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Vergognoso: Trump compra tutte le scorte mondiali di un farmaco contro il coronavirus Il remdesivir è una delle rare medicine efficaci contro il coronavirus. Niente di risolutivo, ma un modesto effetto lo avrebbe. Peccato che potremmo non trovarlo più. Gli Stati Uniti hanno acquistato tutta la produzione di luglio e il 90% di quella di agosto e settembre. Proprio in questi giorni l’Agenzia europea per il farmaco stava valutando la sua approvazione nel continente (attualmente da noi è usata in regime compassionevole). Niente da fare, almeno per tre mesi. La Casa Bianca era già stata tacciata di “pirateria moderna” dalle autorità della Germania a marzo, dopo aver bloccato alla frontiera un carico di mascherine destinate alla polizia di Berlino e aver cercato di opzionare il vaccino allo studio nell’azienda tedesca CureVac. Mentre si moltiplicano gli appelli internazionali per una distribuzione equa delle risorse contro il coronavirus, il comportamento degli Stati Uniti sembra andare in direzione opposta. L’annuncio dell’operazione piazza pulita sul remdesivir è stato dato dal Dipartimento della Salute americano lunedì. “Il presidente Trump – si legge nell’annuncio – ha concluso un accordo stupefacente per assicurare che gli americani abbiano accesso al primo farmaco autorizzato contro il Covid”. Agli ospedali degli Stati Uniti andranno 500 mila trattamenti. Ogni trattamento contiene 6 o 7 fiale e costa 3.200 dollari,
pagabili (per chi la ha) dall’assicurazione. Secondo la rivista Medicines Law and Policy il costo di produzione per un ciclo di una settimana con il remdesivir è di 7 dollari e il farmaco (messo a punto ai tempi di Ebola, ma con risultati clinici non brillanti) ha goduto di una buona dose di finanziamenti pubblici per la fase di studio. A marzo la Gilead, l’azienda americana che lo produce, aveva chiesto che il remdesivir fosse inserito nella lista dei farmaci orfani, una categoria ad hoc per le malattie rare che prevede una serie di vantaggi su brevetti ed esclusive. La Food and Drug Administrationl’aveva appena concessa quando un’ondata di sdegno si è sollevata negli Stati Uniti. Tutto si può dire del coronavirus tranne che sia raro. “Non è il momento di approfittarne, da parte delle case farmaceutiche”, aveva tuonato tra gli altri il candidato democratico alle presidenziali Bernie Sanders. Una decina di giorni dopo l’approvazione, la designazione di “farmaco orfano” è stata revocata. Nel frattempo la Gilead ha concesso una licenza di produzione ad alcuni paesi in via di sviluppo, come Egitto, India e Pakistan, per rifornire anche i loro vicini. Paradossalmente, gli ultimi della lista sono dunque i paesi ricchi diversi dagli Stati Uniti. I test sul remdesivir avevano dimostrato che il farmaco riduce di alcuni giorni la durata dei sintomi, ma non il tasso di mortalità. L’unico medicinale in grado di salvare vite al momento è il desametasone, un cortisonico economico e ben disponibile anche in Italia, che in uno studio di Oxford ha dimostrato di poter ridurre la letalità di un terzo. Per l’autunno sono attesi farmaci nuovi e specifici per il coronavirus come gli anticorpi monoclonali. Elena Dusi per REPUBBLICA
40 milioni di medici ai potenti del mondo: è ora di cambiare modello di sviluppo “Gli operatori sanitari affrontano la gestione della pandemia di COVID-19 uniti in un approccio pragmatico e basato sulla scienza. Con lo stesso spirito, siamo anche uniti nel sostenere una vera guarigione da questa crisi una #HealthyRecovery. Abbiamo visto in prima persona quanto possano essere fragili le comunità quando salute, sicurezza alimentare e libertà di lavoro sono interrotte da una minaccia comune. I livelli di questa tragedia in corso sono molti e amplificati da disuguaglianze e dagli investimenti insufficienti nei sistemi di sanità pubblica. Abbiamo assistito a morte, malattie e angoscia mentale a livelli mai visti da decenni. Questi effetti avrebbero potuto essere parzialmente mitigati, o forse anche prevenuti, da adeguati investimenti in preparazione alla pandemia, sanità pubblica e gestione ambientale. Dobbiamo imparare da questi errori e tornare a essere più forti, più sani e più resistenti. Prima di Covid-19, l’inquinamento atmosferico stava già indebolendo i nostri corpi. Questo inquinamento (da traffico, uso inefficiente dell’energia residenziale, centrali elettriche a carbone, inceneritori e agricoltura intensiva) causa ogni anno sette milioni di morti premature aumentando sia i rischi di polmonite sia la loro gravità; bronco-pneumopatie croniche ostruttive, carcinomi polmonari,
malattie cardiache e ictus; determina inoltre esiti avversi in gravidanza come scarso peso alla nascita e asma, mettendo ulteriormente a dura prova i nostri sistemi sanitari. Una vera guarigione significa non consentire più che l’inquinamento continui a contaminare l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo, e non permettere che deforestazione e cambiamento climatico avanzino senza sosta, scatenando potenzialmente sempre nuove minacce per la salute su una popolazione vulnerabile. In un’economia sana e in una società civile ci si prende cura dei più vulnerabili; i lavoratori hanno accesso a lavori ben retribuiti che non aggravano inquinamento e devastazione ambientale; le città danno priorità a pedoni, ciclisti e trasporti pubblici; fiumi e cieli sono protetti e puliti. La natura è fiorente, i nostri corpi sono più resistenti alle malattie infettive e nessuno si riduce in povertà a causa dei costi sanitari. Per raggiungere questa economia sana dobbiamo usare incentivi e disincentivi più intelligenti al servizio di una società più sana e più resiliente. Se i governi apportassero importanti riforme agli attuali sussidi per i combustibili fossili, spostandone la maggior parte verso la produzione di energia rinnovabile e pulita, la nostra aria sarebbe più sana e le emissioni climatiche si ridurrebbero drasticamente, alimentando una ripresa economica che, da qui al 2050, darebbe uno stimolo ai guadagni globali del PIL per quasi 100 trilioni di dollari. Quindi, mentre ponete attenzione alle risposte da dare per il post-Covid, chiediamo che i vostri responsabili e consiglieri medici e scientifici siano direttamente coinvolti nella concezione di tutti i pacchetti per la ripresa economica; che riferiscano sulle ripercussioni sulla salute pubblica a breve e a lungo termine che le azioni indicate possono avere, e che alla luce di queste diano il proprio timbro di approvazione.
