Hi, my name is Hideki Kamiya

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Hi, my name is Hideki Kamiya
Hi, my name is… Hideki Kamiya

Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del
mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata
degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di
Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento
scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie
meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una
buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case
produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide
così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel
1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle
spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già
fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di
Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del
precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in
prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero
soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua
prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo
da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene
rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto
scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici
su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le
capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità
ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per
la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto
positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista
dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il
designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire
novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e
diversificato.
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La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del
tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto
capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di
gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo
livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si
sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa
rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più
gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio
più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli
precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza
anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil
insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando
le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili
contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.

Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il
director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su
PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo
raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel
saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico,
divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi
conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry
è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha
curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.
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Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane
designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli
esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi
giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da
riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato
dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo
approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le
vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a
scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi
da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore,
il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo.
Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del
picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto
dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa
soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti
un’ulteriore possibilità”.
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Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza
verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel
periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed
investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un
ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come
lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal
controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro
indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle
meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di
Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più
ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore
alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro
per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya
non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e
originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di
attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse
bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani
dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2,
Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo
periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii
e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la
possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.
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Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del
team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi
famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova
indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto
diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a
finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su
Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro:
pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che
il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione
di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta
la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi
vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team
dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little
Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni
rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia,
nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto
quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è
incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un
determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione
parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di
difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione
gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e
grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a
parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello
schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al
momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla
sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu
talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel
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corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha
ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console
della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer
application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei
prossimi anni.

L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta
l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS
e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un
gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati
Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano
pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato
considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia
recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del
mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su
una piattaforma molto più popolare della precedente.
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Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione
all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e
che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il
designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a
regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire
ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso
all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di
una soddisfazione da videogiocatore.

Top 5: Marzo 2019

L‘inverno è giunto alla sua conclusione, lasciando il palcoscenico alla primavera e al rifiorire della
natura. È anche il tempo di nuove uscite videoludiche, tra gemme inaspettate e titoli che non hanno
deluso. Vediamo quali.

#5 Tropico 6

Sesta iterazione per il popolare gestionale di Kalypso Media a tema social-politico: vestiremo
ancora una volta i panni di El Presidente in quello che, forse, è il compito più arduo di tutta la
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serie. Non gestiremo più una sola isola, bensì un arcipelago! È questa la novità più eclatante di
questo Tropico 6, che aggiunge delle variazioni ben riuscite nel classico gameplay della saga.
Avremo quindi più isolotti da gestire, come se fossero delle macro aree ognuna diverse dall’altra,
senza dimenticare l’occhio alle varie fazioni politiche di Tropico, fattore fondamentale per una
lunga presidenza, o nel peggiore dei casi, dittatura.
Dopo il mezzo passo falso del precedente capitolo, Tropico 6 torna in carreggiata, offrendoci uno
dei migliori capitoli della serie da lungo tempo, capace di offrire ore e ore di puro divertimento
caraibico.

#4 Baba is You

Baba is You, puzzle ideato dal finlandese Arvi “Hempuli” Teikari, ha un’idea semplice quanto
complessa allo stesso tempo: per completare i livelli bisognerà “comporre” delle frasi di senso
compiuto, usando degli aggettivi trovati in giro per i livelli. Per esempio, se un fiume di lava ci
blocca il passaggio, basta mettere in sequenza le parole “lava is melt” per veder sparire l’ostacolo. È
un titolo originale che, come l’idea del suo creatore, può sembrare semplice ma in realtà nasconde
un cuore arduo e complesso, come ogni buon puzzle game che si rispetti. Uscito su PC e su
Nintendo Switch, Baba is You è una gemma nascosta nel mare delle pubblicazioni indie, che
consigliamo ai fan del genere e a chi vuole giocare un titolo che fa della semplicità e dell’originalità
il suo punto di forza.
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#3 Tom Clancy’s The Division 2

Abbandonata la notte perenne e innevata di New York per l’assolata e verde Washington D.C., The
Division 2 ci riporta a lottare contro il virus scatenatisi nel primo episodio, portandoci nella capitale
degli Stati Uniti contesa tra quattro diverse bande in guerra per la supremazia territoriale. Il titolo
Ubisoft mantiene le promesse fatte durante lo sviluppo e dona ai giocatori un buon ibrido tra gioco
di ruolo e shooter con coperture, migliorando i difetti del precedente capitolo. Unica pecca forse un
endgame ancora non all’altezza dell’offerta, ma The Division 2 è comunque il miglior loot shooter
del mercato, riuscendo dove altri titoli ancora non riescono a incidere.
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#2 Devil May Cry 5

La rinascita di Capcom passa anche da qui: dopo Monster Hunter: World e Resident Evil 7,
tocca a Dante e colleghi portare in alto il vessillo della software house giapponese. Devil May Cry 5
torna sui nostri schermi più bello che mai, grazie all’uso del RE Engine, e soprattutto più
spettacolare che mai. Se Dante e Nero possono eseguire combo in stile picchiaduro, quest’ultimo
usando anche la particolare protesi robotiche denominata Devil Breaker, particolare è il gameplay
del nuovo V, un evocatore capace di chiamare in battaglia tre demoni da usare per combattere dalla
distanza.
Il Re degli hack n’ slash è tornato e Devil May Cry 5 non delude le aspettative dei fan, donandoci un
titolo sia bello da vedere che divertente pad alla mano.
#1 Sekiro: Shadows Die Twice

