto ai superiori di indurli a manifestare la propria coscienza in qualunque modo (can. 630 §5). L’apertura dell’animo non corrisponde alla manifestazione della coscienza che il legislatore si preoccupa di tutelare per evitare abusi. Tra essi intercorre la distanza che c’è tra il fòro esterno, il fòro interno sacramentale ed extrasacramentale o fòro della coscienza quali ambiti che corrispondono rispettivamente al superiore anche se laico, al confessore e al direttore spirituale. La manifestazione della coscienza è la libera rivelazione di tutto ciò che per sua natura è interno e non può essere conosciuto se non per volontà della persona. Lo stretto carattere confidenziale del fòro interno si coniuga con il diritto di cui gode ciascuna persona di tutelare la propria intimità (can. 220).
L’apertura dell’animo è invece la manifestazione dei propri sentimenti, delle proprie inclinazioni, del mondo interiore, ma senza oltrepassare e invadere l’ambito della coscienza, ovvero il rapporto con Dio e l’agire dell’uomo nella prospettiva del bene e del male. Il limite tra apertura dell’animo al superiore e manifestazione della coscienza è sottile e spesso l’oggetto coincide, ma è segnato dalla diversa finalità del religioso nella ricerca di aiuto a vivere una rinnovata fedeltà secondo la chiamata dello Spirito che potrebbe spingersi fino all’esame intimo della coscienza. La mens del legislatore trova riscontro in un caso analogo quando esorta gli alunni del seminario ad avere un proprio direttore spirituale “scelto liberamente, al quale possa aprire con fiducia la propria coscienza” (can. 246 §4). Anche nel caso che riguardi solo l’ambito del fòro interno non sacramentale viene sottolineata la piena libertà del religioso di scegliere a chi indirizzarsi per la direzione della coscienza (can. 630 §1) Per quanto riguarda il rapporto tra religiosi e superiori il can. 630 §5 non esclude che il religioso possa rivolgersi ai propri superiori per aprire il proprio animo, ma la preoccupazione del legislatore è di tutelarlo per evitare che il superiore si addentri nella sua coscienza come se ci fosse un’ultima frontiera da abbattere e un ambito della persona da espugnare. Non è infrequente, infatti, che oggi si venga a conoscenza con maggiore facilità di metodi esercitati all’interno di certi enti associativi come sistema di controllo e di potere che va sotto il nome di dominio delle coscienze. Tutto questo non ha nulla di ecclesiale. Se da un lato si afferma in modo categorico il diritto del religioso di tutelare la propria intimità e non essere indotto dal superiore a manifestargli la propria coscienza, dall’altro il can. 630 §5 esorta il religioso a nutrire fiducia verso il superiore come passaggio necessario per aprirgli il proprio animo ed essere aiutato e accompagnato. Si tratta di reciproca
fiducia che potrà affermarsi se il superiore per primo si rende credibile nello svolgimento della sua funzione di magister spiritus e nell’esercizio della sua autorità che gli è data a beneficio della santificazione di ciascun membro. Resta fermo che il superiore non può obbligare il religioso a qualunque forma di rivelazione sia come apertura dell’animo che come manifestazione della coscienza. Rispettando l’ambito di competenza del confessore e del direttore spirituale, il can. 630 §5 esorta il religioso a guardare con fiducia al superiore e ad aprirgli il proprio animo, cioè quel mondo che, pur non riguardando il fòro interno, si va disvelando in un dialogo personale e al tempo stesso aiuta il superiore a svolgere il compito di responsabile e guida spirituale e apostolica della comunità dei fratelli. Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza non sono sinonimi e il legislatore lo sottolinea mettendo la seconda sotto la specifica tutela giuridica in forma di divieto rivolta ai superiori. Questo vuole essere segno di come la Chiesa intenda il rapporto tra superiore e suddito e l’esercizio della potestà d’ordine e di governo. La teologia di Dante in un trittico del cardinale Ravasi di Andrea Drigani · «A l’etterno dal tempo»: con questo verso della Divina Commedia (Par XXXI,38) ha preso le mosse la lectio del cardinale Gianfranco