Gli enormi investimenti che i vostri governi faranno nei prossimi mesi, in settori chiave come assistenza sanitaria, trasporti, energia e agricoltura, devono porre al centro la protezione e la promozione della salute; perché ciò che il mondo ha bisogno ora è un #HealthyRecovery. I vostri piani per incentivare l’economia devono essere una prescrizione proprio per questo. Appello firmato da 40 milioni di medici e indirizzato a tutti i leader del G20 e per conoscenza a tutti i consiglieri scientifici, medici, sanitari del G20. La vera guerra è iniziata, la guerra dei vaccini Da quando Covid19 è piombato sulle nostre vite, abbiamo usato a piene mani la metafora della guerra come riferimento simbolico per tentare di spiegare la multiforme sfida cui siamo stati sottoposti nel gestire l’emergenza del virus che ha sconquassato il mondo. Abbiamo ricevuto bollettini quotidiani da lasciare senza respiro che riportavano la conta dei morti, come persi in battaglia. Siamo stati serrati dentro le nostre case per evitare gli attacchi del nemico invisibile. Le corsie degli ospedali sono state rappresentate come trincee, fronti di guerra popolati di guerrieri o di eroi che l’hanno spuntata contro il virus. Susan Sontag, già ai tempi dell’HIV/Aids, era entrata nelle pieghe dei meccanismi per cui si fa ricorso al racconto in chiave bellica di una crisi sanitaria: “La guerra è pura emergenza, in cui nessun
sacrificio sarà considerato eccessivo”. Se la narrazione guerriera serve dunque a smorzare le contraddizioni stratificate nella società globale ben prima di Covid19, non ci sono dubbi che attorno al nuovo coronavirus si stia apparecchiando uno scontro vero, che è tangenziale alla capacità sanitaria di contenere il contagio. La guerra è di natura commerciale, ruota intorno alla febbrile ricerca per scoprire il vaccino contro SARS-CoV-2. E va combattuta con un nemico potente e senza scrupoli, l’industria farmaceutica. Si tratta di dirimere una questione decisiva per il futuro: se i prodotti che scaturiranno dalla frenetica corsa al vaccino saranno blindati dalle logiche privatistiche del monopolio brevettuale (previsto dalle regole del commercio internazionale), o se saranno invece trattati come beni comuni accessibili a tutti, considerata la finalità per cui impazza oggi la ricerca e il sostanzioso finanziamento pubblico con cui si impegnano i leader del mondo guidati dall’Unione eruropea (ad oggi, 8 miliardi di dollari). Quando un vaccino ottiene l’autorizzazione dalle agenzie del farmaco, i profitti possono essere stellari. Abbiamo vagamente idea di che cosa significhi questo, nel caso di un vaccino sviluppato per fermare la pandemia che mette sotto scacco il pianeta, e per la quale non esistono rimedi? Covid19 ha sfiancato quasi tutti i settori dell’economia, ma il settore farmaceutico è in totale fibrillazione e potrebbe trarre lauti benefici dalla pandemia: “Le aziende farmaceutiche puntano a Covid19 come all’opportunità di business che capita una volta nella vita”, ha commentato di recente Gerald Posner, autore di Pharma: Greed, Lies and the Poisoning of America (Industria del farmaco: avidità, bugie, e l’avvelenamento dell’America, ndr).
Il mondo ha bisogno di prodotti diagnostici e preventivi, non si discute. Governi, case farmaceutiche e laboratori di ricerca stanno mettendo in campo uno sforzo imponente, a un ritmo mai visto prima nella storia della ricerca medica: allo stato attuale si registrano 295 trattamenti e 109 vaccini in sperimentazione. Non deve pertanto sorprendere la corsa agli annunci sulla stampa internazionale. Una battaglia sul filo di una comunicazione non sempre suffragata a dovere dalla revisione scientifica. E talora intrisa dei toni della propaganda, che serve ai rialzi da capogiro del listino finanziario, più che a segnalare i successi nella ricerca. In questo modo le varie biotech e aziende farmaceutiche hanno l’agio di collocare le nuove azioni a prezzi maggiorati. Mentre prosegue la sperimentazione con un processo di accelerazione che rischia di cambiare per sempre le procedure consolidate per gli studi clinici. Infatti la ricerca scientifica si incrocia anche con la battaglia geopolitica fra Stati Uniti e Cina, particolarmente infuocata a causa della pandemia. Il 21 maggio il senatore americano Rick Scott ha depositato un disegno di legge per la protezione della ricerca nazionale sul vaccino anti-Covid19 da atti di furto o di sabotaggio che possano provenire dalla Cina. L’iniziativa legislativa fa seguito a ripetute segnalazioni da parte di agenzie della sicurezza nazionale inglesi e americane (tra cui FBI e la Cyber-security and Infrastructure Security Agency, CISA) in merito a specifiche azioni di cyber-spionaggio e a tentativi di hacker cinesi che investono industrie farmaceutiche, enti di ricerca scientifica, università, agenzie sanitarie e governi locali. Come in un film… Sono otto i progetti per i vaccini già in fase clinica, la metà di questi è cinese e uno europeo: quello dell’italiana IRBM in collaborazione con l’Università di Oxford, che è già in fase di sperimentazione umana. Ma lo scenario in cui ci si
muove è quello di un oligopolio. L’industria dei vaccini è in buona sostanza una concentrazione di 4 aziende – GlaxoSmithKline, Merck, Pfizer e Sanofi – che controllano l’85% del mercato e un giro d’affari di oltre 35 miliardi di dollari. Il mercato mondiale dei vaccini è cresciuto di sei volte negli ultimi venti anni e, in questo scenario di concentrazione, va messa in conto la potente élite della filantropia globale guidata da Bill Gates. Con la sua fondazione, proprio due decenni fa, Gates ha riacceso i motori della (allora) stanca produzione di vaccini attraverso una multiforme gamma di iniziative pubblico-private – prima fra tutte la Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI), oggi molto potente – per colmare i cosiddetti pharmaceutical gaps ed escogitare in accordo con l’industria privata soluzioni di mercato – sia in termini di incentivi che di finanziamento – che potessero espandere i programmi di vaccinazione dei bambini, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito. Il rilancio dei programmi di immunizzazione e della produzione di vaccini architettato dalla fondazione Gates ha incrementato la copertura vaccinale – oggi purtroppo messa a dura prova da Covid19 – ma tutto questo è avvenuto in una logica di dipendenza e rafforzamento di Big Pharma, così che il prezzo dei vaccini non è esattamente alla portata dei paesi del Sud globale – Medici Senza Frontiere (MSF) ci ricordava nel 2014 che la copertura vaccinale pediatrica completa costava 68 volte di più rispetto al 2001. Bill Gates comunque, possiamo dirlo senza tema di essere smentite, resta il deus ex-machina delle strategie vaccinali nel mondo. Avendo profetato l’arrivo di un nuovo virus potenzialmente pandemico nel 2015, il tycoon filantropo si è organizzato in tempo e ha fatto significativi investimenti in una rete di biotech che ora afferisce alla Fondazione Gates.
