"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann

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"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
«Il mio viaggio con padre
Alexander» L’esperienza della
vita e della teologia nei
diari di Juliana Schmemann
                     di Dario Chiapetti · Sono pagine dense
                     di storia, di storia della teologia e di
                     storia dello spirito quelle del diario
                     di Juliana Osorgin (1923-2017) (Il mio
                     viaggio con padre Alexander, Lipa, Roma
                     2021, 111 pp., 12 euro), moglie di
                     Alexander Schmemann (1921-1983) – il
                     grande teologo ortodosso che ha dato un
                     prezioso contributo al rinnovamento
                     della teologia orientale, oltre che alla
                     vita ecclesiale ortodossa americana,
                     concentrandosi     soprattutto    sulla
liturgia, l’ecclesiologia e la storia della Chiesa – che il
lettore italiano ha tra le mani, tradotte dall’originale
russo.

In non molte pagine si è immersi nelle vicende di Juliana e
Alexander, dei loro genitori, nonni, figli e nipoti, che
trasportano chi legge dall’Europa dell’est della Prima Guerra
Mondiale alla Francia della Seconda Guerra Mondiale e del dopo
guerra agli Stati Uniti d’America quasi dei giorni nostri.
Sono presentati con toni vivi i drammi delle guerre, le
difficoltà dell’emigrazione, ma anche la luce che scaturisce
dalla fede, vissuta nella famiglia e nella liturgia, oltre che
il realizzarsi, in mezzo a queste circostanze, dei disegni di
Dio, sorprendentemente rilevanti per la Chiesa e il mondo.

Juliana racconta di sé, della sua nascita in Germania da una
famiglia nobile russa, emigrata per la guerra civile russa,
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che vanta tra i loro avi santa Juliana di Lazarevo del XVII
secolo. Narra di quando, ancora piccola, si trasferì con la
famiglia a Parigi, in un sobborgo presso una chiesa, il cui
sacerdote era il nonno. Ricorda la sua formazione presso un
collegio cattolico e il conseguimento del baccalaureato e
della licenza in lettere alla Sorbona. Ripercorre l’episodio
di quando, a 17 anni, presso l’Istituto di teologia Saint
Serge, dove si recò per fare visita a suo zio, uno dei
fondatori, incontrò il diciannovenne Alexander, nato in una
famiglia russa di origine tedesche e arrivato in Francia
dall’Estonia già da piccolo, il quale aveva iniziato lo studio
della teologia, dopo anni di lenta, travagliata, ma
progressiva e profonda maturazione spirituale. Racconta poi di
quando nel 1943 si sposarono e nel 1945 Alexander divenne
sacerdote. Rievoca come all’Istituto Saint Serge, dove questi
redigeva il dottorato e muoveva i primi passi
nell’insegnamento, vi erano prestigiosi insegnanti, come
Sergej Bulgakov, ma anche altri, tra i vertici, che non davano
spazio a quelle nuove figure che avrebbero rotto alcuni
equilibri. Riferisce di come, all’epoca, il professor Georgij
Florovskij, emigrato negli Stati Uniti, fermamente convinto
dal potenziale dell’azione missionaria dell’Ortodossia in
America, invitò Alexander ad insegnare al piccolo seminario St
Vladimir a New York di cui era a capo. Coinvolgente è la parte
che informa sulla scelta di Schmemann di accettare, rifiutando
una proposta dell’Università di Oxford, e sul trasferimento,
con Juliana e i tre figli che nel frattempo erano nati, mosso
dal desiderio di avere una vita attiva come insegnante. Ella
racconta con ammirazione di come Alexander si spendesse
intensamente per rendere il Seminario una realtà accademica
altamente qualificata, oltre che un luogo di vita fraterna.
Riferisce della vita economicamente precaria ma anche intensa
per quanto concerneva lo sviluppo del Seminario, così come
pure delle incomprensioni e degli scontri tra suo marito e
Florovskij che portarono quest’ultimo a ritirarsi. Ricorda poi
come Alexander si buttò a capofitto nella sua attività
teologica e didattica, divenendo un punto di riferimento per
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l’Ortodossia americana, di come si adoperò per l’ottenimento
dell’autocefalia dalla Chiesa ortodossa russa, che dopo molte
difficoltà, nel 1970, arrivò, e di come trascinava in
un’intensa amicizia con sé non credenti, ebrei ed ex marxisti.
Ella rammenta inoltre come, oltre a tutto ciò, vi fu l’impegno
trentennale con Radio Liberty, per la quale egli trasmise
innumerevoli sermoni in Unione Sovietica, ascoltati e
apprezzati, tra gli altri, da Aleksandr Solženicyn, col quale
divenne grande amico. Juliana confessa che la famiglia si
sentì finalmente a casa grazie allo spirito accogliente della
vita cristiana in America e giunge così all’ultima fase della
vita di Alexander, caratterizzata dall’impegno per la famiglia
– nel frattempo ingrandita dai nipoti, dei quali curò la
formazione cristiana – e dall’esperienza della malattia (un
tumore ai polmoni che aveva generato metastasi al cervello)
che lo trasferì in «un altro livello di esistenza». Il diario
termina con le pagine, che trapelano profondo amore, sulla
morte di Alexander nel 1983 e con l’ultimo testo che egli
compose per la radio, che rivela lo spirito con cui egli la
visse: il suo mirabile Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace.

Ciò che vividamente emerge da questo diario è quella profonda
unitarietà della vita – che compone affetti familiari,
vicissitudini storiche, personali, inquietudini, difficoltà,
aspirazioni, impegno teologico, ecclesiale, pastorale – che si
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fa spazio nella vita nello Spirito e che la liturgia prefigura
e anticipa come memoria del suo stato definitivo del regno.

Tutto è carico di disarmante umanità. La teologia, per
Alexander Schmemann, altro non era che l’unica cosa che,
forse, dovrebbe essere: l’esposizione, più o meno sistematica,
dei contenuti dogmatici appresi nell’esperienza personale come
Chiesa, e riconoscibile nel suo statuto servile nei confronti
della comunità cristiana e della famiglia umana.

«Un giorno Alexander stava camminando lungo una strada di
Harlem quando un mendicante gli si avvicinò. Era un grosso
uomo di colore e chiaramente una persona gentile. “Padre, la
prego, vorrei parlarle”. Alexander allungò la mano alla tasca,
gli porse degli spiccioli e gli disse di comprarsi un caffè e
del cibo. “No, no, padre”, disse l’uomo, “Non mi servono i
suoi soldi, voglio solo parlare con lei”. Allora Alexander lo
portò in un caffè e gli chiese: “Dunque, di cosa vuole
parlare?”. Più tardi Alexander raccontò che c’era una premura
nella sua voce. “Padre, mi spieghi la Santissima Trinità. Chi
sono e perché sono tre?”. Alexander non dimenticò mai questa
conversazione. La considerava l’incontro teologico umano e
divino più significativo della sua vita».