Ravasi sulla teologia di Dante, tenutasi venerdì 28 maggio a Firenze nella Basilica di Santa Croce. Il cardinale ha esordito ricordando, cioè riportando al cuore, che è lo stesso Dante a ritenere la sua opera di natura teologica, tanto da definirla il «poema sacro al quale ho posto mano e cielo e terra» (Par XXV,1-2). Ravasi ha quindi osservato come la conoscenza della teologia dantesca non è facile, ma richiede un itinerario, un viaggio, una scalata, che in particolare verso la fine può essere faticosa. Il cardinale ha proposto un ideale trittico per aiutare la comprensione di Dante Poeta-Teologo e Teologo-Poeta. Il primo quadro del trittico è Dante credente e uomo di chiesa, il secondo riguarda l’essenza della teologia dantesca, il terzo la riflessione sulle virtù teologali, in special modo sulla fede, così come si trova nel Canto XXIV del Paradiso. Nel primo quadro si possono collocare l’Enciclica «In praeclara summorum», del 1921, di Benedetto XV, la Lettera Apostolica «Altissimi cantus», del 1965, di San Paolo VI e la Lettera Apostolica «Candor lucis aeternae» di Francesco. San Paolo VI ha osservato che la voce di Dante si levò, in modo sferzante e severo, contro il comportamento degli ecclesiastici, anche papi, ma tutto ciò non ha mai scosso la sua fede cattolica e la sua appartenenza alla Chiesa. Il secondo quadro riguarda l’essenza della teologia dantesca che si può compendiare in quella parola «Trasumanar» (Par I, 70), indicante il cammino dell’uomo verso l’Oltre e verso l’Altro, come pure la condiscendenza (synkatabasis) di Dio verso gli uomini, sovente richiamata da San Giovanni Crisostomo. L’essenza della teologia di Dante, ha osservato Ravasi, coincide con l’essenza del Cristianesimo, cioè l’Incarnazione, dove l’eternità entra nel tempo, la realtà viene trasformata ma conservata, dove nella visione della Trinità «mi parve pinta la nostra effige» (Par XXXIII, 131).
Il cardinale ha quindi rilevato che la teofania ci precede ed eccede, rammentando le parole di Manfredi: «Orribil furon li peccati miei: ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei» (Purg III,121-123). Il terzo quadro del trittico s’incentra nel Canto XXIV del Paradiso ove Dante dinanzi ad un «sodalizio eletto» (i santi del Paradiso), è sottoposto ad un esame di teologia, scienza e fede, da parte di un esaminatore speciale: l’apostolo San Pietro. Si tratta di un esame in forma dialogica con cinque domande e cinque risposte. Alla prima domanda «fede che è», Dante risponde con la Lettera agli Ebrei: «Fede è sustanza di cose sperate ed argomento delle non parventi; e questa pare a me sua quidditate». La seconda domanda concerne gli «argomenti», e la risposta è che dalla fede si debbono trarre gli argomenti (sillogizzare), poiché la ragione non si oppone alla fede. La terza domanda riguarda il fondamento della fede e la risposta la indica nella parola di Dio, nell’Antico e Nuovo Testamento («in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia»). La quarta domanda attiene alla prova della fede che Dante dice di basarsi sui miracoli. La quinta domanda è sulla veridicità dei miracoli alla quale Dante fa presente come il più grande miracolo è stato quello della conversione al cristianesimo dei pagani ad opera di uomini, come i discepoli, pieni di limiti e di difetti, che senza lo Spirito Santo non avrebbero potuto fare nulla. Dante proclama, al termine dell’esame, la sua professione di fede: «Io credo in uno Dio solo ed eterno, che tutto ‘l ciel muove, non moto, con amore e con desio» . Il desiderio – ha
