BERGOGLIO, L'IMMIGRAZIONE E - FREUD di Moreno Pasquinelli
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BERGOGLIO, L’IMMIGRAZIONE E FREUD di Moreno Pasquinelli Papa Francesco, a conferma della posizione a favore dell’accoglienza degli immigrati senza sé e senza ma, concludendo in San Pietro la sua catechesi nell’udienza generale, il 7 gennaio scorso [2] «Chiediamo oggi al Signore di aiutarci a vivere ogni prova sostenuti dall’energia della fede; e ad essere sensibili ai tanti naufraghi della storia che approdano esausti sulle nostre coste, perché anche noi sappiamo accoglierli con quell’amore fraterno che viene dall’incontro con Gesù. È questo che salva dal gelo dell’indifferenza e della disumanità». Bergoglio non fa qui che riproporci come prescrittivi gli obblighi morali che discendono dalla fede in Cristo, fondati sulla pietas — il credente deve non solo amare con affetto filiale Dio, ma anche ogni essere umano in quanto sua prediletta creatura —, e sulla caritas; dove caritas sta per il radicale superamento dell’amor proprio in quanto esso solo consente l’identificazione verticale con Cristo. Identificazione spirituale con Cristo (vero Dio e vero uomo), quindi specialmente con le figure di chi “ha fame, sete, è malato” [3], la quale soltanto apre la strada all’amore orizzontale e incondizionato verso tutto il genere umano. La caritas, l’amore fraterno e disinteressato verso gli altri — “Amerai il prossimo tuo come te stesso” [4] —, in quanto
immagine di quello misericordioso di Dio verso l’uomo, è dunque un vero e proprio “nuovo comandamento” [5], che per la precisione fonda la stessa cristologia che contraddistingue la fede cattolica. Siamo, com’è evidente, ben al di là della filantropia già nota alla cultura e all’ethos greci: «E’ come un fratello lo straniero e colui che chiede protezione. (…) Sono sotto la protezione di Zeus tutti gli stranieri ed i mendicanti». [6] E’ tuttavia su queste basi meta-politiche e trascendenti, quindi improbabili, che Papa Bergoglio invoca “porti aperti” e prescrive l’accoglienza incondizionata degli immigrati. Una prescrizione che ha valore assoluto, malgrado Bergoglio sappia e denunci lo sradicamento che l’immigrazione implica e l’ingistizia sociale che la provoca,[7] nonostante sappia che la gran parte degli immigrati che giungono in Italia siano condannati all’esclusione sociale, all’illegalità, ad una vita da paria ove non al vero e proprio schiavismo. Il discorso sull’immigrazione andrebbe riportato sul terreno della politica, più precisamente del realismo politico. La qual cosa il Papa, e con lui le sinistre immigrazioniste, non fanno, e si rifiutano di fare, brandendo come anatema l’accusa di razzismo. Ma su certe nequizie abbiamo scritto più volte. Qui dobbiamo chiederci se l’antropologia che avanza Bergoglio sia plausibile. Secondo chi scrive non lo è affatto. Il
comandamento cristiano non chiede infatti all’uomo solo benevolenza e solidarietà disinteressata verso il prossimo; chiede uno sforzo spirituale e materiale che sfiora il divino, un’illimitatezza che evidentemente chiede l’implicazione di un dono supremo, quello della grazia. La qual cosa, appunto, appartiene solo a quegli esseri che Dio premia investendoli della Sua santità. Bergoglio risponde spesso tirando in ballo la bontà, la compassione, il cuore, la fede prima della ragione. In una parola i sentimenti. Hegel, bestia nera di certo cattolicesimo, fu spietato nel demolire quest’approccio, per lui «… il pensiero è ciò che l’uomo ha di più propriamente suo, ciò che lo differenzia dai bruti, mentre il sentire lo accumuna a questi».[8] Ancor più correttamente ebbe a dire che l’etica, alias il Politico, è una cosa seria e non può “dissolversi nella pappa del cuore, dell’amicizia e dell’entusiasmo”. [9] Per questo, a sua difesa, Hegel citava proprio i vangeli: «Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, le false testimonianze, le bestemmie», [10] Non ci si può chiedere assoluta benevolenza, totale empatia, addirittura amore verso chiunque, verso chi non si conosce, verso chi non fa parte della mia famiglia, della mia cerchia di amici, nemmeno della mia comunità politica e nazionale. E non lo si può chiedere non solo perché fattivamente impossibile. Non lo si deve chiedere perché sarebbe, in barba alle più pie intenzioni, letale per la comunità medesima di cui faccio parte. Il “prossimo” implica infatti prossimità: che vincolo di solidarietà avrei mai verso chi mi è davvero prossimo, se lo considerassi alla pari di chi non conosco nemmeno? Come potrei “sentire” un vincolo sincero e forte di
solidarietà verso chi, oltre a non parlare la mia lingua, non ha le mie stesse consuetudini, che vuole anzi preservare, opponendomele, le sue proprie tradizioni e la sua propria cultura? Solo una concezione individualistica, atomistica e anarco- liberista della società può concepire l’orrore di una comunità come addizione sgangherata di singole monadi — concezione alla quale fa da contraltare la visione di certi comunitaristi che la immaginano come conglomerato meticcio di etnie e/o di sette confessionali. Una comunità politica non si regge se non grazie a legami di solidarietà che si costruiscono e si consolidano in quell’opificio che è la storia, ovvero in quel processo spietato che spesso ha chiesto che ogni comunità risolvesse allo stesso proprio interno, nel conflitto e anche ricorrendo alla lotta fratricida, cosa essa volesse diventare, quale identità scegliesse di assumere. Così che, quando la comunità, dopo tanti tormenti, è riuscita a stabilire cosa davvero sia, essa tenderà a difendere da ogni intrusione ciò che è diventata. Si può perdonare il Papa, a cui non si può chiedere di violare uno dei comandamenti della sua fede, non si può perdonare una sinistra transgenica che scimmiotta il Pontefice ma sulla base di un cosmopolitismo senza fede, verniciato con una sconclusionata visione antropologica dell’uomo. Proprio perché ci occorre credere nell’essere umano, si deve capire di che materiale esso sia affettivamente fatto. Per