Un giovane shinobi del periodo Sengoku, alle prese con un arduo compito: vendicarsi della perdita
del proprio braccio, sostituito da una particolare protesi, e salvare il proprio signore . È questo il
prologo di Sekiro: Shadows Die Twice, ultima fatica di From Software e del suo mastermind
Hidetaka Miyazaki. Nonostante la parentela con la serie dei Souls e del genere a essa legato,
Sekiro si dimostra diverso rispetto ai titoli del recente passato, il gioco è più votato all’azione e al
combattimento tra spadaccini, ed è possibile eseguire anche delle uccisioni stealth che richiamano
un titolo sempre legato agli sviluppatori giapponesi: Tenchu.
Il level design è una delle peculiarità del titolo, con scenari mozzafiato come da tradizione, che ben
si sposano con il setting del Giappone feudale. Sekiro centra il colpo alla perfezione e consacra il
lavoro del suo creatore ai massimi livelli, donandoci non solo il miglior gioco del mese, ma anche uno
dei migliori titoli del 2019.
Devil May Cry 5 – I Tre dell’Ave Maria

Devil May Cry è un brand che non ha bisogno di presentazioni ma, qualora vi servissero, be’…
tornate indietro, recuperate almeno i quattro titoli principali e poi tornate qui; sicuramente
leggerete questa recensione con un piglio un po’ diverso. Hideaki Itsuno è tornato, e il suo Devil
May Cry 5 sembra raccogliere quanto di meglio la serie abbia prodotto nel corso degli anni: c’è un
bel po’ del quarto capitolo, la freschezza del terzo, le idee dell’originale e qualche piccolo dettaglio
ispirato anche dal DMC – Devil May Cry di Ninja Theory, lavoro tra i più sottovalutati del settore
ma apprezzato dai designer originali. Il secondo capitolo, invece, vanta soltanto qualche accenno,
come se tutto fosse accaduto durante una bella sbronza.
Insomma, detta così Devil May Cry 5 sembra un “more of the same”, un titolo che cerca di
accontentare i fan della serie con del fan service banale in ricordo dei tempi andati; ma
fortunatamente c’è molto, ma molto di più, tanto che l’ultima fatica Capcom si candida
automaticamente a essere uno dei migliori giochi di questo 2019.

Bastardi senza gloria
Benché non sia l’elemento principale del franchise, gli sceneggiatori hanno avuto comunque l’onere
di completare linee narrative rimaste in sospeso. Ma a far la differenza – come sempre del resto –
non è “cosa” si racconta ma il “come“. Nelle dodici ore circa necessarie a completare la campagna
verremo avvolti da sequenze al cardiopalmo e contornate dal solito mood nonsense, tamarro e
diretto che ci ha accompagnati soprattutto a partire dal terzo capitolo. Oltre a Nero, che ritorna da
Devil May Cry 4, e ovviamente Dante, fa la sua comparsa un terzo protagonista misterioso: V (una
lettera, un perché). Oltre a essere un personaggio funzionale alla narrazione, questi è anche il
motore che dà il via alle vicende, con lo scopo di fermare il Qliphoth, un ancestrale Albero Sacro.
Del suo modo di combattere parleremo successivamente ma, nonostante un’eccessiva rapidità, quasi
repentina, nel suo cambiamento di stato, V riesce a far centro, con la sua dose di carisma necessaria
all’interno di un roster che vede per protagonista un mostro sacro come Dante e il riuscitissimo
Nero. Le vicende si susseguono con ritmi incalzanti, a volte con ritmo frenetico, altre con il giusto
tempo, per darci modo di entrare “in intimità” con il personaggio in questione. Tralasciando qualche
piccola ingenuità, come le prevedibili reali identità di Nero e V, tutto procede spedito, con una
narrazione non lineare e ben congegnata e su più livelli temporali, ricca di riferimenti ai capitoli
precedenti e ad altre opere come l’anime, ripreso più volte grazie anche all’ingresso in-game di
Morrison (“agente” di Dante), che nel frattempo ha subito un cambio di etnia. Il passato di Dante e
dei suoi trascorsi sono sviscerati a più riprese, mostrando anche piccoli traumi e debolezze che
arricchiscono ancor di più il background di un personaggio ormai iconico. Non si tratta certo di una
scrittura da premio Oscar, sia ben chiaro, ma è comunque sufficiente a rendere Devil May Cry 5 il
migliore dal punto di vista narrativo. Ovviamente non potevano mancare Trish e Lady,
accompagnate in questa occasione da Nico, la compagna d’avventura di Nero senza peli sulla lingua
che svolge funzione di principale di comic relief ma anche da amica fidata, oltre che un ruolo chiave
all’interno del gameplay.
Col sorrisetto, sulla faccetta