La Vita di Cristo dell’abate
Ricciotti   tra   sangue   e
vangelo.
"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
di Carlo Nardi · Precisamente:
                              Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù
                              Cristo [anno 1941] con una
                              introduzione critica del Autore
                              e   una   premessa   di   Luigi
                              Santucci,     I-II,     Arnoldo
                              Mondadori     Editore,    prima
                              edizione Oscar Mondadori nel
                              settembre del 1974.

Prefazione alla 1a edizione

La prima vaga idea di scrivere questo libro mi venne molti
anni fa in circostanze straordinarie. Ero stato trasportato in
un ospedaletto da campo, che stava rimpiattato sotto un bosco
d’abeti in un vallone delle Alpi: per qualche tempo rimasi là
tra la vita e la morte, più vicino a questa che a questa;
notte e giorno il vallone rintronava schianto delle granare,
attorno a me gridavano feriti e rantolati moribondi, il lezzo
delle cancrene che ammorbava l’aria sembrava un preannunzio
del cimitero. Aspettano la mia sorte, a un certo momento
pensai che, se fossi sopravvissuto, avrei potuto scrivere una
Vita di Gesù Cristo; il vangelo di lui, infatti, stava là sul
mio pagliericcio, e le sue pagine ove le macchie di sangue si
erano sovrapposte a guise di rubriche alle lettere greche mi
parevano un simbolo intrecciato di vita e di morte.

Guarito che fui e tornato alla vita normale, quell’idea della
Vita di Gesù Cristo invece di attirarmi mi sgomentava, e ogni
volta che vi ripensavo ne avevo sempre più paura: eppure non
solo non mi abbandonava giammai, ma piuttosto diventava per il
mio spirito una specie di necessità. Come si fa istintivamente
di fronte alle necessità paurose, cominciai con girarle
dattorno, quasi per illudere me stesso: mi detti a pubblicare
studi su testi ebraici e siriaci, quindi una Storia d’Israele
e poi ancora la guerra giudaica di Flavio Giuseppe, ma la cera
roccaforte restava ancora là intatta nel bel mezzo nei mie
giri, risparmiata dalla mia paura. Ben poco mi scossero
"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
esortazioni d’amici e inviti d’autorevolissimi persone:
risposi immutabilmente per molti anni che le mie forze non
reggevano davanti a una Vita di Gesù Cristo.

Invece più tardi, contro ogni previsione, ho ceduto. Ma ciò è
avvenuto perché l’agonia dell’ospedaletto da campo, dopo tanti
anni, si è rinnovata e in circostanze assai peggiori: quando
cioè vidi che la tempesta di una nuova guerra s’addensava
sull’umanità, e che l’Europa secondo ogni più facile
previsione sarebbe stata nuovamente allagata di sangue, allora
mi parve che non la mia persona ma tutta intera l’umanità,
quella cosiddetta civile, giacesse moribonda con un vangelo
macchiato di sangue sul suo pagliericcio.

Quest’immagine divenne allora così imperiosa su di me fui
costretto ad obbedire: essendo tornato il sangue sul mondo,
bisognava pure il vangelo. E così il presente libro è stato
scritto mentre l’Europa era nuovamente in preda alla guerra
ossia a ciò ch’è la negazione più integrale del vangelo.

Se faccio queste confidenze al lettore non è per parlare della
mia insignificante persona: è invece per avvertite in quale
stato d’animo è stato scritto questo libro. La quale
avvertenza è, a parer mio, importantissima per giudicare ogni
biografia di Gesù: il lettore che avrà la pazienza di scorrere
l’ultimo capitolo all’Introduzione si convincerà facilmente
che le biografie di Gesù scritto dallo Strauss, del Renen, del
Loisy e di tanti ricevettero le loro particolari coloriture
soprattutto allo stato d’animo del rispettivo aurore.
Altrettanto avvenuto a me – e lo confesso onestamente –
giacché lo stato d’animo con cui ha scritto è stato quello di
uscite dal presente e raccogliermi nel passato, uscire dal
sangue e raccogliermi nel vangelo.

Ma appunto per questa ragione ho voluto fare opera
esclusivamente storico-documentaria: ha cercato cioè il fatto
antico e non la teoria moderna, la sodezza del documento e non
la friabilità d’una sua interpretazione in voga: ho perfino
"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
osato imitare la nota ‘impassibilità’ degli evangelisti
canonici, i quali non hanno né una esclamazione di letizia
quando Gesù nasce né un accento di lamento quando egli muore.
Ho mirato, dunque, a far opera di critica.

So benissimo che quest’ultima parola, comparsa critica è
soltanto demolitrice e la sua ultima conclusione dove essere
un ‘No’; ma non è affatto dimostrato che cotesti valentuomini
abbiano ragione, e tanto meno affatto dimostrato che cotesti
valentuomini abbiano ragione, e tanto meno che la loro
intenzione demolitrice sia risultata realmente efficace sui
documenti presi di mira: anche su questo punto l’ultimo
capitolo dell’Introduzione convincerà facilmente il lettore
spassionato e imparziale. Del resto cotesti demolitori sono
ormai quasi ‘superati’; naturalmente essi, dopo aver imperato
per parecchi anni, rifiutano di abdicare e rimangano
tenacemente attaccati ai loro metodi; ma, come è già avvenuto
per l’Antico Testamento, anche per il Nuovo la critica
programmaticamente demolitrice dei ‘vecchi’. Oggi, in forza
sia d elle recentissime scoperte documentarie sia di tante
altre ragioni, la saggia critica mira ad essere costruttrice e
la sua ultima conclusione vuole essere un ‘Si’. Compito
difficile, senza dubbio: ma la riluttanza anche provavo a
scrivere questo libro era causata specialmente da questa
difficoltà, di    essere   nello   stesso   tempo   critico   e
costruttivo.
"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
Per amore di chiarezza, e per non costringere il lettore a
ricorrere ad altri libri, ho dovuto riassumere
nell’Introduzione alcune poche pagine del volume secondo della
mia Storia d’Israele: trattavo infatti argomenti che ero
costretto a trattare anche qui. Non si cerchino argomenti che
ero costretto a trattate anche qui. Non si cerchino invece in
questo libro moltissime altre cose che esse, già troppo ampio,
non doveva né poteva trattare. Tale è il caso, ad esempio,
della bibliografia, che per il nuovo testamento forma quasi
una scienza a sé e richiederebbe un volume a parte. Solo
eccezionalmente mi sono indotto a citare qua e là alcuni pochi
lavori particolari, mentre per uno sguardo generale valgono –
e sono anche troppi – gli autori citati nell’ultimo capitolo
dell’Introduzione …

Roma, gennaio 1941

Ed ora mi ritrovo in un piccolo detto che abbraccia un mondo
intero con un dotto scritto che anela e induce verità.