quanto si possa dissentire dalla visione pessimistica della sua ultima fase di ricerca, ci giunge in soccorso Sigmund Freud, che vogliamo citare: «Ce ne può indicare la traccia una delle cosiddette pretenzioni ideali della società civilizzata, quella che dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. E’ una pretesa nota in tutto il mondo, certamente più antica del cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa dichiarazione, ma certamente non antichissima; sono esistite perfino epoche storiche in cui era ancora estranea al genere umano. Proponiamoci di adottare verso di essa un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e disappunto. Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci? Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho il diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (trascuro i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi due tipi non hanno nulla a che vedere col precetto di amare il prossimo). Costui merita il mio amore se mi assomiglia in certi aspetti importanti talché in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno
di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo sullo stesso piano. Ma se debbo amarlo di quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme, di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a serbare per me stesso. A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale. Se osservo le cose più da vicino, le difficoltà aumentano. Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma onestamente devo confessare che avrebbe piuttosto diritto alla mia ostilità e persino al mio odio. Sembra non avere il minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione. Se gli fa comodo, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno domandarsi se il vantaggio che ricava sia proporzionato alla gravità del danno che mi procura. (…) Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, non avrei niente in contrario. C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più violenta. E’: “ama i tuoi nemici”. Riflettendoci, ho torto a considerarlo una pretesa ancora più assurda. In fondo è la medesima cosa». [11] Marx ebbe modo di scrivere che «Se si vuole essere un bue, naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti dell’umanità e badare solo alla propria pelle».[12]
Proprio perché non siamo buoi ma “animali politici”, proprio perché non voltiamo “la schiena ai tormenti dell’umanità”, sappiamo che non è con il cuore e i buoni sentimenti che si porrà fine a quei tormenti, ma con la lotta pratica, la quale chiede una teoria politica adeguata, che non nasce se non da uno sforzo teorico, da quella che Hegel chiamava la “fatica del concetto”. [13] NOTE [2] La prolusione era dedicata al libro degli Atti degli Apostoli e alla figura di San Paolo. Molte sarebbero le cose da dire al riguardo, ovvero sulla distanza siderale che separa la Chiesa cattolica (come del resto Protestanti e Ortodossi) dalle prime comunità cristiane. Diverso sarebbe il giudizio sulla concordanza o meno con la teologia paolina. [3] Mt 25, 30-40 [4] Mc 12, 28-34 [5] Gv, 13,34 [6] Odissea, (VIII, 546 e VI, 207) [7] Ha afffermato Bergoglio«Siamo di fronte ad un’altra morte causata dall’ingiustizia. Già, perché è l’ingiustizia che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. È l’ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare». ANSA, 19 dicembre 2019 [8] G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, UTET, p.145 [9] «Con il semplice rimedio casalingo dí basare sul sentimento ciò che è l’opera, invero piú che millenaria, della ragione e dell’intellezione di essa, ci si risparmia certamente tutta la fatica dell’intendimento razionale e della conoscenza guidati dal concetto pensante [ … ] . Ma il marchio
peculiare che [questa retorica] porta in fronte è l’odio contro la legge. Che il diritto e l’eticità, e il mondo reale del diritto e dell’etico, comprendano se stessi con il pensiero,e mediante concetti diano a sé la forma della razionalità, ossia universalità e determinatezza, tale fatto, ossia la legge, è ciò che quel sentimento che riserva a se medesimo il libito, quella coscienza che ripone il diritto nella convinzione soggettiva, considerano fondatamente come l’elemento a loro piú ostile. La forma del diritto come un dovere e una legge viene avvertita da quel sentimento e da quella coscienza come una lettera morta e fredda e come una catena […]». G.W.F.Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto, Prefazione, 1820, Laterza 199, pp.104-105 [10] Mt, 15,19 [11] Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, In Opere, vol. II, pp.519-520, RBA [12] K. Marx a S.Meyer, 30 aprile 1867 [8] G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, ibidem CHE STA ACCADENDO IN AMERICA LATINA? di W. I. Robinson*
È opportuno ogni tanto dare un’occhiata non distratta a quanto accade in America latina, dove una destra rampante è tornata al potere ma dove le proteste popolari stanno in compenso dilagando (Haiti, Honduras, Cile, Ecuador, Colombia …). Un caso un po’ più complesso quello boliviano, dove una destra perversa ha approfittato di alcuni errori madornali dell’ultimo paese dove esisteva l’ultimo dei governi della ‘decade progressista’. Opportuno non solo per ragioni di solidarietà ma anche per alcune similitudini di situazione con L’Europa: lo scavalcamento dei partiti di sinistra da parte dei movimenti in lotta (decisamente in numero minore in Europa rispetto all’A.L.) che hanno assunto in prima persona l’iniziativa e la crescente brutalità della repressione. Mi pare che in questa complessivamente condivisibile analisi del sociologo statunitense W.I. Robinson questo richiamo alla nostra situazione sia ben presente, per cui mi fa piacere segnalarla. Aldo Zanchetta NUVOLONI NERI SULL’AMERICA LATINA UNA PANORAMICA GENERALE William I. Robinson* Le lotte popolari contro un risorgente neoliberismo e le aggressioni dell’ultra-destra che negli ultimi mesi hanno preso d’assalto l’America Latina si presentano alla Sinistra globale con un peculiare paradosso: esse avvengono in un momento in cui la Sinistra istituzionale e partitica ha perso l’egemonia che aveva precedentemente conquistato e che ora si