È chiaro come in un hack ‘n’ slash il gameplay svolga un ruolo chiave. Devil May Cry 5 riprende lo
stile e le meccaniche del precedente capitolo ma reinterpretandole in una nuova salsa, sfruttando
anche la maggiore potenza dell’hardware attuale. Abbandonata la telecamera fissa, ci si ritrova
all’interno di un’orgia adrenalinica di colori, suoni e botte da orbi che Capcom ci ha saputo regalare
spesso, anche se qui siamo su ben altri livelli. Aver tre personaggi giocanti significa avere tre
differenti approcci al combattimento: partendo dal nuovo arrivato V, ci troviamo ad avere a che fare
non con il “solito” mezzo demone armato di lama ma con un evocatore, in grado di richiamare due
creature più una speciale, vecchie conoscenze del capitolo originale. Lo stile di V è totalmente
diverso rispetto a qualunque altro personaggio della serie: a combattere saranno i demoni evocati,
mentre “l’uomo misterioso” starà a distanza, agendo solo in caso di colpo di grazia. Ma ricordiamoci
che si tratta pur sempre di Devil May Cry e anche qui le cose si fanno interessanti: come da
abitudine (e vale anche per Nero e Dante) abbiamo a disposizione una caterva di combo e colpi
speciali da sbloccare grazie all’ausilio di Gemme Rosse (la moneta in-game); ne consegue che la
varietà di abilità presenti tange i picchiaduro più affermati, dovendo di volta in volta imparare le
combinazioni presenti, accordare il più possibile armi e combo, annullare l’animazione del
personaggio e così via. Con V tutto questo risulta forse un po’ troppo facilitato, raggiungendo molto
spesso il Grado SS senza particolari difficoltà. Non che manchi tecnicismo, ma l’utilizzo di più
creature, unita alla capacità di effettuare un eliminazione dopo l’altra, facilità un po’ le cose.
Nero è semplicemente Nero. Persa la possibilità di utilizzare il Devil Bringer, è costretto a
usufruire di protesi speciali costruiti dalla sua fedele Nico. I Devil Breaker, diventano così un’idea
geniale, in grado di variare l’approccio ai combattimenti come raramente visto in altre produzioni:
essi hanno abilità diverse ed è possibile portarne sino a otto se sbloccati gli slot necessari; ognuno di
loro ha capacità uniche come la possibilità di lanciare scariche elettriche in grado di stordire i
nemici, fermare il tempo o trapanare per bene. La loro varietà è molto ampia possedendo a loro volta
un’abilità speciale devastante che se usata causerà la distruzione dell’arto meccanico. Proprio la loro
distruzione diventa un elemento attivo del gameplay di Nero in quanto l’unico modo per cambiare
Devil Breaker è quello di sacrificarlo. Se a prima vista questa scelta può sembrare limitante,
giocando ci si accorge come tutto abbia un senso logico: oltre a portare un certo tatticismo nella
scelta delle protesi da utilizzare a inizio missione, le esplosione hanno sempre un effetto attivo,
danneggiando i nemici, aiutando quasi a non interrompere le combo. Inoltre c’è da considerare che
inserendo la possibilità del cambio, Nero sarebbe stato sin troppo simile a Dante, capace di
cambiare stile, influenzandone il moveset. Ma lo vedremo dopo. Ogni Devil Breaker è dotato di un
rampino, capace di far attrarre verso di noi ogni nemico e sbilanciarlo oppure di lanciarci verso il
malcapitato con tutta la nostra furia.

Ma che Devil May Cry sarebbe senza una spada? La Red Queen di Nero torna più in forma che mai,
con la sua peculiarità di poter essere caricata (sino a un massimo di tre volte) rendendola ancor più
potente. La combinazione di Red Queen e dei Devil Breaker trasforma Nero in una macchina di
morte quasi esilarante: Nero si diverte e con lui ci divertiamo anche noi. Pad alla mano, l’utilizzo del
nuovo ammazza demoni è una gioia per gli occhi e per il cervello, restituendo feedback puramente
adrenalinici capaci di assuefare ogni videogiocatore. E non siamo ancora arrivati alla parte migliore.
Ovviamente Dante riesce a regalare le migliori soddisfazioni, non migliori rispetto a Nero ma
semplicemente diverse, probabilmente per l’affezione all’iconico personaggio. Dante è in tutto e per
tutto il figlio di Sparda che conosciamo, capace di intercambiare in tempo reale armi e stile come
solo lui sa fare. Passare dalla Rebellion (la celeberrima spada di Dante) alla Balrog (una sorta di
armatura per gli arti) e Cavaliere R, in poche parole uno “moto – sega” (!) è puro piacere, intenso
come un Ferrero Rocher fondente (molto buono). Tutto diventa, dopo aver fatto un po’ di pratica –
soprattutto ne Il Vuoto – pura tecnica e istinto, una combinazione che raramente, ma molto
raramente troverete in altre opere simili.
È un titolo che come da tradizione predilige l’attacco più che la difesa e ovviamente non ci si può
staticamente difendersi: l’importanza alla schivata è infatti relativa e seppur presente, attraverso
una combinazione di tasti, difficilmente sarà un opzione presa in considerazione.
L’attenzione riservata al puro combattimento è andata anche verso la realizzazione di ambienti
strutturati con cognizione di causa e benché presentino il più delle volte il sistema classico di
“corridoio-arena”, il level design riesce a sorprendere, invogliando in qualche modo l’esplorazione
alla ricerca di oggetti utili alla missione. Questo in certi frangenti diventa fondamentale in quanto in
questo capitolo sono state completamente rimosse le Stelle di cura e di ricarica del Devil
Trigger. Dunque la barra vita che abbiamo è quella che ci dobbiamo tenere, sfruttando
eventualmente la trasformazione in demone per rigenerarla. A far da contraltare però vi è una
maggiore disponibilità di Gemme Dorate (una sorta di vita in più) oltre a un numero
infinitamente più alto di gemme rosse, visto anche la presenza dei tre personaggi giocabili. Il titolo è
estremamente equilibrato e nonostante sia presente la possibilità di effettuare degli acquisti
attraverso microtransazioni, non se ne sente mai il bisogno.
Piccola nota anche all’aggiunta del cosiddetto Cameo System, in cui uno o più giocatori reali
possono intervenire in partita, trasformando in certi frangenti, DMC in un cooperativo online.
Questo sistema, però, benché discretamente interessante, è un elemento quasi superfluo e che non
incide in alcun modo sull’andamento della partita, se non per qualche piccolo aiuto in caso di
numerosi nemici.
In ogni caso Devil May Cry 5, in ogni sua traslitterazione di gameplay, è puro piacere e se non vi
diverte, allora il problema siete voi.