rammentato il cardinale Ravasi – nel suo significato etimologico latino de– sidus, vuol dire mancanza di stelle, cioè avvertire la mancanza di stelle, proprio quelle stelle che concludono tutte e tre le cantiche del «poema sacro». «Mi ricordai di quella parola del Signore…»: la trasmissione dei detti di Gesù di Stefano Tarocchi · Nel libro degli Atti è ben conosciuto l’episodio di Pietro che a Cesarea marittima si incontra, chiamato dallo Spirito con il centurione Cornelio, i suoi familiari e i suoi amici, che si conclude con la discesa dello Spirito su quanti non erano stati ancora battezzati: «i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in lingue e glorificare Dio» (At 10,45-46) [Per la verità la traduzione CEI 2008 riporta «parlare in lingue», con l’aggiunta dell’aggettivo “altre”, che nel testo greco non esiste: sicuramente un refuso per assonanza ad altri testi degli Atti]. Quindi il libro degli Atti riporta la reazione dei fedeli
circoncisi, quando l’apostolo rientra in Giudea e quindi a Gerusalemme: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!» (At 11,3), è molto interessante approfondire la risposta di Pietro. Dapprima rievoca, nello stile dell’autore degli Atti, l’intero avvenimento, e quindi conclude: «avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo discese su di loro, come in principio era disceso su di noi. Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”. Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?» (At 11,15-17). Ciò che dice Pietro nella narrazione degli Atti degli Apostoli sembra riprendere il colloquio del Signore con i discepoli prima del momento della sua definitiva ascesa al cielo: «mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (At 1,4-5). Tuttavia, le parole di Pietro hanno una caratteristica peculiare: l’uso del verbo «ricordare» («mi ricordai allora di quella parola del Signore»), come più avanti leggiamo anche nelle parole di Paolo che si rivolge ai presbiteri (ed episcopi!) di Efeso a Mileto: «ricordando le parole del Signore Gesù che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere”» (At 20,35). Troviamo lo stesso pensiero anche nella prima tradizione cristiana: «tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio che ricevere. Contenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi» (1 Clem 2,1). Jeremias, a proposito di Atti, ipotizza presumibilmente un proverbio, mutuato dal mondo greco romano,
che è stato posto sulla bocca di Gesù. Si può addirittura scomodare addirittura lo storico greco Tucidide(V sec. a.C.), che così scrive nella sua Guerra del Peloponneso: «gli Odrisii – una popolazione dell’antica Tracia, regione che corrisponde alla Bulgaria e alla Turchia di oggi – avevano istituito una legge opposta a quella del regno di Persia, legge che vige anche presso gli altri Traci, cioè la legge del prendere invece che dare (ed era più vergognoso il non dare, se pregato, che il non ottenere dopo aver avere richiesto)». Ma il verbo fondamentale è proprio «ricordare» («ricordando le parole del Signore Gesù…»). Questo verbo sembra particolarmente importante nella raccolta e nella conservazione dei detti del Signore, a partire dalla stessa tradizione dei Vangeli. Così abbiamo nel racconto della Passione: «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte» (Lc 22,61). Ma anche nel vangelo di Giovanni: «Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”» (Gv 15,20); «perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (Gv 18,9). E prima ancora in Paolo si legge: «sulla parola del Signore, infatti, vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti» (1 Ts 4,15). Tuttavia è significativo che nella tradizione dei Vangeli sinottici il detto di Gesù messo sulle labbra di Pietro venga riportato sotto altra forma, cioè come parola di Giovanni Battista. Così leggiamo in Marco: «io vi ho battezzato con acqua, ma
egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,8); in Matteo abbiamo: «io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11). E, infine, in Luca leggiamo: «poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16). Quest’ultima immagine è ripresa anche nel libro degli Atti: «diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (At 13,25). Si possono fare varie ipotesi sul motivo dello “spostamento” da Gesù al Battista della stessa espressione circa il battesimo. Certo. Quando i cristiani si sono appropriati i detti della tradizione del Battista – la novità appare negli Atti degli Apostoli, scritti dallo stesso autore del III Vangelo – è rimasta intatta un’evidente connotazione messianica: «viene colui che è più forte di me», per evidenziare la differenza tra Gesù e il Battista (Bovon) che avrà il suo apice paradossale nel IV Vangelo, con ben altre prospettive. È degno di nota, però, che i cristiani, pur sottolineando la distanza fra Giovanni e Gesù, sono rimasti fedeli anche alla figura e all’insegnamento del Battista. Ciò che l’autore del
terzo Vangelo dice nel libro degli Atti sembra quasi far autenticare l’insegnamento del Battista da parte del Signore risorto, pur adattandolo al contesto in cui è inserito. In At 1,5 la promessa riguarda solo gli apostoli e la primitiva comunità giudeo-cristiana: «voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». In Atti 11,15-17, invece, la promessa riguarda Cornelio e la comunità che si fa cristiana a partire dal mondo pagano: «voi sarete battezzati in Spirito Santo». Ma il tutto si svolge nella memoria che conserva e trasmette le parole del Signore Gesù in tutto il loro prezioso significato. Rivincita della sociologia sulla matematica in economia di Giovanni Campanella · Sul finire del mese di gennaio 2021, la casa editrice Luiss University Press ha pubblicato un libro intitolato Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo e scritto da Mauro Gallegati, con prefazione di Francesco Saraceno. Mauro Gallegati è nato a Macerata l’8 marzo 1958. Si è laureato in Scienze Politiche all’Università di Macerata e nel
1989 ha conseguito il dottorato presso l’Università degli studi di Ancona, sotto la supervisione di Hyman Minsky, con una tesi sulla fragilità finanziaria. È stato presidente della società ESHIA (Economic Science with Heterogeneous Interacting Agents) dalla fondazione, 2006, al 2012. Attualmente insegna macroeconomia avanzata presso l’Università Politecnica delle Marche, nella facoltà di economia “Giorgio Fuà”. «I suoi interessi di studio riguardano i temi della complessità in economia e l’applicazione, in economia, di modelli basati sull’interazione tra agenti eterogenei, per il superamento di quelli basati sull’agente rappresentativo. (…). Con Joseph Stiglitz ha pubblicato lavori sullo sviluppo della teoria dell’informazione asimmetrica e degli agenti eterogenei e sulle relative applicazioni. (…). Con Dani Rodrik, Alan Kirman, James Galbraith e altri, ha sottoscritto il “monito degli economisti”, un documento critico verso le politiche europee di austerity pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013» (vedi) Francesco Saraceno è nato a Roma nel 1967. Insegna macroeconomia internazionale ed europea a Sciences Po e alla Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di congiunture economiche, e membro del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy. Il libro in questione mette in evidenza le debolezze delle basi su cui poggiano i modelli previsionali dell’attuale pensiero economico mainstream, al quale tra l’altro attingono i principali policy maker di oggi, con danno di cittadini costretti a subire politiche economiche tutt’altro che foriere di vantaggi. Sulla scia degli strabilianti successi della fisica, verso la fine dell’Ottocento un sempre maggior numero di economisti ha incominciato a impiegare rigorosi modelli matematici anche all’interno del loro campo. Questo ha dato per lungo tempo alla scienza economica un’aura luminosa di scienza oggettiva