trova logorata. Qualsiasi tentativo di spiegare questo paradosso deve inquadrare l’attuale ribellione popolare nel contesto più ampio delle dinamiche politiche dell’espansione capitalista globale e delle crisi nella regione degli anni recenti. Nelle attuali circostanze il capitalismo globale affronta una crisi organica che è ad un tempo strutturale e politica. Dal punto di vista strutturale il sistema si trova in una crisi di sovra-accumulazione e in tutto il mondo si è indirizzato verso un nuovo ciclo di espansione violenta e molto spesso militarizzata, alla ricerca di nuove opportunità di impiego dell’eccedenza di capitale accumulata e prevenire la stagnazione. Politicamente il sistema si trova di fronte a una decomposizione dell’egemonia capitalista e una crisi di legittimità dello Stato. Mentre il malcontento popolare va estendendosi, i gruppi dominanti sono ricorsi in tutto il mondo a modi di dominazione sempre più coercitivi e repressivi per contenere questo malcontento e ad un tempo per aprire con la forza nuove opportunità di accumulazione mediante l’intensificazione delle politiche neoliberiste. Questa duplice crisi è visibile con totale chiarezza in America Latina. Il colpo di Stato del novembre scorso in Bolivia e la tenace resistenza alla conquista fascista del potere, la sollevazione all’inizio ottobre in Ecuador contro la restaurazione liberista, le ribellioni verificatesi a Haiti e in Cile (quest’ultimo vera culla del capitalismo), e ora in Colombia, il ritorno al potere dei Peronisti in Argentina seguito poche settimane appresso dalla sconfitta del Frente Amplio in Uruguay, convergono tutti, assieme ad altri avvenimenti recenti, verso una stagione di grande movimento e incertezza nella regione. Però gli sconvolgimenti attuali devono essere analizzati nel contesto delle dinamiche politiche della globalizzazione capitalista. Il post-mortem della ‘Marea Rosata’? L’America Latina dalla decade degli anni ’80 in poi si è
trovata coinvolta nella globalizzazione capitalista, processo che ha causato una grande trasformazione della sua economia politica e della sua trasformazione sociale. E’ nata una nuova generazione di elite e di capitalisti orientati transnazionalmente a causa della sconfitta dei movimenti rivoluzionari nelle decadi degli anni ’60 e ’70. Questi gruppi transnazionali dominanti condussero la regione verso la nuova epoca globale, caratterizzata dall’accumulazione come una serra calda, la speculazione finanziaria, la valorizzazione creditizia, internet, le comunità chiuse, le catene del cibo spazzatura diffuse ovunque, e i centri commerciali e i mega- negozi che dominano i mercati locali nelle nascenti mega- città. Queste elite e questi capitalisti transnazionali nella decade dei ’90 hanno forgiato un’egemonia neoliberista realizzando un vastissimo programma di privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni e austerità. Pertanto, la globalizzazione capitalista finì per aggravare la povertà e la disuguaglianza, facendo spostare decine di milioni dalle classi popolari e generando vastissimo sotto-impiego e disoccupazione. Gli impoverimenti scatenarono un’ondata di emigrazioni da paese a paese e nuove ondate di mobilitazione di massa fra coloro che erano rimasti. I governi di sinistra o della cosiddetta ‘Marea Rosata’ giunsero al potere nei primi anni del nuovo secolo sulla spinta della ribellione delle masse contro questo mostro della globalizzazione capitalista. Il giro verso Sinistra in America Latina suscitò grandi attese e ispirò le lotte popolari nel mondo. L’appello che Hugo Chávez fece per un Socialismo del XXI secolo risvegliò le speranze che la regione avrebbe indicato il percorso verso l’alternativa a un capitalismo globale. I governi della Marea Rosata sfidarono e fecero anche retrocedere gli aspetti più noti del programma neoliberista, ridistribuirono la ricchezza verso il basso e ridussero la povertà e la penuria. Tuttavia, gli sforzi degli Stati e dei movimenti sociali per completare le trasformazioni si scontrarono con l’enorme potere strutturale del capitale transnazionale, e soprattutto dei mercati finanziari globali. Questo potere strutturale spinse gli Stati della Marea Rosata verso un accordo con questi mercati.
Lasciando da parte la retorica, i governi della Marea Rosata basarono la loro strategia sulla forte espansione della produzione di materie prime in collaborazione con i contingenti nazionali e locali della classe capitalista transnazionale. Ad eccezione del Venezuela nel periodo di auge della Rivoluzione Bolivariana, si evidenziò l’assenza di qualunque cambiamento sostanziale nelle relazioni fra classi e nella proprietà, nonostante i cambiamenti generati nei blocchi di potere politico, un discorso a favore delle classi popolari e una espansione dei programmi di benestare sociale finanziati dalle imposte sulle industrie estrattive delle corporation. L’accrescimento delle attività minerarie e dell’agroindustria transnazionale di loro proprietà ebbe come risultato una maggiore concentrazione delle terre e del capitale e rafforzò il potere strutturale dei mercati globali sugli Stati con orientamento a sinistra. Come risultato, i paesi della Marea Rosata si trovarono sempre più integrati nei circuiti transnazionali del capitalismo globale e dipendenti dai mercati globali delle commodity e del capitale. Le masse popolari reclamavano trasformazioni più sostanziali. Il giro verso la Sinistra aprì di fatto spazi perché queste masse facessero avanzare le loro lotte. Tuttavia, nel loro impegno per attrarre l’investimento delle corporation transnazionali e espandere l’accumulazione estrattivista, gli Stati compressero molte volte le richieste di quelli in basso verso maggiori trasformazioni. Questi Stati smobilitarono i movimenti sociali, risucchiandone i loro dirigenti nel governo e nello Stato capitalista e subordinarono i movimenti delle masse all’elettoralismo dei partiti della Sinistra. Data l’assenza di più ampie trasformazioni strutturali che potessero rispondere alle cause profonde della povertà e della disuguaglianza, i programmi sociali furono subordinati ai viavai dei mercati globali sui quali gli stati della Marea Rosata non esercitavano alcun controllo.