Apertura     dell’animo     e
manifestazione          della
coscienza, due ambiti nella
vita intima del religioso a
confronto con il diritto alla
riservatezza (can. 630 CIC)
"Il mio viaggio con padre Alexander" L'esperienza della vita e della teologia nei diari di Juliana Schmemann
di Francesco Romano • La
                             relazione tra il voto di
                             obbedienza che obbliga il
                             religioso “a sottomettere la
                             propria volontà ai legittimi
                             superiori che fanno le veci di
                             Dio quando comandano secondo le
proprie costituzioni” (can. 601) e la libertà che gli è
“riconosciuta” per quanto riguarda il sacramento della
Penitenza e la direzione della coscienza (can. 630 §1), ci
porta a riflettere sul fòro interno della coscienza e le
possibili implicazioni nella vita consacrata. Sarà inoltre da
non sottovalutare la sfumatura linguistica di non irrilevante
significato che è resa presente con la distinzione tra
manifestazione dell’animo e manifestazione della coscienza
(can. 630 §5).

La   pratica   della   manifestazione   della   coscienza   va
affermandosi fin dagli albori del monachesimo come apertura
dell’animo all’abate, al superiore o al padre spirituale,
vista come strumento per la crescita spirituale nell’esercizio
delle virtù e il superamento delle difficoltà della vita
consacrata.

Con l’inizio della vita cenobitica secondo la regola di
Basilio il Grande (†379) viene ammessa l’esposizione delle
proprie mancanze al praepositus, cioè all’abate, quale guida
spirituale. Nella regola di S. Benedetto (†540) l’abate deve
conoscere lo stato dell’anima di ciascun monaco perché possa
averne cura e accompagnarlo nella via della perfezione,
soprattutto quando si tratta di peccati occulti, ma anche
conoscere le buone disposizioni e i frutti della grazia. La
manifestazione della coscienza all’abate è segno di totale
dipendenza e di umiltà dei monaci quando è fatta fuori dalla
confessione.

A partire dall’ottavo secolo la manifestazione della
coscienza, passo dopo passo, finisce per identificarsi con la
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manifestazione dei peccati e in alcuni casi si equivoca
nell’uso del termine confessione benché questa si mantenga
distinta. La necessità di avere sacerdoti nei monasteri per
amministrare l’assoluzione sacramentale fa sì che gli abati
chiedano l’ammissione all’ordine sacro di alcuni monaci perché
provvedano alla formazione spirituale dei loro confratelli
secondo il proprio carisma e tradizione senza dover ricorrere
a sacerdoti esterni. In questo modo la manifestazione della
coscienza finisce per confluire e confondersi con il
sacramento della confessione.

Fino al sedicesimo secolo la regola benedettina influenza le
costituzioni degli ordini religiosi e la manifestazione della
coscienza finisce per restare indistinta dalla confessione
sacramentale. Il Concilio Lateranense IV nel 1215 dispone che
i fedeli debbano confessarsi sotto pena di invalidità con il
“sacerdote proprio”, cioè il parroco proprio e per i religiosi
il proprio superiore procurando il cumulo delle due cariche di
confessore e direttore spirituale con il rischio di violare il
sigillo sacramentale o di commettere abusi nell’utilizzare le
conoscenze per il governo esterno dei sudditi.

Nella vita religiosa della Compagnia di Gesù entra l’obbligo
della manifestazione della coscienza da farsi al superiore o
al padre spirituale nella confessione per il miglior governo
dei sudditi e dell’istituto, come esigenza della vita
apostolica. Tale manifestazione della coscienza finirà per
essere proibita con la promulgazione del Codice di Diritto
Canonico del 1917, ma già con il decreto “Sanctissimum” del 26
maggio 1593 Papa Clemente VIII aveva proibito ai superiori di
obbligare i propri sudditi di confessarsi con loro e di
ricevere nel fòro interno sacramentale la manifestazione della
coscienza che era finita per diventare come una confessione
fatta al superiore fuori dal sacramento.

Il Papa Leone XIII approva nel 1890 il decreto della Sacra
Congregazione dei Vescovi e dei Regolari “Quemadmodum” dove
deplora che i superiori laici inducano direttamente o
indirettamente i loro sudditi alla rivelazione intima della
loro coscienza che corrisponde alla confessione, ma permette
che questi liberamente e spontaneamente manifestino il loro
animo per ricevere consiglio e aiuto nelle difficoltà. Il
decreto “Quemadmodum” è la fonte del can. 530 del Codex 1917
che proibisce ai superiori religiosi di indurre i sudditi a
manifestare loro la propria coscienza lasciando la
disponibilità di aprirsi con filiale fiducia solo ai superiori
se sono anche sacerdoti per manifestare i dubbi e le
afflizioni della propria coscienza. In questo modo il can. 530
con le parole “expedit […] si sint sacerdotes” fa una chiara
distinzione tra superiori sacerdoti e superiori laici
permettendo ai loro sudditi di esporre questioni di coscienza
solo se sacerdoti.

Si va quindi diffondendo l’idea che la normativa canonica
proibisca l’apertura dell’animo dei sudditi con i loro
superiori (can. 518 §3 Codex 1917) ai quali debba competere
solo il governo esterno della comunità e garantire
l’osservanza della disciplina. Tuttavia il can. 530 §2 del
Codex 1917 non proibisce al suddito di poter aprire
liberamente al superiore il proprio animo. In questo caso non
si ha violazione della propria intimità, ma apertura del cuore
perché possa ricevere luce sull’osservanza della vita
religiosa, l’inserimento nell’istituto, l’osservanza dei
consigli evangelici, l’orazione ecc. Un’apertura dell’animo
che restando nell’ambito del fòro esterno non comporta la
violazione della propria intimità con la manifestazione della
coscienza o la rivelazione dei peccati, ma al contrario offre
anche al superiore la possibilità di operare il giusto
discernimento e al suddito di farsi conoscere e guidare.
Basilio il Grande

L’attuale Codice di Diritto Canonico presenta la relazione di
fiducia tra religioso e superiore di cui al can. 630 §5 in
stretta continuità con il previgente Codex del 1917. Se da un
lato si proibisce ai superiori di coartare il diritto
originario alla debita libertà dei religiosi per quanto
riguarda il sacramento della Penitenza e la direzione della
coscienza (can. 630 §1), dall’altro i religiosi vengono
esortati a rivolgersi ai superiori con fiducia per aprire il
proprio animo con spontanea libertà, mentre è fatto assoluto
divieto ai superiori di indurli a manifestare la propria
coscienza in qualunque modo (can. 630 §5).