Fra le aziende di punta rientra la tedesca CureVac, cui Trump propose a marzo l’acquisto in esclusiva del brevetto del vaccino in fase di sviluppo, a uso e consumo della sola popolazione americana. La Fondazione Gates inoltre ha investito miliardi di dollari in sette dei più promettenti progetti di ricerca che riguardano SARS-CoV-2, e nella costruzione di impianti di eventuale produzione di questi candidati, avvalendosi della competenza acquisita nel campo delle malattie infettive, e consapevole che da solo può mobilitare denaro nell’ordine di grandezza di più governi, ma molto più celermente. Bill è appassionato di vaccini, li considera la soluzione migliore per la gran parte dei problemi sanitari del pianeta. E fa capo alla Fondazione Gates anche la giovane, ma già assai influente, Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) creata nel 2017, dopo l’epidemia di Ebola, per accelerare la scoperta di vaccini in caso di epidemie. CEPI è centrale nella definizione degli scenari su Covid19, compare in prima fila in tutte le recenti iniziative della comunità internazionale contro la pandemia. Il lancio di Access to Covid19 Tools (ACT) Accelerator, una collaborazione globale per lo sviluppo, la produzione e l’accesso equo ai nuovi vaccini, farmaci, diagnostici per Covid19 annovera la Fondazione Gates come protagonista indiscussa insieme alla Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Lo stesso dicasi nel caso della “chiamata all’azione” di Oms e Unione europea per la raccolta di fondi destinati alla ricerca medica contro Covid19: in prima linea, accanto ai governi, le più importanti alleanze pubblico private nate per iniziativa (e fondi) di Gates – CEPI, GAVI, il Fondo Globale contro Aids, tubercolosi e malaria, UNITAID, FIND – e, naturalmente, l’industria farmaceutica.
Questo crescendo di mobilitazione ha ispirato l’Unione europea a cimentarsi anche sul testo di una risoluzione per la sessione online della Assemblea mondiale della sanità, dedicata esclusivamente a Covid19. Approvata con suono di fanfare il 20 maggio, la risoluzione si limita a enunciare la necessità della cooperazione globale per l’accesso equo ai prodotti che verranno scoperti contro il Covid19. Il testo, concordato dopo due settimane di tortuosi negoziati, evita tuttavia di fare riferimento esplicito ai brevetti farmaceutici e al prezzo dei farmaci. Evita di suggerire ai governi il ricorso alle flessibilità dell’accordo TRIPS sulla proprietà intellettuale, come percorso positivo e legittimo di deroga al brevetto. Per rompere il monopolio e accelerare produzione e accesso ai vaccini, in cambio del pagamento di royalties alla impresa. Si tratta di una regressione semantica degna di nota, rispetto al linguaggio consuetudinario delle numerose risoluzioni adottate dall’Oms sul tema dell’accesso ai farmaci; una regressione preoccupante, se rapportiamo la debolezza dell’impegno all’urgenza della pandemia del nuovo coronavirus. Eppure, l’Europa sa bene quanto possano agire da barriera i brevetti. In un suo rapporto del 2009, la Commissione europea aveva spiegato che l’80% delle 40.000 richieste di brevetti prese in esame riguardava l’estensione del brevetto di prodotti già in commercio per usi secondari o per forme diverse dello stesso prodotto (nel caso di un farmaco, ad esempio, la versione in sciroppo di una precedente pastiglia), con una perdita di circa 3 miliardi di euro l’anno solo nel settore farmaceutico, dovuta alla ritardata disponibilità sul mercato dei più economici farmaci equivalenti. I governi intanto, alle prese con i contagi, i lockdown e le roboanti crisi economiche – l’UNDP ha previsto il primo netto declino dello sviluppo umano dal 1990, a causa della pandemia
– non restano del tutto immobili di fronte alla mala parata dei monopoli brevettuali ventennali sui vaccini e sugli altri dispositivi medici necessari a gestire il virus. Dalla fine di marzo il governo del Costarica propone la creazione di un archivio globale (patent pool) per condividere al massimo la conoscenza scientifica sotto l’egida dell’Oms e “includere i diritti esistenti e futuri dei brevetti per invenzioni e disegni, dati dei test e dei processi regolatori, know-how e copyrights per la produzione di testi diagnostici, dispositivi medicali, farmaci e vaccini”, così da velocizzare la scoperta dei rimedi per contrastare Covid19. L’accesso a questa conoscenza dovrebbe essere gratuito e fornito sulla base di “licenze ragionevoli ed economicamente compatibili, per ogni paese membro”. L’idea è sostenuta dal Cile e dalla stessa Oms. Il direttore di CEPI, Richard Wilder, ha già bollato la proposta del Costarica come “inefficace e non necessaria”. Sarà un caso che, prima di occuparsi di vaccini, Wilder era a capo dell’ufficio sulla proprietà intellettuale a Microsoft? La fortuna di Bill Gates poggia sui brevetti. Mentre il presidente brasiliano Bolsonaro prosegue pervicacemente nella sua fase negazionista a base di idroxiclorochina, nel Parlamento a Brasilia sono stati depositati disegni di legge per chiedere l’applicazione della licenza obbligatoria per uso governativo (un dispositivo per impedire l’abuso di posizione dominante) sui dispositivi medici e prodotti contro il Covid19. Dal canto loro, Ecuador e Canada si sono attivati per semplificare le procedure di ricorso alle licenze obbligatorie. Una iniziativa simile è giunta in porto a febbraio in Australia con un emendamento alla norma nazionale sui brevetti e a marzo è toccato alla Germania, con la autorizzazione di usi speciali di licenze obbligatorie associate alla prevenzione e al controllo di malattie infettive negli umani. La nuova norma tedesca non
richiede la fattispecie dell’ abuso di monopolio, né permette al detentore del brevetto di bloccare la licenza obbligatoria del governo, come previsto anche nella riforma australiana. Eppur si muove. Ma, sotto pressione, l’irrefrenabile industria farmaceutica è in piena campagna di lobby per ricordare che senza diritti di proprietà intellettuale non può esistere innovazione. Insomma, che ne sarà della corsa al vaccino contro Covid19, alla fine? Forse, come riporta un recente articolo del Guardian, tutta questa frenesia nella ricerca pandemica non porterà lontano. Se ne stanno facendo una ragione, pare, gli esperti del governo inglese, nel momento in cui l’Università di Oxford procede con il reclutamento di 10.000 volontari per la fase due della ricerca, dopo la fase pre- clinica sui macachi. Questa nuova prudenza ha qualche fondamento di ragionevolezza. Prima di tutto, nonostante la conoscenza acquisita sulla famiglia dei coronavirus da parte della comunità scientifica, c’è ancora molto da scoprire a proposito di SARS-CoV-2. Va detto poi che la famiglia dei coronavirus sviluppa un’immunità che recede rapidamente, come sappiamo anche dalla cinetica dell’influenza. Infine, al netto degli annunci, la ricerca sui vaccini comporta livelli di complessità superiori a quella sui farmaci: un vaccino deve proteggere dalla malattia e prevenirne il contagio, e deve farlo in massima sicurezza perché è somministrato sui grandi numeri delle persone sane, al contrario delle terapie, utilizzate solo con le persone malate. Non esiste possibilità di sconti sugli eventuali effetti collaterali in nome della primogenitura sul mercato. Che ne sarà dei vaccini anti-Covid19, dunque? Coltivo la speranza che SARS-COV-2 scompaia prima che Big Pharma possa