Allorché a partire dal 2008 esplose la crisi finanziaria globale, questi Stati cozzarono con i limiti di una riforma redistributiva ingabbiata nella logica del capitalismo globale. L’estrema dipendenza dei paesi della Marea Rosata dalle esportazioni di materie prime, allorché i mercati globali delle commodity nel 2012 collassarono, li immerse nell’agitazione economica. Questi paesi ebbero alti livelli di crescita finché l’economia globale proseguì il suo ritmo di espansione e finché i prezzi delle commodity restarono elevati grazie al vorace appetito della Cina verso le esportazioni delle materie prime. La recessione economica erose la capacità dei governi di sostenere i programmi sociali, indicendoli a negoziare concessioni e austerità con le elite finanziarie e le agenzie multilaterali, come è accaduto in Brasile, Argentina, Ecuador e Nicaragua, oltre ad altri paesi. Le tensioni che ne derivarono fecero crescere le proteste e aprirono lo spazio al risorgere della Destra. Sebbene non si possano fare affermazioni generalizzate applicandole uniformemente ai vari paesi, in tutto questo ci sono gli elementi essenziali per analizzare il quadro del recente colpo di Stato in Bolivia, la destituzione del Partito del Lavoro in Brasile e degli altri rovesci della Marea Rosata. Il ritorno della destra Le classi dominanti tradizionali all’inizio del processo della Marea Rosata si videro obbligate a cercare un modus vivendi con i governi di sinistra dato il bilancio delle forze sociali e di classe. Però appena l’economia e i sommovimenti politici offrirono alla Destra uno spazio di manovra, questa passò all’offensiva, spesso violenta, al fine di recuperare il potere politico diretto. La svolta costituzionale e extra- costituzionale verso Destra ebbe inizio nel 2009 con il colpo di Stato in Honduras, seguito nel 2012 dal golpe suave in Paraguay contro il governo di sinistra di Fernando Lugo; la sconfitta elettorale dei peronisti in Argentina nel 2015; il colpo di Stato parlamentare in Brasile contro il Partito dei Lavoratori nel 2016; il ritorno della destra in Cile con
l’elezione nel 2017 del Presidente Sebastián Piñera e la sua coalizione Chile Vamos in Cile nel 2017, l’elezione nel 2018 in Colombia del presidente di estrema destra Iván Duque, che non è altro che la faccia rappresentativa del progetto fascista dell’uribismo, e la sconfitta elettorale all’inizio del 2019 del Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional in El Salvador (L’elezione di Andrés Manuel López Obrador e del suo partito Morena in Messico costituisce l’eccezione a questa virata verso destra). Questa forte virata a destra ha comportato un’ondata di repressione in tutta la regione e una mobilitazione dei partiti e delle organizzazioni imprenditoriali dell’estrema- destra, culminando più recentemente nel colpo di Stato a ottobre in Bolivia, per cui la regione sembra tornare all’epoca delle dittature e dei regimi autoritari. L’America Latina torna ad essere un focolaio di violenza statale e privata incentrata sulla repressione della rivolta popolare e un’apertura del continente verso il saccheggio corporativo. La Destra nel suo impegno nel consolidare e espandere il potere transnazionale delle corporation si orienta verso il razzismo, l’autoritarismo e il militarismo. Da questo punto di vista la regione è lo specchio di dove si sta dirigendo il mondo. Se il continente è emblematico dello Stato di polizia globale, lo è anche dell’ondata di resistenza dal basso attraverso il mondo. Ma la sorte era segnata già prima che la destra recuperasse il potere politico diretto. Gli eserciti latinoamericani negli ultimi anni sono accresciuti rapidamente allo stesso ritmo della nuova ondata di espansione corporativa e finanziaria transnazionale nella regione. Spazi territoriali che fino a pochissimo tempo fa godevano ancora di un certo spazio di autonomia, come ad es. gli altipiani indigeni del Guatemala e del Perù, aree dell’Amazzonia e della costa pacifica della Colombia, sono in fase di invasione violenta e le loro abbondanti risorse naturali e di forza lavoro vengono messi a disposizione del capitale transnazionale. In accordo con il rapporto “Security for sale” (Sicurezza in vendita), pubblicato nel 1918 dall’ Inter-American Dialogue, centro di
ricerca situato a Washington, D.C., nel 2017 in America Latina erano presenti oltre 16.000 società private che offrivano servizi militari e di sicurezza che impiegavano 2,4 milioni di persone che frequentemente collaborano con le forze militari e di polizia dello Stato. Praticamente si cancella di fatto la distinzione fra personale militare e polizia in servizio e in pensione da un lato, e dall’altro i dipendenti di queste società private, come ha concluso l’informativa, poiché esiste “una rete interconnessa fra i militari in servizio, i militari in pensione, gli agenti della sicurezza privata, le elite imprenditoriali e i funzionari del governo”. Il numero dei militari è raddoppiato in Brasile, Bolivia, Messico, e negli anni recenti in Venezuela, mentre l’esercito colombiano si è quadruplicato e le forze armate nel resto della regione sono aumentate in media del 35%. I militari sono stati dispiegati nelle mega-città della regione e molte volte collaborano con i cupi squadroni della morte nella ‘pulizia sociale’ dei poveri e nella repressione della dissidenza politica. La destra ora si impegna a utilizzare il potere politico diretto che ha recuperato per imporre con violenza la piena restaurazione del neoliberismo come parte dell’espansione militarizzata del saccheggio delle corporation transnazionali. La scintilla che ha fatto esplodere le più recenti proteste di massa è stato un nuovo giro di misure neoliberiste. La sollevazione in Nicaragua fra l’aprile e l’agosto del 2018 è stata la risposta alla decisione del governo Ortega di imporre riforme al sistema pensionistico. In Ecuador indigeni, contadini e lavoratori si sono sollevati nell’ottobre del 2019 contro gli accordi negoziati dal governo con l’FMI per eliminare i sussidi ai combustibili. La ribellione in Cile contro la struttura totalmente neoliberista si è scatenata per la decisione del governo di aumentare le tariffe del trasporto pubblico. In Argentina il fattore che finalmente l’ottobre scorso ha portato alla sconfitta elettorale il governo Macri è stato il suo forte programma neoliberista. E in Colombia le proteste di massa sono state originate dalla promulgazione da