L’apertura dell’animo non corrisponde alla manifestazione
della coscienza che il legislatore si preoccupa di tutelare
per evitare abusi. Tra essi intercorre la distanza che c’è tra
il fòro esterno, il fòro interno sacramentale ed
extrasacramentale o fòro della coscienza quali ambiti che
corrispondono rispettivamente al superiore anche se laico, al
confessore e al direttore spirituale.

La manifestazione della coscienza è la libera rivelazione di
tutto ciò che per sua natura è interno e non può essere
conosciuto se non per volontà della persona. Lo stretto
carattere confidenziale del fòro interno si coniuga con il
diritto di cui gode ciascuna persona di tutelare la propria
intimità (can. 220).
L’apertura dell’animo è invece la manifestazione dei propri
sentimenti, delle proprie inclinazioni, del mondo interiore,
ma senza oltrepassare e invadere l’ambito della coscienza,
ovvero il rapporto con Dio e l’agire dell’uomo nella
prospettiva del bene e del male. Il limite tra apertura
dell’animo al superiore e manifestazione della coscienza è
sottile e spesso l’oggetto coincide, ma è segnato dalla
diversa finalità del religioso nella ricerca di aiuto a vivere
una rinnovata fedeltà secondo la chiamata dello Spirito che
potrebbe spingersi fino all’esame intimo della coscienza. La
mens del legislatore trova riscontro in un caso analogo quando
esorta gli alunni del seminario ad avere un proprio direttore
spirituale “scelto liberamente, al quale possa aprire con
fiducia la propria coscienza” (can. 246 §4). Anche nel caso
che riguardi solo l’ambito del fòro interno non sacramentale
viene sottolineata la piena libertà del religioso di scegliere
a chi indirizzarsi per la direzione della coscienza (can. 630
§1)

Per quanto riguarda il rapporto tra religiosi e superiori il
can. 630 §5 non esclude che il religioso possa rivolgersi ai
propri superiori per aprire il proprio animo, ma la
preoccupazione del legislatore è di tutelarlo per evitare che
il superiore si addentri nella sua coscienza come se ci fosse
un’ultima frontiera da abbattere e un ambito della persona da
espugnare. Non è infrequente, infatti, che oggi si venga a
conoscenza con maggiore facilità di metodi esercitati
all’interno di certi enti associativi come sistema di
controllo e di potere che va sotto il nome di dominio delle
coscienze. Tutto questo non ha nulla di ecclesiale.

Se da un lato si afferma in modo categorico il diritto del
religioso di tutelare la propria intimità e non essere indotto
dal superiore a manifestargli la propria coscienza, dall’altro
il can. 630 §5 esorta il religioso a nutrire fiducia verso il
superiore come passaggio necessario per aprirgli il proprio
animo ed essere aiutato e accompagnato. Si tratta di reciproca
fiducia che potrà affermarsi se il superiore per primo si
rende credibile nello svolgimento della sua funzione di
magister spiritus e nell’esercizio della sua autorità che gli
è data a beneficio della santificazione di ciascun membro.
Resta fermo che il superiore non può obbligare il religioso a
qualunque forma di rivelazione sia come apertura dell’animo
che come manifestazione della coscienza.

Rispettando l’ambito di competenza del confessore e del
direttore spirituale, il can. 630 §5 esorta il religioso a
guardare con fiducia al superiore e ad aprirgli il proprio
animo, cioè quel mondo che, pur non riguardando il fòro
interno, si va disvelando in un dialogo personale e al tempo
stesso aiuta il superiore a svolgere il compito di
responsabile e guida spirituale e apostolica della comunità
dei fratelli.

Apertura dell’animo e manifestazione della coscienza non sono
sinonimi e il legislatore lo sottolinea mettendo la seconda
sotto la specifica tutela giuridica in forma di divieto
rivolta ai superiori. Questo vuole essere segno di come la
Chiesa intenda il rapporto tra superiore e suddito          e
l’esercizio della potestà d’ordine e di governo.

La teologia di Dante in un
trittico del cardinale Ravasi
                             di Andrea Drigani · «A l’etterno
                             dal tempo»: con questo verso
                             della Divina Commedia (Par
                             XXXI,38) ha preso le mosse la
                             lectio del cardinale Gianfranco
Ravasi sulla teologia di Dante,
tenutasi venerdì 28 maggio a Firenze nella Basilica di Santa
Croce.

Il cardinale ha esordito ricordando, cioè riportando al cuore,
che è lo stesso Dante a ritenere la sua opera di natura
teologica, tanto da definirla il «poema sacro al quale ho
posto mano e cielo e terra» (Par XXV,1-2). Ravasi ha quindi
osservato come la conoscenza della teologia dantesca non è
facile, ma richiede un itinerario, un viaggio, una scalata,
che in particolare verso la fine può essere faticosa.

Il cardinale ha proposto un ideale trittico per aiutare la
comprensione di Dante Poeta-Teologo e Teologo-Poeta. Il primo
quadro del trittico è Dante credente e uomo di chiesa, il
secondo riguarda l’essenza della teologia dantesca, il terzo
la riflessione sulle virtù teologali, in special modo sulla
fede, così come si trova nel Canto XXIV del Paradiso.

Nel   primo   quadro   si   possono   collocare   l’Enciclica   «In
praeclara summorum», del 1921, di Benedetto XV, la Lettera
Apostolica «Altissimi cantus», del 1965, di San Paolo VI e la
Lettera Apostolica «Candor lucis aeternae» di Francesco. San
Paolo VI ha osservato che la voce di Dante si levò, in modo
sferzante e severo, contro il comportamento degli
ecclesiastici, anche papi, ma tutto ciò non ha mai scosso la
sua fede cattolica e la sua appartenenza alla Chiesa.

Il secondo quadro riguarda l’essenza della teologia dantesca
che si può compendiare in quella parola «Trasumanar» (Par I,
70), indicante il cammino dell’uomo verso l’Oltre e verso
l’Altro, come pure la condiscendenza (synkatabasis) di Dio
verso gli uomini, sovente richiamata da San Giovanni
Crisostomo. L’essenza della teologia di Dante, ha osservato
Ravasi, coincide con l’essenza del Cristianesimo, cioè
l’Incarnazione, dove l’eternità entra nel tempo, la realtà
viene trasformata ma conservata, dove nella visione della
Trinità «mi parve pinta la nostra effige» (Par XXXIII, 131).
Il cardinale ha quindi rilevato che la teofania ci precede ed
eccede, rammentando le parole di Manfredi: «Orribil furon li
peccati miei: ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che
prende ciò che si rivolge a lei» (Purg III,121-123).

Il terzo quadro del trittico s’incentra nel Canto XXIV del
Paradiso ove Dante dinanzi ad un «sodalizio eletto» (i santi
del Paradiso), è sottoposto ad un esame di teologia, scienza e
fede, da parte di un esaminatore speciale: l’apostolo San
Pietro. Si tratta di un esame in forma dialogica con cinque
domande e cinque risposte.