non opinabile. Ne sono scaturiti bei modelli, formalmente molto eleganti e coerenti, che hanno acquisito tra gli studiosi un’autorevolezza tale per cui controbattere ad essi faceva incorrere nel rischio di passare per ignoranti. Da questi modelli è emerso il dogma neoliberista dell’intoccabilità dei mercati, capaci, da soli e liberi di agire, di traghettare l’umanità verso l’ottimo. Perfino gravi crisi economiche non previste, come la Grande Depressione del ’29, lo shock degli anni ’70, il caos finanziario del 2008, non sono riuscite ad affossare il dogma neoliberista e, anzi, è sembrato addirittura che non solo ragionamenti ben ponderati ma anche la stessa realtà non fosse legittimata a contraddire ciò che i modelli matematici “legiferavano”. La grave crisi economico-finanziaria da pandemia era difficilmente prevedibile in effetti; però ha contribuito a mettere in luce ulteriormente la contestabilità di certi assiomi. Qual è il problema alla fonte? Fisica ed economia non sono la stessa cosa. Tra l’altro la fisica ha affinato e cambiato i propri strumenti nel tempo, cosa che non è quasi successa in economia. Le persone non sono atomi. Le persone interagiscono tra di loro molto più di quanto lo facciano gli atomi. Il comportamento delle persone è assai meno prevedibile rispetto al comportamento degli atomi. La matematica è uno strumento potente ma bisogna sempre andare cauti con le previsioni. La matematica è fondamentale per le rilevazioni e l’analisi della realtà ma non può generare leggi in economia: l’economia è un osso troppo duro anche per la matematica. Riprendono piede approcci più umanistici, antropologici, sociologici nell’analisi economica e modelli matematico-statistici più cauti e non lineari, che tengono conto di più eterogeneità, più complessità e che già all’inizio mettono umilmente in
conto la propria fragilità. Vilfredo Pareto, celebre economista di fine ‘800, fu inizialmente assai impressionato dalle formule matematiche introdotte in economia da Léon Walras, altro grandissimo economista ottocentesco (considerato il più grande da Schumpeter), tanto da arrivare ad affermare: «”L’economia non abbia timore di diventare un sistema assiomatico-deduttivo, ipotizzando agenti e processi economici idealizzati, così come la fisica utilizza con grande profitto entità come i corpi rigidi, i fili inestensibili e privi di massa, i gas perfetti, le superfici prive di attrito”. In realtà i dubbi di Pareto sulla metodologia walrasiana si fanno sempre più insistenti nel tempo – in una lettera a Pantaleoni lamenta il fatto che Walras “non vede ragioni al di fuori del metodo matematico” – poiché l’aggregato è più della somma degli addendi e il comportamento non razionale è di pari importanza rispetto a quello razionale» (p. 37) Alla fine Pareto si “convertì”, fece un’inversione, abbandonò l’economia matematica e passò a concentrarsi sulla sociologia. Pio XII e Giorgio La Pira sul carattere internazionale e la
missione di Gerusalemme. di Carlo Parenti · I drammatici recenti scontri tra israeliani e Hamas nella Striscia di Gaza e i palestinesi nei territori occupati con il tristissimo bilancio dei morti, dei feriti, delle sofferenze e delle distruzioni mi inducono a una riflessione sul fatto che su questa terra di Gerusalemme, Israele, Palestina -che miliardi di persone al mondo considerano Santa- non può continuare a spargersi sangue. Sangue innocente, sangue di civili e donne, sangue di bambini all’interno di un mosaico di culture e religioni, che innanzitutto è mosaico di persone. La guerra, come ci ricorda sempre Papa Francesco «è la negazione di tutti i diritti e se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli». Questo ha per noi cristiani un significato assoluto, ontologico e teleologico, proprio perché la Terra Santa e in particolare Gerusalemme è il luogo che non può essere di alcuno, ma è del mondo, vocata ad essere la città del dialogo e della Pace. Nel rinviare ai recenti appelli di Papa Francesco voglio qui ricordare due encicliche di Pio XII e la visione del venerabile Giorgio La Pira. Vi trovo temi attualissimi e purtroppo irrisolti. Pio XII, nella sua ”IN MULTIPLICIBUS CURIS” – Nuove pubbliche preghiere per la pacificazione della Palestina del 24 ottobre 1948 (vedi), agli albori della spartizione della Palestina, sottolineò il carattere internazionale che Gerusalemme avrebbe dovuto assumere per il significato che essa ha per ebrei, cristiani e musulmani. Vi si legge tra l’altro:
«…Parlando, prima ancora che il conflitto armato avesse inizio, a una delegazione di notabili arabi venuta a renderCi omaggio, manifestammo la Nostra viva sollecitudine per la pace in Palestina e, condannando ogni ricorso ad atti violenti, dichiarammo che essa non poteva realizzarsi se non nella verità e nella giustizia, cioè nel rispetto dei diritti di ognuno, delle tradizioni acquisite, specialmente nel campo religioso, come pure nello stretto adempimento dei doveri e degli obblighi di ciascun gruppo di abitanti. Dichiarata la guerra, senza discostarCi dall’attitudine di imparzialità impostaCi dal Nostro ministero apostolico che Ci colloca al di sopra dei conflitti dai quali è agitata la società umana, non mancammo di adoperarci, nella misura che dipendeva da Noi e secondo le possibilità che si sono offerte, per il trionfo della giustizia e della pace in Palestina e per il rispetto e la tutela dei luoghi santi… «…Noi non crediamo che il mondo cristiano potrebbe contemplare indifferente o in una sterile indignazione quella terra sacra, alla quale ognuno si accostava col più profondo rispetto per baciarla col più ardente amore, calpestata ancora da truppe in guerra e colpita da bombardamenti aerei; non crediamo che esso potrebbe lasciar consumare la devastazione dei luoghi santi, sconvolgere il sepolcro di Gesù Cristo. Siamo pieni di fiducia che le fervide suppliche che si innalzano a Dio onnipotente e misericordioso dai cristiani sparsi nel vasto mondo, insieme con le aspirazioni di tanti nobili cuori ardentemente solleciti del vero e del bene, possano rendere meno arduo agli uomini che reggono i destini dei popoli il compito di far sì che la giustizia e la pace in Palestina divengano una benefica realtà e, con l’efficace cooperazione di tutti gli interessati, si crei un ordine che garantisca a ciascuna delle parti al presente in conflitto, la sicurezza dell’esistenza e insieme condizioni fisiche e morali di vita capaci di fondare normalmente uno stato di benessere spirituale e materiale. Siamo pieni di fiducia che queste suppliche e queste
aspirazioni indice del valore che ai luoghi santi annette così gran parte della famiglia umana, rafforzino negli alti consessi, nei quali si discutono i problemi della pace, la persuasione dell’opportunità di dare a Gerusalemme e dintorni, ove si trovano tanti e così preziosi ricordi della vita e della morte del Salvatore, un carattere internazionale che, nelle presenti circostanze, sembra meglio garantire la tutela dei santuari. Così pure occorrerà assicurare con garanzie internazionali sia il libero accesso ai luoghi santi disseminati nella Palestina, sia la libertà di culto e il rispetto dei costumi e delle tradizioni religiose». Sul tema Papa Pacelli era più brevemente intervenuto già nello stesso anno , il 1° maggio, nell’altra Enciclica AUSPICIA QUAEDAM- Preghiere nel mese di maggio per la concordia delle nazioni (vedi) . «…vi è al presente un altro particolare motivo, che affligge e angustia vivamente il Nostro cuore. Intendiamo riferirci ai luoghi santi della Palestina, che già da lungo tempo sono turbati da luttuosi avvenimenti e sono quasi ogni giorno devastati da nuovi eccidi e rovine. Eppure se vi è una regione al mondo, che deve essere particolarmente cara ad ogni animo degno e civile, questa è di certo la Palestina, da cui fino dagli oscuri primordi della storia è sorta per tutte le genti tanta luce di verità; in cui il Verbo di Dio incarnato fece annunziare da cori di angeli la pace a tutti gli uomini di buona volontà, e nella quale infine Gesù Cristo, sospeso all’albero della croce, recò la salvezza a tutto il genere umano e, stendendo le braccia quasi a invitare tutti i popoli ad un amplesso fraterno, consacrò con l’effusione del suo sangue il grande precetto della carità. Desideriamo quindi, o venerabili fratelli, che questo anno le preghiere del mese di maggio abbiano in modo particolare lo scopo di impetrare dalla ss. Vergine che finalmente le condizioni della Palestina siano conciliate secondo equità, e che ivi pure trionfino felicemente la concordia e la pace».