Un Giappone che funziona

Il RE Engine si mostra in tutta la sua potenza, rendendo Devil May Cry 5 una gioia per gli occhi,
soprattutto su PC. La modellazione dei personaggi, così come le animazioni rendono il tutto molto
verosimile, enfatizzato da animazioni facciali tra le migliori viste finora. Tutto risulta pulito e fluido e
su PC perfettamente ottimizzato, segno che in Giappone forse stanno cominciando a prendere a
cuore la comunità di “pcisti”. Proprio questa versione risulta essere di gran lunga la migliore
rispetto alla versione console, garantendo una maggiore cura per i background e soprattutto per gli
effetti, dal motion blur all’occlusione ambientale, tra l’altro presenti con opzione “variabile” nel
menu apposito, permettendo una gestione adeguata di questi anche per macchine non performanti.
Spiccano, come già accennato, i modelli e le animazione dei personaggi, non solo durante le
cutscene (splendide, coreografiche e ricercate) ma anche durante il gameplay, tra evoluzioni
pittoresche e violenza inaudita.
Anche la componente audio non è da meno, con l’ormai iconica Devil Trigger del duo Casey e Ali
Edwards e le musiche d’accompagnamento diverse per ogni personaggio ma che hanno in comune il
crescendo parallelamente al livello di stile ottenuto. Ne consegue che la musica accompagna
direttamente, ma in maniera naturale, l’azione, creando un mix perfetto e adrenalinico. Rispetto al
reboot di Ninja Theory (DMC – Devil May Cry) il gioco non è doppiato in italiano ma soltanto in
inglese e giapponese, con sottotitoli. La sincronia con il labiale è perfetta in entrambi i casi,
piacevole e godibile in entrambe le lingue.

In conclusione

Devil May Cry 5 è l’ulteriore conferma del periodo d’oro di Capcom: nonostante sia un sequel di
una saga quasi ventennale riesce nell’intento di accontentare tutti, dai fan più esagitati ai neofiti,
che magari potranno recuperare i prequel. Una trama funzionale ma ben sceneggiata accompagna
tre differenti gameplay di altissimo livello, rendendo questo quinto capito forse il migliore hack ‘n’
slash degli ultimi dieci anni. Soltanto qualche leggero difetto sporca un titolo da eccellenza assoluta
e che forse aprirà le porte a un nuovo remake sulla falsa riga di Resident Evil II: quello
dell’originale Devil May Cry.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10

Top 10 giochi NES sottovalutati

Il Nintendo Entertainment System è una console che di certo non ha bisogno di introduzioni:
piena di classici che hanno dettato un’infinità di standard per le generazioni a venire. Basti pensare
a Super Mario Bros. per i platform, The Legend of Zelda e Metroid per i giochi d’avventura,
Final Fantasy e Dragon Quest per gli RPG, Gradius per gli shoot ‘em up, e poi ancora Mega
Man, Castlevania, Contra, Bionic Commando, la lista potrebbe non finire mai. Questi sono
indubbiamente giochi che ogni appassionato conosce (o dovrebbe conoscere) ma come accade per
ogni generazione ci sono molti altri titoli, davvero al pari dei classici, che semplicemente non
spiccano perché possibilmente la data di uscita ha coinciso con qualche altro gioco più grande o,
semplicemente, non ha ricevuto l’attenzione delle riviste e soprattutto dei fan. Oggi su Dusty
Rooms faremo qualcosa di insolito, un tipo di articolo sicuramente inflazionato ma comunque
intriso, soprattutto, della nostra personalissima esperienza come giocatori: una bella Top 10 dei
giochi più sottovalutati della libreria del NES. Vi faremo una breve introduzione, vi diremo quali
sono le feature più interessanti e anche qual è il miglior metodo per giocarci al giorno d’oggi. La
lista includerà anche import di cui siamo certi esistano traduzioni sul web da poter patchare con le
rom. Se ci dimentichiamo di qualche titolo fatecelo sapere – educatamente – nei commenti qua sotto.