parte del governo di nuove misure di austerità. L’egemonia contesa Le crisi strutturali del capitalismo mondiale costituiscono storicamente momenti in cui si producono prolungati disordini sociali e più grandi cambiamenti, quali abbiamo visto recentemente in America Latina. A livello mondiale la spirale della crisi dell’egemonia sembra sfociare in una crisi generale del dominio capitalista. A prima vista, questa affermazione appare come contro-intuitiva poiché la classe capitalista transnazionale e i suoi agenti sono passati ovunque all’offensiva contro le classi popolari. Tuttavia, la rinascita aggressiva della destra, in America Latina e nel mondo, è una risposta alla crisi che è poggiata su un terreno instabile. A livello strutturale, le crisi sono dovute appunto all’esistenza di ostacoli alla continua accumulazione del capitale, e pertanto alla tendenza alla stagnazione e al basso livello degli utili. Data una disuguaglianza senza precedenti a livello mondiale, il mercato globale non può assorbire la crescente produzione dell’economia globale, che sta toccando i limiti della sua espansione. La crescita economica in anni recenti è stata basata su un consumo insostenibile basato sull’indebitamento, la frenetica speculazione finanziaria nel casinò globale, e la militarizzazione promossa dallo Stato –cosa che definisco accumulazione militarizzata- mentre il mondo entra in una economia globale di guerra e le tensioni internazionali si intensificano. Mentre l’economia globale è prossima alla recessione, l’economia latinoamericana è già caduta nella recessione nel 2015 che prosegue fino ad oggi affrontando la stagnazione (perfino in Bolivia, paese che ha registrato gli indici più alti di crescita negli ultimi anni, il tasso della crescita iniziò a contrarsi, cosa che obbligò il governo del MAS a
ricorrere alle riserve valutarie). La classe capitalista transnazionale e le sue componenti locali ora tendono a trasferire il peso della crisi sui settori popolari tramite una rinnovata austerità neoliberista nel suo affanno per ristabilire la redditività capitalista. Ma è poco probabile che la destra abbia successo. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro affronta una caduta vertiginosa nei sondaggi, mentre il neoliberista Maurizio Macri ha subito un rovescio nelle recenti elezioni e i governi di Ecuador, Cile e Colombia hanno dovuto fare marcia indietro nelle loro misure di austerità. L’incapacità della destra a stabilizzare il proprio progetto avviene in momenti in cui la Sinistra istituzionale/partitica ha perso la maggior parte del potere e l’influenza che aveva guadagnato. Vi è un evidente sfasamento in America Latina –sintomatico di una situazione della Sinistra a livello mondiale- fra i movimenti di massa che attualmente fioriscono e una sinistra partitica che ha perso la capacità di mediare con un proprio progetto realistico fra le masse e lo Stato. Lo scenario più probabile è un pareggio momentaneo, mentre i nuvoloni neri si addensano. Sebbene sia il momento della solidarietà con le masse delle/dei latinoamericani che sono in piena lotta contro la presa di potere della destra, deve essere anche un momento di riflessione sulle lezioni che l’America Latina offre alla sinistra globale. La Marea rosata –dobbiamo ricordarlo- giunse al potere non per il crollo dello Stato capitalista ma per la via costituzionale, vale a dire tramite processi elettorali grazie ai quali i governi di sinistra assunsero la gestione degli Stati capitalisti. Semplicemente, schiacciare lo Stato capitalista non era in agenda. Non basta ricordare l’esortazione di Marx che le classi lavoratrici non possono limitarsi a impadronirsi dello Stato capitalista e gestirlo per i propri scopi. Dato il violento ritorno dell’estrema Destra, non sarebbe difficile cadere nella tentazione di
considerare come un punto di possibile discussione se i governi della sinistra avrebbero potuto fare di più per realizzare maggiori trasformazioni strutturali anche quando non esistesse la possibilità di rompere col capitalismo mondiale. Ma sono lezioni fondamentali per la sinistra globale. Si tratta della capacità dei movimenti sociali autonomi di massa di obbligare dal basso gli Stati a intraprendere tali trasformazioni. In alternativa, questo comporta la necessità di ripensare la relazione triangolare fra gli Stati, i partiti della Sinistra e i movimenti sociali di massa. Il modello di governance della sinistra basato sull’assorbimento dei movimenti sociali e subordinare l’agenda popolare all’elettoralismo e alle esigenze della stabilità capitalista ci conduce in un vicolo cieco – o peggio ci porta al ritorno della Destra. È solo la mobilitazione di massa autonoma dal basso che può imporre un contrappeso al controllo esercitato dal capitale transnazionale e dal mercato globale dall’alto sugli Stati capitalisti in America Latina, che essi siano governati dalla Sinistra o dalla Destra. Qualunque nuovo progetto di sinistra in America Latina, come anche altrove nel mondo, dovrà vedersela con il problema delle elezioni e dello Stato capitalista. Abbiamo imparato che la subordinazione dell’agenda popolare a vincere elezioni ci porta al fallimento, anche quando dobbiamo partecipare a processi elettorali, quando ciò sia possibile, e anche considerando che l’agone elettorale può essere uno spazio strategico. Dal mio punto di vista, affrontare l’attuale assalto della Destra passa urgentemente attraverso il rinnovamento di un progetto rivoluzionario e un piano per la rifondazione dello Stato. Le recenti esperienze del partito Syriza in Grecia e dei governi della Marea Rosata in America Latina, come i partiti social-democratici che in altre parti del mondo arrivarono al potere negli ultimi anni del XX secolo, ci insegnano che qualunque forza di sinistra, una
volta salita al governo, si vede obbligata ad amministrare lo Stato capitalista e le sue crisi. Questi governi –nonostante il loro colore di sinistra- si vedono spinti a difendere tale Stato e la sua dipendenza dal capitale transnazionale per la sua riproduzione, ciò che li porta in conflitto con le stesse classi popolari e gli stessi movimenti sociali che li hanno portati al potere. *William I. Robinson. Professore di Sociologia, Università della California di Santa Barbara. ** Fonte: https://twitter.com › w_i_robinson *** Traduzione a cura di camminar domandando FOIBE E IPOCRISIA NAZIONALISTA di Sandokan Da quando, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, è stato istituito, sulla falsa riga del “Giorno della memoria”, quello del “ricordo” — per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» — abbiamo parlato di foibe alcune volte su questo blog. La prima il 16 febbraio 2010. L’ultima l’anno scorso.