Il venerabile Giorgio La Pira si soffermava da par suo spesso e volentieri sulla missione di Gerusalemme (le citazioni che seguono sono tratte da: G. La Pira , Lettere alle Claustrali , Milano Vita e Pensiero,1978; pp. I-XX; 1-554- in particolare dalla Lettera XVIII, pp. 523-26). «Il Signore dice -nella Sacra Scrittura- a proposito di Gerusalemme: fare di questa città bellissima (bellezza teologale!), il centro di attrazione dei popoli. Urbs perfecti decoris, gaudium universae terrae (città di perfetta bellezza, gioia di tutta la terra), come diceva Geremia di Gerusalemme; Fundatur exsultatione universae terrae mons Sion (Sal.47): Sion è fondata per recare esultanza a tutta la terra; Fundamenta eius in montibus sanctis (Sal 86): città cioè edificata sui fondamenti di roccia della Chiesa e della Santità». Aggiungeva che essa doveva «essere a suo modo, nella sua orbita civile centro missionario di irradiazione, di attrazione e di pace, per tutti i popoli, per tutte le genti». E si soffermava sulla «visione messianica che di Gerusalemme ebbe il profeta Isaia (e i profeti di Israele)[…] Penso ai testi più celebri di Isaia: “ … Sorgi, risplendi, o Gerusalemme… alza il tuo sguardo in giro e guarda; tutti costoro (le genti) si sono raccolti attorno a te, sono a te venuti “ (60, 1-5 ecc.). E sarà negli estremi giorni il monte della casa del Signore preparato in cima ai monti, innalzato sopra i colli e vi affluiranno tutte le genti. E popoli numerosi accorreranno dicendo: venite, saliamo
al monte del Signore e alla casa del Dio di Giacobbe… E giudicherà le nazioni e farà da moderatore fra le moltitudini dei popoli; e trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci e non brandirà più spada gente contro gente e non si eserciteranno più oltre a far guerra (Is. 2, 2 ss.)». «E penso pure al testo dell’Apocalisse, relativo esso pure alla Gerusalemme messianica: “… E cammineranno le genti Sua luce, e i re della terra porteranno ad essa la lor gloria e l’onore “ (Apoc. 21, 24-26). Madre Reverenda, ecco il quadro di forze e di pensieri entro cui si situa il prossimo incontro fiorentino di Pentecoste (relativo alla “pace di Gerusalemme”e preparatorio del Colloquio di autunno)[si riferisce ai Colloqui Mediterranei da lui promossi a Firenze]: il “fiume dell’orazione” si muova con grande impeto verso questo “punto” -la “pace di Gerusalemme, la pace di Israele e di Ismaele “ -, attorno al quale si muove (ed in modo tanto accelerato!) la storia odierna del mondo». «Bisogna vincere: bisogna, cioè, che la pace torni ad abitare a Gerusalemme, la città della pace. Gesù lo vuole; la Madonna lo vuole; gli Apostoli lo vogliono; lo vogliono i Patriarchi ed i Profeti; lo vogliono tutti i santi del cielo; lo vogliono tutti i popoli della terra: lo esige la Strategia della Provvidenza che non può introdurre -per così dire- i popoli della nuova epoca spaziale e millenaria della storia, senza aver prima pacificato Gerusalemme!» La rivoluzione della gentilezza