10. Nightmare on Elm Street
Uno, due, tre, Freddy™ viene da te… Ebbene sì, con l’avvento di internet questo gioco è diventato
molto impopolare, specialmente per l’associazione con LJN, il cui marchio, se appare nella title
screen, è sinonimo di gioco programmato coi piedi. Tuttavia in molti su internet hanno dimostrato
che i loro giochi non sono tutti da buttare e questo non solo è uno dei più interessanti ma e anche
uno dei più avvincenti, sebbene non c’è un briciolo di violenza che ha resto la saga famosa sul
grande schermo. Il gameplay ha uno strano meccanismo di “dream world/awake world” e una
progressione poco dinamica, non intuibile a primo acchito, ma una volta fatto il callo con queste
particolarità Nightmare on Elm Street presenta un gameplay abbastanza piacevole: ci sono dei
degli stage in cui bisogna collezionare una serie di ossa appartenenti al defunto Freddy Krueger,
nel dream world è possibile raccogliere delle carte che permettono al giocatore di diventare un
atleta o un mago e i buoni controlli permettono una fruizione di tutto rispetto. Tuttavia, la più bella
feature di questo gioco è sicuramente il multiplayer fino a quattro giocatori in contemporanea grazie
al NES Four Score; un po’ come in Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors, tutti uniti per
sconfiggere Freddy Krueger! Non credete alle baggianate del web, questo titolo merita molto di
più.
9. Street Fighter 2010: The Final Fight
Il 2010 è passato e sicuramente non abbiamo visto l’invasione da parte di demoni scorpioni, alieni
mutanti a forma di ombrello e occhi intrappolati in capsule di vetro un po’ dappertutto… Se
qualcuno di voi sta ancora pensando che questo titolo non ha nulla a che fare con la celeberrima
serie picchiaduro Capcom vi sbagliate di grosso; questo è l’ultimo titolo della saga prima che
esplodesse con Street Fighter II! La storia vede Ken, in questo titolo uno strano tamarro spaziale,
25 anni dopo il primo torneo di Street Fighter; diventato uno scienziato, il noto combattente dal gi
rosso crea il cyboplasma (sarà probabilmente come un ectoplasma con un po’ di “cybo” dentro)
insieme al suo nuovo amico e assistente Troy. In seguito Troy viene ucciso e il cyboplasma, che
una sostanza in grado di dare alle creature viventi una forza sovrannaturale, viene rubato; ci
metteremo dunque sulle tracce dell’assassino del nostro assistente per vendicare la sua morte e
recuperare i pezzi della nostra creazione per evitare che finiscano nelle mani sbagliate. Questo titolo
è blasonato in primo luogo per i suoi controlli poco intuitivi e per il fatto che non ha nulla a che
vedere con Street Fighter (né con Final Fight, visto che è citato nel titolo) ma per quanti difetti
possa avere e difficile prendere familiarità coi controlli (vi consigliamo appunto di giocarlo con un
controller con tasti turbo), Street Fighter 2010 offre un livello di sfida tosto al punto giusto e un
gameplay di tutto rispetto. Le atmosfere sono veramente splendide – oseremo dire un mix fra
Salvador Dalí e H.R. Giger – e può regalare delle sane ore di gameplay, specialmente se lo
togliamo dal contesto Street Fighter. Indubbiamente da provare, anche se non faremo Shoryuken
attraverso lo spazio e il tempo, non faremo la mezzaluna di Guile sulla luna e non romperemo
asteroidi con le testate di Honda: al diavolo Street Fighter V, viva Street Fighter 2010!
8. Splatterhouse: Wanpaku Graffiti (Famicom)
La gente conosce la saga di Splatterhouse per la sua violenza e la sua vicinanza con la serie horror
Venerdì 13 ma questo spin-off viene spesso trascurato in favore dei più grandi titoli principali.
Wanpaku Graffiti (che in giapponese significa graffiti monelli) ha un approccio meno serio rispetto
alla saga, infatti Rick, il famoso protagonista che sfoggia la maschera del terrore (che è una
scopiazzatura della famosissima maschera da hockey di Jason), la fidanzata Jennifer, i mostri e i
boss vengono presentati con uno stile chibi/super deformed, tutt’altro che horror. Il gameplay è
molto simile a quello di Splatterhouse ma molto più semplificato e veloce, adatto a coloro che non
vogliono una sfida troppo impegnativa, veramente una gemma che merita di essere riscoperta. Il
gioco, nonostante sia uscito esclusivamente per Famicom, non presenta linee di dialogo in
giapponese, né i prezzi su eBay non sono terribilmente proibitivi; ricordiamo inoltre che esistono
anche delle reproduction cartridge che girano anche su i NES americani e europei.
7. Lagrange Point (Famicom)
Non è un RPG di Squaresoft, né di Enix e neppure di Sega, bensì un’avventura futuristica, ispirata
primariamente alla saga di Phantasy Star, targata Konami. È un titolo molto raro e dispendioso ma
è un titolo che merita di essere giocato e soprattutto ascoltato visto che è l’unica cartuccia del
Famicom che monta l’impressionante chip sonoro VRC7, in grado di dare a questo gioco la
sintesi FM, dandogli delle sonorità al pari del Sega Mega Drive. In quanto avventura RPG non
porta grandi innovazioni, è un’avventura molto classica ma è spesso un titolo dimenticato nonostante
le sue molte particolarità, soprattutto sul piano tecnico e sonoro (basta guardare la deforme
cartuccia originale). Lagrange Point può sembrare un titolo proibitivo visto il prezzo, generalmente
alto e il fatto che l’aspetto testuale del gioco, che in un RPG fa da padrone, è interamente in
giapponese; per questi motivi è meglio trovare il gioco in rete e scaricare la patch da applicare alla
rom. Non ve ne pentirete!
6. Journey to Silius
Questo titolo Sunsoft ha una storia molto affascinante: inizialmente questa compagnia era riuscita a
ottenere i diritti per produrre un videogioco tratto dal film Terminator ma quando gli studio
cominciarono a lavorare su Terminator 2 questi furono ritirati per far sì che un’altra compagnia
potesse farne un gioco appena dopo l’uscita al cinema. Sunsoft decise tuttavia non staccare la spina
all’intero progetto e così salvò il tutto producendo una nuova IP da zero. Nonostante la cancellazione
del progetto originale è ancora possibile notare ciò che rimane del progetto originale: il primo livello
ricorda esattamente il mondo post-apocalittico dalla quale il Terminator è venuto e il design delle
armi, visibili nel menù di pausa, somigliano a quelle impugnate da “Schwartzy”. Licenza o no,
questo gioco è una vera bomba: tanti livelli avvincenti, ottimi controlli, una moltitudine di armi per
un gameplay molto vario e una colonna sonora spettacolare! Journey to Silius offre una sfida
eccezionale, anche se non adatta proprio a tutti per via della sua spiccata difficoltà. Sfortunatamente
recuperare questo titolo su NES è molto dispendioso, così come la collection su intitolata Memorial
Series: Sunsoft Vol. 5 su PlayStation in cui è presente. Speriamo che appaia presto in streaming
su Nintendo Switch, altrimenti… Sapete cosa fare!
5. Cobra Triangle
A che serve una storia quando hai un motoscafo che va a 90Mph, che monta mitragliatori, missili e
può persino spiccare il volo grazie a una minuscola elica? Concepito col motore grafico di R.C. Pro-
Am, Cobra Triangle è un gioco Rare che mischia principalmente corsa e combattimenti veicolari
ma gli obiettivi cambiano in ogni stage: oltre al semplice “arriva al traguardo” avremo stage in cui
dovremo disarmare delle mine, proteggere civili, saltare cascate in corsa col nostro motoscafo e
persino affrontare delle creature marine giganti (entrambe cose che fanno pensare che all’interno di
quel motoscafo ci sia Chuck Norris), il tutto accompagnato dalle magiche composizioni di David
Wise, noto soprattutto per aver composto la colonna sonora di Donkey Kong Country. Ai tempi il
gioco fu abbastanza popolare ma probabilmente, per via della sua elevata difficoltà (e anche per il
fatto che R.C. Pro-Am era molto più accessibile), Cobra Triangle non diventò un titolo molto
discusso. Anche se non ha mai avuto un vero cult following, vi è possibile giocarlo nella collection
Rare Replay su Xbox One uscita nel 2015. Un gioco per i veri duri!
4. Ducktales 2 e Chip ‘n Dale 2
Entrambi sono i sequel, rispettivamente, di Ducktales e Chip ‘n Dale (in Italia Chip & Ciop:
agenti speciali) e anche se rispettivamente ai loro primi capitoli sono un po’ inferiori ciò non toglie
che rimangono giochi veramente eccezionali e sopra la media. Non ci sono grosse innovazioni sul
piano tecnico ma il level design e il livello di sfida sono al pari dei vecchi giochi; al giorno d’oggi
avremmo considerarli come DLC dei giochi precedenti. La critica, ai tempi, espresse ancora una
volta dei pareri unanimemente positivi ma essendo usciti fra il 1993 e il 1994 purtroppo non
attrassero l’attenzione dei giocatori che ormai erano passati definitivamente alle macchine 16bit; di
conseguenza, essendo usciti così tardi, furono prodotte pochissime copie di entrambi i giochi e ciò si
traduce, al giorno d’oggi, in prezzi obbrobriosi su eBay. Fortunatamente per noi, così come per
Cobra Triangle, questi due giochi sono stati aggiunti in una collection recentissima, ovvero The
Disney Afternoon Collection per PC, PlayStation 4 e Xbox One, che include, oltre a Ducktales
2 e Chip ‘n Dale 2, i rispettivi (e superiori) prequel, TaleSpin e…