Alla prima domanda «fede che è», Dante risponde con la Lettera
agli Ebrei: «Fede è sustanza di cose sperate ed argomento
delle non parventi; e questa pare a me sua quidditate». La
seconda domanda concerne gli «argomenti», e la risposta è che
dalla fede si debbono trarre gli argomenti (sillogizzare),
poiché la ragione non si oppone alla fede. La terza domanda
riguarda il fondamento della fede e la risposta la indica
nella parola di Dio, nell’Antico e Nuovo Testamento («in su le
vecchie e ‘n su le nuove cuoia»). La quarta domanda attiene
alla prova della fede che Dante dice di basarsi sui miracoli.
La quinta domanda è sulla veridicità dei miracoli alla quale
Dante fa presente come il più grande miracolo è stato quello
della conversione al cristianesimo dei pagani ad opera di
uomini, come i discepoli, pieni di limiti e di difetti, che
senza lo Spirito Santo non avrebbero potuto fare nulla.

Dante proclama, al termine dell’esame, la sua professione di
fede: «Io credo in uno Dio solo ed eterno, che tutto ‘l ciel
muove, non moto, con amore e con desio» . Il desiderio – ha
rammentato il cardinale Ravasi – nel suo significato
etimologico latino de– sidus, vuol dire mancanza di stelle,
cioè avvertire la mancanza di stelle, proprio quelle stelle
che concludono tutte e tre le cantiche del «poema sacro».

«Mi ricordai di quella parola
del       Signore…»:       la
trasmissione dei detti di
Gesù

                       di Stefano Tarocchi · Nel libro degli
                       Atti è ben conosciuto l’episodio di
                       Pietro che a Cesarea marittima si
                       incontra, chiamato dallo Spirito con il
                       centurione Cornelio, i suoi familiari e
                       i suoi amici, che si conclude con la
                       discesa dello Spirito su quanti non
                       erano stati ancora battezzati: «i
                       fedeli circoncisi, che erano venuti con
                       Pietro, si stupirono che anche sui
                       pagani si fosse effuso il dono dello
                       Spirito Santo; li sentivano infatti
parlare in lingue e glorificare Dio» (At 10,45-46) [Per la
verità la traduzione CEI 2008 riporta «parlare in lingue», con
l’aggiunta dell’aggettivo “altre”, che nel testo greco non
esiste: sicuramente un refuso per assonanza ad altri testi
degli Atti].

Quindi il libro degli Atti riporta la reazione dei fedeli
circoncisi, quando l’apostolo rientra in Giudea e quindi a
Gerusalemme: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e
hai mangiato insieme con loro!» (At 11,3), è molto
interessante approfondire la risposta di Pietro. Dapprima
rievoca, nello stile dell’autore degli Atti, l’intero
avvenimento, e quindi conclude: «avevo appena cominciato a
parlare quando lo Spirito Santo discese su di loro, come in
principio era disceso su di noi. Mi ricordai allora di quella
parola del Signore che diceva: “Giovanni battezzò con acqua,
voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”. Se dunque Dio
ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver
creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre
impedimento a Dio?» (At 11,15-17).

Ciò che dice Pietro nella narrazione degli Atti degli Apostoli
sembra riprendere il colloquio del Signore con i discepoli
prima del momento della sua definitiva ascesa al cielo:
«mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non
allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento
della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete
udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non
molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (At 1,4-5).

Tuttavia, le parole di Pietro hanno una caratteristica
peculiare: l’uso del verbo «ricordare» («mi ricordai allora di
quella parola del Signore»), come più avanti leggiamo anche
nelle parole di Paolo che si rivolge ai presbiteri (ed
episcopi!) di Efeso a Mileto: «ricordando le parole del
Signore Gesù che disse: “Si è più beati nel dare che nel
ricevere”» (At 20,35). Troviamo lo stesso pensiero anche nella
prima tradizione cristiana: «tutti eravate umili e senza
vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con
slancio che ricevere. Contenti degli aiuti di Cristo nel
viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo
dell’animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri
occhi» (1 Clem 2,1). Jeremias, a proposito di Atti, ipotizza
presumibilmente un proverbio, mutuato dal mondo greco romano,
che è stato posto sulla bocca di Gesù. Si può addirittura
scomodare addirittura lo storico greco Tucidide(V sec. a.C.),
che così scrive nella sua Guerra del Peloponneso: «gli Odrisii
– una popolazione dell’antica Tracia, regione che corrisponde
alla Bulgaria e alla Turchia di oggi – avevano istituito una
legge opposta a quella del regno di Persia, legge che vige
anche presso gli altri Traci, cioè la legge del prendere
invece che dare (ed era più vergognoso il non dare, se
pregato, che il non ottenere dopo aver avere richiesto)».

Ma il verbo fondamentale è proprio «ricordare» («ricordando le
parole del Signore Gesù…»).

Questo verbo sembra particolarmente importante nella raccolta
e nella conservazione dei detti del Signore, a partire dalla
stessa tradizione dei Vangeli. Così abbiamo nel racconto della
Passione: «il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e
Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto:
«Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte» (Lc
22,61). Ma anche nel vangelo di Giovanni: «Ricordatevi della
parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo
padrone”» (Gv 15,20); «perché si compisse la parola che egli
aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai
dato» (Gv 18,9). E prima ancora in Paolo si legge: «sulla
parola del Signore, infatti, vi diciamo questo: noi, che
viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore,
non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti» (1 Ts
4,15).

Tuttavia è significativo che nella tradizione dei Vangeli
sinottici il detto di Gesù messo sulle labbra di Pietro venga
riportato sotto altra forma, cioè come parola di Giovanni
Battista.

Così leggiamo in Marco: «io vi ho battezzato con acqua, ma
egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,8); in Matteo
abbiamo: «io vi battezzo nell’acqua per
la conversione; ma colui che viene dopo
di me è più forte di me e io non sono
degno di portargli i sandali; egli vi
battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt
3,11).

E, infine, in Luca leggiamo: «poiché il popolo era in attesa e
tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non
fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «io vi
battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a
cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi
battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16).
Quest’ultima immagine è ripresa anche nel libro degli Atti:
«diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono
quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al
quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (At 13,25).

Si possono fare varie ipotesi sul motivo dello “spostamento”
da Gesù al Battista della stessa espressione circa il
battesimo. Certo. Quando i cristiani si sono appropriati i
detti della tradizione del Battista – la novità appare negli
Atti degli Apostoli, scritti dallo stesso autore del III
Vangelo – è rimasta intatta un’evidente connotazione
messianica: «viene colui che è più forte di me», per
evidenziare la differenza tra Gesù e il Battista (Bovon) che
avrà il suo apice paradossale nel IV Vangelo, con ben altre
prospettive.