appropriarsene e specularci sopra, imponendo costi inaccessibili ai vaccini, magari adducendo a scusa il valore che rivestono per la salute della popolazione. Sarebbe l’ultima beffa di questo nuovo sorprendente coronavirus. Del resto, non si è comportato così anche il micro-organismo della SARS nel 2004? Nicoletta Dentico per SBILANCIAMOCI Amigos brasileiros, cuidados com a cloroquina. Bolsonaro esta mentindo! A Sociedade Brasileira de Imunologia (SBI) emitiu uma parecer sobre uso de cloroquina para o tratamento de pacientes com covid-19. O documento ressalta que até o momento não existe terapia comprovadamente efetiva para o tratamento do coronavírus e que esse medicamento em questão, tem efeitos colaterais que podem levar a morte de pacientes. Ignorando as evidências científicas, o presidente Jair Bolsonaro faz campanha intensiva do medicamento. A cloroquina ou hidroxicloroquina são algumas das estratégias terapêuticas que têm sido testadas para tratar a doença. Mas o documento da SBI ressalta que, mesmo que o remédio tenha eficácia comprovada em outras enfermidades, como malária e doenças reumáticas, os fármacos apresentam descrição de efeitos adversos como inflamações da retina ocular, perda de
consciência, convulsão, prolongamento QT (que se relaciona com alteração da frequência cardíaca) e toxidade cardíaca, sendo exigido contínuo monitoramento médico dos indivíduos em uso da cloroquina ou hidroxicloroquina. Em estudo recente com 1.438 pacientes com covid-19, que estavam em 25 hospitais diferentes, foram avaliados quatro tratamentos: hidroxicloroquina e azitromicina, hidroxicloroquina, azitromicina e sem uso desses fármacos. Os pacientes que receberam “hidroxicloroquina e azitromicina apresentaram uma maior incidência de falência cardíaca quando comparado com o grupo sem tratamento”, demonstrou o estudo. Segundo os cientistas, não houve nenhuma “melhora significativa quanto à mortalidade quando foram avaliados os grupos de pacientes que receberem hidroxicloroquina, azitromicina ou ambos os fármacos em associação em comparação com o grupo sem tratamento”. Em outro estudo, foram avaliados 1.376 pacientes com coronavírus. Nesse estudo os pacientes foram avaliados quanto a necessidade de intubação orotraqueal e óbito com duas frentes: com ou sem tratamento com hidroxicloroquina. “Esse estudo mostrou que a introdução do tratamento com hidroxicloroquina não foi associada com a diminuição ou aumento do risco de intubação ou óbito quando comparado com os pacientes que não receberam esse fármaco” aponta a Sociedade Brasileira de Imunologia. A maioria dos pacientes dos estudos acima mencionados, já estavam em estado grave quando receberam esses fármacos. Por isso, recentemente, foram avaliados pacientes com covid-19 em estado moderado. Nesse estudo foram avaliados 150 pacientes em
duas frentes: com ou sem tratamento com hidroxicloroquina. O resultado foi que não houve diferença quanto à evolução dos pacientes que usaram ou não esse fármaco, porém foram observados vários efeitos colaterais. Um outro estudo com 90 pacientes com covid-19, observou que os indivíduos em uso da hidroxicloroquina tiveram um risco aumentado de apresentar problemas cardíacos. Em outro estudo foi observado que pacientes graves com covid-19, não devem ser submetidos a utilização de alta dose de cloroquina como tratamento único ou em associação com azitromicina ou oseltamivir, devido a segurança farmacológica relacionada aos problemas cardíacos e a letalidade. “Baseados nas evidências atuais que avaliaram a utilização da hidroxicloroquina para a terapêutica da COVID-19, a Sociedade Brasileira de Imunologia conclui que ainda é precoce a recomendação de uso deste medicamento na COVID-19, visto que diferentes estudos mostram não haver benefícios para os pacientes que utilizaram hidroxicloroquina”, afirmou a SBI. Os especialistas ressaltam que o medicamento contém efeitos “adversos graves que devem ser levados em consideração”. “Desta forma, a SBI fortemente recomenda que sejam aguardados os resultados dos estudos randomizados multicêntricos em andamento, incluindo o estudo coordenado pela OMS [Organização Mundial da Saúde], para obter uma melhor conclusão quanto à real eficácia da hidroxicloroquina e suas associações para o tratamento da COVID-19”. A entidade ressalta ainda que, “até que tenhamos vacinas
efetivas e melhores possibilidades terapêuticas comprovadas para o tratamento dessa doença, o isolamento social para conter a disseminação do SARS-CoV-2 ainda é a melhor alternativa nesse momento. Dados colhidos em vários países do mundo mostram que esta é a única medida efetiva para desacelerar as curvas de crescimento dessa infecção”. da CONGRESSOEMFOCO Garattini, direttore Istituto Mario Negri: c’è il rischio che facciano pagare all’Italia 50 miliardi per il vaccino “Quando arriveremo ad avere un vaccino i costi potrebbero essere molto molto elevati e allora bisognerà farsi trovare pronti e agire per tempo”. Lo spiega Silvio Garattini, decano dei farmacologi italiani e fondatore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, in un’intervista al ‘Messaggero’. “Una dose potrebbe costare fino a mille euro e solo per l’Italia servirebbero almeno 50 miliardi per poterlo fare a tutti, una cifra insostenibile. Quindi bisogna lavorare a una strategia e sarebbe bene farlo con altri Paesi”. Per Garattini “dobbiamo stare attenti a cosa succede dal punto di vista del prezzo, tenendo conto che, tra l’altro, molti di questi che stanno sviluppando vaccini hanno già ricevuto sovvenzioni