3 Darkwing Duck
Recentemente riscoperto, questo titolo ha vissuto per anni nell’ombra generata da altri titoli simili,
soprattutto Mega Man e i restanti giochi Disney prodotti da Capcom sul NES. Nonostante il
termine di paragone, possiamo dire che ha comunque ben poco da spartire con i giochi appena citati
e che Darkwing duck si pone come un gioco a sé. Come in Mega Man possiamo selezionare i primi
sei stage iniziali, abbiamo un assortimento di armi “a consumo”, ma diversamente dal robottino blu
Darkwing Duck può parare alcuni colpi nemici col suo mantello e può aggrapparsi ad alcune
piattaforme da sotto (così come può smontare dalle stesse premendo salto e giù
contemporaneamente) e ciò sarà una componente fondamentale negli stage del gioco; in aggiunta a
un level design veramente eccellente, questo titolo riesce a consegnare delle sanissime ore di
gaming grazie a semplicissime meccaniche, tanto classiche quanto avvincenti. Così come per
Ducktales 2 e Chip ‘n Dale 2, Darkwing Duck è presente in The Disney Afternoon Collection,
perciò potrete godervi questo titolo con pochissimo e in un media recente in definizione HD.

2. Getsu Fūma Den (Famicom)
Questo gioco fu la risposta di Konami a Genpei Toumaden, un gioco Namco ispirato alla storia
del primo Shogunato del Giappone. Come la controparte, questo gioco estrae elementi di trama
direttamente dall’era Sengoku, una particolare fase della storia Giapponese; al centro della trama
c’è Getsu Fūma, il più giovane ninja del clan dei Fūma (ordine esistito realmente), che parte alla
volta delle isole demoniache per vendicare i suoi tre fratelli caduti in battaglia, recuperare le loro
spade (chiamate Hadouken) e sconfiggere Ryūkotsuki, il demone responsabile della morte dei suoi
compagni. Come in Zelda II: the Adventure of Link, ci ritroveremo in una schermata di overworld
molto simile e lì possiamo visitare le tende, in cui potremo trovare mercanti o oracoli che ci
daranno dei consigli sul dove andare, o attraversare i torii, le famose strutture a forma di portale
giapponesi; lì partirà l’azione vera e propria e dovremo pertanto affrontare un breve stage ma irto di
nemici e ostacoli di vario tipo. Durante le fasi in 2D possiamo avere l’opportunità di usare qualche
oggetto per sfollare le schermate più caotiche, raccogliere un po’ di oro lasciato da i nemici e
accumulare punti attacco e difesa per far crescere dinamicamente il nostro personaggio,
esattamente come in un gioco RPG. Gradualmente, torii dopo torii, arriveremo a uno dei nostri veri
obiettivi, ovvero uno dei tre dungeon sparsi nell’isola: qui, dopo aver avuto modo di provare l’intensa
azione 2D, avremo modo di vedere il gioco letteralmente da un’altra prospettiva, alle spalle di Getsu
Fūma in un buio labirinto in 3D. Vale a ricordare che, di questi labirinti, non c’è una mappa in game
ma, così come per molti altri titoli dell’epoca, è consigliabile munirsi di carta e penna e cominciare
ad abbozzare una mappa da noi (orientandoci con la bussola da comprare in un negozio prima di
entrare) – che dire? Giochi di altri tempi! –. Il gameplay si farà apparentemente più calmo, ma
questa sarà solo una falsa impressione in quanto troveremo, in questa modalità, altri nuovi nemici da
affrontare da questa prospettiva 3D, e stavolta ci toccherà usare un po’ più di ingegno. Purtroppo
questo titolo, probabilmente per via del gap culturale, non superò mai le sponde del Giappone,
nemmeno coi servizi Virtual Console di Wii, Wii U e 3DS per i quali uscì, e Getsu Fūma Den
rimane a oggi un fenomeno esclusivamente giapponese, quando in realtà il gameplay soddisfa
appieno anche i gusti occidentali. Fortunatamente per noi, la hack scene è venuta incontro ai
giocatori di tutto il mondo e da tempo esiste dunque una rom tradotta che permette dunque a noi
demoni occidentali di provare questo gioco veramente spettacolare. Da non perdere per nessun
motivo!