Abbiamo detto l’essenziale, ma data l’insopportabile ipocrisia nazionalistica — gli stessi che inneggiano all’orgoglio italiota sono gli stessi che svendono la sovranità italiana e inneggiano all’Unione europea— sento che debbo tornarci su. Politici e pennivendoli di regime accusano chiunque osi sfidare la vulgata pseudo-patriottica sulle foibe, di “negazionismo” — ancora una volta sulla falsa riga della shoah. A scanso di equivoci: non nego un bel niente. I partigiani titoisti iugoslavi effettivamente gettarono nelle foibe, in una prima ondata nel 1943 e poi nella seconda del 1945, i corpi di centinaia di italiani precedentemente fucilati. Fu una barbarie? Sì, lo fu. MA QUI CERTE “COSETTE” VANNO DETTE… Come gli storici di ogni tendenza hanno confermato, si trattava nel 90% dei casi di italiani che svolgevano funzioni apicali (militari e civili) nell’occupazione italiana e (dopo il 1943) nazi-fascista, e che furono direttamente e/o indirettamente responsabili di eccidi di massa ai danni delle popolazioni slave. Eccidi, crimini e repressione sistematici, che vennero avanti sin dalla fine della prima guerra mondiale. Dopo la Grande Guerra, si ritrovarono entro i confini del Regno d’Italia 490mila tra croati e sloveni, ed anche serbi abitanti in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Lo Stato italiano, lungi dal rispettare i loro diritti, diede avvio ad
una politica imperialistica di assimilazione forzata di questi gruppi slavi. Con l’avvento al potere del partito nazionale fascista, questa politica di assimilazione divenne brutale, anzi criminale. – tutti gli slavi vennero esclusi dagli impegni pubblici, assegnato solo ad italiani; – Con l’adozione della riforma scolastica gentile (1 ottobre 1923) fu abolito nelle scuole l’insegnamento delle lingue croata e slovena. Tutte le scuole slovene e croate vennero chiuse, e la lingua italiana la sola ammessa; – furono imposti (Decreto regio del 29 marzo 1923) nomi italiani a tutte le centinaia di località, comprese quelle abitate solo da slavi; – con Decreto regio del 7 aprile 1926 vennero imposti cognomi italiani a decine di migliaia di croati e sloveni, – con legge del 1928 a parroci e uffici anagrafici venne fatto divieto di iscrivere nomi slavi nei registri delle nascite. Dite un po’? voi non vi sareste incazzati per questa “bonifica etnica”? Io sì, e se fossi stato sloveno o croato, da patriota, avrei raggiunto la resistenza, che infatti subito sorse. E se provo vergogna per quello che l’Italia fece allora, sono forse un “negazionista”?
Non è finita qui… Con l’invasione della Iugoslavia (aprile 1941) da parte degli eserciti tedesco e italiano, il Paese venne smembrato e i suoi territori anessi alla Germania e all’Italia. I crimini compiuti da occupanti fascisti e nazisti furono inenarrabili. Furono compiuti (e ampiamente documentati) dalle truppe fasciste e naziste svariati massacri per debellare la resistenza titoista. «Si procede ad arresti, ad incendi (…) fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti solo per il solo gusto di distruggere (…) la frase “gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi” che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi». [1] Se foste stati sloveni o croati voi che avreste fatto? Contro la Resistenza iugoslava le autorità fasciste si diedero alla deportazione sistematica nei campi di concentramento e a ulteriori massacri indiscriminati: «. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori . . .» . [2]
Il 12 luglio 1942, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate. Cartina a sinistra: Dopo l’8 settembre del 1943 i nazisti prendono il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria, sottraendolo alla Repubblica Sociale Italiana Dopo l’8 settembre, quando i tedeschi rimpiazzarono i fascisti, le cose non migliorarono. L’esercito nazista, sostenuto dalle autorità locali italiane e dagli Ustascia croati, continuò la politica di sterminio già adottata verso le altre popolazioni slave sotto occupazioni. Vale la pena ricordare che rispetto agli abitanti, i popoli iugoslavi subirono nella seconda guerra mondiale le maggiori perdite in vite umane (1milione e 200mila). Non voglio giustificare le rappresaglie compiute dalla Resistenza iugoslava (dopo quelle del 1943, quelle dopo la ritirata dei nazisti della fine del 1944), ma esse vanno contestualizzate, altrimenti si fa demagogia da quattro soldi. Una demagogia che serve ai satrapi dell’Unione europea per salvarsi la faccia dandosi una patina di retorico patriottismo — si inneggia all’italianità dei dalmati e degli istriani mentre si smantella la sovranità nazionale. Per la cronaca: l’esercito partigiano iugoslavo (di cui facevano parte anche italiani, vedi Porzus), una volta occupati la Venezia Giulia, Trieste, l’Istria ecc., eliminò anche diversi esponenti del
CLN italiano. C’era in queste ritorsioni un’odio nazionalistico? Si, c’era, ma c’era anche quella che gli storici hanno chiamato “vendetta sociale e di classe”, visto che contrariamente a Togliatti, Tito congiungeva lotta di liberazione nazionale e passaggio al socialismo. Inutile continuare. Il tutto serve a dire che un Paese serio e rispettoso davvero dei valori della pace e della fratellanza tra i popoli, se proprio deve istituire il “giorno del ricordo”, non dovrebbe ricordare solo i propri morti (e dire la verità su chi fossero e cosa avessero fatto) ma pure quelli altrui, quelli caduti proprio per mano fascista italiana. PS Mi chiederete: e dell’esodo degli italiani che hai da dire? Segnalo soltanto che esso ebbe enormi proporzioni (una minoranza restò entro i confini della nuova Iugoslavia) solo dopo il febbraio 1947, come conseguenza del “Trattato di Parigi” fra l’Italia e le potenze alleate. Il Trattato incluse non solo la rinuncia ai possedimenti coloniali in Africa ma anche lo scambio tra Italia e Iugoslavia di diverse aree. Scambio provvisoriamente sancito dal “Memorandum di Londra” del 1954 [vedi Cartina a destra: zona A amministrata dagli Alleati e quella B dalla Iugoslavia], definitivamente formalizzato dal “Trattato di Osimo” del novembre 1975. Le responsabilità per questo esodo non sono solo delle autorità titine, ma pure di quelle italiane le quali a Parigi