pubbliche e da fondazioni private”. “Il nazionalismo è un secondo grosso problema come si capisce dalla dichiarazione del dg di Sanofi: metto a disposizione il vaccino solo per gli Stati Uniti, dove lo hanno già prenotato, ma anche perché lì i farmaci costano molto di più che in qualsiasi altro Paese. Pensiamo – dice il farmacologo – a chi ha meno risorse o ai Paesi in cui non è stato sviluppato il vaccino, avrebbero meno possibilità di averne a disposizione. E allora occorre agire per tempo. I governi devono lavorare fin da adesso con i Paesi in cui si sta sviluppando un vaccino per sapere qual è il percorso da seguire e accordarsi per produrlo in più sedi, perché serviranno miliardi di dosi. Se necessario si potrà ricorrere anche alle disposizioni che esistono nelle contrattazioni internazionali che possono imporre una licenza obbligatoria, se necessario, affinché tutti i Paesi abbiano a disposizione il vaccino”. Secondo Garattini “il vaccino dev’essere un bene comune. La licenza obbligatoria è una strada efficace che negli anni scorsi si è già percorsa, per esempio in India, per il Sofosbuvir, il farmaco anti epatite C, che era disponibile a prezzi eccessivi. Ci sono le modalità per ottenere i risultati, l’importante però è pensarci prima. Quando arriverà il vaccino sarà già tardi e per i governi sarà molto più difficile contrattare”. Le agenzie regolatorie, come la nostra Aifa, possono avere un ruolo? “In questa partita – replica – l’onere spetta alla politica, ai governi. Certamente ci sono interazioni già in atto tra le agenzie, ma non sono in grado di risolvere questi problemi né spetta loro farlo”. “L’Europa ha l’occasione di fare qualcosa di unico se vuole che tutti i suoi Paesi abbiano il vaccino. Innanzitutto può suggerire una serie di sedi in cui si può produrre e
allacciare rapporti con Stati e aziende perché ci possa essere il trasferimento della produzione dove necessario. La salute è sempre stata fuori dalle aree di collaborazione fra i Paesi dell’Unione, la pandemia potrebbe finalmente far scattare l’ora della solidarietà sanitaria. Vanno create alleanze per attivare un meccanismo solidale. L’Europa si faccia capofila per un’equità di accesso ai vaccini. Ma, ripeto, va fatto ora, non fra sei mesi”. Sul tema dei vaccini interviene su Facebook Nicola Zingaretti. “Una sfida decisiva” scrive il governatore del Lazio e segretario del Pd, “un vaccino dovrà essere un bene comune, accessibile a tutti, fabbricato e realizzato in Italia e in quanto tale tutelato”. In modo che “tutti i cittadini abbiano la possibilità di vaccinarsi”. da HUFFPOST Plasma, clorochina, Avigan: l’assurda e infondata guerra social sulle cure per il coronavirus Fate presto! Questa terapia funziona davvero! Negli ultimi due mesi, come parlamentari, abbiamo ricevuto tantissime sollecitazioni da parte di chi riteneva di aver trovato sui social la “terapia miracolosa”, affinché fosse applicata a
tutti e, soprattutto, prima possibile. Da scienziati, abbiamo invitato sempre alla prudenza, perché sappiamo bene che ogni terapia comporta inevitabilmente benefici ma anche rischi di effetti collaterali. Inoltre, solo una valutazione attenta e rigorosa, tale da dimostrare che la bilancia penda dalla parte dei benefici, può consentire che una terapia sia autorizzata in modo definitivo. La condivisione di articoli prima della revisione tra pari (processo che ne garantisce, anche se non in modo assoluto, l’affidabilità) è divenuta una pratica comune, con tutti i vantaggi e le criticità del caso. Se allo scoppio della pandemia la scienza si è messa a correre, i social hanno raggiunto la velocità della luce. Rivediamo un attimo al rallentatore quello che è successo nelle ultime settimane. Il miracolo (?) dal Sol levante La prima terapia a guadagnare una certa rilevanza sui social è stata quella con l’Avigan. Un ragazzo in vacanza in Giappone ha pubblicato un video, poi divenuto virale, nel quale affermava che la gente era tranquillamente in strada in un quartiere di Tokyo grazie a questa “medicina miracolosa”. In realtà si è scoperto che il farmaco, potenzialmente teratogeno, causa cioè di anomalie o alterazioni nell’embrione, non poteva essere venduto liberamente al pubblico ma era controllato direttamente dal governo giapponese, il quale doveva autorizzarne l’uso. Quindi erano totalmente prive di fondamento le voci di una sua distribuzione ed efficacia di massa. Una consacrazione prematura
Poi, è stato il turno dell’idrossiclorochina, un vecchio farmaco antimalarico, che Donald Trump e altri politici americani hanno prematuramente esaltato. La sua fama è derivata anche dalla super-sponsorizzazione di un ricercatore francese molto noto, Didier Raoult, che ha pubblicato anche un articolo interessante ma relativo a pochi pazienti. Sono stati avviati diversi trial clinici in modo affrettato. In alcuni casi però, si è osservato un aumento della mortalità maggiore in seguito a trattamento con idrossiclorochina per la nota cardiotossicità del farmaco, a fronte di deboli effetti benefici. Non ci resta che attendere Un farmaco antivirale non è stato spinto da clamore mediatico ma da dati scientifici più consistenti è il Remdesivir, che ha mostrato dei risultati incoraggianti in uno studio ampio (oltre mille pazienti): il periodo sintomatico per la malattia è passato da 15 a 11 giorni, e la mortalità da 11,6% a 8%. Sono questi risultati sufficienti per dire che Avigan e idrossiclorochina non funzionano e Remdesivir invece funziona un poco? Non ancora, perché ci sono troppi fattori che devono essere valutati, come ad esempio lo stadio della malattia a cui sono somministrati. Quindi, paradossalmente la partita potrebbe essere ancora in parte aperta, ma sicuramente sarà solo l’esito dei diversi studi clinici autorizzati a darci una risposta definitiva. L’unica certezza è che potremmo trovarci di fronte afarmaci utili sì, ma in ogni caso non miracolosi. Soluzioni via Whatsapp
Dopo gli antivirali, è arrivato il momento dell’eparina, pubblicizzata tramite un messaggio “virale” via Whatsapp, perché scioglieva i trombi venosi che si osservavano in maggiore formazione in seguito alla malattia Covid-19 e nei soggetti più gravi. Anche in questo caso, sebbene l’eparina fosse già utilizzata in molti protocolli terapeutici anti- Covid-19, solo una sperimentazione accurata su pazienti con caratteristiche omogenee potrà darci certezze maggiori. La via (problematica) del plasma In fondo alla lista c’è la terapia con il plasma (parte del sangue priva di cellule) prelevato dai soggetti guariti dall’infezione, il cosiddetto “plasma iperimmune”, che risale addirittura al premio Nobel 1901 Emil Adolf von Behring. Purtroppo, a fronte di dati iniziali incoraggianti che andavano però valutati con cautela, sui social si è ancora una volta scatenato il caos. C’è chi l’ha proposta addirittura comeun’alternativa ai vaccini (“I vaccini fatteli tu, io mi curo con il plasma” è il grido di battaglia) senza capire che in realtà plasma e vaccini si basano esattamente sullo stesso principio e cioè utilizzo di anticorpi che combattono il virus. Con una differenza: gli anticorpi della plasma-terapia sono di un’altra persona e hanno un’efficacia limitata nel tempo, mentre il vaccino fa produrre i propri anticorpi con un effetto più duraturo. La plasma-terapia è interessante, ma sono necessari studi clinici randomizzati (anche questi appena autorizzati) per poterne confermare l’efficacia perché, ricordiamolo, anch’essa ha delle problematiche: – il plasma dei guariti è ricco di anticorpi solo per un breve