È degno di nota, però, che i cristiani, pur sottolineando la
distanza fra Giovanni e Gesù, sono rimasti fedeli anche alla
figura e all’insegnamento del Battista. Ciò che l’autore del
terzo Vangelo dice nel libro degli Atti sembra quasi far
autenticare l’insegnamento del Battista da parte del Signore
risorto, pur adattandolo al contesto in cui è inserito.

In At 1,5 la promessa riguarda solo gli apostoli e la
primitiva comunità giudeo-cristiana: «voi, tra non molti
giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». In Atti 11,15-17,
invece, la promessa riguarda Cornelio e la comunità che si fa
cristiana a partire dal mondo pagano: «voi sarete battezzati
in Spirito Santo».

Ma il tutto si svolge nella memoria che conserva e trasmette
le parole del Signore Gesù in tutto il loro prezioso
significato.

Rivincita della sociologia
sulla matematica in economia
                       di Giovanni Campanella · Sul finire del
                       mese di gennaio 2021, la casa editrice
                       Luiss University Press ha pubblicato un
                       libro intitolato Il mercato rende
                       liberi e altre bugie del neoliberismo e
                       scritto da Mauro Gallegati, con
                       prefazione di Francesco Saraceno.

Mauro Gallegati è nato a Macerata l’8 marzo 1958. Si è
laureato in Scienze Politiche all’Università di Macerata e nel
1989 ha conseguito il dottorato presso l’Università degli
studi di Ancona, sotto la supervisione di Hyman Minsky, con
una tesi sulla fragilità finanziaria. È stato presidente della
società ESHIA (Economic Science with Heterogeneous Interacting
Agents) dalla fondazione, 2006, al 2012. Attualmente insegna
macroeconomia avanzata presso l’Università Politecnica delle
Marche, nella facoltà di economia “Giorgio Fuà”.

«I suoi interessi di studio riguardano i temi della
complessità in economia e l’applicazione, in economia, di
modelli basati sull’interazione tra agenti eterogenei, per il
superamento di quelli basati sull’agente rappresentativo. (…).
Con Joseph Stiglitz ha pubblicato lavori sullo sviluppo della
teoria dell’informazione asimmetrica e degli agenti eterogenei
e sulle relative applicazioni. (…). Con Dani Rodrik, Alan
Kirman, James Galbraith e altri, ha sottoscritto il “monito
degli economisti”, un documento critico verso le politiche
europee di austerity pubblicato sul Financial Times il 23
settembre 2013» (vedi)

Francesco   Saraceno     è   nato   a   Roma   nel   1967.   Insegna
macroeconomia internazionale ed europea a Sciences Po e alla
Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di
congiunture economiche, e membro del comitato scientifico
della Luiss School of European Political Economy.

Il libro in questione mette in evidenza le debolezze delle
basi su cui poggiano i modelli previsionali dell’attuale
pensiero economico mainstream, al quale tra l’altro attingono
i principali policy maker di oggi, con danno di cittadini
costretti a subire politiche economiche tutt’altro che foriere
di vantaggi.

Sulla scia degli strabilianti successi della fisica, verso la
fine dell’Ottocento un sempre maggior numero di economisti ha
incominciato a impiegare rigorosi modelli matematici anche
all’interno del loro campo. Questo ha dato per lungo tempo
alla scienza economica un’aura luminosa di scienza oggettiva
non opinabile. Ne sono scaturiti bei modelli, formalmente
molto eleganti e coerenti, che hanno acquisito tra gli
studiosi un’autorevolezza tale per cui controbattere ad essi
faceva incorrere nel rischio di passare per ignoranti. Da
questi    modelli    è   emerso    il  dogma    neoliberista
dell’intoccabilità dei mercati, capaci, da soli e liberi di
agire, di traghettare l’umanità verso l’ottimo.

Perfino gravi crisi economiche non previste, come la Grande
Depressione del ’29, lo shock degli anni ’70, il caos
finanziario del 2008, non sono riuscite ad affossare il dogma
neoliberista e, anzi, è sembrato addirittura che non solo
ragionamenti ben ponderati ma anche la stessa realtà non fosse
legittimata a contraddire ciò che i modelli matematici
“legiferavano”. La grave crisi economico-finanziaria da
pandemia era difficilmente prevedibile in effetti; però ha
contribuito a mettere in luce ulteriormente la contestabilità
di certi assiomi.

Qual è il problema alla fonte? Fisica ed economia non sono la
stessa cosa. Tra l’altro la fisica ha affinato e cambiato i
propri strumenti nel tempo, cosa che non è quasi successa in
economia. Le persone non sono atomi. Le persone interagiscono
tra di loro molto più di quanto lo facciano gli atomi. Il
comportamento delle persone è assai meno prevedibile rispetto
al comportamento degli atomi. La matematica è uno strumento
potente ma bisogna sempre andare cauti con le previsioni. La
matematica è fondamentale per le rilevazioni e l’analisi della
realtà ma non può generare leggi in economia: l’economia è un
osso troppo duro anche per la matematica. Riprendono piede
approcci più umanistici, antropologici, sociologici
nell’analisi economica e modelli matematico-statistici più
cauti e non lineari, che tengono conto di più eterogeneità,
più complessità e che già all’inizio mettono umilmente in
conto la propria fragilità.

Vilfredo Pareto, celebre economista di fine ‘800, fu
inizialmente assai impressionato dalle formule matematiche
introdotte in economia da Léon Walras, altro grandissimo
economista ottocentesco (considerato il più grande da
Schumpeter), tanto da arrivare ad affermare:

«”L’economia non abbia timore di diventare un sistema
assiomatico-deduttivo, ipotizzando agenti e processi economici
idealizzati, così come la fisica utilizza con grande profitto
entità come i corpi rigidi, i fili inestensibili e privi di
massa, i gas perfetti, le superfici prive di attrito”. In
realtà i dubbi di Pareto sulla metodologia walrasiana si fanno
sempre più insistenti nel tempo – in una lettera a Pantaleoni
lamenta il fatto che Walras “non vede ragioni al di fuori del
metodo matematico” – poiché l’aggregato è più della somma
degli addendi e il comportamento non razionale è di pari
importanza rispetto a quello razionale» (p. 37)

Alla fine Pareto si “convertì”, fece un’inversione, abbandonò
l’economia matematica e passò a concentrarsi sulla sociologia.

Pio XII e Giorgio La Pira sul
carattere internazionale e la
missione di Gerusalemme.
                             di Carlo Parenti · I drammatici
                             recenti scontri tra israeliani e
                             Hamas nella Striscia di Gaza e i
                             palestinesi     nei   territori
                             occupati con il tristissimo
                             bilancio dei morti, dei feriti,
                             delle   sofferenze   e  delle
                             distruzioni mi inducono a una
riflessione sul fatto che su questa terra di Gerusalemme,
Israele, Palestina -che miliardi di persone al mondo
considerano Santa- non può continuare a spargersi sangue.
Sangue innocente, sangue di civili e donne, sangue di bambini
all’interno di un mosaico di culture e religioni, che
innanzitutto è mosaico di persone. La guerra, come ci ricorda
sempre Papa Francesco «è la negazione di tutti i diritti e se
si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti,
occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la
guerra tra le nazioni e tra i popoli».