1. Metal Storm
Questo titolo non è soltanto un gioco veramente divertente ma è anche uno dei giochi più fini della
libreria del NES. A tratti, questo gioco Irem, famosi principalmente per R-Type, può ricordare
Mega Man per la sua natura che mischia run ‘n gun, platform e avventura, ma Metal Storm si
differenzia per due fattori principali: il primo è che il nostro mecha esplode con un solo colpo
avversario e il secondo, ed è ciò che rende questo gioco veramente unico, è la gravità che cambia
quando premeremo su/giu e salto. Insieme a delle animazioni fluidissime, splendide per una
macchina 8 bit, una grafica molto dettagliata e una colonna sonora spettacolare, Metal Storm ha un
gameplay difficile ma adatto a tutti, dai principianti ai più navigati (che potranno trovare del vero
pane per i loro denti una volta terminata la prima run e avviato la seconda per esperti) e un level
design curato in ogni dettaglio e che include anche dei livelli giroscopici. Questo è un titolo
esemplare per la libreria del NES ma purtroppo è molto impopolare, persino fra i più affiatati
collezionisti: Metal Storm uscì nel Febbraio 1991, lo stesso anno in cui uscirono i più famosi
Battletoads, Tecmo Super Bowl, Double Dragon III, Bart vs the Space Mutant e persino il
Super Nintendo, che sarebbe uscito ad Agosto. In tutto questo Irem non ha mai avuto realmente lo
stesso peso di altre grandi compagnie come Capcom, Konami o Hal e perciò, nonostante questo
titolo fu pubblicizzato in una copertina di Nintendo Power, questo titolo non ha mai raggiunto lo
status di classico, forse neppure oggi. Recuperate questo titolo oggi e diamo a Metal Storm il
riconoscimento che merita!

Mega Man 11

È possibile tracciare in Mega Man 9 l’inizio dei videogiochi retro-ispirati: sebbene alcuni di
questi giochi esistevano già prima su internet sotto forma di hack o giochi flash su siti come
Newgrounds, Mega Man 9 aprì le porte alla retro-rivoluzione di cui oggi siamo protagonisti poiché
per la prima volta un grosso developer come Capcom dava credito e peso a non solo tutti quei fan
che volevano un nuovo classico titolo del blue bomber, che in quel periodo era protagonista
solamente di miriadi di sub-saghe e spin-off vari, ma anche l’importanza e la bellezza dei platform
più tradizionali, la cui emozione veniva trasmessa anche con una grafica datata come
quella del NES. Da lì sembrava che per Mega Man si prospettasse un futuro molto florido, visto il
tempestivo decimo capitolo per l’anno successivo, ma nel 2010 accadde qualcosa di terribile: Keiji
Inafune, direttore creativo della saga di Mega Man, abbandonò Capcom e col suo forfait la saga
subì un brutto stop. Ben tre progetti, Mega Man Universe (un gioco che avrebbe potuto anticipare
il sistema di creazione di livelli in Super Mario Maker), Mega Man Legends 3 e Maverick
Hunter, vennero cancellati e a quel punto il fandom del robottino blu cadde nell’abisso, quasi certo
di non rivederlo più.
A sparigliare le carte ci pensò Keiji Inafune, con il lancio nel 2013 su Kickstarter il del progetto
Mighty No. 9, annunciato come il sequel spirituale di Mega Man; nonostante la risposta più che
positiva da parte dei fan che finanziarono il progetto nel giro di un paio di minuti, per via della
mancata comunicazione e un marketing discutibile (nonché alcuni brutti bug presenti nella release
finale) il gioco che doveva riportare ai fan di Mega Man una sfida che fosse pane per i loro denti si
rivelò un amaro fallimento e non a tutti piacque quello a cui giocarono. Nel frattempo Capcom, visto
il successo del Kickstarter del loro ex impiegato, decise di rilasciare Mega Man Legacy
Collection, contenente i primi sei titoli classici, insieme a un sacco di extra, ideali per far conoscere
ai giocatori più giovani di cosa è fatta la saga del robottino blu. Due anni dopo, nel 2017
arrivò Mega Man Legacy Collection 2 contenente i restanti quattro titoli della serie classica ma
nella sezione extra di Mega Man 8 i fan fanno una misteriosa scoperta: negli artwork trovano un
misterioso disegno che non appartiene al suddetto gioco, né a nessun altro Mega Man presente
nella collezione, e perciò cominciarono le speculazioni. La risposta arrivò un pomeriggio (in Europa)
del Dicembre 2017 quando in una live di Capcom su Twitch, per festeggiare il 30esimo
anniversario di Mega Man, venne annunciato a sorpresa Mega Man 11, un gioco atteso per 8
anni e che finalmente, dopo richieste su richieste da parte dei fan, arrivò alla luce (e apparve anche
un Mega Man sfoggiare le stesse caratteristiche dell’artwork misterioso, ovvero il power-up di
Block Man).
Il passo dalla rivelazione del trailer al rilascio ufficiale non fu breve ma, durante questo lasso di
tempo, Capcom si assicurò di aggiornare regolarmente i fan e dunque ottimizzare il gioco il più
possibile, consegnando così un opera di classe, senza sbavature e che, soprattutto, apriva la strada
al futuro della saga che, oggi più che mai, sembra luminoso e pieno di sorprese. Andiamo subito a
vedere la versione per PC di questo gioco, uscito ovviamente per PlayStation 4, Xbox One e
Switch.