periodo dopo la guarigione; – per ottenere il plasma serve una procedura complessa tramite una macchina che “centrifuga” il sangue, trattiene la parte liquida (il plasma appunto) e restituisce al donatore la parte cellulare (globuli bianchi, rossi, piastrine); – con un donatore si possono curare al massimo due pazienti; – infine, la trasfusione di plasma reca con sé tutti i rischi delle trasfusioni, come le possibili infezioni. Dati ancora incerti Ma quanto funziona il plasma? Come già ampiamente discusso, uno dei problemi principali delle terapie contro il coronavirus è che la maggior parte delle persone (anche quelle ospedalizzate) guarisce, e non è semplice valutare se questo sia avvenuto proprio grazie alla terapia. Lunedì scorso sono stati resi noti dei dati sull’utilizzo della plasma-terapia effettuata negli ospedali di Mantova e di Pavia. Su 46 pazienti trattati con plasma la mortalità è stata del 6%, mentre, negli stessi ospedali la mortalità precedentemente variava dal 13 al 20%, con un valore medio del 15%. Questo significherebbe che anziché 7 pazienti in quel campione ristretto ne sono morti solo 3, ma è chiaro che ci sia una forte incertezza su questi numeri che possono essere chiarite solo studiando un numero di pazienti maggiore. Curiamo (anche) l’infodemia
Quello che purtroppo non siamo ancora riusciti a curare è la velocità con cui le fake news si diffondono sui social e come influenzino l’opinione pubblica, a volte addirittura riprese e amplificate dai media tradizionali. È la cosiddetta infodemia, che il dizionario Treccani definisce come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Quando c’è di mezzo la salute, questo rappresenta un atteggiamento particolarmente irresponsabile, perché spingendo affinché si scommetta tutto sulla cura sbagliata si rischia non solo di non aiutare nessuno, ma anche di ritardare la scoperta di una terapia davvero utile e potenzialmente risolutiva. Marco Bella con la collaborazione di Angela Ianaro per IL FATTO QUOTIDIANO Vaccino coronavirus: Le multinazionali farmaceutiche e l’amministrazione Trump ricattano il mondo Mentre scoppia il caso Sanofi sul vaccino che ancora non c’è ma che potrebbe essere distribuito prima negli Usa, Oxfam lancia un appello in previsione dell’Assemblea Mondiale della Sanità, in programma il 18 maggio con i ministri della salute dei 194 stati membri collegati a distanza. E rivela come
l’amministrazione Trump spinga perché non venga utilizzato un meccanismo di negoziazione collettiva delle licenze dei brevetti tra gli stati ma piuttosto perché venga garantito il diritto di brevetto alle cause farmaceutiche. Quattro i punti del piano: l’obbligo a livello globale di condivisione di tutte le conoscenze, dati, brevetti (legati al Covid 19), e l’impegno a subordinare tutti i finanziamenti pubblici alla realizzazione di terapie o vaccini che siano resi accessibili a tutti e privi di brevetti; l’impegno da parte dei Paesi ricchi ad aumentare gli investimenti pubblici diretti ad una maggiore capacità globale di produzione e distribuzione di vaccini; un piano, concordato a livello globale, di distribuzione dei vaccini, terapie e test diagnostici basato sulle reali necessità sanitarie dei Paesi e non sulla loro capacità di spesa. Vaccini, trattamenti e test dovrebbero essere resi disponibili per tutti e prodotti e venduti al minor costo possibile (idealmente per i vaccini a non più di 2 dollari a dose) e forniti gratuitamente a chiunque ne abbia bisogno; un impegno concreto per migliorare l’attuale sistema di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci – in cui il profitto delle case farmaceutiche viene prima della salute delle persone – evitando il mancato sviluppo di molti farmaci necessari ma non redditizi o la loro indisponibilità per le persone più vulnerabili a causa di prezzi non accessibili. “Per vaccinare (ma il vaccino non è stato ancora sviluppato, ndr) contro il coronavirus la metà più povera della popolazione mondiale – 3,7 miliardi di persone – servirebbe meno di quanto le 10 maggiori multinazionali del farmaco guadagnano in 4 mesi. Per sconfiggere la pandemia – dice la confederazione di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale – è perciò indispensabile che governi e aziende farmaceutiche si impegnino per garantire
che vaccini, test diagnostici e terapie siano gratuiti ed equamente distribuiti a tutti, in tutti i paesi del mondo. Solo così sarà possibile vincere questa sfida, in cui nessuno è salvo se non lo saremo tutti”. “La Fondazione Gates ha calcolato che per produrre e distribuire un vaccino efficace e sicuro per le persone più povere del mondo serviranno 25 miliardi di dollari, meno dei circa 30 miliardi di dollari che le 10 big del farmaco hanno guadagnato in media in soli 4 mesi lo scorso anno. A fronte di profitti complessivi per 89 miliardi di dollari nel 2019. Eppure paesi ricchi e grandi aziende farmaceutiche – spinti da interessi nazionali e privati – potrebbero impedire o ritardare la distribuzione di vaccini nei paesi in via di sviluppo” sostiene Oxfam. “Sul tema, l’Unione Europea ha presentato una risoluzione all’Assemblea Mondiale della Sanità, che propone la creazione di un meccanismo volontario di negoziazione collettiva delle licenze dei brevetti tra gli stati e le case farmaceutiche e di condivisione di dati e conoscenze relative a vaccini, terapie e test diagnostici Covid 19, che possa garantire prezzi accessibili per il maggior numero di paesi, inclusi quelli più poveri. Un’iniziativa che – sottolinea Oxfam – rappresenta un primo passo nella giusta direzione, anche se ancora insufficiente. Se, infatti, questo meccanismo fosse reso obbligatorio e applicato a livello globale, potrebbe permettere a tutti i paesi di produrne versioni a basso costo, oppure importarle se non hanno le infrastrutture adeguate per la produzione”. “Dai documenti trapelati risulta però purtroppo che l’amministrazione Trump, stia lavorando per eliminare dalla risoluzione qualsiasi riferimento a questo meccanismo,