accettarono la clausola che dava la facoltà allo Stato, al quale il territorio era ceduto, di esigere il trasferimento in Italia dei cittadini che avessero esercitato questa opzione. Domandatevi: Non è forse vero che esso incoraggiò l’esodo? Perché il governo italiano accettò questa clausola e avallò l’esodo quando poteva impugnare un’altra clausola del “Trattato di Parigi” che stabiliva il pieno rispetto dei diritti delle minoranze?NOTE [1] Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e del 31 agosto 1942, indirizzate all’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto Rosin. [2] Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30 maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač, Atlante storico dell’Adriatico orientale. DOPO LA BREXIT, LA RUSSIA COME ALTERNATIVA? di Manolo Monereo
Manolo Monereo Enric Juliana è un giornalista unico e, per molti versi, diverso. Il suo stile è quello di collocare storicamente il fatto, i dati, le notizie; cercando di andare oltre il giorno per giorno, inquadrando ciò che accade in un contesto più ampio. Qualche giorno fa ha collegato la Brexit alla geopolitica assumendo come riferimento Halford Mackinder. Non ha detto molto di più. Mi aspettavo che sviluppasse questa idea, ma non l’ha fatto. Quindi tiro questo filo sapendo che, sicuramente, il noto giornalista catalano non sarà d’accordo con molte delle cose che scrivo. Sir Halford Mackinder (1861-1947) fu un notevole geografo britannico e un politico molto influente. Questa doppia condizione deve essere sempre presa in considerazione; egli ha cercato di conoscere la realtà, sempre al servizio degli interessi strategici del suo paese. Sebbene non abbia mai usato il termine geopolitica, ha influenzato in modo decisivo questa disciplina che alcuni considerano la scienza e altri un’arte politica dello Stato. Nel 1904 pubblicò una noto saggio dal titolo “Il perno geografico della storia”. Nel 1919 sviluppò queste idee in un libro molto importante ai suoi tempi, chiamato “Idee e realtà democratica”. Non è facile spiegare in un articolo come questo la complessità, la profondità e le ipotesi di una concezione geografica che ha segnato, per più di un secolo, i dibattiti strategici e politici di un mondo in perpetuo cambiamento. Forse questo è
ciò che sorprende di più. Il “problematico Mackinder” ritorna ancora e ancora, e ritorna — precisamente — quando i teorici della globalizzazione ritengono che il territorio e la geografia abbiano perso la loro rilevanza nelle relazioni internazionali. Per capire bene cosa Mackinder continua a dirci oggi, dobbiamo partire da due idee centrali. La prima è l’opposizione strutturale della geopolitica mondiale tra potere marittimo (talassocrazia) e potere terrestre (tellurocrazia); Questa opposizione è sostanziale e influisce sulle strategie politiche e militari e ha conseguenze per la costruzione e lo sviluppo degli Stati. La seconda, ampiamente sviluppata nel saggio sopra citato di Mackinder, ha a che fare col sopraggiungere di una nuova fase della geografia mondiale, fase che potremmo chiamare post-colombiana. Le scoperte di Cristoforo Colombo segnarono un’intera fase storico-sociale delle potenze dell’Europa (che è una penisola dell’Eurasia) che si espansero in tutto il mondo attraverso gli oceani diventando vasti imperi in collisione permanente. Mackinder crede che questo stadio si sia cocnluso. Il mondo si era chiuso, essendo distribuito tra le grandi potenze, con una chiara egemonia dell’impero britannico. La chiave — siamo così in cuore del dibattito — è che i poteri talassocratici avevano perso parte del loro vantaggio strategico e che il territorio era ancora una volta un elemento centrale (tellurocrazia). Il geografo britannico identifica un territorio fondamentale
che chiama l’isola del mondo composta da Europa, Asia e Africa. Al suo centro, un perno geografico che, in seguito, avrebbe chiamato Heartland o Cuore Continentale. Da questo centro nascono due grandi linee, una interna e una esterna. L’Heartland occuperebbe un ampio spazio di ciò che chiamiamo Siberia e Asia centrale; cioè, dal Volga allo Yangtze e dall’Himalaya all’Oceano Artico. La conclusione di Mackinder segna un’intera era ed è ben nota. «Quando i nostri statisti stanno conversando con il nemico sconfitto, qualche angelo alato dovrebbe sussurrare loro di volta in volta: chiunque domini l’Europa orientale controlla il cuore continentale; chi domina il cuore continentale controlla l’isola del mondo; che domina l’isola del mondo, controlla il mondo». Una piccola nota: ciò che si stava decidendo in quel momento (1919) era il nuovo ordine concordato a Versailles. Torniamo alla Brexit. Questo mese ho pubblicato su El Viejo Topo un saggio sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Mi riferisco ad esso per le altre considerazioni. Una cosa vorrei sottolineare: la ferocia della classe dirigente e dei media europei contro una decisione democratica e legittima non ha una spiegazione facile. Insulti e disprezzo hanno raggiunto limiti difficilmente sopportabili, al punto che la secessione della Scozia è incoraggiata in un momento in cui la questione territoriale è un grave problema in Spagna. A ciò hanno partecipato sia la destra che la sinistra. Nessun leader importante si è chiesto perché, dal 1992 (referendum francese), nessuna consultazione sull’Europa abbia vinto. E’ accaduto solo in Spagna, il che non è un caso. La mancanza di autocritica delle élite europee è allarmante. Il paradosso di tutto questo dibattito è che per gli europei più federalisti la partenza dalla Gran Bretagna avrebbe dovuto essere vissuta come un’opportunità. La costruzione neoliberista dell’Europa è stata giustificata, in larga misura, dalla presenza della Gran