Questo ha per noi cristiani un significato assoluto,
ontologico e teleologico, proprio perché la Terra Santa e in
particolare Gerusalemme è il luogo che non può essere di
alcuno, ma è del mondo, vocata ad essere la città del dialogo
e della Pace. Nel rinviare ai recenti appelli di Papa
Francesco voglio qui ricordare due encicliche di Pio XII e la
visione del venerabile Giorgio La Pira. Vi trovo temi
attualissimi e purtroppo irrisolti.

Pio XII, nella sua ”IN MULTIPLICIBUS CURIS” – Nuove pubbliche
preghiere per la pacificazione della Palestina del 24 ottobre
1948 (vedi), agli albori della spartizione della Palestina,
sottolineò il carattere internazionale che Gerusalemme avrebbe
dovuto assumere per il significato che essa ha per ebrei,
cristiani e musulmani. Vi si legge tra l’altro:
«…Parlando, prima ancora che il conflitto armato avesse
inizio, a una delegazione di notabili arabi venuta a renderCi
omaggio, manifestammo la Nostra viva sollecitudine per la pace
in Palestina e, condannando ogni ricorso ad atti violenti,
dichiarammo che essa non poteva realizzarsi se non nella
verità e nella giustizia, cioè nel rispetto dei diritti di
ognuno, delle tradizioni acquisite, specialmente nel campo
religioso, come pure nello stretto adempimento dei doveri e
degli obblighi di ciascun gruppo di abitanti. Dichiarata la
guerra, senza discostarCi dall’attitudine di imparzialità
impostaCi dal Nostro ministero apostolico che Ci colloca al di
sopra dei conflitti dai quali è agitata la società umana, non
mancammo di adoperarci, nella misura che dipendeva da Noi e
secondo le possibilità che si sono offerte, per il trionfo
della giustizia e della pace in Palestina e per il rispetto e
la tutela dei luoghi santi…

«…Noi non crediamo che il mondo cristiano potrebbe contemplare
indifferente o in una sterile indignazione quella terra sacra,
alla quale ognuno si accostava col più profondo rispetto per
baciarla col più ardente amore, calpestata ancora da truppe in
guerra e colpita da bombardamenti aerei; non crediamo che esso
potrebbe lasciar consumare la devastazione dei luoghi santi,
sconvolgere il sepolcro di Gesù Cristo. Siamo pieni di fiducia
che le fervide suppliche che si innalzano a Dio onnipotente e
misericordioso dai cristiani sparsi nel vasto mondo, insieme
con le aspirazioni di tanti nobili cuori ardentemente
solleciti del vero e del bene, possano rendere meno arduo agli
uomini che reggono i destini dei popoli il compito di far sì
che la giustizia e la pace in Palestina divengano una benefica
realtà e, con l’efficace cooperazione di tutti gli
interessati, si crei un ordine che garantisca a ciascuna delle
parti al presente in conflitto, la sicurezza dell’esistenza e
insieme condizioni fisiche e morali di vita capaci di fondare
normalmente uno stato di benessere spirituale e materiale.

Siamo   pieni   di   fiducia   che   queste   suppliche   e   queste
aspirazioni indice del valore che ai luoghi santi annette così
gran parte della famiglia umana, rafforzino negli alti
consessi, nei quali si discutono i problemi della pace, la
persuasione dell’opportunità di dare a Gerusalemme e dintorni,
ove si trovano tanti e così preziosi ricordi della vita e
della morte del Salvatore, un carattere internazionale che,
nelle presenti circostanze, sembra meglio garantire la tutela
dei santuari. Così pure occorrerà assicurare con garanzie
internazionali sia il libero accesso ai luoghi santi
disseminati nella Palestina, sia la libertà di culto e il
rispetto dei costumi e delle tradizioni religiose».

Sul tema Papa Pacelli era più brevemente intervenuto già nello
stesso anno , il 1° maggio, nell’altra Enciclica AUSPICIA
QUAEDAM- Preghiere nel mese di maggio per la concordia delle
nazioni (vedi) .

«…vi è al presente un altro particolare motivo, che affligge e
angustia vivamente il Nostro cuore. Intendiamo riferirci ai
luoghi santi della Palestina, che già da lungo tempo sono
turbati da luttuosi avvenimenti e sono quasi ogni giorno
devastati da nuovi eccidi e rovine. Eppure se vi è una regione
al mondo, che deve essere particolarmente cara ad ogni animo
degno e civile, questa è di certo la Palestina, da cui fino
dagli oscuri primordi della storia è sorta per tutte le genti
tanta luce di verità; in cui il Verbo di Dio incarnato fece
annunziare da cori di angeli la pace a tutti gli uomini di
buona volontà, e nella quale infine Gesù Cristo, sospeso
all’albero della croce, recò la salvezza a tutto il genere
umano e, stendendo le braccia quasi a invitare tutti i popoli
ad un amplesso fraterno, consacrò con l’effusione del suo
sangue il grande precetto della carità. Desideriamo quindi, o
venerabili fratelli, che questo anno le preghiere del mese di
maggio abbiano in modo particolare lo scopo di impetrare dalla
ss. Vergine che finalmente le condizioni della Palestina siano
conciliate secondo equità, e che ivi pure trionfino
felicemente la concordia e la pace».
Il venerabile Giorgio La Pira si soffermava da par suo spesso
e volentieri sulla missione di Gerusalemme (le citazioni che
seguono sono tratte da: G. La Pira ,
Lettere alle Claustrali , Milano Vita e
Pensiero,1978; pp. I-XX; 1-554- in
particolare dalla Lettera XVIII, pp.
523-26).

«Il Signore dice -nella Sacra Scrittura- a proposito di
Gerusalemme: fare di questa città bellissima (bellezza
teologale!), il centro di attrazione dei popoli. Urbs perfecti
decoris, gaudium universae terrae (città di perfetta bellezza,
gioia di tutta la terra), come diceva Geremia di Gerusalemme;
Fundatur exsultatione universae terrae mons Sion (Sal.47):
Sion è fondata per recare esultanza a tutta la terra;
Fundamenta eius in montibus sanctis (Sal 86): città cioè
edificata sui fondamenti di roccia della Chiesa e della
Santità».