inserendo un forte richiamo al rispetto dei diritti sui brevetti delle case farmaceutiche, che vedrebbero quindi garantita l’esclusività nella produzione e la possibilità di fissare i prezzi di vaccini, terapie e test che svilupperanno. Ciò appare – spiega Oxfam – tanto più inaccettabile, per il fatto che per finanziare il loro lavoro di ricerca e sviluppo siano stati utilizzati fondi pubblici”. Ed è in questa ottica che probabilmente l’inquilino della Casa Bianca ha scelto un ex manager dell’industria farmaceutica e un alto ufficiale per guidare l’operazione Warp Speed, volta ad accelerare lo sviluppo di un vaccino: Moncef Slaoui sarà advisor del programma e il generale Gustave Perna svolgerà il ruolo di direttore operativo. Slaoui è l’ex capo della divisione vaccini della GlaxoSmithKline (Gsk), che ha lasciato nel 2017 per fare il finanziere. La Gsk sta lavorando al vaccino anti Covid 19 proprio insieme alla Sanof, al centro della polemica del giorno per le dichiarazioni del suo dg sulla distribuzione in via prioritaria del vaccino negli Usa, poi parzialmente modificata. C’è poi Moderna, nel cui board Slaoui siede come consigliere. “Sarebbe disumano e controproducente per la tutela della salute di ciascuno di noi, indipendentemente dal Paese in cui viviamo, non garantire a tutti la possibilità di essere vaccinati – ha detto Sara Albiani, policy advisor di Oxfam Italia per la salute globale – Vaccini, test e cure efficaci e sicure dovrebbero essere prodotti su scala globale e distribuiti senza brevetti, a basso costo, in base ai bisogni nelle diverse aree del mondo, anziché essere messe all’asta al migliore offerente. Abbiamo bisogno di un Piano globale che stabilisca chiaramente come saranno prodotti e distribuiti, definendo tutte le garanzie del caso”. Per Oxfam serve un piano globale per scongiurare il rischio che i paesi ricchi si aggiudichino, una volta sviluppati,
vaccini e terapie a scapito di quelli più fragili, così come successo sinora con i dispositivi di protezione e i respiratori polmonari per le terapie intensive. Occorre inoltre evitare che alcune aziende farmaceutiche possano trarre profitti enormi a scapito della salute globale, controllando la produzione e fissando i prezzi di farmaci utili per il trattamento del coronavirus. “Valga per tutti un esempio: lo scorso marzo, su pressione dell’opinione pubblica, la casa farmaceutica Gilead ha rinunciato alla inclusione del Redemsivir (già sviluppato per combattere l’Ebola e potenzialmente efficace anche contro il Covid-19) nella categoria dei farmaci per la cura delle malattie rare, che le avrebbe consentito di fissare prezzi altissimi e ingenti profitti come produttore esclusivo. Tuttavia, l’azienda – secondo le stime di autorevoli analisti economici – avrebbe intenzione di realizzare ampi guadagni dalla vendita del farmaco, fissandone un prezzo comunque di 4.000 dollari a paziente, a fronte di un costo di produzione stimato di circa 9 dollari”. da IL FATTO QUOTIDIANO E’ ora di strappare alle case farmaceutiche vaccini e
farmaci salvavita. La salute non si vende. Immaginate un mondo in cui una rete di professionisti sanitari vigila sulla comparsa di nuovi ceppi di un virus, aggiorna periodicamente i vaccini e rende queste informazioni disponibili a tutto il mondo. Immaginate che questo lavoro venga svolto senza valutazioni legate alla proprietà intellettuale, e senza che le grandi case farmaceutiche sfruttino la disperazione per fare profitti. Può sembrare un’utopia, ma in realtà è il modo in cui da cinquant’anni viene prodotto il vaccino contro l’influenza. Il Sistema globale di sorveglianza e di risposta all’influenza (Gisrs) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) prevede che esperti da tutto il mondo si riuniscano due volte all’anno per analizzare gli ultimi dati e decidere contro quali ceppi influenzali il vaccino dovrà essere efficace. Il Gisrs è una rete di laboratori diffusa in 110 paesi e finanziata quasi interamente dai governi. Incarna alla perfezione la cosiddetta “scienza aperta”. Visto che il Gisrs si dedica alla protezione delle vite umane, invece di pensare al profitto, è il solo a poter gestire il sapere necessario per sviluppare i vaccini. Per combattere la pandemia in corso la comunità scientifica mondiale ha dimostrato di voler condividere le conoscenze sulle cure, coordinare test clinici e pubblicare le scoperte. In questo clima di cooperazione è facile dimenticare che da anni le case farmaceutiche hanno privatizzato il sapere comune, estendendo il controllo sui farmaci salvavita attraverso brevetti arbitrari e facendo pressioni politiche
contro la produzione di farmaci generici. Con l’arrivo del covid-19, è evidente che questo monopolio costa molte vite umane. Il controllo sulla tecnologia usata per testare la presenza del virus ha intralciato la rapida distribuzione di strumenti diagnostici, così come i 441 brevetti dell’azienda 3M contenenti le parole “respiratore” o “N95” hanno reso più difficile ai nuovi produttori fabbricare le mascherine. Come se non bastasse, nel mondo sono in vigore vari brevetti per tre dei farmaci più promettenti contro il covid-19: remdesivir, favipiravir e lopinavir/ritonavir. Questi brevetti minacciano sia la convenienza economica sia la disponibilità di farmaci contro il virus. Due scenari Oggi siamo di fronte alla scelta tra due futuri. Nel primo scenario continueremo come prima, affidandoci alle case farmaceutiche, sperando che una possibile cura contro il covid-19 superi i test clinici, e che emergano nuove tecnologie di rilevazione, diagnostica e protezione. In questo futuro i brevetti daranno ai monopolisti il controllo su buona parte di queste innovazioni. I produttori fisseranno dei prezzi alti, che determineranno quindi un razionamento delle cure. Senza un intervento pubblico, moriranno molte persone, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Lo stesso problema riguarderà qualsiasi vaccino contro il covid-19. La maggior parte dei vaccini immessi oggi sul mercato è protetta da brevetti. Ad esempio il Pcv13, l’attuale vaccino contro vari ceppi di polmonite somministrato ai bambini, costa centinaia di dollari perché è sottoposto al monopolio della casa farmaceutica Pfizer, a cui frutta cinque miliardi di dollari all’anno. E nonostante la Gavi (un’associazione in cui ci sono, tra gli altri, l’Oms, l’Unicef e la fondazione Gates) copra alcuni dei costi del vaccino nei paesi in via di sviluppo, molte persone non