Due colleghi
La lore della saga risiede nei lavori di Thomas Light e Albert W. Wily, due scienziati appassionati
di robotica che crearono una serie di robot, fra cui i sei robot di Mega Man (il primo titolo per
NES), creati per assolvere lavori comuni, i due fratelli Rock (il nome giapponese del blue bomber) e
Roll, creati come assistenti di laboratorio, e Protoman (ma qui è una storia non rilevante). A un
certo punto il Dr. Wily, accecato dalla più brillante abilità del suo amico Thomas Light, corrompe i
sei robot da lavoro portandoli ad attaccare gli umani e li convince a dominare il mondo sotto il suo
nome. Il Dr. Light convince così Mega Man, il robot originariamente concepito per funzioni
diverse, a convertirsi in un robot da combattimento e così nasce il blue bomber che oggi
conosciamo e amiamo. Il Dr. Wily più in là, nonostante la prima sconfitta, proverà più e più volte
con altri robot a dominare il mondo senza mai ottenere nessun risultato (per ben 10 volte, pensate!).
L’opening di questo nuovo Mega Man 11 ci mostra un flashback di Dr. Light e Dr. Wily, giovani,
di fronte a una commissione universitaria; si discute sul double gear system, un meccanismo
creato da Wily in stato di prototipo che se installato nei robot da lavoro gli permetterà di lavorare il
triplo, aumentando la loro forza fisica e rendendoli più veloci. La commissione boccia
l’invenzione del Dr. Wily per mancanza di etica in quanto, se il meccanismo finisse nelle mani
sbagliate, potrebbe generare un robot inarrestabile in caso di rivolta; scaraventando il meccanismo
per terra, lo sconfitto dottore se ne va ma Dr. Light, che comunque credeva nel suo amico, lo
raccoglie pensando che un giorno gli possa tornare utile. Nel tempo presente, nel classico anno
20XX, il Dr. Wily, svegliatosi da un sogno che rimembrava i medesimi eventi, si ricorda del double
gear system e così ne implementa uno nuovo ma gli mancano i robot; durante il giorno della
manutenzione di alcuni robot master del Dr. Light, ovvero di Block Man, Acid Man, Blast Man,
Torch Man, Bounce Man, Impact Man, Fuse Man e Tundra Man, il Dr. Wily irrompe nel
laboratorio con il suo iconico Ufo e lì ruba sotto gli occhi di Mega Man, Roll, l’assistente Auto e il
buon dottore spiegando nel contempo che utilizzerà la sua invenzione che gli fu scartata dalla
commissione. Il Dr. Light informa Mega Man che, così com’è, non potrà fronteggiare i robot
master senza il double gear system ma, fortunatamente per lui, il Dr. Light conservò la versione
di Wily sin da dai tempi dell’università; una volta installata questa nuova miglioria Mega Man è
pronto per buttarsi in una nuova avventura.

Due ingranaggi
Questo nuovo Mega Man 11 si concentra dunque sul sistema double gear, una nuova meccanica
che dona a questa saga, onestamente un po’ stagna, una sfumatura diversa dal solito e molto
originale: col tasto “RT” (“R“, e “R1” nei joypad, rispettivamente, di PlayStation 4 e Nintendo
Switch) si attiverà un ingranaggio che renderà più veloce il blue bomber, rallentando dunque
l’azione circostante, l’ideale per assestare colpi di precisione o, se siamo muniti di un pollice
veloce, concentrare più colpi in poco tempo; con “LT“, invece, attiveremo un altro ingranaggio
che, semplicemente, aumenterà la potenza di Mega Man e, se caricheremo un colpo tenendo
premuto il tasto per sparare, lanciare ben due colpi di mega buster potenziato, l’ideale per i
nemici particolarmente forti e per quei giocatori che conoscono il tempismo perfetto per caricare
l’arma e scaricarla al momento giusto. Quando attiveremo una di queste funzioni si riempirà una
barra che, se arriverà alla saturazione, impedirà le funzioni double gear fino a quando questa
energia non torna a zero, e ci vorranno circa 15 secondi affinché si possa ripristinare; è perciò tanto
importante usare queste nuove funzioni quanto saperle economizzarle il più possibile per poi evitare
di non ritrovarsele pronte nel futuro immediato. I veterani dei giochi à la Mega Man potranno
trovare nel double gear delle similitudini col sistema di corrente elettrica già visto in Azure
Striker Gunvolt, senza però la possibilità di ricaricare immediatamente la barra premendo due
volte giù, e anche della velocizzazione del tempo in Sine Mora, particolarissimo shooter della
Digital Reality e Grasshopper Manufacture. Infine, questo nuovo sistema ha un ultima e potente
funzione ma questa si attiverà esclusivamente quando avremo poca energia: premendo entrambi i
tasti insieme, “RT” e “LT“, verranno attivate entrambe le funzioni, dunque rendendo Mega
Man super potente e super veloce, ma si disattiveranno solamente alla saturazione della barra
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