Bretagna; l’involuzione sociale, la predominanza delle libertà comunitarie e la deregolamentazione dei mercati sono state tradizionalmente attribuite alla presenza di un’isola percepita più come una quinta colonna che come costruttore leale di un processo di integrazione unitaria. Si può capire cosa sta succedendo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sulla base del fatto che nel mondo stanno cambiando le basi geopolitiche e che siamo (in questo mondo chiuso) di fronte a una grande transizione che ha al suo centro una grande ridistribuzione del potere. Per dirla in altro modo, ciò che abbiamo chiamato globalizzazione è alò tramonto. Non sarà facile capire le mutazioni che stiamo vivendo; non sarà facile capirle e, tanto meno, avere una piattaforma ideo- politica in grado di guidarci in un mondo in rapido cambiamento. Ciò che sta accadendo lo abbiamo davanti ai nostri occhi: un potere (USA) che rifiuta di accettare la sua decadimenza, che non è disposto a condividere, in nuove condizioni, la sua egemonia mondiale e che affronta un potere emergente (Cina) che è destinato a cambiare l’ordine mondiale. Lo dirò come lo disse Kaplan: gli Stati Uniti non accetteranno il dominio di una grande potenza nell’emisfero orientale. Lo combatterà con ogni mezzo e fino alla fine. La “trappola di Tucidide” è ancora presente. In questo mondo che cambia, le grandi potenze economiche britanniche vogliono camminare da sole; mettono al centro i loro interessi strategici e, dalla loro autonomia, cercheranno alleanze con l’Europa; o meglio, con alcuni paesi europei. Nessuno mette in discussione gli accordi sostanziali con gli Stati Uniti, e il Regno Unito li perseguirà con la propria voce e difendendo i propri interessi. L’altro lato della questione dovrebbe sollevare qualche riflessione agli europeisti che ci accerchiano. I dati più rilevanti per gli uomini e le donne che si trovano nella UE è che maggiore è l’integrazione, minore è la capacità europea di essere un soggetto autonomo e differenziato nelle relazioni
internazionali in cui le grandi potenze definiscono interessi e quadri d’azione. Con Mackinder ritorna la Russia. Per gli Stati Uniti il fronte europeo è secondario, ora sono occupati in qualcos’altro: contrastare l’egemonia della Cina nel Pacifico. La NATO ha questo scopo, subordinare una UE senza anima e senza un progetto, dividerla e impedire un partenariato duraturo con la Russia. La “casa comune europea” è stato un progetto fallito delle élite russe che facevano affidamento su un’alleanza con le democrazie occidentali. Putin è il figlio di quel fallimento. Prese atto e trasse le opportune conseguenze strategiche. Gli Stati Uniti hanno provato — e continueranno a provare — a trasformare la Russia in un grande potere avversario dei popoli europei. È la ricerca di un nemico che giustifica l’esistenza della NATO, la corsa agli armamenti e l’inimicizia tra Germania e Russia. L’espansione a est della NATO, la rapida integrazione degli ex paesi socialisti nella UE e il loro rigido allineamento con l’amico americano è lo stesso processo, dobbiamo insistere, per impedire qualsiasi associazione economica e politica con la Russia; vale a dire, con il perno geografico mondiale o Heartland continentale. Più di 20 anni fa, Brzezinski, parlando dei futuri pericoli per gli Stati Uniti, scrisse quanto segue: «Lo scenario potenzialmente più pericoloso sarebbe quello di una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iran, una coalizione” anti-egemonica “unita non da un’ideologia ma da torti complementari. Ricorderei, a causa delle sue dimensioni e portata, la minaccia rappresentata, ad un certo momento, dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta la Cina sarebbe probabilmente il leader e la Russia il gregario. Evitare questa contingenza, per quanto remota possa essere, richiederà un dispiegamento simultaneo di abilità strategiche statunitensi nel perimetro occidentale, orientale e meridionale dell’Eurasia».
Il noto analista geopolitico americano aveva ragione ed fu in grado di intravedere il futuro. Quando si tratta di soluzioni, riappare sempre Rimland o l”anello continentale” di Spykman. Europa e Germania hanno geoeconomie complementari e potrebbero avere strategie geopolitiche convergenti. Esistono conflitti (come quello in Ucraina) ma sarebbero risolvibili nel quadro di un accordo di partenariato economico, energetico e politico. Il presupposto è che l’Europa abbia un suo progetto autonomo nelle relazioni internazionali; cioè, di disimpegno dalla NATO, definendo i suoi interessi strategici e cercando il suo posto in un mondo che transita, con enormi difficoltà, verso la multipolarità. Il mio vecchio insegnante Samir Amin ha parlato fino al’ultimo di un asse Parigi-Berlino-Mosca- Pechino. Mackinder ritorna e, con lui, l’Eurasia. La storia, non solo non è finita, ma ricomincia. Madrid, 10 febbraio 2020 BARCELLONA, 11 FEBBRAIO: CONFERENZA SULLA GEOPOLITICA DI MANOLO MONEREO * Traduzione a cura della Redazione ** Fonte: Cuarto Poder I TEDESCHI PIÙ POVERI D’EUROPA?
Vale la pena segnalare un’indagine della Bce del 2013. Essa prendeva in considerazione anzitutto il tasso di proprietà immobiliare delle famiglie. Era già noto che esso è in Germania tra i più bassi, mentre nei paesi mediterranei è decisamente più alto, così noi, ma anche greci e spagnoli, risultavamo più ricchi dei tedeschi. Per di più il tasso d’indebitamento dei cittadini tedeschi era tra i più alti della Ue. Di acqua ne è passata sotto i ponti. Una nuova indagine mostrerebbe di sicuro che le politiche austeritarie adottate per stampellare l’eurozona, hanno causato un impoverimento dei paesi mediterranei (a cominciare dalla Grecia) a tutto vantaggio della Germania. * * * Uno studio della Bce mostra che i tedeschi sono tra i più poveri d’Europa di Shai Ahmed* I tedeschi sono una delle popoalzioni più povere d’Europa, persino più povere di quelle nelle travagliate nazioni periferiche di Grecia, Spagna e Italia, ciò secondo i sorprendenti risultati di un sondaggio congiunto di diversi dipeartkenti della Banca centrale europea. L’indagine sulle finanze e i consumi delle famiglie (HFCS) ha esaminato la ricchezza delle famiglie in alcuni paesi chiave dell’area dell’euro. Secondo il rapporto, “la composizione della ricchezza netta è determinata principalmente da beni reali”, di cui la componente principale è la ricchezza abitativa occupata dai proprietari.
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