di Stefano Liccioli · Di solito quando pensiamo alla gentilezza ci vengono in mente le buone maniere. Qualcosa che apparentemente riguarda più un codice di comportamento che l’amore evangelico, come se essere cortesi con le persone fosse un atteggiamento meramente esteriore e di secondaria importanza rispetto al comandamento di Gesù di amarci gli uni gli altri. Personalmente ho sempre pensato invece come la gentilezza, quando è una disposizione autentica dell’individuo, abbia la capacità di tradurre in gesti e parole concrete l’amore predicato da Cristo. A rafforzarmi in questa convinzione è stata un’affermazione dell’intellettuale francese Jean Bastaire che lessi alcuni anni fa e chi mi annotai per salvarla dai rischi dell’oblio:« La cortesia è la prima traccia del regno di Dio. Essa riposa sul riconoscimento dell’esistenza dell’altro. Non siamo noi soli a contare. L’altro conta come noi. Con l’altro dobbiamo trasformare l’indifferenza in comunione e l’emarginazione in rispetto. Se la cortesia o la gentilezza non fosse che un semplice codice di regole, sarebbe una ben magra cosa. In realtà essa è il tirocinio alla fraternità, al rispetto reciproco è un’educazione alla “misericordia”. Lasciarla perdere è una disfatta dell’Amore». Ho trovato un bella consonanza tra queste parole di Bastaire, scomparso nel 2013, e quello che Papa Francesco ha scritto nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” esplicitando che un frutto dello Spirito Santo (cfr. San Paolo in Galati 5,22) è proprio uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. Ha affermato il Santo Padre:« La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e
delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”, invece di “parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano” » (FT 223). A volte siamo tentati di pensare che quando si tratta di aiutare gli altri quello che conta è la sostanza e non la forma. No, non basta la sostanza, a mio avviso, ci vuole anche una forma che rafforzi la sostanza. Occorre uno stile che sia coerente con le nostre buone intenzioni, una serie di attenzioni che accompagnino i nostri atti di carità. D’altronde Gesù ce l’aveva detto: non è un bicchiere d’acqua qualunque quello che dobbiamo dare ai piccoli, ma deve essere fresca (Cfr Mt 10,42). Lo ripeteva anche Mons. Tonino Bello scrivendo:«Concedere uno spazio non vale, se non si sa offrire del tempo. Il tetto non copre: ci vuole un lembo di vita. La minestra non scalda: occorre un alito umano. Dare un letto non basta, se non si sa dare la “buona notte”». È l’attenzione al dettaglio che fa la differenza, è la cura del nostro modo di rapportarci agli altri che qualifica chi siamo veramente. Chi ha fatto del volontariato che lo ha portato ad incontrare persone bisognose sa quanto sia importante aiutarle con discrezione, stando attenti a non ferirle, umiliarle e rispettando sempre la loro dignità. Seguire la via della gentilezza è oggi ancor più importante perchè in un contesto frenetico come quello attuale, in cui «l’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività
aumenta» (FT 222). Compiere la rivoluzione della gentilezza significa invece scommettere su relazioni umane liberate dall’aggressività, dall’indifferenza nei confronti degli altri. Osserva in conclusione Papa Francesco:«Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti» (FT 224). Gaetano Salvemini (1873-1957) e gli antifascisti cattolici di Giovanni Pallanti · Gaetano Salvemini (1873-1957) professore di storia moderna all’Università di Firenze, fu interventista e combattente nella Prima guerra mondiale. Eletto deputato per gli ex combattenti di sinistra, dopo il delitto Matteotti (1924) diventò un durissimo avversario della nascente dittatura fascista. Salvemini sin dal 1920, appena nati i fasci di combattimento fondati da Mussolini nel 1919, fu avversario del duce del Fascismo. Nel 1925 fu cacciato dagli studenti fascisti e dalla viltà dei professori dall’insegnamento
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