possono permetterselo. Ogni anno in India si registrano più di centomila morti di neonati causate dalla polmonite. Il secondo futuro possibile prevede l’ammissione che il sistema attuale, in cui i monopoli privati fanno profitti con un sapere prodotto da istituzioni pubbliche, non funziona. Come denunciano da tempo docenti universitari e sostenitori della sanità pubblica, i monopoli uccidono, negando l’accesso a farmaci salvavita che sarebbero invece disponibili in un sistema alternativo, come quello che facilita ogni anno la produzione di vaccini antinfluenzali. Da anni l’Onu e l’Oms cercano di rafforzare l’accesso alle cure per aids, epatite e tubercolosi, e oggi lo fanno anche per il covid-19. Accordi di condivisione dei brevetti e altre idee simili rientrano in un programma più ampio di riforma del modo in cui vengono sviluppati i farmaci salvavita. L’obiettivo è sostituire un sistema monopolistico con uno fondato sulla condivisione del sapere. Per troppo tempo abbiamo creduto al mito che il regime attuale di proprietà intellettuale sia necessario. Il successo del Gisrs e di altre applicazioni della “scienza aperta” dimostra che non è così. Mentre aumentano le morti provocate dal covid-19, dovremmo rimettere in discussione l’etica di un sistema che ogni anno, silenziosamente, condanna milioni di esseri umani. Serve un nuovo metodo. Studiosi e politici si sono già fatti avanti con proposte per creare innovazioni farmaceutiche non solo redditizie, ma socialmente utili. Quale momento storico migliore per mettere in pratica queste idee? Joseph Stiglitz per INTERNAZIONALE
(Traduzione di Federico Ferrone) Segnalazioni, a cura di Sergio Falcone Lo scienziato Ernesto Burgio: Coronavirus, cronaca di una tragedia annunciata Nel dicembre 2019, un nuovo Coronavirus potenzialmente pandemico è apparso nella provincia di Wuhan, in Cina. Da lì l’epidemia ha cominciato a diffondersi nel resto della Cina, poi in Asia e in tutto il mondo. Oggi, i casi sono riportati in tutto il mondo, in Asia, Europa, Nord America, Sud America, Africa e Oceania. La temuta trasmissione del virus da uomo a uomo è stata confermata in tutte queste nazioni e in Europa, anche da soggetti asintomatici. È difficile capire perché questi dati siano stati a lungo sottovalutati, soprattutto nei Paesi occidentali. Solo l’11 marzo 2020 l’OMS ha dichiarato l’allarme pandemia. Ad oggi, 27 aprile 2020, i casi confermati nel mondo sono 3.023.205 e i decessi confermati 208.883 (26.977 in Italia contro 4.633 registrati in Cina e 243 in Corea del Sud). La situazione appare particolarmente grave nel Nord Italia, e più recentemente anche nel Regno Unito (20.732 morti), Francia (22.856 morti), Spagna (23.521 morti) e soprattutto negli Stati Uniti d’America (55.900 morti), con il numero di casi che cresce ogni giorno a Madrid, San Paolo, come a New York
City. L’Italia al 18 aprile 2020 ha registrato 16.400 operatori sanitari infetti e fino a oggi 151 medici morti. In questo documento, cercheremo di spiegare perché l’Italia è diventata il secondo epicentro delle epidemie mondiali dopo la Cina e perché le strategie di contenimento e le misure preventive adottate finora dal governo italiano non sembrano ancora sufficientemente adeguate, per rallentare l’espansione dell’epidemia di COVID-19. Introduzione: cronaca di una tragedia annunciata Una delle affermazioni più false che sono circolate in questi 40 drammatici giorni in Italia è che il dramma che stiamo vivendo non era prevedibile e prevenibile. Questo non è vero. Prima di tutto, perché per almeno venti anni, dai primi allarmi sull’influenza aviaria e poi sul Coronavirus della SARS, sapevamo che le probabilità di una pandemia erano alte. In secondo luogo, perché coloro che avevano affrontato questi problemi in quegli anni avevano cercato in tutti i modi di avvertire l’instaurarsi del pericolo imminente, soprattutto vedendo come reagivano i Paesi asiatici. È vero che solo pochi esperti erano stati in grado di rendersi conto del pericolo del virus molto presto, avendolo i cinesi sequenziato in tempo record e avendone pubblicato la sequenza il 12 gennaio. Ma è altrettanto innegabile che i media di tutto il mondo fossero pieni di immagini di ciò che stava accadendo in Cina. Ed era evidente che il dramma annunciato stava avvenendo, come era anche evidente che Cina, Corea, Hong Kong, Taiwan e tutti i Paesi del Sud-Est asiatico erano ben preparati e reagivano rapidamente ed efficacemente. È certamente possibile affermare che i cinesi avrebbero potuto avvertirci prima, dato che alla fine di dicembre sapevano cosa stava succedendo. Ma, in tutta sincerità, dobbiamo ammettere che, visto quello che è successo
in Italia e in altri Paesi occidentali, le cose non sarebbero cambiate molto. Perché gli abitanti del ricco Occidente non credevano che una pandemia nel 21° secolo sarebbe stata un dramma come quello che stiamo vivendo. I cittadini comuni non ci credevano, i politici e gli intellettuali non lo credevano, né molti degli esperti che avrebbero dovuto organizzare le strategie in tempo per rallentare l’inesorabile progresso del virus. Molti dei quali non solo mancavano di competenze ed esperienze specifiche, ma come ha dichiarato un noto parassitologo dell’Università di Padova, hanno seguito la pandemia in televisione invece di organizzare in tempo l’informazione e la formazione di cittadini e operatori sanitari; la radicale riorganizzazione del sistema sanitario, al fine di ottenere il riconoscimento precoce dei pazienti; la sorveglianza attiva e il monitoraggio locale; la creazione di corridoi alternativi per la diagnosi e l’isolamento dei pazienti e dei loro contatti; il rafforzamento dei reparti ospedalieri necessari per il trattamento di casi gravi; la protezione degli operatori sanitari. Se non c’è dubbio che i Paesi occidentali non hanno reagito correttamente, è altrettanto interessante analizzare le loro diverse reazioni derivanti dalla loro storia e cultura e le conseguenze di queste. I Paesi dell’Europa meridionale, principalmente l’Italia, hanno lungamente sottovalutato i rischi e hanno rischiato di sopraffare i loro sistemi sanitari, nelle regioni più colpite. I Paesi del Nord Europa hanno reagito in modo più ordinato e razionale e sono stati in grado di ridurre il danno e le morti. I Paesi anglosassoni hanno forse più di tutti gli altri sottovalutato il virus, soprattutto nelle prime fasi della pandemia, pensando in modo molto darwiniano che sarebbe stato meglio mettere in conto migliaia di morti tra i più deboli e i più vecchi, piuttosto che rallentare e danneggiare l’economia. Tuttavia, il modo in cui la pandemia si sta diffondendo e i suoi drammatici effetti iniziali dimostrano la debolezza di
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