Aggiungeva che essa doveva «essere a suo modo, nella sua
orbita civile centro missionario di irradiazione, di
attrazione e di pace, per tutti i popoli, per tutte le
genti». E si soffermava sulla «visione messianica che di
Gerusalemme ebbe il profeta Isaia (e i profeti di
Israele)[…] Penso ai testi più celebri di Isaia: “ … Sorgi,
risplendi, o Gerusalemme… alza il tuo sguardo in giro e
guarda; tutti costoro (le genti) si sono raccolti attorno
a te, sono a te venuti “ (60, 1-5 ecc.). E sarà negli estremi
giorni il monte della casa del Signore preparato in cima ai
monti, innalzato sopra i colli e vi affluiranno tutte le
genti. E popoli numerosi accorreranno dicendo: venite, saliamo
al monte del Signore e alla casa del Dio di Giacobbe… E
giudicherà le nazioni e farà da moderatore fra le moltitudini
dei popoli; e trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro
lance in falci e non brandirà più spada gente contro gente e
non si eserciteranno più oltre a far guerra (Is. 2, 2 ss.)».

«E penso pure al testo dell’Apocalisse, relativo esso pure
alla Gerusalemme messianica: “… E cammineranno le genti Sua
luce, e i re della terra porteranno ad essa la lor gloria e
l’onore “ (Apoc. 21, 24-26). Madre Reverenda, ecco il quadro
di forze e di pensieri entro cui si situa il prossimo incontro
fiorentino di Pentecoste (relativo alla “pace di Gerusalemme”e
preparatorio del Colloquio di autunno)[si riferisce ai
Colloqui Mediterranei da lui promossi a Firenze]: il “fiume
dell’orazione” si muova con grande impeto verso questo “punto”
-la “pace di Gerusalemme, la pace di Israele e di Ismaele “ -,
attorno al quale si muove (ed in modo tanto   accelerato!) la
storia odierna del mondo».

«Bisogna vincere: bisogna, cioè, che la pace torni ad abitare
a Gerusalemme, la città della pace. Gesù lo vuole; la Madonna
lo vuole; gli Apostoli lo vogliono; lo vogliono i Patriarchi
ed i Profeti; lo vogliono tutti i santi del cielo; lo vogliono
tutti i popoli della terra: lo esige la Strategia della
Provvidenza che non può introdurre -per così dire- i popoli
della nuova epoca spaziale e millenaria della storia, senza
aver prima pacificato Gerusalemme!»

La     rivoluzione                                della
gentilezza
di Stefano Liccioli · Di solito
                              quando pensiamo alla gentilezza
                              ci vengono in mente le buone
                              maniere.      Qualcosa       che
                              apparentemente riguarda più un
                              codice di comportamento che
                              l’amore evangelico, come se
essere cortesi con le persone fosse un atteggiamento meramente
esteriore e di secondaria importanza rispetto al comandamento
di Gesù di amarci gli uni gli altri.

Personalmente ho sempre pensato invece come la gentilezza,
quando è una disposizione autentica dell’individuo, abbia la
capacità di tradurre in gesti e parole concrete l’amore
predicato da Cristo. A rafforzarmi in questa convinzione è
stata un’affermazione dell’intellettuale francese Jean
Bastaire che lessi alcuni anni fa e chi mi annotai per
salvarla dai rischi dell’oblio:« La cortesia è la prima
traccia del regno di Dio. Essa riposa sul riconoscimento
dell’esistenza dell’altro. Non siamo noi soli a contare.
L’altro conta come noi. Con l’altro dobbiamo trasformare
l’indifferenza in comunione e l’emarginazione in rispetto. Se
la cortesia o la gentilezza non fosse che un semplice codice
di regole, sarebbe una ben magra cosa. In realtà essa è il
tirocinio alla fraternità, al rispetto reciproco è
un’educazione alla “misericordia”. Lasciarla perdere è una
disfatta dell’Amore».

Ho trovato un bella consonanza tra queste parole di Bastaire,
scomparso nel 2013, e quello che Papa Francesco ha scritto
nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” esplicitando che
un frutto dello Spirito Santo (cfr. San Paolo in Galati 5,22)
è proprio uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno,
soave, che sostiene e conforta. Ha affermato il Santo Padre:«
La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri
affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto
quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e
delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si
manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come
attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come
tentativo di alleviare il peso degli
altri. Comprende il “dire parole di
incoraggiamento, che confortano, che danno
forza, che consolano, che stimolano”,
invece di “parole che umiliano, che
rattristano,      che   irritano,      che
disprezzano” » (FT 223). A volte siamo
tentati di pensare che quando si tratta di
aiutare gli altri quello che conta è la
sostanza e non la forma. No, non basta la
sostanza, a mio avviso, ci vuole anche una
forma che rafforzi la sostanza. Occorre
uno stile che sia coerente con le nostre buone intenzioni, una
serie di attenzioni che accompagnino i nostri atti di carità.

D’altronde Gesù ce l’aveva detto: non è un bicchiere d’acqua
qualunque quello che dobbiamo dare ai piccoli, ma deve essere
fresca (Cfr Mt 10,42). Lo ripeteva anche Mons. Tonino Bello
scrivendo:«Concedere uno spazio non vale, se non si sa offrire
del tempo. Il tetto non copre: ci vuole un lembo di vita. La
minestra non scalda: occorre un alito umano. Dare un letto non
basta, se non si sa dare la “buona notte”». È l’attenzione al
dettaglio che fa la differenza, è la cura del nostro modo di
rapportarci agli altri che qualifica chi siamo veramente. Chi
ha fatto del volontariato che lo ha portato ad incontrare
persone bisognose sa quanto sia importante aiutarle con
discrezione, stando attenti a non ferirle, umiliarle e
rispettando sempre la loro dignità.

Seguire la via della gentilezza è oggi ancor più importante
perchè in un contesto frenetico come quello attuale, in cui
«l’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri
diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità.
Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività
aumenta» (FT 222).

Compiere la rivoluzione della gentilezza significa invece
scommettere su relazioni umane liberate dall’aggressività,
dall’indifferenza nei confronti degli altri. Osserva in
conclusione Papa Francesco:«Oggi raramente si trovano tempo ed
energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri,
a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si
presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da
parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare
attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di
stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo
a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è
capace di creare quella convivenza sana che vince le
incomprensioni e previene i conflitti» (FT 224).

Gaetano Salvemini (1873-1957)
e gli antifascisti cattolici
                              di Giovanni Pallanti · Gaetano
                              Salvemini (1873-1957) professore
                              di storia moderna all’Università
                              di Firenze, fu interventista e
                              combattente nella Prima guerra
                              mondiale. Eletto deputato per
                              gli ex combattenti di sinistra,
                              dopo il delitto Matteotti (1924)
diventò un durissimo avversario della nascente dittatura
fascista. Salvemini sin dal 1920, appena nati i fasci di
combattimento fondati da Mussolini nel 1919, fu avversario del
duce del Fascismo. Nel 1925 fu cacciato dagli studenti
fascisti e dalla viltà dei professori dall’insegnamento
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